Il saggio indaga il diritto di libera circolazione e connesso diritto all’unità familiare del cittadino europeo soggiornante in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza, come disciplinato dalla direttiva 2004/38/CE e come attuato in Italia dal d.lgs. 30/2007. In particolare ci si sofferma sul ricongiungimento con il partner extraeuropeo di una unione registrata o di una convivenza formalizzata o ancora di un matrimonio same-sex. Invero, le aperture della direttiva verso modelli familiari diversi dal matrimonio, pur se recepite alla lettera, non hanno – di fatto – trovato terreno fertile nella disciplina interna di attuazione, che per lungo tempo è rimasta lettera morta o comunque ha offerto tutele “minimaliste”. Ed anche a seguito dell’entrata in vigore della l. 76/2016, a disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto, i problemi di coordinamento che residuano tra il diritto di derivazione unionale e la sopravvenienza legislativa di diritto interno rendono spesso tutt’altro che piena o agevole la tutela della vita familiare del cittadino U.E. con il partner extra U.E, rischiando di rendere ineffettive libertà fondamentali previste dal Trattato.
The essay investigates the right of free movement and related right to family unity of European citizens residing in a Member State other than their home state, as governed by Directive 2004/38/EC and as implemented in Italy by Legislative Decree 30/2007. In particular, the essay focuses on reunification with the non-European partner under a registered partnership or de facto cohabitation or even same-sex marriage. Indeed, the directive’s openings to family models other than marriage, although slavishly transposed, did not find fertile ground in the domestic implementing regulations, which for a long time remained a dead letter or at least offered “minimalist” protections. And even following the entry into force of l. 76/2016, regulating civil partnerships and de facto cohabitations, the problems of coordination that remain between EU-derived law and supervening family law often make it far from full or easy to protect the family life of an E.U. citizen with a non-E.U. partner, with the risk of rendering fundamental Treaty freedoms ineffective.
1. Premessa - 2. Il diritto all’unità familiare tra partner non coniugati ai sensi della direttiva 2004/38/CE - 3. L’attuazione della direttiva europea tra recezioni “minimaliste” e applicazioni estensive: il d.lgs. 30/2007 e le successive modifiche - 4. Il ricongiungimento per le parti dell’unione civile omosessuale (interna o transnazionale) dopo la legge 76/2016 - 5. La tutela affievolita del diritto all’unità familiare tra partner di unioni registrate eterosessuali costituite all’estero - 6. Il ricongiungimento con il convivente more uxorio: il mancato coordinamento del d.lgs. 30/2007 con la l. 76/2016 - 7. Il matrimonio same-sex quale situazione legittimante il ricongiungimento familiare - NOTE
La tutela del diritto all’unità familiare di chi soggiorni regolarmente in uno Stato diverso da quello di origine non si esaurisce ad un solo livello normativo, ma coinvolge fonti statali e sovranazionali, in ragione della crescente incidenza del diritto comunitario (ora eurounitario) – confluita in competenza concorrente a partire dal Trattato di Amsterdam – in materia di visti, asilo e immigrazione [1], oltre alla competenza esclusiva dell’Unione in materia di libera circolazione e soggiorno entro il territorio U.E., pietra angolare della cittadinanza europea introdotta dal Trattato di Maastricht nel 1992. In corrispondenza a ciò, la disciplina si diversifica notevolmente a seconda che il ricongiungimento sia invocato da un cittadino extra U.E. nei confronti del familiare del pari extraeuropeo, od invece da un cittadino U.E. nei confronti del familiare extraeuropeo.
Nel primo caso, la fattispecie è invero sottoposta alle norme nazionali sull’immigrazione, norme – di regola – marcatamente restrittive, venendo in gioco il concorrente interesse dello Stato ospitante a controllare i flussi migratori in entrata e cioè il diritto, preteso di pari dignità e rango, di presidiare le proprie frontiere e di regolamentare, nell’esercizio della propria sovranità, il flusso migratorio in entrata [2], con l’unico limite che le scelte, pur discrezionali, non risultino manifestamente irragionevoli [3]. Nella specie, il ricongiungimento del cittadino extra U.E. legalmente soggiornante in Italia con i familiari provenienti da altri Paesi [4] è disciplinato dagli artt. 28 ss. del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», infra t.u.imm.), disciplina che detta condizioni rigorose, sia pur occasionalmente temperata da interventi del legislatore europeo – in funzione di armonizzazione [5] – volti a semplificare le procedure e a mitigare i presupposti per la riunificazione familiare. In particolare si allude alla direttiva 2003/86/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 5/2007, che ha emendando in più punti il t.u.imm., espungendo molti dei requisiti restrittivi, e difficilmente accertabili nella prassi operativa, che la legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. legge Bossi-Fini) aveva introdotto nell’intento di contenere le riunificazioni familiari entro i limiti di un ordinato flusso migratorio. Non sono invece state punto recepite le (pur prudenti) aperture con cui la direttiva aveva inteso allargare la cerchia, se non strettamente dei «familiari» (art. 4, parr. 1 e 2), in ogni caso dei beneficiari di ricongiungimento, riconoscendo agli Stati membri la possibilità di autorizzare, per via legislativa o regolamentare, il ricongiungimento fra partner di «relazioni formalmente registrate» e fra partner di «relazioni stabili durature debitamente comprovate» (art. 4, par. 3). Sì che, anche per come successivamente emendato (in senso, peraltro, nuovamente restrittivo) [6], gli unici familiari ammessi al ricongiungimento dall’art. 29 t.u.imm. («Ricongiungimento familiare») sono – ivi in estrema sintesi [7] – il coniuge di età non inferiore ai diciotto anni e non legalmente separato, i figli minori, i figli maggiorenni a carico impossibilitati alle proprie indispensabili esigenze di vita in ragione di uno stato di salute che comporti invalidità totale, i genitori a carico privi di altri figli nel Paese di origine, ovvero ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per gravi motivi di salute.
Ove, invece, il ricongiungimento familiare venga invocato – come rileva in questo studio – da un cittadino U.E. e nel contempo si tratti di garantire e rendere effettive libertà riconosciute dal Trattato, come la libertà di circolazione entro il territorio unionale, la disciplina – allora di derivazione europea, data la competenza esclusiva dell’Unione in materia di libera circolazione – si fa, come vedremo, più permissiva e di maggior favore, posto che la libertà di spostamento del cittadino U.E. verrebbe inevitabilmente minata ove si negasse o comunque ostacolasse (anziché agevolare) il diritto di ingresso e soggiorno dei familiari extraeuropei e con ciò lo stesso diritto al godimento della vita familiare del cittadino U.E., allora dissuaso dall’esercitare la propria libertà di circolazione tra più Stati membri attesa l’incertezza di poter condurre altrove la propria vita familiare o di poter mantenere quella eventualmente iniziata in altro Stato. Nella specie, il ricongiungimento familiare invocato dai cittadini U.E. avvalsisi della libertà di circolazione e soggiorno in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza è regolato dalla direttiva 2004/38/CE, attuata in Italia dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30.
Valga, peraltro, precisare che, stricto iure, l’istituto del «ricongiungimento familiare» è previsto per i familiari dei cittadini di Stati terzi, ai sensi della disciplina del t.u.imm. (art. 28 ss.), mentre in capo ai familiari dei cittadini U.E. la direttiva 2004/38/CE riconosce il diritto di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri al seguito del cittadino U.E. (o, alternativamente, di accompagnare o raggiungere il cittadino dell’Unione); nondimeno la locuzione è d’uso comune, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, anche per evocare il diritto all’unità familiare dei cittadini U.E. con i loro familiari, e a questa prassi ci conformeremo in questo studio, non foss’altro che per ragioni di economia espositiva.
La direttiva 2004/38/CE, in attuazione dell’art. 21 TFUE (già art. 18 TCE) e superando la pregressa legislazione settoriale [8], ha esteso a tutti i cittadini dell’Unione, non ulteriormente qualificati, il diritto a ricongiungersi con i propri familiari. Per il resto, ha confermato l’impianto normativo preesistente, continuando a configurare quale presupposto imprescindibile per la sua applicazione lo spostamento del cittadino U.E. da uno Stato membro ad un altro: invero, l’aver esercitato la libertà di soggiorno in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza rimane condicio sine qua non per l’applicabilità del diritto eurounitario. In mancanza, la fattispecie deve considerarsi puramente interna allo Stato membro e, in quanto tale, sottoposta alle norme nazionali sull’immigrazione, norme – come accennato – di minor favore di quelle di derivazione unionale, giacché ispirate alla politica statale di controllo delle frontiere; ed allora, però, anche suscettibili di determinare le c.d. discriminazioni a rovescio, ogniqualvolta apprestino una disciplina deteriore rispetto a quella invocabile per i rapporti viceversa rientranti nel campo di applicazione del diritto eurounitario [9].
Tanto che, per sopperire a detta criticità e, più in generale, per non pregiudicare l’effetto utile ora della libertà di circolazione, ora della cittadinanza europea, la stessa Corte di Giustizia U.E., pur ribadendo che la direttiva 2004/38/ CE si applica a tutti i cittadini dell’Unione che si spostino in uno Stato membro diverso (c.d. Stato ospitante) da quello di cui hanno la cittadinanza, è andata progressivamente allargando le maglie della direttiva oltre l’ambito di applicazione suo tipico, ammettendone l’applicabilità in via analogica (o comunque estendendo la disciplina del diritto di soggiorno derivato in applicazione diretta dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE) anche ai casi di rientro del cittadino U.E. nel suo Stato di appartenenza dopo essersi spostato in altro Stato membro ed aver ivi sviluppato o consolidato una vita familiare. Con il che, anche il cittadino dell’Unione che faccia ritorno nel suo Paese d’origine godrà degli stessi diritti derivanti dalla direttiva; ciò sulla base della considerazione che, diversamente opinando, il cittadino U.E. verrebbe dissuaso dall’esercitare il proprio diritto di circolazione, attesa l’incertezza di poter mantenere, una volta rientrato nello Stato di origine, la vita familiare eventualmente iniziata in altro Stato membro [10]. Non solo: la Corte di Giustizia ha ancor più incisivamente affermato che è sì vero che il diritto dell’Unione non può, in linea di principio, applicarsi a una domanda di ricongiungimento invocata – nei confronti del familiare extra-europeo – da un cittadino U.E. c.d. statico, ossia che non abbia mai esercitato la libertà di circolazione in altro Stato membro, in quanto fattispecie meramente interna; tuttavia, che sussistono situazioni eccezionali in cui, nonostante il cittadino dell’Unione non abbia usufruito della libertà di circolazione e non sia applicabile il diritto derivato relativo al diritto di soggiorno dei cittadini di Paesi terzi, un diritto di soggiorno deve ugualmente essere riconosciuto al cittadino di Paese terzo al fine di non pregiudicare «l’effetto utile della cittadinanza dell’Unione». Tale situazione si verifica, in particolare, qualora al cittadino di Paese terzo non possa riconoscersi un titolo di soggiorno in forza del diritto derivato dell’Unione e del diritto nazionale, e tra questo cittadino e il cittadino dell’Unione, suo familiare, sussista un rapporto di dipendenza tale per cui l’allontanamento forzato del primo costringerebbe il secondo a seguirlo e, dunque, ad abbandonare il territorio dell’Unione complessivamente considerato [11]. Ne risulta, ancora una volta, una applicazione dei principi eurounitari ampliata sostanzialmente anche a situazioni meramente interne.
Tanto premesso sull’ambito di applicazione, per così dire, “oggettivo” della direttiva, e venendo ora a quello “soggettivo” e, in particolare, alla definizione di «familiari» ammessi al ricongiungimento (recte, che hanno un automatico diritto di accompagnare o raggiungere il cittadino dell’Unione) [12], la direttiva, all’art. 2, punto 2, ha avuto l’indubbio merito di farvi rientrare soggetti diversi dai familiari in senso stretto (coniuge [13], discendenti, ascendenti), come il «partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante». Nel qual caso, il partner dell’unione registrata gode di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante, sia pur alla doppia condizione che: I) l’ordinamento dello Stato membro ospitante «equipari l’unione registrata al matrimonio», e cioè vanti una disciplina di tutela delle unioni non coniugali nella forma (specificamente) dell’unione registrata quale istituto equivalente (e pur non identico) al matrimonio [14]; II) l’unione sia stata contratta sulla base della legislazione (necessariamente) di uno Stato membro.
La direttiva, all’art. 3.2, prevede, inoltre, che ogni Stato membro ospitante, «conformemente alla sua legislazione nazionale, agevol[i] l’ingresso e il soggiorno delle … persone» («Aventi diritto») che pur non rientrino nella ristretta nozione di «familiare» di cui all’art. 2, punto 2, quale – per ciò che qui rileva – il «partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata» (art. 3.2, lett. b). Con il che, pur non accordando – in detto secondo caso – un diritto automatico di ingresso e soggiorno al partner straniero di una relazione stabile debitamente attestata con cittadino U.E., giacché persona non riconducibile alla cerchia dei «familiari» di cui all’art. 2 della direttiva, nondimeno il legislatore unionale fa carico allo Stato ospitante di «agevola[rne]» – e cioè facilitarne e verosimilmente semplificarne – l’ingresso e il soggiorno, considerando la relazione come un fattore rilevante [15]; ciò senza esigere il crisma della registrazione di cui all’art. 2, bensì facendo bastare la prova (da fornirsi con qualsiasi mezzo idoneo) di una relazione duratura con il cittadino UE, e altresì riconoscendo efficacia a detta forma di convivenza a prescindere dal fatto che risulti attestata in un Paese necessariamente U.E.
Vero è che le pur formali “aperture” contenute nella direttiva verso i nuovi modelli familiari, tanto etero quanto omosessuali [16], all’evidenza si ridimensionano notevolmente a seconda di quanto sia o meno permissivo, in materia, il legislatore nazionale. La direttiva appare, invero, ispirata al rispetto delle legislazioni interne dei singoli Stati membri per quanto riguarda l’ammissione, o meno, di unioni diverse dal matrimonio: ora, e più restrittivamente, richiedendo che lo Stato membro ospitante già di suo vanti una disciplina positiva a tutela delle unioni non coniugali registrate (art. 2, punto 2, lett. b), ora, e pur prescindendo da ciò (id est dal fatto che lo Stato membro ospitante effettivamente vanti una legislazione a tutela delle convivenze), comunque lasciando salva la discrezionalità insita nella scelta amministrativa di autorizzare o meno, sulla base di una valutazione da compiersi caso per caso, alla luce di ogni circostanza utile, l’ingresso e il soggiorno del convivente di fatto di cui all’art. 3.2, lett. b [17].
Il legislatore italiano del 2007, nel recepire la direttiva con d.lgs. n. 30, non ha (ac)colto l’occasione per innovare il diritto interno rispetto al trattamento giuridico da riservare alle unioni non coniugali, ma si è limitato a riscrivere pressoché immutate le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della medesima. Sì che, da un lato, il richiamo al partner di una «unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante», pur formalmente e identicamente presente nel d.lgs. 30/2007 (art. 2, lett. b, punto 2), è rimasto – all’indomani della sua entrata in vigore e in attesa di un intervento normativo in materia – privo di rilevanza e di utilità pratica [18], posto che l’ammissione delle unioni diverse dal matrimonio pur formate da almeno un cittadino europeo (compreso, come vedremo [19], il cittadino italiano) e pur contratte in uno Stato membro è rimasta, in definitiva, subordinata al trattamento a monte (e cioè ben oltre la specifica materia dell’immigrazione e della libera circolazione entro il territorio U.E.) ad esse riservato dal diritto domestico. È rimasto, dunque, loro inibito di valersi in Italia del diritto di circolazione e stabilimento, e del connesso diritto all’unità familiare, viceversa riconosciuto (sia pur sub condicione) dal diritto eurounitario.
