Il delicato profilo della invalidità della clausola di divieto di ospitalità non temporanea suscita, anche in tempi recenti, l’attenzione del giurista, ridestata da una casistica capace di mostrare come la fattispecie esiste tuttora nella pratica. L’autore, in particolare, ricostruisce le ragioni poste a fondamento del consolidato orientamento in materia, evidenziando le forme di tutela riconosciute al conduttore.
The delicate profile of the invalidity of the clause prohibiting non-temporary hospitality arouses, even in recent times, the attention of the jurist, reawakened by a case study capable of showing how the case still exists in practice. The author, in particular, reconstructs the reasons underlying the consolidated orientation on the matter, highlighting the forms of protection recognized to the tenant.
Sommario:
1. Premessa - 2. Le ragioni della nullità della clausola: l’ospitalità non temporanea e i doveri di solidarietà sociale - 3. Autonomia privata e solidarietà sociale: i limiti della meritevolezza e della liceità - 4. Buona fede e giustizia del contratto - 5. Conclusione - NOTE
Una questione di non comune riscontro, ma che certamente non potrebbe dirsi del tutto eccezionale nei contratti di locazione, riguarda la previsione del divieto di ospitare non temporaneamente persone estranee al proprio nucleo familiare anagrafico.
Invero, se allo stato appare consolidato il principio per cui la relativa clausola è affetta da nullità, ciononostante, non pare inutile ripercorre, seppur succintamente, le ragioni che hanno portato al consolidamento di tale orientamento; la tematica, in effetti, è nota e risalente nel tempo, ma la recente casistica che si inserisce in un costante indirizzo interpretativo – segno, questo, della attualità della tematica – non potrebbe che rappresentare un ulteriore momento di dialogo tra teoria e pratica [1], restituendo un nuovo interesse per le problematiche passate.
In particolare, partendo da un importante e risalente filone giurisprudenziale, si proverà ad evidenziare come le forme di tutela riconosciute al conduttore trovano il loro fondamento tanto nei doveri costituzionali di solidarietà sociale quanto nelle limitazioni all’autonomia privata; parimenti, emergerà come, oltre alla meritevolezza e liceità del contratto – o di una sua clausola –, su di un piano più generale sono i principi di buona fede ed il riconosciuto potere di intervento del giudice che concorrono a determinare il concreto contenuto del contratto.
L’ampiezza delle questioni da affrontare, unitamente alla necessità di considerare solamente taluni aspetti che il tema che ci occupa solleva, sembrerebbe richiedere di individuare un primo punto di partenza, su cui provare ad innestare le varie riflessioni che nel tempo si sono succedute nelle idee degli interpreti. Esso può essere individuato nella illegittimità della previsione del divieto di ospitalità, benché non temporanea, a fianco di quello di sublocazione, in quanto – come efficacemente ricordato in una recente decisione – certamente contrastante «con il principio di rango costituzionale del dovere di solidarietà sociale e della famiglia tutelato dall’art. 2 della Cost. che, appunto, tutela nelle sue varie forme tutte le aggregazioni sociali la famiglia intesa anche come quella di fatto» [2]. L’adempimento dei doveri di solidarietà, impedito da clausole del tipo di quella esaminata, si può infatti manifestare attraverso l’ospitalità offerta tanto per venire incontro ad altrui difficoltà sorte all’interno delle famiglie quanto, più in generale, per rispondere ad esigenze e rapporti variamente amicali. La solidarietà sociale, del resto, quale supremo principio costituzionale, non appare limitata alla mera sfera dei rapporti economici ovvero a garantire l’adempimento dei doveri del singolo verso la comunità, ma assume rilevanza anche nell’ambito dei rapporti interindividuali [3]. Prima di valutare più attentamente il contenuto della clausola, rispetto alla quale non paiono rinvenirsi oscillazioni giurisprudenziali, ci si deve quindi domandare se, ed eventualmente entro quali limiti, un’ospitalità protratta per un lungo lasso di tempo possa comunque assumere i caratteri della sublocazione. Ebbene, il discorso può prendere le mosse dall’art. 21, comma 1, Legge 23 maggio 1950, n. 253 – applicabile, come noto, anche alla disciplina della sublocazione di immobile adibito ad abitazione ex art. 2, Legge 27 luglio 1978, n. 392 [4] – secondo cui si presume l’esistenza della sublocazione quando l’immobile risulti occupato da persone che non sono al servizio del conduttore o che non sono a questo legate da vincoli di parentela o di affinità entro il quarto grado, salvo che si tratti di ospiti con carattere transitorio.