Venendo all’ulteriore previsione della direttiva (art. 3.2, lett. b) che richiede agli Stati membri di agevolare l’ingresso e il soggiorno di tutti quei soggetti che non rientrino nella ristretta nozione di «familiare» di cui all’art. 2, punto 2, il legislatore italiano l’ha attuata – in origine – in senso fortemente restrittivo, introducendo una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare la stabile relazione. Ha, invero, previsto che lo Stato membro ospitante agevolasse il ricongiungimento tra il cittadino U.E. avvalsosi della libertà di circolazione e soggiorno in uno Stato UE diverso da quello di appartenenza ed il partner nei soli casi in cui la relazione stabile risultasse «debitamente attestata dallo Stato del cittadino dell’Unione» (art. 3, comma 2°, lett. b, d.lgs. n. 30/2007), dunque impedendo (di agevolare) la riunificazione laddove la relazione risultasse attestata a mezzo di documenti non ufficiali (id est, non rilasciati da autorità statali) o a mezzo di documenti pur ufficiali ma prodotti da uno Stato diverso (europeo od extraeuropeo) da quello di appartenenza del cittadino U.E. [20] (come, per esempio, lo Stato di provenienza del partner, o lo Stato in cui i partner risiedessero) e a monte escludendo le convivenze attestate con mezzi di prova diversi dai documenti.
Una disposizione che ha sollevato seri dubbi di compatibilità con gli obblighi unionali [21], là dove ha previsto – o comunque in definitiva si è risolta in – requisiti di ricongiungimento peggiorativi (id est, più restrittivi) rispetto a quelli contemplati dalla direttiva [22], la quale non solo in alcuna sua previsione fa dipendere il ricongiungimento familiare tra partner legati da una relazione stabile alla condizione che la stessa risulti attestata necessariamente da un’autorità statale e nella specie da uno Stato U.E. (per di più, il solo Stato di appartenenza del cittadino U.E.), ma la cui previsione (art. 3.2, lett. b), per come genericamente formulata, pare proprio ricomprendere le più svariate forme di convivenza (recte, i più svariati modelli nazionali di unione non coniugale), comunque attestata, anche al di fuori del territorio dell’Unione, non foss’altro perché: I) l’art. 3.2, nel suo complesso (lettere a e b), sembra porsi come norma di chiusura, ispirata dalla finalità di agevolare il ricongiungimento con ogni «altro familiare» o «avente diritto», di qualunque cittadinanza, non definito all’art. 2, punto 2; II) se nella rigida definizione di familiare delineata dall’art. 2, punto 2, lett. b, della direttiva rientra «il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro [...]», sembrerebbe doversi riconoscere all’art. 3.2, lett. b, salvo in parte essere svuotato di contenuto e risolversi inutilmente nella previsione di cui all’art. 2, una portata più ampia, idonea a ricomprendere ogni forma di convivenza, pur non registrata e non equivalente al matrimonio, ma comunque debitamente attestata, anche peraltro in Stati extraeuropei. Ed invece l’infedele trasposizione della norma europea (art. 3), con la precisa selezione degli strumenti con cui comprovare la stabile relazione, è venuta per buona parte a confondere la fattispecie con quella dell’unione registrata in territorio U.E. di cui all’art. 2 [23], posto che: – l’attestazione da parte dello Stato («debitamente attestata dallo Stato del cittadino dell’Unione») non pare in altro potersi risolvere se non in una forma di registrazione di cui l’autorità competente rilasci il certificato [24]; – e l’autorità prevista come competente è unicamente e necessariamente (non diversamente da quanto prevede l’art. 2) uno Stato U.E. (e anzi, nella specie, il solo Stato di appartenenza del cittadino U.E.).
L’infedele e restrittiva attuazione della direttiva è costata all’Italia l’avvio di una procedura di infrazione [25], pur successivamente archiviata, a seguito della quale il testo dell’art. 3, comma 2, lettera b, del decreto è stato emendato con legge 6 agosto 2013, n. 97 [26], la quale ha eliminato la previsione secondo cui la certificazione della stabile relazione deve necessariamente essere rilasciata «dallo Stato del cittadino dell’Unione» e ha richiesto “unicamente” che la prova fosse fornita «con documentazione ufficiale» [27]. Con il che, anche i partner di una unione non coniugale attestata con documentazione ufficiale proveniente da Stato extraeuropeo sono stati ammessi a beneficiare del diritto all’unità familiare. Vero è che, anche con il venir meno della «limitazione geografica» [28], è rimasta, e, anzi, si è introdotta con la nuova aggiunta (relazione debitamente attestata «con documentazione ufficiale») una divergenza comunque significativa rispetto al testo della direttiva («relazione debitamente attestata»), posto che non risultano ammesse al ricongiungimento le convivenze attestate con documentazione non ufficiale, e ancor prima le convivenze attestate con mezzi di prova diversi dai documenti. Ora, che in qualche modo non si possa prescindere – recte, sia difficile prescindere –, ai fini che ci occupano, dall’esibizione di prove documentali è abbastanza ovvio, e già l’impiego del verbo «attestare» («relazione stabile debitamente attestata») da parte del legislatore europeo, sostanzialmente sinonimo di “certificare”, lo sottende, come dimostra la stessa linea interpretativa accolta dalla Commissione europea nelle linee guida per una migliore trasposizione della Direttiva 2004/38/CE (COM (2009) 313), ove si precisa che, ai fini di cui alla direttiva 2004/38/CE, i partner stabili possono essere tenuti (id est, chiamati dallo Stato membro) a presentare «prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione». Tuttavia la medesima Comunicazione prevede che «La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo», sì che, in definitiva, se non può prescindersi (recte, diventa difficile prescindere, specie ove sia lo Stato membro ad imporlo) dai documenti, si può però prescindere dalla ufficialità dei medesimi e cioè ammettere prove documentali libere, non limitando dunque alle coppie la cui attestazione – pur ora proveniente anche da Stati terzi – sostanzialmente coincida con l’iscrizione in un pubblico registro (certamente documentazione ufficiale), bensì estendendo anche alle convivenze aliunde (e cioè debitamente, e pur non necessariamente ufficialmente) comprovate/comprovabili.
In conclusione, le pur evidenti e pur prudenti aperture della disciplina U.E. nei confronti del ricongiungimento tra partner non coniugati non hanno trovato terreno fertile nel sistema giuridico italiano. Invero, da un lato, le norme della direttiva che pur sono state, ad litteram, fedelmente trasposte sono poi rimaste lettera morta nella pratica: è il caso del ricongiungimento fra partner di un’unione registrata. Dall’altro, le uniche norme di essa che potevano ricevere una qualche attuazione pratica (l’art. 3 sulle stabili relazioni affettive debitamente attestate) sono state – da principio – così restrittivamente trasposte da rendere tutt’altro che “agevole” (malgrado la raccomandazione agli Stati ospitanti di «agevolarlo») il ricongiungimento tra partner. Con il che, il partner straniero con cui il cittadino dell’Unione soggiornante in Italia (o con cui lo stesso cittadino italiano [29]) avesse contratto un’unione registrata, tanto etero quanto omosessuale, quand’anche contratta in uno Stato U.E., non godeva di alcun diritto automatico di ingresso e soggiorno quale quello garantito ai «familiari» del cittadino dell’Unione dall’art. 2 della direttiva. Solo ove fossero risultate, de residuo, soddisfatte le condizioni di cui all’art. 3.2, lett. b, della direttiva, e cioè l’unione avesse integrato gli estremi di una relazione stabile debitamente attestata – sia pur, per vari anni, necessariamente attestata da parte dello Stato del cittadino dell’Unione – quantomeno lo Stato ospitante aveva il dovere di “facilitare” l’ingresso e il soggiorno del partner del cittadino U.E. nella veste di «altro familiare» o comunque di «avente diritto» ex art. 3 del decreto; i partner di fatto – a rigore, tanto etero quanto omosessuali – potevano, cioè, fare appello al dovere dello Stato italiano di agevolarne l’ingresso. E in attuazione della previsione, onde in qualche modo facilitare l’ingresso e il soggiorno del partner straniero non coniugato, a dimostrazione «di quella buona volontà amministrativa genericamente disposta dall’art. 3 della direttiva» [30], il Ministero dell’interno, con Circolare 18 luglio 2007, n. 39, ha riconosciuto al partner extra U.E. di cittadino europeo, altrimenti privo di un autonomo titolo di ingresso e di soggiorno, la possibilità di richiedere il rilascio di un «permesso di soggiorno per residenza elettiva, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286», subordinandone l’ingresso al «rilascio del visto di ingresso per residenza elettiva». Lucidamente, in dottrina, si osserva come il Ministero dell’interno, con una «recezione minimalista dell’art. 3 della direttiva» [31], non abbia «voluto utilizzare né la figura (e la connessa, privilegiata, disciplina) della carta di soggiorno, né quella, assai meno impegnativa, del permesso di soggiorno per motivi familiari, nonostante che entrambe queste soluzioni non avrebbero comportato alcuna iscrizione di atti nei registri dello stato civile e dunque non avrebbero comunque prodotto alcun riconoscimento di efficacia dell’istituto della convivenza nel nostro ordinamento giuridico. È dunque con estrema prudenza e parsimonia che l’Italia» ha acconsentito a «rendere possibile una coesione familiare “di fatto” delle convivenze “di diritto” […]» [32].
Dove, invece, il legislatore interno è risultato “generoso” nell’attuare la direttiva – senza, peraltro, essere sul punto chiamato a farlo [33] – è stato nell’averne allargato l’ambito di operatività (recte, l’ambito di operatività dei principi eurounitari dalla stessa derivanti) oltre l’ambito di applicazione suo tipico, ricomprendendo anche fattispecie meramente interne [34] e, cioè, mancanti di qualsivoglia esercizio della libertà di circolazione in uno Stato U.E. diverso da quello di appartenenza [35]. Invero, il d.lgs. 30/2007 ha – ab origine – testualmente previsto che «Le disposizioni del presente decreto legislativo, se più favorevoli, si applicano ai familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza italiana» (art. 23); e, come visto, le disposizioni di derivazione unionale risultano – quantomeno in potenza – più favorevoli di quelle del t.u.imm., già solo per l’accoglimento di una nozione di «familiare» inclusiva dei partner non coniugati, oltre che in termini di condizioni di ingresso e soggiorno (es. requisiti di alloggio o di reddito) di maggior favore. Ne esce, dunque, sensibilmente rafforzato il diritto all’unità familiare del cittadino italiano c.d. statico, ossia rimasto residente all’interno dei confini nazionali, libero di utilizzare, secondo la sua migliore convenienza, gli strumenti di ricongiungimento familiare ora offerti dal diritto dell’immigrazione, ora dalla disciplina di recepimento del diritto europeo sulla libertà di circolazione e soggiorno [36]. Il che ha permesso di arginare il problema – poco sopra accennato – delle c.d. discriminazioni a rovescio [37], scongiurandosi cioè i possibili effetti discriminatori nei confronti dei cittadini italiani non aventi esercitato la libertà di spostamento in altro Stato membro rispetto alla condizione e al trattamento riservati, nell’ordinamento nazionale, ai cittadini U.E. avvalsisi di detta libertà. Ricordiamo, del resto, che, più in generale, l’art. 53 della legge 234/2012 («Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea») pone il divieto delle discriminazioni a rovescio, prevedendo che «nei confronti dei cittadini italiani non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea».
Vero è che l’art. 23 del d.lgs. 30/2007 è stato, di recente, modificato, ad opera del d.l. n. 69/2023 [38]. L’odierno comma 1 della novellata norma, in vigore dall’11 agosto 2023, estende le disposizioni del decreto medesimo, se più favorevoli (come senz’altro sono quelle che accolgono una nozione ampia di «familiare», o comunque di «altro familiare» o «avent[e] diritto» all’ingresso e soggiorno in territorio U.E.), ai familiari non aventi la cittadinanza italiana dei (soli) cittadini italiani «che hanno esercitato il diritto di libera circolazione in ambito europeo» e, cioè, i cittadini italiani che, dopo essersi spostati in altro Stato membro, facciano rientro nel proprio Paese d’origine ed ivi intendano godere della vita familiare altrove iniziata o comunque condotta. Mentre al familiare extra U.E. del cittadino italiano che non abbia esercitato la libertà di circolazione in territorio U.E., e cioè del cittadino italiano c.d. statico, il neo-introdotto comma 1-bis dell’art. 23 prevede che venga concesso un permesso di soggiorno per motivi di famiglia, della durata di cinque anni, rinnovabile a scadenza e convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, da rilasciarsi con le modalità di cui all’art. 5, comma 8, t.u.imm. ed esentato dal versamento del contributo di cui all’art. 5, comma 2-ter, t.u.imm.
Pare a chi scrive che, nonostante il rinvio alla normativa nazionale sull’immigrazione contenuto nell’innovato art. 23, comma 1-bis e, anzi, proprio perché detto rinvio è circoscritto ad una sola norma (peraltro limitata a disciplinare modalità di rilascio a mezzo di strumenti a tecnologia avanzata con caratteristiche anticontraffazione) [39], alle fattispecie meramente interne continui ad applicarsi la disciplina più favorevole di derivazione unionale per quel che concerne – senz’altro – la nozione allargata di familiare [40], da non potersi aliunde desumere, in mancanza di un rinvio espresso all’art. 29 t.u.imm. (ed alla ristretta cerchia di «familiari» ivi contenuta), se non dalle norme del decreto medesimo, di cui lo stesso art. 23 è parte. Con il che, il cittadino di Stato terzo lato sensu «familiare» (id est, «familiare» ai sensi della direttiva 2004/38/CE, e non già ai sensi delle disposizioni restrittive del t.u.imm.) del cittadino italiano c.d. statico vedrà comunque garantito il diritto all’unità familiare, e cioè godrà comunque di un titolo di soggiorno, per quanto non esattamente il medesimo («Carta di soggiorno» ex art. 10 d.lgs. 30/2007) di cui godono i cittadini U.E. soggiornanti in Italia (compreso il cittadino italiano ivi rientrato) bensì tipizzato dallo stesso art. 23 (per tipologia, durata e regime di rinnovabilità e convertibilità), nonché governato, per quel che concerne le modalità di rilascio, dal t.u.imm. In conclusione, gli esiti della novella rispetto alla pregressa e originaria formulazione dell’art. 23 non si rivelano poi così dirompenti, e il trattamento riservato ai cittadini italiani c.d. statici risulta, se non identico, in ogni caso analogo a quello garantito ai cittadini U.E. soggiornanti in Italia nell’esercizio della propria libertà di circolazione.
V’è, peraltro, da precisare che per quanto, da principio, fosse identico il trattamento riservato ai cittadini U.E. soggiornanti in Italia e ai cittadini italiani c.d. statici, a ben poco è valsa la generosità del legislatore del 2007 nell’aver – appunto – esteso l’ambito di applicazione del diritto europeo derivato anche alle fattispecie meramente interne (vecchio testo dell’art. 23) se, come si è dato conto, al di là di enunciazioni di principio (e, cioè, delle aperture pur formalmente presenti negli artt. 2 e 3 del d.lgs. 30/2007 nei confronti delle unioni non coniugali), in concreto ciò si è risolto in un (sì, medesimo) trattamento (ma) di non tutela per le unioni registrate, o di tutela comunque minimalista [41] per relazioni stabili debitamente attestate. In altri termini, si è rivelata una amara consolazione l’essere stati trattati tutti (cittadini U.E. dinamici e cittadini italiani statici) alla stessa (sì identica, ma) restrittiva maniera.