Nell’ottica del Legislatore, la generale difficoltà di provare la sublocazione si traduce, infatti, in una inversione dell’onere della prova a favore del locatore, con la precisazione che detta presunzione, per un verso, non si applica né nei confronti delle persone che si sono trasferite nell’immobile assieme al conduttore (art. 21, comma 2, L. 23 maggio 1950, n. 253) né, in forza dell’evoluzione giurisprudenziale, al convivente more uxorio; e che, sotto altro profilo, il rapporto di parentela idoneo a superare la presunzione è solo quello tra il conduttore ed il sopraggiunto occupante e non anche quello con altri soggetti, che fin dall’origine del contratto hanno occupato l’immobile insieme al primo paciscente [5].
Parte degli interpreti, particolarmente attenta agli interessi sottesi alle esigenze abitative e lato sensu familiari, afferma, di conseguenza, che la pattuizione con cui il conduttore conceda in godimento l’immobile a favore di un soggetto a cui è legato da relazioni affettive non matrimoniali, non potrebbe porsi in contrasto con quelle clausole del contratto di locazione volte ad impedire l’utilizzo dell’immobile a terzi. E, ciò, proprio in ragione del fatto che il rapporto more uxorio [6], quale «formazione sociale» ex art. 2 Cost., gode di un riconoscimento di rango costituzionale, onde una siffatta clausola non potrebbe in nessun caso interpretarsi nel senso di impedire al conduttore di ospitare nell’immobile oggetto di locazione il proprio convivente, dovendosi trattare quest’ultimo quale membro della famiglia – seppure «di fatto» – del contraente [7]. Così delimitato l’ambito di indagine, un ulteriore profilo problematico riguarda, allora, il contenuto dell’onere della prova nei casi in cui è operante la presunzione legale di sublocazione. In particolare, stando ad un risalente orientamento [8], il conduttore deve dimostrare, in maniera concreta e specifica, che il godimento dell’immobile è giustificato da ragioni di mera ospitalità, laddove, viceversa, l’esistenza di un comodato, anche gratuito, non farebbe comunque venir meno l’inadempimento legato al godimento del bene. Vero, infatti, che la violazione del divieto di sublocazione – esteso, se del caso anche all’ipotesi in cui i sublocatori risultino essere parenti od affini del conduttore – costituisce inadempimento contrattuale, e produce le conseguenze ordinarie che derivano dall’inadempimento di una obbligazione negativa; ma, come anticipato, si assiste sempre più frequentemente alla tendenza a non ritenere che la violazione della clausola determini, sic et simpliciter, la risoluzione del contratto di locazione [9]. Piuttosto, si afferma come la semplice durata della permanenza nell’immobile, in assenza di altre circostanze, non potrebbe essere assunta ad indizio grave e determinante idoneo a provare che la parte conduttrice abbia concluso un contratto – di sublocazione o comodato – con il terzo: invero, ai fini della configurazione della sublocazione, non è sufficiente il semplice rapporto di ospitalità, ancorché protratto nel tempo [10].
L’autonomia negoziale, che si esplica anche mediante singole e specifiche clausole, può accogliere nello schema contrattuale predisposto la realizzazione di interessi nuovi e diversi da quelli già fatti propri dalle strutture tipiche; il limite è, evidentemente, quello della liceità della causa e dell’oggetto, delle regole e pattuizioni che concorrono alla determinazione del contenuto del contratto, nonché della meritevolezza dell’interesse perseguito. Ebbene se la illiceità di cui all’art. 1418, comma 2, cod. civ., ha riguardo, nelle varie ipotesi normativamente considerate, all’esistenza di una non conformità del contratto ai principi dell’ordinamento, quanto all’istituto della meritevolezza dell’interesse ex art. 1322, comma 2, cod. civ., quale innovazione del vigente Codice, si assiste ad un maggiore dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Il concetto, del resto, è stato dapprima inteso come perseguimento di una utilità sociale [11] ovvero come giudizio di liceità e doppione dell’art. 1343 cod. civ. [12], come tale capace di svolgere una funzione analoga a quella dell’art. 1344 cod. civ. [13]; solo più recentemente, ma senza per ciò solo giungere ad una identificazione con l’utilità sociale, è stato poi interpretato nel senso che «il contratto non dev’essere socialmente dannoso», essendo necessaria «un’interpretazione orientata in conformità della norma costituzionale» [14], mentre, in diversa prospettiva, si è partiti dall’idea che il contratto atipico pone un problema di produzione normativa [15] e che il giudizio di meritevolezza debba essere riferito al tipo e non alla causa [16], di talché «il contratto atipico, all’esito del giudizio d’immeritevolezza, deve ritenersi inefficace fin dalla stipulazione, inidoneo a vincolare le parti al reticolo di regole che ne compongono la struttura» [17]. In ogni caso, come recentemente rammentato [18], i controlli insiti nell’ordinamento e relativi alla esplicazione dell’autonomia negoziale, coincidenti con la meritevolezza degli interessi regolati convenzionalmente e con la liceità della causa, devono essere parametrati ai superiori valori costituzionali, ivi compreso quello contemplato dall’art. 2 Cost., che tutela i diritti inviolabili dell’uomo e impone l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Di qui, come anticipato, la nullità (ex art. 1419, comma 1, cod. civ.) della clausola di un contratto di locazione nella quale, oltre alla previsione del divieto di sublocazione, sia contenuto il riferimento al divieto di ospitalità non temporanea. La clausola, infatti, impedendo al conduttore di intrattenere ed intessere rapporti e relazioni sociali nell’immobile locato – in cui il soggetto esplica la propria personalità e la famiglia vive abitualmente – si presenta «antisolidaristica» e si traduce in un «odioso ostacolo allo sviluppo di relazioni umane», non potendo, tra l’altro, che ledere l’individualità anche del medesimo stipulante [19].
Il giurista «desidera», da sempre, che «il contratto, previsto e regolato dal diritto, sia giusto» [20]: pertanto si è sempre domandato, specialmente a seguito della disciplina di matrice comunitaria sulla tutela dei consumatori, se nel nostro ordinamento sia tutelata la giustizia del contratto. A tal riguardo, pur dovendosi necessariamente distinguere le regole di valutazione e di integrazione rispetto a quelle di validità, il tema è stato inevitabilmente affrontato alla luce della normativa consumeristica. Tramontato, in generale, il «mito ottocentesco della onnipotenza della volontà e del dogma della intangibilità delle convenzioni» [21], è comunque nella disciplina dei contratti con i consumatori, che il fenomeno è particolarmente rilevante [22]; onde, in tale materia, si afferma che il giudice avrebbe il compito di valutare, alla stregua della buona fede, la condotta tenuta dal professionista «come elemento che rende rilevante, ai fini del giudizio di vessatorietà di singole clausole, il significativo squilibrio che queste eventualmente determinano a carico della controparte» [23]. Il bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti consentirebbe, in tale visione, un intervento anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto. La giustizia del contratto, in effetti, un tempo era collegata all’autonomia privata, così come espressa e manifestata dai contraenti; allo stato attuale, invece, specialmente a seguito del passaggio da una contrattazione di tipo individuale ad una contrattazione standardizzata e di massa, il contratto non rappresenta più «uno strumento di per sé idoneo a garantire l’equilibrato componimento degli interessi delle parti, per l’asimmetria delle loro posizioni e la fisiologica possibilità di abuso della libertà contrattuale da parte dell’imprenditore/professionista che predispone unilateralmente