Anche la giurisprudenza di legittimità, nell’unica pronuncia che si è occupata di ricongiungimento familiare fra partner di fatto nei primi anni di operatività del decreto medesimo, ha rilevato come la sostanziale chiusura dell’ordinamento italiano nei confronti del ricongiungimento fra partner non coniugati, dello stesso o di diverso sesso, emergesse, oltre che dalla notoriamente più restrittiva disciplina dell’immigrazione (art. 29 t.u.imm.), dalla stessa disciplina europea a tutela dell’unità familiare tra cittadini dell’Unione e loro familiari (direttiva 2004/38/CE e correlativo d.lgs. 30/2007), posto che «tale direttiva …, al di fuori di alcune ristrette ipotesi di automatico riconoscimento del diritto all’ingresso e al soggiorno … appare ispirata al rispetto delle legislazioni interne dei singoli Stati membri per quanto riguarda l’inclusione o l’esclusione della rilevanza di unioni diverse dal matrimonio eterosessuale» [42]. In effetti – ci permettiamo di aggiungere – ancorché il testo unico dell’immigrazione, anche per come emendato dalla disciplina di recepimento della direttiva 2003/86/CE (d.lgs. n. 5/2007), non riconoscesse la benché minima rilevanza alla figura del partner, ma soltanto a quella del coniuge (art. 29), mentre nel decreto di recepimento della direttiva 2004/38/CE sono stati testualmente tenuti presenti tanto il coniuge quanto il partner, l’effetto pratico finale non muta [43], giacché quest’ultima apertura nei confronti delle unioni non coniugali si è risolta (quantomeno quella di cui all’art. 2 d.lgs. 30/2007, se non propriamente anche quella dell’art. 3) in una mera enunciazione di principio, priva di alcuna utilità pratica, posto che la rilevanza dell’unione è stata subordinata alla posizione rispetto ad essa assunta dal relativo ordinamento interno. Con l’unica differenza – questo sì – che la disposizione di cui all’art. 2 d.lgs. n. 30/2007, a differenza dell’art. 29 t.u.imm., «present[a] una clausola di adeguamento rispetto all’eventuale modifica normativa interna» [44]. Modifica – invero – sopravvenuta nel 2016 (l. 76/2016). Disciplina di cui veniamo ora ad occuparci.
Come noto, l’Italia ha regolamentato le unioni civili tra persone dello stesso sesso, oltre che le convivenze di fatto omo o eterosessuali (di cui infra ci occuperemo) [45], con l. 20 maggio 2016, n. 76 [46]. La legge, al comma 20 del suo unico articolo, dispone che «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso» [47]. Con il che, per effetto di detta clausola di equiparazione al matrimonio, è da intendersi estensibile alle parti di un’unione civile – come atto avente forza di legge contenente le parole coniugi o matrimonio – sia la disciplina del t.u.imm. sul ricongiungimento familiare tra coniugi (artt. 29 e 30) [48], sia – per quello che più rileva in questo studio – il d.lgs. n. 30/2007 (attuativo della direttiva 2004/38/CE), nella specie l’art. 2, lett. b, punto 1, sulla libertà di circolazione e soggiorno del coniuge di cittadino europeo spostatosi in uno Stato membro diverso da quello di origine (o che faccia rientro in quello di origine dopo aver esercitato la libertà di circolazione in altro Stato membro) [49], disciplina che peraltro si applica – sia pur, dal 2013, con taluni correttivi (novellato art. 23, comma 1-bis, d.lgs. 30/2007) [50] – anche alle fattispecie meramente interne (id est, di diritto all’unità familiare invocato in Italia dal cittadino italiano c.d. statico per il familiare straniero). In altri termini, il cittadino di Stato terzo parte di un’unione civile con cittadino europeo (compreso il cittadino italiano) è da equiparare al coniuge del cittadino U.E.; e cioè si applicano agli uniti civilmente – data l’estensione del comma 20 l. 76/2016 – le norme del decreto 30/2007 espressamente e specificamente dettate per i coniugi (art. 2, lett. b, punto 1), con conseguente diritto automatico ed incondizionato di ingresso e soggiorno in territorio italiano al seguito del partner europeo, anziché quelle – più condizionate nei presupposti di ammissibilità, sia pur non negli effetti – dettate per le unioni registrate (art. 2, lett. b, punto 2) o quelle – ancora di minore favore – dettate per le relazioni stabili debitamente attestate (art. 3, comma 2, lett. b).
Va comunque precisato che ora che l’ordinamento italiano, a seguito della novella del 2016, ha equiparato l’unione civile al matrimonio (quantomeno ai fini di cui all’art. 1, comma 20, l. 76/2016), può ritenersi, altresì, finalmente integrata la condizione di ammissibilità del ricongiungimento tra parti di un’unione registrata richiesta dalla direttiva 2004/38/CE e dall’omologo decreto attuativo: e cioè ricongiungimento ammesso «qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio» (art. 2, punto 2, lett. b, direttiva 2004/38/CE, art. 2, lett. b, punto 2, d.lgs. 30/2007); con ciò ricevendo attuazione una norma che, fino ad allora, era rimasta invero lettera morta. Dunque, le parti di un’unione civile (quantomeno di diritto italiano) sono ammesse a godere dell’unità familiare già (o, comunque, anche) in virtù di questa previsione specificamente dettata per l’unione registrata (oltre che in base a quella relativa ai coniugi), a prescindere cioè da una clausola di equiparazione al matrimonio quale quella pur generosamente contenuta nel comma 20. E, anzi, poiché le norme di derivazione europea dettate tanto per le parti di unioni registrate (purché registrate in Stati U.E. e purché lo Stato ospitante, come ora l’Italia, equipari l’unione al matrimonio), quanto per i coniugi, riconoscono un diritto di ingresso e soggiorno parimenti pieno ed automatico, invocare l’una o l’altra previsione risulta sostanzialmente indifferente.
Semmai un problema di applicabilità delle une o delle altre norme del decreto (norma sui coniugi vs norma sull’unione registrata) residua con riguardo alle unioni registrate omosessuali di diritto straniero. E diventa lecito chiedersi se la clausola di equiparazione ai coniugi di cui al comma 20 della l. 76/2016 sia da intendersi riferita alle sole unioni civili di diritto italiano, e cioè contratte secondo l’ordinamento italiano (sia pur eventualmente celebrate all’estero presso consolati italiani laddove uno dei partner sia cittadino italiano), o vada estesa anche alle unioni di diritto straniero (id est, costituite all’estero secondo la legge straniera). Invero, la norma del decreto riferita ai coniugi (art. 2, lett. b, punto 1) non lega – a differenza della successiva previsione relativa all’unione registrata (art. 2, lett. b, punto 2) – la definizione di «familiare» da ammettere al ricongiungimento al sistema nazionale dello Stato ospitante, ma sostanzialmente al solo Paese di costituzione; né contiene alcuna limitazione geografica, a differenza della norma sulle unioni registrate che, come visto, offre piena tutela alle sole unioni che risultino registrate in uno Stato U.E. Dunque, applicare alle unioni omosessuali di diritto straniero le norme del decreto specificamente riferite ai «coniugi» decreterebbe una ammissione sostanzialmente incondizionata – ai fini, si intende, dell’unità familiare che qui ci occupa – dell’unione straniera, con possibilità di una tutela piena e pressoché automatica a prescindere: – dallo Stato di costituzione, dunque comprese le unioni costituite in Stati extra U.E., che non avrebbero bisogno di degradare – per ricevere tutela e in ogni caso una tutela di minor favore – in relazioni stabili debitamente attestate ex art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007; – e dal fatto che quel modello di unione sia ammesso dallo Stato ospitante, posto che rileverebbe il sol fatto che il soggetto da ammettere al ricongiungimento sia «familiare» per il Paese di costituzione del vincolo, indipendentemente da una corrispondente qualifica nello Stato ospitante (e dunque anche a prescindere da una equiparabilità di effetti dell’unione al matrimonio, con riconoscimento, allora, anche di unioni dagli effetti “più leggeri” del matrimonio). Una estensione interpretativa che, al di là dell’esito più o meno attendibile (in termini di opportunità), non appare allo stato (formalmente) percorribile, atteso che il decreto – in ossequio alla direttiva – tutela in modo pieno ed automatico l’unità familiare tra parti di unioni non coniugali solo laddove l’unione sia costituita in uno Stato U.E. e si configuri come equiparabile al matrimonio nello Stato ospitante. E quand’anche la restrizione alle sole unioni registrate in Stato U.E. – di cui all’art. 2, lett. b, punto 2, d.lgs. 30/2007 – non appaia, in effetti, così strettamente necessaria od opportuna (e cioè supportata da una giustificazione obiettiva e ragionevole) [51], in ogni caso al risultato di una tutela piena ed automatica del diritto all’unità familiare fra partner di unioni registrate in Stati extra europei, senza sconfinare (e degradare) nella tutela di minor favore di cui all’art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007, non pare potersi pervenire senza un formale emendamento del d.lgs. 30/2007 che vada nel senso, pur verosimilmente ammesso dalle previsioni della direttiva [52], di una attuazione delle sue norme in senso migliorativo rispetto alle garanzie minime dalla stessa apprestate.
In conclusione, l’estensione di cui al comma 20 della Legge Cirinnà, che può portare ad applicare la norma del decreto 30/2007 relativa ai coniugi, anziché quella sulle unioni registrate, è da intendersi riferita alle sole unioni di diritto italiano [53], mentre per quelle di diritto straniero tornerebbero operanti i limiti di ammissibilità di cui all’art. 2, lett. b, punto 2, d.lgs. 30/2007 sulle unioni registrate, e cioè riconoscimento di un diritto di ingresso e soggiorno pieno: – solo se l’unione sia stata contratta in uno Stato U.E.; – e nei limiti in cui l’unione straniera soddisfi il requisito di equiparabilità di effetti al matrimonio tanto nel Paese di costituzione del vincolo quanto nello Stato membro ospitante, e cioè in presenza di una sostanziale (o comunque tendenziale) corrispondenza di effetti tra Paese di costituzione e Paese ospitante. De residuo, ove l’unione omosessuale straniera tra cittadino extra U.E. e cittadino europeo non sia riconducibile al paradigma dell’art. 2, lett. b, punto 2, d.lgs. 30/2007 – ora perché non equiparabile per effetti al matrimonio (e, dunque, irriducibile anche al modello di unione civile di diritto italiano), ora perché, seppure equiparabile per effetti al matrimonio, contratta in uno Stato extra U.E. – l’art. 2, lett. b, punto 2 cede il posto alla norma di cui all’art. 3, comma 2, d.lgs. 30/2007 a tutela delle relazioni stabili debitamente attestate (dopo la modifica del 2013, anche costituite in Stati extra U.E.) [54].
Le norme del decreto 30/2007 a tutela delle unioni non coniugali, anziché quelle dettate per i coniugi, conserverebbero un utile terreno di applicazione anche – nel qual caso in quanto fattispecie che fuoriescono totalmente dal perimetro di tutela della legge 76/2016 e che sfuggono, a rigore, anche ai meccanismi di riconoscibilità delle norme di conflitto – con riguardo alle unioni eterosessuali costituite all’estero (id est, costituite ai sensi di discipline straniere, tanto europee quanto extraeuropee) da un cittadino di Stato terzo ed un cittadino europeo residente in Italia (compreso il cittadino italiano).
Tuttavia, dette unioni, nemmeno ove costituite in uno Stato U.E., potrebbero rientrare – quantomeno de plano – sotto l’egida dell’art. 2 d.lgs. 30/2007 a tutela dell’«unione registrata», posto che alla stregua di detta norma il godimento dell’unità familiare fra partner è condizionato al fatto che lo Stato ospitante preveda l’unione registrata quale istituto alternativo e equivalente (e pur non identico) al matrimonio, mentre la legge 76/2016 prevede la sola unione civile omosessuale. Con il che, posto che l’Italia non vanta una disciplina di tutela delle unioni non coniugali eterosessuali, se non nella forma delle convivenze di fatto, un’opzione potrebbe essere quella di ammettere al ricongiungimento i partner di dette unioni – nella quale prospettiva sarebbero, peraltro, ricomprese anche le unioni contratte fuori dal territorio U.E. – alla stregua dell’art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007 a tutela della «relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale», che però offre una tutela più debole, sub specie di mera agevolazione da parte dello Stato ospitante e scevra da ogni automatismo.
Per evitare – allora – di far ricadere le unioni straniere eterosessuali nell’ambito di applicazione meno favorevole dell’art. 3, comma 2, lett. b, anziché in quello dell’art. 2, si è – alternativamente – proposta un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, al fine di evitare una discriminazione a rovescio [55]; dunque, anche i partner di unioni eterosessuali riceverebbero la tutela più ampia di cui all’art. 2, sempre purché registrate in base alla legislazione di uno Stato membro e «a condizione che tali unioni si configurino come equiparabili al matrimonio nell’ordinamento di provenienza, malgrado tale equivalenza non sia stata introdotta nel diritto italiano che ha invece relegato le coppie non coniugate eterosessuali in una condizione giuridica di minore rilevanza ai commi 36° e segg. della L. n. 76» [56]. In effetti, anche la Corte di giustizia, nella limitrofa materia del ricongiungimento tra coniugi dello stesso sesso [57], ha riconosciuto il diritto all’unità familiare, ai sensi dell’art. 2, punto 2, lett. a, direttiva 2004/38/CE, ai coniugi same-sex divenuti tali in un Paese U.E., anche laddove lo Stato ospitante non riconosca al suo interno il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Sì che, ragionando per analogia, si potrebbe ritenere che i partner di unioni straniere eterosessuali possano essere ammessi a godere del diritto all’unità familiare ai sensi dell’art. 2, lett. b, punto 2, d.lgs. 30/2007, relativo alle unioni registrate (anche) eterosessuali, pur là dove lo Stato ospitante non preveda al suo interno detto istituto e tantomeno lo equipari al matrimonio.
Rimane però l’obiezione – del resto desumibile dalla stessa sentenza della Corte di giustizia – che solo la previsione di cui all’art. 2, punto 2, lett. a, della direttiva, riferita ai coniugi (e omologa previsione del decreto), si presta ad una interpretazione estensiva, giacché, come visto, non subordina il riconoscimento dell’unità familiare alle condizioni previste dalla legislazione dello Stato ospitante e cioè non contiene alcun rinvio all’ordinamento dello Stato ospitante per quanto riguarda la nozione di «coniuge», oltre a non contenere alcuna limitazione geografica. Mentre l’art. 2 sulle unioni registrate prevede entrambe queste limitazioni. Quindi, se anche le unioni registrate assunte dall’art. 2 della direttiva sono state – in astratto – certamente pensate tanto eterosessuali, quanto omosessuali [58], nel momento in cui però se ne è legata la possibilità di ricongiungimento alla circostanza che la legislazione dello Stato ospitante le ammetta e preveda come forme di tutela alternative e pressoché prossime al matrimonio, ecco allora che le aperture della direttiva si ridimensionano notevolmente a seconda di quanto sia o meno permissivo sul punto il legislatore nazionale.
Venendo alle convivenze more uxorio, la legge n. 76/2016 non ha – come noto – carattere generale e omnicomprensivo, avendo sostanzialmente equiparato i conviventi ai coniugi limitatamente a taluni profili, quali – ivi in estrema sintesi – ordinamento penitenziario, malattia e ricovero, abitazione nella casa di comune residenza, accesso agli alloggi dell’edilizia popolare, diritti nell’impresa familiare, risarcimento del danno per morte del convivente, successione nel contratto di locazione della casa di comune residenza in caso di morte del conduttore, diritto agli alimenti in caso di cessazione della convivenza per il partner che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Sì che, stricto iure, il ricongiungimento familiare fra conviventi, omo o eterosessuali, rimane attualmente privo di copertura, giacché i conviventi more uxorio non risultano ammessi all’esercizio di detto diritto da alcuna norma espressa o di rinvio contenuta nella legge 76/2016, tantomeno da qualsivoglia clausola generale di equiparazione al matrimonio, operante solo per gli uniti civilmente. Tanto che, ai sensi della disciplina interna sull’immigrazione, vige inalterato il testo dell’art. 29 t.u.imm., che ammette al ricongiungimento soltanto i coniugi ed è ora da intendersi esteso (nonostante il mancato adeguamento formale) ai soli uniti civilmente (ex art. 1, comma 20, l. 76/2016) [59].