il testo contrattuale», onde «la necessità di rivedere i meccanismi di tutela della giustizia contrattuale» [24]. Tra gli indici di vessatorietà della clausola, emerge – già sul piano normativo – il «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» (art. 33, Cod. Cons.), precisandosi da un lato che «la vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende» (art. 34, comma 1, Cod. Cons.), ma dall’altro specificandosi che «la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e servizi, quando questi elementi sono individuati in maniera chiara e comprensibile» (art. 34, comma 2, Cod. Cons.). Quanto alla nozione di significativo squilibrio la giurisprudenza ha ritenuto che debba farsi esclusivo riferimento «ad uno squilibrio di carattere giudico e normativo e non anche economico» [25] in quanto la norma contempla uno squilibrio tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto, ma che non permette di sindacare l’equilibrio economico, ossia la convenienza (economica) dell’affare concluso, come confermato dal testo della norma consumeristica. In tal senso, l’attuale legislazione sottopone a penetranti controlli, condizionamenti e sindacati pubblici gli accordi delle parti private e l’esercizio dei poteri di queste ultime nel contesto del rapporto negoziale, al precipuo fine di riequilibrare le asimmetrie di forza ed instaurare regolamenti privati conformi a più ampie esigenze di equità e giustizia. Certamente, sarebbe illusorio ipotizzare un rigoroso equilibrio di poteri tra gli attori del mercato, ma ciò non potrebbe impedire di individuare soluzioni interpretative capaci di evitare che lo scambio venga usato allo scopo di concretare l’abuso a scapito delle parti escluse, in forza di contratti seriali, dal negoziato individuale [26]. La buona fede assurge, in tale prospettiva, a principio cardine dell’ordinamento e della disciplina delle obbligazioni e dei contratti, essendo sia fonte di obblighi di protezione della persona, delle cose e degli interessi della controparte, nei limiti di un apprezzabile sacrificio, sia strumento idoneo a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, il contenuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. In definitiva, la buona fede, specificando gli inderogabili doveri di solidarietà sociale, impone a ciascuna delle parti – ampliando o restringendo gli obblighi assunti con il contratto e, dunque, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi – il dovere di comportarsi in modo da preservare, per quanto possibile, gli interessi dell’altra, individuando altresì un limite a ogni situazione attiva o passiva attribuita dal negozio giuridico.
Come si è cercato di vedere, alcune recenti pronunce rinnovano l’attenzione verso i problemi legati al godimento di un immobile concesso in locazione e nel quale, per ragioni diverse, si dà ospitalità ad un terzo, perché una cosa è negare la sublocazione o la cessione del contratto mentre altro è ostacolare le relazioni di convivenza affettive o basate su rapporti che – se non propriamente spontanei, caritatevoli ed in ultima analisi filantropici – rinvengono la loro ragione nel sentimento di amicizia. La considerazione, variamente manifestata, nei riguardi dei valori della persona, delle connesse esigenze dello sviluppo delle relazioni interindividuali e delle ragioni solidaristiche che animano – al pari di altri settori del diritto – la disciplina locatizia, si innesta, così, su un terreno caratterizzato da un forte individualismo. Le forme di tutela – alternativamente individuate vuoi nella nullità del patto o della clausola, vuoi nella violazione dei doveri di buona fede o di solidarietà sociale ovvero, ancora, nell’affermato riconoscimento di quel potere di intervento del giudice all’interno del contratto – frenano «la degenerazione della libertà contrattuale», utilizzata «per ostacolare i diritti fondamentali dell’uomo nel loro incessante e prolifico manifestarsi» [27]. Ecco che, in una tale realtà – dove, come è ovvio, le esigenze della proprietà devono essere contemperate con gli interessi del conduttore – il generale tema trattato non potrebbe che portare con sé l’analisi di specifiche questioni che si presentano o potrebbero presentarsi, con crescente attualità, all’esame del giurista. Secondo parte della dottrina (che, tra l’altro e sia pure incidentalmente, pone il tema della concreta modalità di formulazione della clausola di divieto di ospitalità non temporanea), infatti, nella giurisprudenza «viene del tutto trascurata la rilevanza, parimenti costituzionale, del diritto di proprietà, e non ci si sofferma a valutare se davvero non possa ricevere tutela l’interesse del proprietario-locatore a preservare il valore della res, ad es. impedendo che, nell’appartamento locato, possa “albergare” un numero indefinito di persone» [28].