Vero è che ove la coppia di conviventi sia formata da almeno un cittadino U.E. sopperisce, in luogo del più restrittivo e immutato testo unico sull’immigrazione, il regime di maggior favore dettato dal d.lgs. n. 30/2007, relativo alla libertà di circolazione e connesso diritto all’unità familiare del cittadino europeo soggiornante in uno Stato membro (nella specie, l’Italia) diverso da quello di origine, o del cittadino italiano che abbia fatto rientro nel suo Paese dopo essersi spostato in altro Stato membro, ed altresì operante – grazie alla generosa estensione di cui all’art. 23 d.lgs. 30/2007, sia pur temperata a seguito della novella del 2013 [60] – per il cittadino italiano c.d. statico che intenda godere della vita familiare in Italia [61]. Detta disciplina, lo ricordiamo, oltre che fra partner di una «unione registrata» (art. 2, lett. b, punto 2), ammette il godimento della vita familiare – sia pur non sub specie di diritto pieno all’ingresso e soggiorno, bensì nei termini di un diritto all’agevolazione dell’ingresso e del soggiorno – anche fra partner di una «relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale» (art. 3, comma 2, lett. b). Sì che, pur in mancanza di previsioni di raccordo nella legge 76/2016, la fattispecie può già dirsi – e ancora dirsi – positivamente risolta e disciplinata dalla normativa di derivazione U.E. a tutela delle relazioni stabili debitamente attestate (art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007). Di qui, però, all’attenzione dell’interprete, un delicato compito di coordinamento tra il d.lgs. 30/2007 e il sopravvenuto regime delle convivenze introdotto dalla legge 76/2016. Si tratta, cioè, di indagare come la disciplina sulla libertà di circolazione e soggiorno – dominata dalla normativa sovranazionale in quanto materia di competenza unionale – si combini e coordini con la sopravvenuta regolamentazione di diritto di famiglia domestico – id est informato ai principi stabiliti dal (e riservati al) legislatore nazionale – sotto il profilo non tanto dell’ammissibilità – nella misura in cui il diritto interno non potrebbe rendere ineffettiva una libertà riconosciuta dal Trattato – del ricongiungimento tra il cittadino di Stato terzo e il partner cittadino europeo (compreso il cittadino italiano), quanto sulle concrete condizioni di esercizio di detto diritto e, dunque, a monte, sui requisiti di rilevanza e/o mezzi di accertamento della convivenza, presupposto per l’ammissione all’unità familiare.
Ora, la disciplina di derivazione unionale (d.lgs. n. 30/2007) richiede che la relazione affettiva risulti debitamente attestata da «documentazione ufficiale» (art. 3, comma 2, art. 9, comma 5, lett. c-bis, art. 10, comma 3, d-bis), mentre la legge 76/2016, al comma 37, rimanda, per l’accertamento della stabile convivenza, alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13 c. 1 lett. b) D.P.R. 223/1989. Sì che un problema di raccordo tra le due normative si pone nei seguenti termini: il presupposto della convivenza, da dimostrarsi, ai sensi della normativa di derivazione europea, con «documentazione ufficiale» (art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007), è da accertare, ora che è intervenuta la legge 76/2016, necessariamente attraverso gli strumenti previsti da quest’ultima [62], e cioè mediante la dichiarazione anagrafica cui il comma 37 rinvia? Dichiarazione attorno alla quale ruota non solo il dibattito inerente la sua natura di elemento costitutivo (id est, presupposto della convivenza) [63] o di strumento, pur privilegiato, di prova [64], ma per procedere alla quale gli Uffici Anagrafe, in ottemperanza alle indicazioni ministeriali sul punto [65], ritengono imprescindibile il prerequisito di un valido titolo di soggiorno del partner straniero. La questione verte, dunque, sulla necessità, per il convivente straniero di cittadino U.E. o di cittadino italiano, di presentare – al fine del godimento dell’unità familiare – dichiarazione anagrafica, con allora – secondo le prassi amministrative [66] – la necessaria precondizione di un titolo di soggiorno [67], o se invece valga (e basti) a comprovare la stabile convivenza con il cittadino europeo od italiano – anche ai fini dell’iscrizione in anagrafe – qualunque mezzo idoneo (sì da potersi sostanzialmente prescindere dalla condizione della regolarità del soggiorno).
In questo secondo e più estensivo senso è orientata la giurisprudenza di merito, che senza richiedere la precondizione della regolarità di soggiorno del partner straniero ritiene comprovabile la stabile convivenza con il cittadino europeo od italiano, ai fini dell’iscrizione in anagrafe, con qualunque mezzo idoneo [68], specialmente mediante il «contratto di convivenza» di cui ai commi 50 e ss. della legge 76/2016 [69] che, redatto nelle forme dalla stessa previste e pur non ancora registrato in anagrafe, costituirebbe documentazione idonea ad attestare l’esistenza di una stabile relazione ex art. 3, comma 2, d.lgs. n. 30/2007 e dunque atta a consentire il rilascio dell’autorizzazione al soggiorno al partner straniero privo di titolo di soggiorno [70]. Secondo l’orientamento delle amministrazioni, invece, il contratto di convivenza non potrebbe essere depositato presso l’anagrafe dove è iscritto uno solo dei partner, presupponendo conviventi di fatto già iscritti come tali all’anagrafe [71]. In altri termini, detto contratto non potrebbe essere registrato in mancanza della costituzione della convivenza, per la quale sarebbe indispensabile la dichiarazione anagrafica di entrambi gli interessati: invero, prima della costituzione della convivenza, che potrebbe avvenire – nella delineata prospettiva – solo con l’iscrizione anagrafica, lo straniero non sarebbe un «familiare» del cittadino italiano od europeo cui potersi applicare il nucleo di disciplina di cui al decreto n. 30/2007.
Ora, è evidente come la giurisprudenza cerchi di combinare le due normative (domestica e di derivazione unionale) attraverso il trait d’union del contratto di convivenza, che, oltre ad essere strumento espressamente previsto dalla legge 76/2016 per regolamentare i rapporti (pur, a rigore, patrimoniali) tra conviventi e da redigersi per atto pubblico o scrittura privata autenticata da notaio o avvocato e da registrare all’anagrafe (art. 1, commi 50 ss., l. 76/2016), al contempo, proprio in quanto atto dotato di ufficialità, è strumento idoneo ad integrare la «documentazione ufficiale» richiesta dalla normativa di derivazione europea e dunque atto a consentire il rilascio dell’autorizzazione al soggiorno al partner straniero che sia privo di autonomo titolo. Per questa via si tenta, da un lato, di armonizzare la legge 76/2016 con la disciplina sovranazionale (direttiva 2004/38/CE come recepita dal d.lgs. n. 30/2007): del resto, lo stesso considerando n. 14 della direttiva, ai fini del rilascio delle carte di soggiorno da parte degli Stati ospitanti, richiede di «evitare che pratiche amministrative o interpretazioni divergenti costituiscano un indebito ostacolo all’esercizio del diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari»; e, specularmente, si offre una lettura della normativa di derivazione U.E. comunque compatibile con la sopravvenuta legge 76/2016, posto che la stabile relazione di fatto viene, sì, ritenuta accertabile anche mediante strumenti diversi dalla dichiarazione anagrafica di cui al comma 37 della legge 76/2016 [72] e nella specie con documentazione ufficiale [73], ma in ogni caso, a tal fine, rimane strumento privilegiato (per la sua ufficialità e riconoscibilità da parte dell’autorità) il contratto di convivenza, che è pur sempre strumento espressamente previsto dalla legge medesima e verosimilmente un indice credibile di stabilità e serietà della relazione. Nella delineata prospettiva, pur in assenza di un titolo di soggiorno propedeutico all’iscrizione anagrafica, la convivenza tra cittadino europeo (compreso il cittadino italiano) e cittadino di Paese terzo, debitamente provata e sottoscritta mediante contratto di convivenza, darebbe diritto all’autorizzazione al soggiorno al convivente extra U.E.
Del resto, va anche considerato che dall’art. 6, comma 7, t.u.imm. emerge, sì, che le iscrizioni anagrafiche dello straniero presuppongono la previa verifica della regolarità del soggiorno [74], ma è pur vero che alle fattispecie che coinvolgono – come assumiamo in questo studio – coppie formate da almeno un cittadino U.E. si applica, come visto, la disciplina più favorevole di derivazione U.E., la quale, con riferimento ai partner di fatto, subordina il diritto del cittadino extra U.E. di accedere sul territorio nazionale di uno Stato membro diverso (come, nella specie, l’Italia) da quello da cui proviene il partner cittadino U.E., ed ivi a trattenersi (soggiornare), alla sola condizione del possesso di un passaporto in corso di validità unitamente, per i soggiorni superiori a tre mesi, all’esibizione di documentazione ufficiale attestante l’esistenza di una stabile relazione con il cittadino dell’Unione (artt. 3, 4, 5, 6, 9, 10 d.lgs. 30/2007) [75]. Agevolazioni atte a garantire l’effetto utile della direttiva europea e cioè a rendere effettiva la libertà di circolazione e soggiorno del cittadino U.E. entro il territorio dell’Unione, una libertà che verrebbe inevitabilmente minata ove si negasse o comunque ostacolasse (anziché, come richiesto dalla direttiva, «agevolare») il diritto di soggiorno dei familiari e dunque il diritto al godimento della vita familiare del cittadino U.E., allora dissuaso dall’esercizio della libertà di spostamento tra uno Stato membro e l’altro. E la stessa (o, comunque, analoga, post 2013) disciplina si applica alle fattispecie meramente interne [76], onde scongiurare effetti discriminatori a danno dei cittadini italiani che non abbiano esercitato la libertà di spostamento in altro Stato membro rispetto alla condizione e al trattamento riservati nell’ordinamento nazionale ai cittadini U.E. avvalsisi di detta libertà (art. 53 l. 234/2012). Dunque, anche la famiglia di fatto debitamente attestata (ex art. 3.2 direttiva) dà luogo al diritto di soggiorno – al traino del cittadino europeo – del partner extra U.E., anche se il suo ingresso o soggiorno su territorio U.E. non siano regolari. Ricordiamo, peraltro, che per preservare l’effetto utile della direttiva 2004/38/CE la Corte di giustizia dell’Unione europea [77] ha statuito che l’eventuale ingresso o soggiorno irregolare del «familiare» (ex art. 2) del cittadino europeo sul territorio dell’Unione non pregiudica il diritto all’unità familiare riconosciuto dalla direttiva [78].
In conclusione, ancorché la legge 76 non ammetta anche i conviventi more uxorio (ma soltanto gli uniti civilmente, ai sensi del comma 20) all’esercizio del ricongiungimento familiare, le convivenze di fatto, ove formate da almeno un cittadino europeo, devono ritenersi ammesse a godere del diritto all’unità familiare ai sensi della disciplina di derivazione europea. Certo, una estensione delle norme matrimoniali anche alle convivenze, anziché solo alle unioni civili (art. 1, comma 20, l. 76/2016), avrebbe decretato una sorta di ricongiungimento automatico anche fra partner di fatto (a condizione, ovviamente, di una debita prova della convivenza), posto che, allora, sarebbero risultate applicabili le norme di derivazione europea specificamente dettate per il ricongiungimento fra coniugi. In difetto, rimanendo invocabili le sole norme del decreto più restrittivamente dettate per le «relazion[i] stabil[i] debitamente attestat[e]» (art. 3, comma 2), anziché quelle (di maggior favore) riservate ai coniugi (art. 2, lett. b, punto 1), sopperiscono meccanismi di ricongiungimento scevri da ogni automatismo, giacché da un lato – lo ricordiamo – lo Stato ospitante non è tenuto ad autorizzare de plano l’ingresso ed il soggiorno ma è richiesto unicamente di agevolarlo; dall’altro, deve procedere (dispone la direttiva e l’omologa previsione del decreto) conformemente alla sua legislazione nazionale. Dunque, il godimento dell’unità familiare rimane condizionato dalla discrezionalità amministrativa nella soluzione di ogni caso concreto, oltre che permeato da evidenti problemi di coordinamento con la sopravvenuta legge 76/2016 [79], cui solo interpretativamente si è, sino ad ora, offerta risposta, non senza contrasti e non senza qualche forzatura [80], con inevitabile vulnus – allora – all’esigenza di certezza ed uniformità del diritto che, invero, reclamerebbe di introdurre a livello legislativo, attraverso un debito e (im)positivo coordinamento, condizioni (e eventuali precondizioni) di esercizio univoche e unitarie.
Una opzione interpretativa alternativa – onde scongiurare le delineate difficoltà di coordinamento – potrebbe essere quella di “svincolare” totalmente quel «conformemente alla sua legislazione nazionale», con cui la direttiva, all’art. 3.2, rimette alla legislazione dello Stato ospitante la scelta se autorizzare o meno l’ingresso ed il soggiorno del partner di fatto (recte, la scelta in ordine alla “agevolazione” dell’ingresso ed il soggiorno) [81], dalla disciplina delle convivenze di cui alla legge 76/2016 – del resto sopravvenuta solo a distanza di tempo dall’entrata in vigore del decreto attuativo – e cioè dai requisiti di forma e sostanza cui la stessa ha condizionato la rilevanza della convivenza. Invero, da un lato, la norma interna successiva non potrebbe rendere ineffettiva (per presupposti di rilevanza/mezzi di accertamento della convivenza più restrittivi) la norma di derivazione europea, neutralizzando libertà fondamentali previste dal trattato. In secondo luogo, nemmeno v’è, a ben vedere, un rapporto di incompatibilità tra le due discipline, tale da dover far ricorso al criterio cronologico o, data la fattispecie, a quello gerarchico, posto che la normativa di derivazione europea disciplina un solo e specifico profilo di rilevanza (recte, effetto) della convivenza more uxorio, quello del ricongiungimento familiare, neppure regolamentato dalla legge 76/2016, la quale ultima, e le condizioni diverse dalla stessa previste (ammesso poi ad essere diverse da quelle di derivazione unionale siano realmente le condizioni così come positivamente previste dalla legge 76, anziché per come vivono nelle prassi amministrative) rileverebbero ad ogni altro fine; con il che, la legge posteriore – in quanto – generale non derogherebbe alla legge speciale precedente e i due regimi normativi conserverebbero entrambi piena efficacia per i rispettivi ambiti di competenza. Nella delineata prospettiva, per non rendere vana la libertà di circolazione e soggiorno del cittadino U.E. entro il territorio dell’Unione, ostacolandone (anziché agevolando) il diritto al godimento della vita familiare, quel «conformemente alla … legislazione nazionale», con cui la direttiva (art. 3.2) chiama lo Stato membro ospitante ad «agevola[re] l’ingresso» del partner di una relazione stabile debitamente attestata, potrebbe allora essere più elasticamente interpretato – malgrado, non lo si nasconde, qualche rischio di forzatura [82], come sostanzialmente occorso prima della novella del 2016, quando non v’era ancora una regolamentazione (quantomeno organica e generale) delle convivenze – nel senso che il ricongiungimento fra partner di fatto con almeno un cittadino U.E. sia condizionato da quanto previsto dalla normativa nazionale di trasposizione della direttiva, piuttosto che da quanto previsto dalla (in origine mancante e poi sopravvenuta) disciplina interna delle convivenze, e cioè rimesso ai criteri di agevolazione di ingresso e soggiorno previsti (recte, introdotti), in attuazione dell’art. 3.2 della direttiva, dal legislatore dello Stato ospitante (d.lgs. 30/2007).
Se non fosse che lo Stato italiano non ha positivamente e concretamente individuato alcun criterio di agevolazione, bensì trasposto pedissequamente (ed allora anche abbastanza inutilmente) l’art. 3.2 della direttiva nell’omologo art. 3, comma 2, d.lgs. 30/2007; salvo – questo sì – il riconoscimento, da parte del Ministero dell’interno, pochi mesi dopo l’entrata in vigore del decreto medesimo, della possibilità in capo al partner extra U.E. di cittadino europeo altrimenti privo di autonomo titolo di ingresso e soggiorno di richiedere il rilascio di un permesso di soggiorno per residenza elettiva, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, subordinandone l’ingresso al rilascio del visto di ingresso per residenza elettiva [83]. Epperò – come si è dato conto [84] – tratta(va)si di una «recezione minimalista dell’art. 3 della direttiva» [85], con cui le nostre autorità, consapevoli – giacché chiamate a farlo dall’art. 3 della direttiva – di dover in qualche modo facilitare l’ingresso e il soggiorno dei partner non coniugati, non hanno comunque fatto ricorso né allo strumento, e connessa disciplina di maggior favore, della carta di soggiorno, né al pur meno impegnativo permesso di soggiorno per motivi familiari [86], verosimilmente per il timore [87] che ciò avrebbe decretato il riconoscimento di efficacia dell’istituto della convivenza in un ordinamento ancora non dischiuso ad essa [88]. È dunque evidente l’atteggiamento di cautela massima con cui l’Italia ha inteso dare attuazione al dovere – consacrato nella direttiva e pur formalmente recepito nel decreto attuativo – di agevolare la coesione familiare tra i conviventi di fatto (recte, tra le parti di relazioni stabili debitamente attestate). Una prudenza che, quantomeno ora che (recte, dacché) le convivenze more uxorio hanno trovato piena cittadinanza nel nostro ordinamento, dovrebbe (ed invero avrebbe già dovuto) cedere il passo – anche formalmente, tramite una debita riscrittura del d.lgs. 30/2007 o, quantomeno, a livello di prassi amministrativa – a ben altri e più generosi canali di facilitazione e agevolazione dell’ingresso e soggiorno del cittadino extra U.E. al fianco del partner europeo (e correlativa protezione del diritto all’unità familiare), nella direzione di una effettiva attuazione – anziché una mera trasposizione letterale o recezione comunque minimalista o totalmente affidata, com’è allo stato, a prassi e interpretazioni divergenti – delle previsioni della direttiva. Viepiù che i tempi sarebbero ormai sufficientemente maturi per riconoscere ai conviventi more uxorio nemmeno più un mero diritto (per quanto opportunamente ampliato) all’agevolazione dell’ingresso e soggiorno (art. 3.2, lett. b, direttiva 2004/38/CE), pur sempre rimesso alla discrezionalità amministrativa e scevro da ogni automatismo, bensì un diritto pieno (ferma, naturalmente, la prova della convivenza) all’ingresso e al soggiorno, sulla falsariga di quanto riconosciuto dalle norme di derivazione unionale ai coniugi e (sia pur con qualche limitazione in più) ai partner di unioni registrate: del resto, da un lato, le previsioni della direttiva si atteggiano – come visto – a garanzia “minima”, sempre superabile in melius dalle disposizioni interne di attuazione, specie al cospetto di un consenso europeo crescente e ormai pacificamente emergente in ordine al riconoscimento legale delle unioni (lato sensu) non coniugali, di contro al mancato raggiungimento di un adeguato livello di condivisione e di prassi comuni tra gli Stati membri all’epoca di emanazione della direttiva, di cui dunque si spiega l’approccio prudente nelle pur presenti aperture verso archetipi familiari diversi dal matrimonio. Dall’altro, è già la direttiva a contenere, sovente, previsioni che stabiliscono un regime di maggiore protezione rispetto alle misure interne di attuazione, com’è a dirsi delle norme di essa che ammettono al ricongiungimento le convivenze more uxorio purché «debitamente attestat[e]», senza porre limitazioni di sorta alla possibilità di prova della convivenza (di contro alla perdurante richiesta di «documentazione ufficiale» ex art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007).
Nel senso di un vero e proprio «“diritto” soggettivo al soggiorno» [89] da riconoscersi, ai sensi dell’art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007, al convivente extra-europeo di cittadino U.E. (compreso il cittadino italiano) pare da ultimo attestata anche la giurisprudenza di legittimità, la quale, sulla scorta della giurisprudenza di merito (e per il vero anche oltre), interpreta estensivamente l’attestazione con «documentazione ufficiale» di cui al testo della richiamata norma così come novellato dalla Legge europea n. 97/2013, tanto più in una prospettiva di interpretazione conforme al diritto europeo e in particolare all’indicazione contenuta nella citata Comunicazione della Commissione Europea COM 2009 (313) del 2 settembre 2009, secondo la quale la prova della stabilità della relazione tra partners può essere fornita «con ogni mezzo idoneo». Sì da ammettere i conviventi a dimostrare la relazione non necessariamente mediante la dichiarazione anagrafica, ma appunto con «ogni mezzo idoneo», compresi i mezzi di prova diversi dai documenti. Nella specie viene ritenuta «prova, sera e rigorosa, della convivenza e del legame famigliare esistente tra lo straniero e il cittadino UE.», cui potersi dare ingresso nel giudizio ordinario avverso il provvedimento di diniego da parte dell’amministrazione motivato sulla base della mancata allegazione di «documentazione ufficiale» attestante la convivenza, anche la prova testimoniale [90].
Non si manchi, da ultimo, e più in generale, di considerare che anziché tramite una restrittiva individuazione – ex ante – della cerchia dei «familiari» da ammettere al ricongiungimento o una angusta delimitazione dei presupposti oggettivi di esercizio del diritto, il rischio di un flusso di ingresso incontrollato ed il pericolo (pur concreto) di un esercizio pretestuoso e opportunistico del diritto all’unità familiare (al solo fine di “regolarizzare” la condizione dello straniero presente sul territorio nazionale) sarebbero più propriamente da arginare con gli strumenti tipicamente volti a contrastare i c.d. negozi familiari di comodo, e cioè i negozi esclusivamente preordinati a scopi estranei alla «causa familiare» [91] (art. 35 [92] e considerando n. 28 [93] direttiva 2004/38/CE) [94], oltre che mediante un esame effettivo ed individualizzato della situazione del richiedente, atto a vagliare elementi concreti dell’effettività del rapporto familiare addotto (art. 3 ultimo periodo e considerando n. 6 direttiva 2004/38/CE), sempre ferme – peraltro – le possibili limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno (e connesso diritto alla vita familiare) giustificate da motivi di sicurezza pubblica e ordine pubblico (fra tanti, art. 13 e considerando nn. 22 e 23 direttiva 2004/38/CE).
La direttiva 2004/38/CE, all’art. 2, punto 2, lett. a, non declina la nozione di «coniuge», né offre indicazioni sul sistema giuridico di riferimento cui ancorare il contenuto del termine (come viceversa fa [95] per la definizione di partner di unione registrata). Sì che, a rigore, nulla si oppone ad includere anche il coniuge omosessuale tra i beneficiari di ricongiungimento.
Se non fosse che, all’epoca della emanazione della direttiva, non v’era ancora un consenso sufficiente, in ambito europeo, per una tale estensione, giacché il matrimonio tra persone dello stesso sesso era previsto in soli due Paesi (Belgio e Olanda). Come si rileva dai lavori preparatori, proprio a tali indici – oggi, invero, superati – faceva riferimento il Consiglio nel 2004, respingendo gli emendamenti proposti dal Parlamento e, appunto, optando per una definizione di «coniuge» limitata a partner di sesso opposto [96]. Nella successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE, il Parlamento europeo invitava gli Stati membri a dare piena attuazione ai diritti sanciti dall’articolo 2 e dall’articolo 3 della direttiva 2004/38/CE, e a riconoscere tali diritti anche ai partner dello stesso sesso, ma, quanto ai coniugi, specificava «coniugi di sesso diverso», invitando altresì «gli Stati membri a tenere presente che la direttiva impone l’obbligo di riconoscere la libera circolazione di tutti i cittadini dell’Unione (comprese le coppie dello stesso sesso), senza imporre il riconoscimento dei matrimoni fra persone dello stesso sesso».
Solo in tempi relativamente recenti il diritto unionale – recte l’interpretazione dello stesso fornita dalla Corte di giustizia – si è aperto al ricongiungimento fra coniugi dello stesso sesso. Invero, nel caso Coman, la Corte di Giustizia, rovesciando il suo iniziale approccio – assolutamente restrittivo sul punto nel rispetto delle competenze statali in materia di diritto di famiglia – ha, per la prima volta, preso posizione sulla nozione di «coniuge» ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a, direttiva 2004/38/CE ed accolto una nozione evolutiva e autonoma, neutra sotto il profilo del genere, idonea a ricomprendere qualunque persona legata al cittadino dell’Unione da un valido vincolo matrimoniale, a prescindere dal sesso [97]. Dalla cui nozione ampia/neutra la Corte trae l’obbligo per lo Stato membro ospitante (che pur, nella specie, era lo Stato di appartenenza ove il cittadino dell’Unione aveva fatto rientro dopo aver esercitato la libertà di circolazione in altro Stato U.E.) [98] di concedere un diritto di soggiorno per motivi familiari al coniuge extra U.E. di cittadino U.E. dello stesso sesso ai sensi dell’art. 21, par. 1, TFUE, ancorché l’ordinamento interno non consenta il matrimonio tra persone dello stesso sesso [99]; ciò per non privare la direttiva del suo effetto utile, limitando la libertà di circolazione dei cittadini U.E.
Nella quale direzione si era, per il vero, precocemente incamminata, più di dieci anni or sono, qualche nostra corte interna, che aveva riconosciuto al partner extra U.E. coniugato in un Paese membro dell’Unione europea o all’estero con cittadino italiano (o europeo) dello stesso sesso il diritto di soggiorno in Italia e correlativo godimento della vita familiare in virtù della disciplina di derivazione europea a tutela dell’unità familiare fra il cittadino U.E. ed il coniuge anche straniero (art. 2, lett. b, punto 1, d.lgs. 30/2007) [100]. Dopo tali decisioni, molti permessi di soggiorno sono stati rilasciati ai cittadini extra U.E. che formavano coppie omosessuali con cittadini italiani (o con cittadini U.E. soggiornanti in Italia) sulla base di matrimoni (o unioni civili) contratti all’estero (intra o extra U.E.). Una prassi che ha occasionato, nel 2012, l’emanazione di una Circolare da parte del Ministero dell’Interno, la quale, pur affermando che il d.lgs. 30/2007, ai sensi dell’art. 10, non consente l’emissione di una carta di soggiorno al coniuge dello stesso sesso, ha riconosciuto come legittima la pratica di quelle autorità di polizia che avevano rilasciato un simile documento di soggiorno [101].
Con la svolta segnata dalla Corte di Giustizia, complici il consenso europeo crescente verso il riconoscimento legale, entro l’ordinamento degli Stati membri, delle coppie dello stesso sesso [102] ed i plurimi inviti del Parlamento europeo, alla Commissione e agli Stati membri, a garantire alle coppie same-sex parità di diritti rispetto alle famiglie tradizionali [103], si può dunque concludere che i tempi sono ormai maturi per ritenere accreditata, quantomeno a livello di diritto europeo ed almeno agli specifici fini del diritto al godimento della vita familiare, una lettura evolutiva della nozione di coniuge, pacificamente inclusiva delle persone dello stesso sesso. Questo almeno: I) ove uno dei coniugi sia un cittadino U.E. c.d. non statico, riconoscendosi al cittadino di Stato terzo, suo familiare, un diritto di soggiorno derivato per effetto dell’esercizio della libertà di circolazione e soggiorno in altro Stato membro: allo scopo, dunque, di consentire il godimento effettivo del contenuto essenziale dei diritti che derivano dallo status di cittadino dell’Unione; II) ed ove il matrimonio sia stato celebrato, come occorso nella specie, in uno Stato membro [104].
In attuazione di quanto statuito dalla Corte di Lussemburgo ad interpretazione della direttiva 2004/38/CE, andrà dunque positivamente (recte, correttivamente) incluso entro il reticolato normativo della (nostra) normativa interna di attuazione il coniuge dello stesso sesso (art. 2, lett. b, punto 1, d.lgs. 30/2007). Con il che, il cittadino di uno Stato membro che eserciti la libertà di circolazione in Italia dovrà poter ivi godere del diritto all’unità familiare con il cittadino di Stato terzo a lui unito in matrimonio same-sex in altro Stato U.E. E lo stesso dovrebbe valere per il cittadino italiano che faccia rientro in Italia [105] dopo aver esercitato la libertà di circolazione in altro Stato U.E. ed aver ivi contratto (o comunque in altro Stato membro che lo consentisse) matrimonio omosessuale [106].
Va, infine, da sé che, per quanto accolta agli specifici fini della direttiva 2004/38/CE, la lettura evolutiva fatta propria dalla Corte di Giustizia dovrebbe essere importata, a pena di determinare un trattamento differenziato basato sulla nazionalità, privo di giustificazione oggettiva e ragionevole, anche nel diritto dell’immigrazione, permeando la nozione di «coniuge» di cui all’art. 29, comma 1, lett. a, t.u.imm. e connesso art. 4.1, lett. a, direttiva 2003/86/CE, sì da consentire il ricongiungimento familiare anche fra coniugi omosessuali di cittadinanza interamente extraeuropea (id est, entrambi cittadini di Stati terzi). Un ricongiungimento da potersi, per il vero, già ammettere – pur solo in via interpretativa, dato il silenzio normativo – alla luce del diritto nazionale sull’immigrazione, (se) debitamente coordinato con la novella di diritto di famiglia del 2016, comprensiva delle norme di diritto internazionale privato che l’hanno completata. Le quali norme di conflitto, così come interpretate dalla Corte di Cassazione, consentono di riconoscere piena efficacia di matrimonio – in base alla legge nazionale dello straniero che lo ammetta – al matrimonio omosessuale contratto all’estero da cittadini entrambi stranieri [107]; sì che ai componenti di dette unioni, in quanto a tutti gli effetti coniugi, dovrebbe per l’effetto essere consentito di godere – inter alia – del diritto al ricongiungimento familiare come positivamente riconosciuto ai coniugi dall’art. 29, comma 1, lett. a, t.u.imm. Ebbene, l’interpretazione gender-neutral di coniuge fatta propria dalla Corte di Giustizia può contribuire ad offrire un ulteriore ed efficace indice – in chiave ermeneutica – a favore del ricongiungimento familiare (anche) fra coniugi omosessuali entrambi cittadini extra-europei.
[1] Invero, con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam (1° maggio 1999), è stata riconosciuta alla (allora) Comunità europea una competenza concorrente in materia di immigrazione, essendosi “comunitarizzate” materie (immigrazione, rilascio di visti, concessione di asilo, cooperazione giudiziaria in materia civile) sino ad allora trattate esclusivamente in ambito intergovernativo, ossia interamente rimesse al potere decisionale degli Stati membri.