[1] Cfr. V. SCIALOJA, Diritto pratico e diritto teorico, in Riv. dir. comm., 1911, I, 941, secondo cui «è assolutamente necessario che teoria e pratica non si guardino da lontano con un senso di rispetto reverenziale l’una verso l’altra, quel rispetto reverenziale che proviene da poca conoscenza e da poca familiarità. È assolutamente necessario che teoria e pratica ricostituiscano la loro unità, non solo obiettivamente, ma anche nell’animo di ciascuno di noi».
[2] C.d.A. Roma, sez. II, 12 maggio 2023, n. 3396, in Foro it., online.
[3] Cass., sez. III, 19 giugno 2009 n. 14343.
[4] Cass., sez. VI, 23 agosto 2013, n. 19486.
[5] Così Cass., sez. VI, 23 agosto 2013, n. 19486.
[6] Per le diverse posizioni espresse, cfr. F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Key Editore, 2018.
[7] A. BUSANI, I contratti nella famiglia, Cedam, 2020.
[8] Cass., sez. III, 22 gennaio 1988, n. 477.
[9] Così G. GRASSELLI, R. MASONI, Le locazioni, I, Cedam, 2013.
[10] Cass., sez. VI, 29 maggio 2015, n. 11288.
[11] E. BETTI, Diritto romano, I, Parte generale, Cedam, 1935, 201 e 219; ID., Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in Riv. dir. comm., I, 1940, 222; ID., Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, Utet, 1943, 247.
[12] G. STOLFI, Luci ed ombre nell’interpretazione della legge, in Jus, 1975, 145 ss.; ID., Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, 29 e 210; G. GORLA, Il contratto, I, Giuffrè, 1954, 199; F. MESSINEO, Dottrina generale del contratto, 2 ed., Giuffrè, 1946, 13; G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Giuffrè, 1966, 406.
[13] R. SACCO, Interesse meritevole di tutela, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Utet, 2009.
[14] C.M. BIANCA, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. Dir. Civ., 2014, I, 253.
[15] M. COSTANZA, Il contratto atipico, Giuffrè, 1981.
[16] F. GAZZONI, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, Key Editore, 2017.
[17] Cass., sez. I, 15 febbraio 2016, n. 2900; C.d.A. Trieste, 15 aprile 2021, n. 119, in De Jure.
[18] C.d.A. Roma, sez. II, 12 maggio 2023, n. 3396, cit.
[19] R. CALVO, Locazione tra autodeterminazione e funzione esistenziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1/2010.
[20] R. SACCO, Giustizia contrattuale, in Dig. disc. Priv., sez. civ., Agg., VII, Utet, 2012.
[21] Cass., sez. I, 24 settembre 1999, n. 10511.
[22] A. BARENGHI, Diritto dei consumatori, Cedam, 2020.
[23] A. ALBANESE, Buona fede, contratto, legge, in Eur. dir. priv., 1/2021, 31 ss.
[24] A. MORACE PINELLI, Il contratto giusto, in Riv. dir. civ., 3/2020, 663 ss.
[25] Cass., sez. VI, 25 novembre 2021, n. 36740.
[26] R. CALVO, Locazione, cit.
[27] R. CALVO, Locazione, cit.
[28] G. LENER, La meritevolezza degli interessi nella recente elaborazione giurisprudenziale, in Riv. Dir. Civ., 3/2020.