[2] In ragione di ciò, sebbene da annoverare tra i diritti fondamentali dell’uomo (artt. 2, 29, 30, 31 Cost.; art. 8 CEDU; art. 7 Carta di Nizza; art. 10 Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, New York 20 novembre 1989; art. 44, n. 2 Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, New York 18 novembre 1990; art. 17 Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York 16 dicembre 1966) – per la quale classificazione, ex multis, nella giurisprudenza europea, CGUE, Grande Sez., 27 giugno 2006, c. 540/03, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea, in https://eur-lex.europa.eu, e in Fam. pers. succ., 2006, 957 ss., e, nella giurisprudenza interna, Corte Cost. 8 maggio 2023, n. 88, in ForoPlus, Ead. 18 luglio 2013, n. 202, in De Jure, Cass. 13 febbraio 2024, n. 3995, in ForoPlus, Ead. 27 novembre 2023, n. 32851, ibidem, Ead. 6 ottobre 2023, n. 28162, ibidem, anche se è costante l’affermazione per cui il diritto al ricongiungimento familiare assurge a diritto inviolabile dell’uomo solo con riferimento alla famiglia nucleare, nel quale senso Corte Cost. 26 settembre 2007, n. 335, in Fam. dir., 2008, 117 ss., con nota di L. Pascucci, Il ricongiungimento familiare nell’interpretazione della Corte Costituzionale, Corte Cost. 23 dicembre 2005, n. 464, in De Jure, Ead. 8 giugno 2005, n. 224, in Riv. dir. int. priv. proc., 2005, 851, Ead. 9 novembre 2006, n. 368, in De Jure – il diritto al ricongiungimento familiare stenta a ricevere una tutela di carattere assoluto, in considerazione del fatto che l’ingresso dello straniero nel territorio nazionale coinvolge svariati interessi pubblici (sicurezza, ordine pubblico, sanità), la cui ponderazione spetta, in primo luogo, al legislatore interno: fra tante, Corte Cost. 21 novembre 1997, n. 353, in Dir. giur., 1998, 203; Corte Cost. 4 luglio 2001, n. 232, in Giur. cost., 2001, 2066; Corte Cost. 14 maggio 2006, n. 158, in D&G, 2006, n. 22, 36; Corte Cost. 26 settembre 2007, n. 335, cit.; Corte Cost. 8 luglio 2010, n. 250, in De Jure; Corte Cost. 6 luglio 2012, n. 172, in De Jure; Corte Cost. 18 luglio 2013, n. 202, cit.; nella giurisprudenza di Strasburgo, CEDU 19 febbraio 1996, ric. n. 23218/94, Gul v. Svizzera; Ead. 21 giugno 1988, ric. n. 10730/84, Berrehab c. Olanda; Ead. 28 maggio 1985, ric. nn. 9214/80, 9473/81, 9474/81, Abdulaziz, Cabales and Balkandali c. Regno Unito: tutte reperibili in www.echr.coe.int; similmente Ead. 11 luglio 2002, ric. n. 56811/00, Amrollahi c. Danimarca; Ead. 24 novembre 2009, ric. n. 1820/08, Omojudi c. Regno Unito; Ead. 22 marzo 2007, ric. n. 1638/03, Maslov c. Austria; Ead. 17 aprile 2003, ric. n. 52853/99, Ylmaz c. Germania: tutte reperibili in www.echr.coe.int; e, più di recente, CEDU, Grande Camera, 9 luglio 2021, ric. n. 6697/18, M.A. c. Danimarca, in Giur. it., 2021, 2060 ss.; v. anche CGUE, Grande Sez., 27 giugno 2006, c. 540/03, Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea, cit.
[3] In tal senso, fra tante, Corte Cost. 4 luglio 2001, n. 232, cit.; Corte cost. 26 settembre 2007, n. 335, cit.; Corte Cost. 16 maggio 2008, n. 148, in Foro it., 2008, I, 2774; Corte Cost. 18 luglio 2013, n. 202, cit.; Corte Cost. 8 maggio 2023, n. 88, cit.; CEDU, Grande Camera, 9 luglio 2021, ric. n. 6697/18, M.A. c. Danimarca, cit.
[4] In senso tecnico, il ricongiungimento familiare è, invero, predicabile (recte, esercitabile) nei confronti dei familiari che risiedono all’estero, ai fini del rilascio di un visto di ingresso e conseguentemente di un permesso di soggiorno per motivi familiari (art. 29 e art. 30, comma 1, lett. a, t.u.imm.). Mentre la coesione familiare – ipotesi specificamente disciplinata dall’art. 30, comma 1, lett. c, t.u.imm. – è una particolare species di ricongiungimento familiare effettuato direttamente in Italia, dato che non presuppone la preventiva richiesta da parte del cittadino straniero del nulla osta allo Sportello Unico Immigrazione della Prefettura competente, né la successiva richiesta da parte del familiare di un visto d’ingresso per motivi familiari: la richiamata norma prevede che il permesso di soggiorno per motivi familiari sia rilasciato al familiare straniero già regolarmente soggiornante in Italia, con titolo al soggiorno per motivo diverso da quello per famiglia, in possesso di tutti i requisiti previsti per il ricongiungimento con altro cittadino straniero regolarmente soggiornante sul territorio, nel qual caso il permesso di soggiorno del familiare è convertito in permesso per motivi familiari.
[5] Come accennato, con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, è stata riconosciuta alla (allora) Comunità europea una competenza concorrente in materia di immigrazione. Al Consiglio è stato così attribuito il compito di adottare misure in materia di politica di immigrazione, fatto salvo il diritto degli Stati membri di mantenere o introdurre ex novo norme di diritto interno compatibili con il Trattato medesimo. E sulla base di ciò è stata adottata, in funzione di armonizzazione, la direttiva 2003/86/CE relativa al diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini extra U.E. legalmente soggiornanti nel territorio di uno Stato membro dell’Unione.
[6] Condizioni di esercizio più onerose sono state, infatti, reintrodotte dal d.lg. 160/2008, che ci consegna la norma di cui all’art. 29 t.u.imm. «nella sua formulazione storicamente più severa»: così P. Morozzo della Rocca, Il diritto all’unità familiare e le sue discipline, in Id. (a cura di), Immigrazione, asilo e cittadinanza, 5. ed., Maggioli Editore, 2021, 133. Si considerino anche i successivi emendamenti apportati dalla l. n. 94/2009, dal d.lgs. n. 18/2014, dal d.l. n. 13/2017 e dal d.l. n. 18/2020, i quali, però, non hanno inciso sulla cerchia dei familiari ammessi al ricongiungimento.
[7] Sul diritto al ricongiungimento familiare ai sensi della disciplina interna sull’immigrazione sia consentito rinviare a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero, in Fam. dir., 2011, 827 ss.; Ead., Il ricongiungimento familiare nell’interpretazione della Corte Costituzionale, cit., 117 ss.; più di recente, Ead., Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, Edizioni Scientifiche Italiane, 2023, 16 ss.; Ead., Il ricongiungimento familiare tra partner stranieri nel diritto dell’immigrazione, in questa Rivista, 2024, n. 3, 456-471. Tra i contributi più recenti sul tema, oltre alle opere infra citate, si legga F. Angelini, Il diritto al ricongiungimento familiare, in M. Benvenuti e P. Morozzo della Rocca (a cura di), Università e studenti stranieri, volume edito entro la Collana Diritto e Migrazioni, Editoriale Scientifica, 2024, n. 1, 281 ss.
[8] Invero, la sparsa e settoriale normativa di diritto eurounitario derivato riconosceva il diritto al ricongiungimento familiare ai lavoratori subordinati (Regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio), ai lavoratori autonomi (Direttiva 73/148/CEE del Consiglio), agli studenti (Direttiva 93/96/CEE del Consiglio), ai pensionati (Direttiva 90/365/CEE del Consiglio) che avessero esercitato il diritto alla libertà di soggiorno in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza. Sia consentito rinviare a L. Pascucci, Ricongiungimento familiare dei lavoratori comunitari migranti tra diritto comunitario e diritto interno, in Fam. dir., 2008, 549-561; sul punto si veda anche E. Bergamini, Libera circolazione, diritto di soggiorno e ricongiungimento familiare, in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, II, Giuffré, 2007, 4119. La direttiva 2004/38/CE ha, invece, riunito in un testo unico l’affastellato corpus legislativo previgente, generalizzando a tutti i cittadini dell’Unione, in quanto tali, il diritto di circolazione e soggiorno e connesso diritto a ricongiungersi con i propri familiari.
[9] Sul punto v. ancora infra, par. 3.
[10] CGUE 7 luglio 1992, c. 370/90, Singh, in https://eur-lex.europa.eu; CGUE 11 luglio 2002, c. 60/00, Carpenter, in https://eur-lex.europa.eu; CGUE 14 novembre 2017, c. 165/16, Lounes, in https://eur-lex.europa.eu; CGUE, Grande Sez., 5 giugno 2018, n. 673, Coman e a. c. Inspectoratul General pentru Imigrari e Ministerul Afacerilor Interne, in Fam. dir., 2019, 113, con nota di E. Ambrosini, Matrimoni omosessuali e libera circolazione. Regole europee e interpretazioni evolutive, in Ilfamiliarista.it, 4 luglio 2018, con nota di G. Pizzolante, Matrimonio same-sex quale presupposto giuridico per l’applicazione di norme materiali europee, e in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1573, con nota di E. Chiaretto, Libera circolazione dei coniugi dello stesso sesso nell’Unione Europea; cui adde CGUE 12 marzo 2014, c. 456/12, O. e B.; Ead. 10 maggio 2017, c. 133/15, Chavez-Vilchez e a.; Ead. 23 ottobre 2007, c. 11/06 e c. 12/06, Morgan e Bucher; Ead. 18 luglio 2013, c. 523/11 e c. 585/11, Prinz e Seeberger: reperibili in https://eur-lex.europa.eu, tutte sostanzialmente nel senso che un cittadino di uno Stato membro che, nella sua qualità di cittadino dell’Unione, abbia esercitato la libertà di circolare e soggiornare in uno Stato U.E. diverso da quello d’origine può avvalersi dei diritti connessi a tale qualità, in particolare quelli previsti dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, anche eventualmente nei confronti dello Stato membro di appartenenza.
[11] CGUE 8 marzo 2011, c. 34/09, Ruiz Zambrano, in https://eur-lex.europa.eu; CGUE 5 maggio 2022, cause riunite 451/19 e 532/19, Subdelegación del Gobierno en Toledo, ibidem. Più di recente cfr. CGUE 27 aprile 2023, C-528/21, M.D. c. Országos Idegenrendészeti Foigazgatóság Budapesti és Pest Megyei Regionális Igazgatósága, in De Jure e in One Legale; CGUE 25 aprile 2024, C-420/22 e C-528/22, NW c. Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság, in One Legale.
[12] Familiari, «qualunque sia la loro cittadinanza», che «godono di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante» (considerando nn. 5 e 6 della direttiva).
[13] «Coniuge», peraltro, non ulteriormente declinato dall’art. 2 della direttiva, di contro all’omologa previsione dell’art. 29 t.u.imm., che precisa «coniuge non legalmente separato e di età non inferiore ai diciotto anni».
[14] Osserva, invero, P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, in Fam. dir., 2010, 857, con riguardo alla previsione dell’art. 2, punto 2, lett. b, che condiziona al fatto che «la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio …»: «Inciso, quest’ultimo, che non deve ingannare chi non sia avvezzo al “comunitarese” dove il concetto di istituto equivalente, riferito alla comparazione tra matrimonio e convivenze, significa fondamentalmente “non uguale”».
[15] Al considerando n. 6 della direttiva si afferma che lo Stato membro ospitante, al fine di decidere l’ingresso e il soggiorno delle persone che non rientrino nella definizione di familiari, debba tener conto della loro relazione con il cittadino dell’Unione o di qualsiasi altra circostanza, quali la dipendenza finanziaria o fisica dal cittadino dell’Unione. Nel senso di una discrezionalità non illimitata dello Stato membro ospitante, nel decidere l’ingresso e soggiorno dei non «familiari» in senso stretto, CGUE, Grande Sez., 5 settembre 2012, c. 83/11, Secretary of State for the Home Department c. Muhammad Sazzadur Rahman e altri, in https://eur-lex.europa.eu; v. ancora CGUE 12 luglio 2018, c. 89/17, Secretary of State for the Home Department c. Rozanne Banger, in https://eur-lex.europa.eu.
[16] Va, invero, precisato che stante il tenore letterale delle predette disposizioni, neutro sotto il profilo del genere, tra i partner di unioni registrate (art. 2.2, lett. b), come tra i partner di relazioni stabili non registrate (art. 3.2, lett. b), sono (recte, erano sin dall’epoca di emanazione della direttiva) da intendersi incluse le persone dello stesso sesso. Del resto, lo stesso considerando n. 31 della direttiva dispone che «in conformità con il divieto di discriminazione contemplato nella Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea] gli Stati membri dovrebbero dare attuazione alla presente direttiva senza operare tra i beneficiari della stessa alcuna discriminazione fondata su motivazioni quali sesso … o tendenze sessuali». E, ancora, il Parlamento europeo invitava gli Stati membri a dare piena attuazione ai diritti sanciti dall’articolo 2 e dall’articolo 3 della direttiva 2004/38/CE, e a riconoscere tali diritti anche alle coppie dello stesso sesso riconosciute da uno Stato membro: cfr. «Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri».
[17] Invero, pare indubbio che la norma (art. 3.2), nel prevedere che lo Stato membro ospitante meramente «agevol[i] l’ingresso», e da leggersi alla luce del considerando n. 6 che, come visto, lascia libero lo Stato di decidere se concedere o meno l’ingresso e il soggiorno al partner di fatto in base alle circostanze del caso, rimette alla discrezionalità amministrativa degli Stati la soluzione di ogni caso concreto, rifuggendo da ogni automatismo. Sul punto v. ancora infra, par. 6.
[18] L’art. 2, punto 2, lett. b, della direttiva, pur a rigore pedissequamente trasposto nel decreto, è rimasto invero lettera morta nella pratica, posto che l’Italia non vantava una legislazione a tutela delle unioni non coniugali (omo ed eterosessuali), tantomeno sub specie di «unione registrata», quale forma di tutela equivalente, sia pur non identica, al matrimonio. Tra le speciali e disorganiche aperture che l’ordinamento italiano, ad allora, contemplava, peraltro limitate alle coppie eterosessuali (salvo talune estensioni giurisprudenziali alle coppie omosessuali), ricordiamo: la legge n. 354/1975, sul riconoscimento al detenuto di un permesso di assenza dal carcere per prestare assistenza al convivente; la legge n. 91/1999, sul dovere di informare il convivente more uxorio delle opportunità terapeutiche per le persone in attesa di trapianto; la legge n. 53/2000, relativa ai congedi parentali, che riconosce al convivente la facoltà di assentarsi dal lavoro in caso di morte dell’altro o per la necessità di assisterlo ove infermo; la legge n. 149/2001, in materia di adozione, che ha assimilato alla convivenza post-matrimoniale il periodo durante il quale i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio ai fini del riconoscimento dell’idoneità all’adozione. Oltre a ciò, un certo attivismo giudiziario, volto ad estendere ai conviventi more uxorio, attraverso il procedimento analogico, talune delle norme riservate ai coniugi. Per una ricostruzione analitica del (frastagliato) quadro normativo a tutela della convivenza more uxorio prima della novella del 2016 e dell’attività di supplenza condotta dalla giurisprudenza, M. Sesta, Una disciplina per le convivenze, in Mulino, 2007, n. 3, 442 ss.; L. Balestra, La famiglia di fatto, CEDAM, 2004, passim.
[19] V. infra, nel testo del paragrafo, a commento dell’art. 23 d.lgs. 30/2007.
[20] Per detti rilievi cfr. anche Cass. 17 febbraio 2020, n. 3876, in Guida dir., 2020, n. 12, 30.
[21] Dubbi che già si erano posti in L. Pascucci, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare: la messa a punto della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2009, pt. I, 840.
[22] La Corte di Giustizia, proprio con riferimento alla direttiva 2004/38/CE, ha ribadito la necessità di non interpretare le disposizioni delle direttive in senso restrittivo, viepiù ove si tratti di norme che sanciscono la libertà di circolazione, per non privarle della loro efficacia pratica, in considerazione del contesto e degli scopi perseguiti: cfr. CGUE, Grande Sez., 25 luglio 2008, c. 127/08, Baheten Metock et al. c. Irlanda, commentata, tra gli altri, da P. Morozzo della Rocca, L’esercizio della libertà di circolazione non tollera ostacoli alla coesione familiare, in Corr. giur, 2008, 1369 ss.
[23] Salvo – questo sì – le due ipotesi ancora divergere in relazione al fatto che l’unione registrata di cui all’art. 2, per rilevare a fini del ricongiungimento, dovrebbe essere prevista e tutelata quale modello legale di unione entro la disciplina interna dello Stato ospitante (e, nella specie, come istituto equivalente, e pur non eguale, al matrimonio), mentre ciò non varrebbe per il modello di unione non coniugale assunto dall’art. 3, e cioè non sarebbe necessaria una disciplina domestica a tutela delle convivenze di fatto, tantomeno con tendenziale sovrapponibilità di effetti al matrimonio.
[24] Per questo rilievo P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 856. E v. anche Circolare del Ministero dell’interno n. 39/2007, punto 3, lett. a, alla cui stregua, per quanto riguarda i cittadini dell’Unione, per l’iscrizione anagrafica occorrerà richiedere la … «documentazione dello Stato del cittadino dell’Unione, titolare del diritto di soggiorno, dalla quale risulti … la relazione stabile, registrata nel medesimo Stato».
[25] Procedura di infrazione 2011/2053.
[26] «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea», del 6 agosto 2013 (GU Serie Generale n.194 del 20-08-2013).
[27] Afferma Cass. 17 febbraio 2020, n. 3876, cit.: «L’espressione “documentazione ufficiale” utilizzata dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b), nel testo introdotto dalla legge Europea n. 97/2013, non contiene alcuna definizione di “ufficialità”». Queste peraltro sono le indicazioni fornite dalla Comunicazione della Commissione Europea (COM (2009) 313), concernente gli orientamenti per un migliore recepimento e una migliore applicazione della direttiva 2004/38/CE […], al punto 2.2.1: «il partner con cui un cittadino dell’Unione abbia una stabile relazione di fatto, debitamente attestata, rientra nel campo di applicazione dell’art. 3, paragrafo 2, lettera b). Le persone cui la direttiva riconosce diritti in quanto partner stabili possono essere tenute a presentare prove documentali che dimostrino la loro qualità di partner di cittadini UE e la stabilità della relazione. La prova può essere fornita con ogni mezzo idoneo».
[28] L’efficace sintesi in P. Morozzo della Rocca, La convivenza di fatto e il diritto di soggiorno del partner straniero del cittadino italiano o europeo, in Dir. imm. e citt., 2022, 201.
[29] V., fra poc’anzi, nel testo di questo stesso paragrafo, a commento dell’art. 23 d.lgs. 30/2007.
[30] P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 851.
[31] P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 851.
[32] P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 851.
[33] Ma in ogni caso essendo, in generale, ammesso ad adottare disposizioni interne più favorevoli di quelle apprestate dalla direttiva a garanzia “minima”: v. considerando n. 29 e art. 37 direttiva 2004/38/CE.
[34] Ciò che, per il vero, già emergeva dalla previsione di cui all’art. 28, comma 2, t.u.imm., alla cui stregua «ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1656» – oggi sostituito dal d.lgs. n. 30/2007 – «fatte salve quelle più favorevoli del presente testo unico o del regolamento di attuazione».
[35] Osserva P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 849 ss., spec. 854: l’art. 23 del d.lgs. 30/2007 è «disposizione non scontata perché non obbligata dalla direttiva che, anzi, subordina il diritto alla coesione familiare all’esercizio in concreto del diritto di circolazione da parte del cittadino europeo che dunque, per invocarne il rispetto, dovrebbe recarsi in un paese dell’area Schengen diverso dal proprio».
[36] P. Morozzo della Rocca, Il diritto alla coesione familiare prima e dopo la legge n. 76 del 2016, in Giur. it., 2017, 585, definisce l’art. 23 d.lgs. 30/2007 «una generosa clausola di estensione della disciplina della coesione familiare col cittadino europeo anche ai familiari del cittadino italiano che pur non avesse esercitato il diritto di circolazione»; sulle questioni interpretative poste dalla norma v. ancora Id., Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 849 ss.
[37] Sul punto si veda A. Zanobetti Pagnetti, Il ricongiungimento familiare fra diritto comunitario, norme sull’immigrazione e rispetto del diritto alla vita familiare, in Fam. dir., 2004, 552 ss. Sia consentito rinviare anche a L. Pascucci, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare: la messa a punto della Cassazione, cit., 840-841. In giurisprudenza cfr. Cass. 17 dicembre 2010, n. 25661, in De Jure; Cass. 1° marzo 2010, n. 4868, in Giust. civ., 2011, I, 2180. V. anche Cass. 23 luglio 2010, n. 17346, in Corr. giur., 2010, 1582 ss., con nota di P. Morozzo della Rocca, Sul coniuge di cittadino europeo (italiano) la Cassazione non si conforma alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
[38] D.l. 13 giugno 2023, n. 69 («Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano»), convertito (con modifiche) in l. 10 agosto 2023, n. 103.
[39] Art. 5, comma 8, t.u.imm.
[40] E, forse, anche per ciò che concerne le condizioni “oggettive” di ingresso e soggiorno agevolate, di contro ai rigidi requisiti di reddito, alloggio, assicurazione sanitaria etc. di cui alla disciplina nazionale sull’immigrazione, non foss’altro che – appunto – per la limitatezza del rinvio (e conseguente tassatività delle disposizioni richiamate) alle norme (recte, all’unica norma, l’art. 5, comma 8) del t.u.imm., oltre che per il rilievo – strettamente connesso – che è lo stesso comma 1-bis dell’art. 23 d.lgs. 30/2007 a dettare la disciplina materiale (id est, il regime) del titolo di soggiorno del familiare straniero del cittadino italiano statico, senza appunto rinviare alle corrispondenti norme del t.u.imm. (peraltro contenenti un regime ancora diverso) sul «Permesso di soggiorno per motivi familiari» (art. 30), né agli altri commi dell’art. 5 t.u.imm. sul «Permesso di soggiorno», tantomeno, come visto, all’art. 29 t.u.imm. sui rigidi requisiti soggettivi e oggettivi di ammissione al ricongiungimento familiare. Secondo P. Morozzo della Rocca, La disciplina sostanziale della coesione familiare con il cittadino italiano (forse) non è cambiata, in Immigrazione.it, 1 settembre 2023, ai familiari extra U.E. dei cittadini italiani c.d. statici continua ad applicarsi, su scelta dell’interessato, la disciplina più favorevole di derivazione unionale contenuta nel d.lgs. 30/2007, a tal fine l’autore invocando, sotto il profilo formale/testuale: – la rubrica dell’art. 18-ter d.l. n. 69/2023 («Disposizioni in materia di carte di identità dei cittadini dell’Unione europea e dei titoli di soggiorno rilasciati ai cittadini dell’Unione europea e ai loro familiari che esercitano il diritto alla libera circolazione-Caso ARES (2023) 2033572)», che testimonia, insieme alla rubrica dello stesso decreto n. 69/2023 e, altresì, unitamente a quanto si desume dai lavori preparatori – dunque con il conforto anche di un criterio di «interpretazione storico-psicologica» – come la modifica dell’art. 23 sia stata introdotta «al solo fine di evitare una procedura di infrazione (o di pre-infrazione) riguardante esigenze di sicurezza dei documenti di soggiorno»; – la previsione dell’art. 28, comma 2, t.u.imm., il quale dispone che «ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell’Unione europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1965, n. 1656 (ndr: oggi sostituito dal d.lgs. n. 30 del 2007) fatte salve quelle più favorevoli del presente testo unico o del regolamento di attuazione»; nonché, sul piano sostanziale, l’esigenza di scongiurare l’increscioso fenomeno delle discriminazioni a rovescio, «in quanto al cittadino italiano sarebbe inibito il ricongiungimento con quei medesimi parenti che rimarranno invece ricongiungibili al cittadino europeo residente in Italia».
[41] Sulla «recezione minimalista» delle norme della direttiva relative alle unioni non coniugali già P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 851.
[42] Cass. 17 marzo 2009, n. 6441, in Nuova giur. civ. comm., 2009, pt. I, 829 ss., con nota di L. Pascucci, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare: la messa a punto della Cassazione, cit., in Fam. dir., 2009, 454 ss., con nota di M. Acierno, Ricongiungimento familiare per le coppie di fatto: la pronuncia della Cassazione, in Corr. giur., 2010, 91, con nota di B. Nascimbene, Unioni di fatto e matrimonio fra omosessuali. Orientamenti del giudice nazionale e della Corte di Giustizia, in Giur. it., 2009, 2644, con nota di R. De Meo e V. Mancinelli, Convivenza e ricongiungimento familiare, ivi, 2009, 2644, con nota di P. Valore, Identità di sesso e ricongiungimento familiare.
[43] Cfr. G. Di Rosa, Disciplina interna e regole comunitarie in tema di ricongiungimento “familiare” dei conviventi, in Fam. pers. succ., 2009, n. 10, 830 ss., par. 2. E v. anche F.R. Fantetti, Ricongiungimento familiare, libertà di circolazione ed ordine pubblico, in Fam. pers. succ., 2010, 611 ss.
[44] G. Di Rosa, Disciplina interna e regole comunitarie in tema di ricongiungimento “familiare” dei conviventi, cit., 830 ss., par. 2. Ricordiamo, invero, che ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 30/2007, e omologa previsione della direttiva 2004/38/CE, si intende per «familiare» «il partner che abbia contratto con il cittadino dell’Unione un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante».
[45] V. par. 6.
[46] Legge 20 maggio 2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» (GU Serie Generale n. 118 del 21-05-2016), entrata in vigore il 5 giugno 2016.
[47] La previsione del comma 20 viene ordinariamente letta come una «clausola generale di equivalenza» al matrimonio (così è definita nel parere approvato dalla 2ª Commissione permanente: cfr. il resoconto sommario n. 351 del 16 novembre 2016), almeno con riguardo ai cosiddetti effetti «pubblicistici» o «indiretti», quali quelli prevalentemente disciplinati al di fuori del codice civile, le cui disposizioni, invece, valgono per l’unione civile solo se espressamente richiamate dalla l. n. 76/2016: cfr. R. Campione, L’unione civile tra disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, in M. Blasi, R. Campione, A. Figone, F. Mecenate, G. Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Giappichelli, 2016, 6.
[48] Sul ricongiungimento tra partner di unioni civili ai sensi della disciplina del t.u.imm. (e cioè, in particolare, il ricongiungimento tra partner entrambi stranieri) sia consentito rinviare a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 61 ss.; Ead., Il ricongiungimento familiare tra partner stranieri nel diritto dell’immigrazione, cit., 459 ss.
[49] Cfr., fra tante, CGUE 7 luglio 1992, c. 370/90, Singh, cit.; CGUE 11 luglio 2002, c. 60/00, Carpenter, cit.; CGUE 14 novembre 2017, c. 165/16, Lounes, cit.; CGUE, Grande Sez., 5 giugno 2018, n. 673, Coman, cit.
[50] V. già par. 3.
[51] Invero, la norma condiziona la libertà di circolazione e soggiorno del partner extra U.E., e connesso godimento dell’unità familiare, alla «legislazione dello Stato membro ospitante» («qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante»), sì che poco conta che l’unione sia stata contratta in uno Stato U.E. od extra U.E., mancando – appunto – qualsivoglia riconoscimento automatico dell’unione. In altri termini, la “garanzia” rappresentata dall’essere il vincolo contratto in uno Stato U.E. avrebbe un senso solo nella misura in cui a ciò seguisse – recte, ad essa fosse stato normativamente ricollegato – un riconoscimento pressoché automatico dell’unione, senza allora rimettere alla legislazione dello Stato ospitante, posto che altrimenti la limitazione geografica si rivela, dal lato delle unioni contratte in Stati U.E., priva di utilità (inutiliter data) e, dal lato delle unioni contratte in territorio extra U.E. (escluse), priva di ragionevole giustificazione.
[52] V. considerando n. 29 e art. 37 direttiva 2004/38/CE.
[53] Del resto, ad una operatività della clausola di equiparazione di cui al comma 20 nei soli riguardi delle unioni civili di diritto italiano (e cioè contratte ai sensi della legge 76, sia pur eventualmente celebrate all’estero presso consolati italiani ove uno dei partner sia cittadino italiano), o al più nei riguardi delle sole unioni di diritto straniero che presentino uno stretto collegamento con l’ordinamento giuridico italiano tale da giustificare l’applicazione in via pressoché automatica e necessaria della legge italiana, si perviene applicando i consueti meccanismi di riconoscibilità previsti dalle norme di diritto internazionale privato. Invero, la clausola di equiparazione ai coniugi di cui al comma 20 opera, per espressa disposizione dell’art. 32-quinquies l. 218/1995, per le sole unioni contratte all’estero da cittadini entrambi italiani abitualmente residenti in Italia, che invero producono gli effetti dell’unione civile regolata dal diritto italiano (con dunque piena equiparazione ai coniugi ex art. 1, comma 20, l. 76/2016). Mentre le unioni contratte all’estero tra cittadini stranieri (per es., per come ivi di interesse, tra un cittadino europeo ed un cittadino extraeuropeo), oppure (sempre come qui rileva) tra un cittadino di Stato terzo e un cittadino italiano, ricadono nell’ambito dell’art. 32-ter l. 218/1995, alla cui stregua non v’è applicazione necessaria o automatica della legge italiana, ma il vincolo sarà regolato, quanto ad effetti – e sempre che sia valido per requisiti di capacità e forma ai sensi delle leggi richiamate dai commi 1 e 3 dell’art. 32-ter – alla stregua delle leggi di cui al comma 4 dell’art. 32-ter e, cioè, in linea di principio, la legge del Paese di costituzione dell’unione o, a richiesta di una delle parti, e su disposizione del giudice, la legge dello Stato in cui la vita comune è prevalentemente localizzata.
[54] Sia pur, all’evidenza, in un rapporto di difficile equilibrio con le norme interne di diritto internazionale privato dedicate alle convivenze more uxorio di cui alla l. 76/2016, ponendosi invero un problema di riconoscibilità (id est, di ingresso in Italia) di dette unioni de facto ai sensi dei criteri posti dalle menzionate norme, che offrono spesso una tutela parziale e condizionata e per l’effetto recano un problema di compatibilità con la normativa di derivazione europea: invero, condizionare ulteriormente (id est, oltre i requisiti di ammissibilità già contemplati dal d.lgs. 30/2007) ai meccanismi di riconoscibilità di cui alle novelle norme di conflitto domestiche rischia di neutralizzare gli effetti delle norme di derivazione europea e di rendere ineffettive le libertà fondamentali previste dal Trattato (per questi rilievi v. già Trib. Reggio Emilia 13 febbraio 2012, n. 1041, in Dir. fam. pers., 2012, 1650, con nota di R. De Felice, La libertà di circolazione dei coniugi dello stesso sesso nello spazio di libertà dell’Unione). Nella specie, rileverebbe l’art. 30-bis l. 218/1995, pur applicato in via analogica, che però offre una soluzione soltanto parziale, giacché si limita a designare la legge applicabile al «contratto di convivenza» che le parti possono stipulare per regolare – a rigore – i soli aspetti patrimoniali dell’unione, mentre risultano attualmente sfornite di disciplina di conflitto tutte le questioni non suscettibili di essere regolate su base contrattuale: in argomento cfr. C. Campiglio, La disciplina delle unioni civili transnazionali e dei matrimoni esteri tra persone dello stesso sesso, in Riv. dir. int. priv. proc., 2017, 66; D. Zannoni, Gli effetti nell’ordinamento italiano delle unioni civili e dei matrimoni “same-sex” conclusi all’estero, in DPCE online, 2020, fasc. 1, 254. Tuttavia, sull’utilizzo, e eventuale utilità, del contratto di convivenza (anche) ai fini che ci occupano e, più esattamente, al fine di comprovare la convivenza sulla cui base poi richiedere un titolo di soggiorno per motivi familiari, sia consentito rinviare al par. 6.
[55] P. Morozzo della Rocca, Il diritto alla coesione familiare prima e dopo la legge n. 76 del 2016, cit., 589.
[56] P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 589 (corsivo nel testo aggiunto).
[57] CGUE, Grande Sez., 5 giugno 2018, n. 673, Coman, cit. (v. infra, par. 7).
[58] V. supra, par. 2.
[59] Sulla pretesa legittimità ed opportunità della scelta legislativa e conseguente diverso regime vigente per modelli familiari (id est, ricongiungimento ammesso per gli uniti civilmente ed invece negato ai conviventi more uxorio) v. ancora L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 75 ss.; Ead., Il ricongiungimento familiare tra partner stranieri nel diritto dell’immigrazione, cit., 465 ss.
[60] V. già par. 3.
[61] Dunque, una coppia di fatto, tanto etero quanto omosessuale, formata da almeno un cittadino europeo (compreso il cittadino italiano), rispetto ad una coppia formata da cittadini entrambi stranieri (recte, entrambi cittadini di Stati terzi) – cui, allora, si applica la più restrittiva disciplina interna sull’immigrazione – sarà ammessa a godere del diritto all’unità familiare ai sensi della normativa di derivazione europea (eventualmente combinata, al cospetto di un cittadino italiano c.d. statico, con le norme del t.u.imm. per modalità di rilascio e diverso regime del titolo di soggiorno). Più esplicitamente, il cittadino di Stato terzo, se partner di un cittadino U.E. o di un cittadino italiano, vedrà garantito il suo diritto all’unità familiare al seguito del convivente, mentre il cittadino di Stato terzo partner di un connazionale o comunque di un cittadino di (altro) Stato extra U.E. si vedrà negata ogni possibilità di ricongiungimento. Sul punto, sia consentito rinviare a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 75 ss.; Ead., Il ricongiungimento familiare tra partner stranieri nel diritto dell’immigrazione, cit., 469 ss.
[62] In questo senso pare orientato CdS, sez. III, 31 ottobre 2017, n. 5040, in D&G, 6 novembre 2017, con nota di M. Bombi, che consente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, di cui all’art. 30, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 286 del 1998, anche al convivente straniero di cittadino italiano, «purché ne ricorrano le condizioni, formali e sostanziali, ora previste dalla stessa l. n. 76 del 2016 (e, in particolare, dall’art. 1, commi 36 e 37)». Contra, Cass. 17 febbraio 2020, n. 3876, cit., la quale, però, solo in via di principio ha pronunciato nel merito dei rapporti tra la disciplina di derivazione europea (d.lgs. n. 30/2007) e la sopravvenuta legge 76/2016 a tutela delle convivenze, posto che la fattispecie decisa non ricadeva, ratione temporis, sotto il vigore della legge 76/2016, dunque inoperante: si afferma invero che la relazione di fatto stabile tra partner straniero e cittadino U.E., debitamente attestata con documentazione ufficiale ai sensi del d.lgs. 30/2007, art. 3, comma 2, lett. b, ai fini del rilascio della carta di soggiorno di cui all’art. 10 del medesimo decreto «può essere documentata non esclusivamente attraverso gli strumenti previsti dalla L. n. 76 del 2016, in materia di unioni civili, nella specie inoperanti, attesa l’epoca di presentazione dell’istanza, e quindi vagliando anche l’atto di nascita del minore o altra documentazione idonea».
[63] Tesi senz’altro minoritaria in dottrina ed in giurisprudenza: sul punto cfr., ma ivi senza pretesa di esaustività, D. Berloco, La disciplina della convivenza, in Aa.Vv., Lavorare nei servizi demografici. Manuale per il concorso e l’inserimento in servizio, Sepel Editrice, 2021, 241 ss.; N. Corvino, La convivenza di fatto tra cittadino italiano residente e straniera non iscritta in anagrafe e priva di titolo di soggiorno. Prima parte, in Stato civ. it., 2022, n. 2, 45 ss.; F.P. Luiso, La convivenza di fatto dopo la L. 76/2016, in Dir. fam. pers., 2016, 1083 ss.; G. Buffone, L’elemento costitutivo passa per l’iscrizione agli uffici anagrafici, in Guida dir., 2016, n. 26, 22 ss.; in giurisprudenza, cfr. Trib. Venezia 29 luglio 2022, n. 3417, inedita; Trib. Verona 2 dicembre 2016, in Foro it., 2017, I, 2883. La tesi è, tuttavia, a tutt’oggi sostenuta dall’Amministrazione pubblica e di concerto dall’Avvocatura dello Stato: cfr., fra tante, Circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento per gli affari interni e territoriali, 21 settembre 2021, n. 78.
[64] Nel senso della sua irrilevanza, sul piano sostanziale, e della sua non preclusività sul piano stesso della prova, ex multis, S. Patti, Le convivenze “di fatto” tra normativa di tutela e regime opzionale, in Contratti di convivenza e contratti di affidamento fiduciario quali espressioni di un diritto civile postmoderno, ne I Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, Gruppo 24 ore, 2017, 36; M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, CEDAM, 2023, X ed., 179; L. Balestra, Commento all’art. 1, commi 36 e 37, l. 20 maggio 2016, n. 76, in Codice dell’unione civile e delle convivenze, a cura di M. Sesta, Giuffrè, 2017, 1233 ss.; L. Balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, 1786 ss. In giurisprudenza, a sostegno degli effetti meramente dichiarativi, e non costitutivi, delle dichiarazioni anagrafiche: Trib. Mantova 1° aprile 2022, in Dir. fam. pers., 2022, I, 596; v. anche Trib. Venezia 27 agosto 2021, n. 4354, in https://www.meltingpot.org/app/uploads/2021/09/ord._venezia_27.8.2021.pdf; Trib. Cuneo 30 giugno 2022, inedita; Trib. Milano 31 maggio 2016, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1473.
[65] Circolare del Ministero dell’Interno 21 settembre 2021, n. 78, cit., la quale, richiamando un parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, ribadisce che dalla disciplina di cui alla legge 76/2016 emerge che la costituzione della convivenza di fatto passa necessariamente per la dichiarazione registrata all’anagrafe di cui al comma 37 della legge e quindi non può prescindere dalla regolarità del soggiorno dei richiedenti. E vedi già Circolare della Direzione Centrale per i Servizi Demografici del Ministero dell’Interno del 1° giugno 2016, secondo la quale, ai sensi del comma 37 della legge 76/2016, presupposto essenziale della convivenza di fatto è la «famiglia anagrafica» di cui all’art. 4 del d.P.R. 223/1989 nonché le dichiarazioni anagrafiche di cui all’art. 13 del medesimo d.P.R. Ed ancora Ministero dell’Interno – Dipartimento per gli affari interni e territoriali, Direzione centrale per i servizi demografici, 26 maggio 2021, ove si precisa che la legge 76/2016 non ammette equivalenti per la prova della stabile convivenza rispetto alla dichiarazione anagrafica, ed ancora che l’iscrizione anagrafica dei cittadini di Stati terzi è subordinata alla presentazione, unitamente alla dichiarazione, dei documenti attestanti la regolarità del soggiorno, come emerge dall’art. 6, comma 7, t.u. imm., da cui si deduce che l’iscrizione anagrafica dello straniero si effettua alle medesime condizioni dei cittadini italiani con il solo presupposto ulteriore della regolarità del soggiorno e, cioè, previa verifica della regolarità del soggiorno (la norma prevede che «Le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione»). Similmente già Circolare del Ministero dell’Interno del 27 aprile 2012.
[66] In generale, per una ricognizione delle prassi amministrative in materia si vedano R. Calvigioni, Manuale operativo per lo stato civile, Maggioli Editore, 2023; L. Palmieri, R. Minardi, Gli stranieri e l’anagrafe, Maggioli Editore, 2017.
[67] Infatti, gli ufficiali di anagrafe e la direzione dei servizi demografici del Ministero dell’interno rilevano l’impossibilità di iscrivere all’anagrafe il partner privo di permesso di soggiorno e conseguentemente di dichiarare la convivenza di fatto, in quanto la stessa potrebbe riguardare solo due soggetti iscritti al medesimo indirizzo in A.N.P.R. e dunque, se stranieri, già provvisti del titolo di soggiorno.
[68] Fra tante, Trib. Modena 7 febbraio 2020, in Stato civ. it., 2020, 5, 49 ss., con nota di P. Morozzo della Rocca, Può il convivente straniero del cittadino italiano o europeo iscriversi all’anagrafe senza il permesso di soggiorno?; Trib. Modena 29 febbraio 2020, inedita; Trib. Ancona 19 aprile 2021, inedita; Trib. Urbino 21 febbraio 2021, inedita; Trib. Milano 24 aprile 2021, in https://www.meltingpot.org/app/uploads/2021/05/tribunale_milano_ordinanza_24042021.pdf; Trib. Bologna 3 febbraio 2020, in Dir. imm. e citt., 2022, n. 2, 1; Trib. Mantova 1° aprile 2022, cit.; Trib. Bologna 1° dicembre 2022, in ForoPlus; Trib. Venezia 27 agosto 2021, n. 4354, cit.; sulla non necessità di un previo soggiorno regolare, con riferimento al partner de facto ex art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007, v. anche Cass. 17 febbraio 2020, n. 3876, cit., e già, con riferimento al coniuge, Cass. 15 giugno 2011, n. 13112, in De Jure; Cass. 9 febbraio 2011, n. 3210, in Giust. civ., 2013, I, 230; Cass. 23 maggio 2013, n. 12745, in De Jure. Contra, a quanto consta isolate sul punto, Trib. Venezia 29 luglio 2022, n. 3417, cit.; nonché Trib. Prato 31 agosto 2022, in Stato civ. it., 2023, 43 ss., con osservazioni di S. Rafanelli, Il convivente di fatto privo di permesso di soggiorno in possesso del contratto di convivenza: l’iscrizione anagrafica non è dovuta e lo dice anche il Tribunale.
[69] In generale, sulla funzione dei contratti di convivenza nell’evoluzione del diritto di famiglia cfr. L. Balestra., Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, cit., 1787 ss.; Id., La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione, in Fam. dir., 2016, 919 ss.; Id, I contratti di convivenza, in Fam. pers. succ., 2006, 43 ss.; E. Moscati, A. Zoppini (a cura di), I contratti di convivenza, Giappichelli, 2002, passim; A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il “nuovo” diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in E. Moscati, A. Zoppini (a cura di), I contratti di convivenza, cit., 335 ss.; M. Franzoni, I contratti tra conviventi “more uxorio”, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 737 ss.
[70] Cfr. citazioni in nota 68, cui adde Trib. Genova 22 luglio 2022, n. 874, in https://immigrazione.it/giurisprudenza/ambito/31/1; Trib. Catania 3 febbraio 2021, in www.meltingpot.org; Trib. Benevento 19 gennaio 2022, r.g. 4387/2021, in www.meltingpot.org; Trib. Foggia 30 novembre 2022, Trib. Torre Annunziata 9 dicembre 2022, Trib. Napoli 27 giugno 2022, Trib. Torre Annunziata 11 novembre 2022, tutte reperibili in https://www.questionegiustizia.it/articolo/ordinanze-contratto-convivenza; Trib. Milano 30 giugno 2023, in https://www.primogrado.com/convivenza-tra-cittadino-italiano-e-cittadino-straniero-ai-fini-dell-iscrizione-anagrafica. Attribuisce valore pregnante al contratto di convivenza, sia pur nella limitrofa materia dei divieti di espulsione, anche Cass., sez. pen., 18 ottobre 2016, n. 44182, in De Jure, secondo la quale «la convivenza dello straniero con una cittadina italiana riconosciuta con «contratto di convivenza» disciplinato dalla legge 20 maggio 2016, n. 76 è ostativa all’espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione di cui al Decreto Legislativo n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lettera c) […]». Sia consentito rinviare a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 87 ss.
[71] Circolare del Ministero dell’Interno 21 settembre 2021, n. 78, cit.: la costituzione della convivenza di fatto passa necessariamente per la dichiarazione registrata all’anagrafe di cui al comma 37 della legge e quindi non può prescindere dalla regolarità del soggiorno dei richiedenti, mentre la registrazione del contratto di convivenza è solo l’ultimo, ed eventuale, di una serie imprescindibile di atti. Pertanto, richiamando un parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, si ribadisce che «alla registrazione del contratto di convivenza non può essere certamente riconosciuto il carattere di debita attestazione, dal momento che, a monte, manca la preliminare regolarità del soggiorno in Italia» del soggetto extra U.E. «necessaria per concludere il contratto stesso». E vedi già Circolare della Direzione Centrale per i Servizi Demografici del Ministero dell’Interno del 1° giugno 2016, cit., secondo la quale, ai sensi del comma 37 della legge 76/2016, presupposto essenziale della convivenza di fatto è la «famiglia anagrafica» di cui all’art. 4 del d.P.R. 223/1989 nonché le dichiarazioni anagrafiche di cui all’art. 13 del medesimo d.P.R., mentre il contratto di convivenza, ai sensi dei commi 50 e ss. della legge 76/2016, regola i rapporti patrimoniali tra i conviventi e di esso è prevista la registrazione in anagrafe al solo ed unico scopo di consentirne l’opponibilità ai terzi: la registrazione del contratto di convivenza, infatti, produce effetti distinti e non sovrapponibili all’iscrizione anagrafica vera e propria, anzi la presuppone in quanto evento logicamente e giuridicamente successivo all’iscrizione della convivenza di fatto in quanto tale. È dunque contraria alla normativa la richiesta di registrazione di un contratto di convivenza con contestuale richiesta di conseguire automaticamente anche l’iscrizione anagrafica dei contraenti, in quanto l’iscrizione anagrafica è presupposto imprescindibile per la registrazione del contratto.
[72] Del resto, l’interpretazione prevalente è nel senso della sua irrilevanza, sul piano sostanziale, e della sua non preclusività sul piano stesso della prova: v. già supra, nt. 64.
[73] Oltre al contratto di convivenza vengono, per esempio, fatti rilevare: fotografie della coppia presenti sui social network, biglietti aerei e ferroviari, conversazioni whatsapp, ricevute per prestazioni sanitarie, trasferimenti di denaro, contratto di comodato a dimostrazione della disponibilità dell’alloggio dove la coppia intende stabilirsi, et similia (Trib. Modena 29 febbraio 2020, cit.).
[74] Motivo per cui il modello di convivenza di cui alla legge 76/2016 – per come recepito dalle prassi amministrative – risulta ancor più «inservibile» (così P. Morozzo della Rocca, Il ricongiungimento con il familiare residente all’estero: categorie civilistiche e diritto dell’immigrazione, Giappichelli, 2020, 27-28) ai fini del ricongiungimento fra partner di fatto entrambi cittadini di Stati terzi. Non potendosene trattare in questa sede, sia consentito il rinvio a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 75 ss., e, in particolare, a commento dell’art. 6 t.u.imm., si legga P. Morozzo della Rocca, Ancora sul convivente senza permesso di soggiorno del cittadino italiano o europeo, in Stato civ. it., 2023, 47 ss.
[75] In particolare, per le coppie di fatto con almeno un cittadino U.E., le norme di derivazione europea che pur richiedono, a fini del soggiorno in Italia superiore a tre mesi, l’iscrizione anagrafica del familiare extra U.E. (compreso il partner di fatto) prescindono da «un autonomo diritto di soggiorno» (art. 9 d.lgs. 30/2007), mentre le norme del testo unico immigrazione (dunque con riguardo a fattispecie che coinvolgono cittadini entrambi di Stati terzi) prevedono che le iscrizioni anagrafiche dello straniero presuppongono la previa verifica della regolarità del soggiorno (art. 6, comma 7, t.u.imm.).
[76] Ricordiamo, invero, la vigenza dell’art. 23 d.lgs. n. 30/2007, pur recentemente novellato e “corretto” (dal d.l. n. 69/2023), e l’immutato testo dell’art. 28, comma 2, t.u.imm. (v. già par. 3).
[77] Invero, nella causa Metock (CGUE, Grande Sez., 25 luglio 2008, c. 127/08, Baheten Metock et al. c. Irlanda, cit.) la Corte di Giustizia ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2004/38/CE (in considerazione dell’art. 8 CEDU) una normativa interna che imponesse la condizione del previo soggiorno regolare in uno Stato membro, prima dell’arrivo nello Stato ospitante, quale condizione per ammettere il «familiare» (ex art. 2 direttiva) che accompagnasse o raggiungesse il cittadino europeo in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza al godimento, nello Stato ospitante, del permesso di soggiorno per motivi familiari, da riconoscersi dunque – statuisce la Corte – a prescindere dall’aver già soggiornato regolarmente in altro Stato membro.
[78] In adesione alla Corte di giustizia cfr. Cass. 13 febbraio 2020, n. 3876, cit., che afferma il diritto al rilascio della carta di soggiorno, in qualità di familiare, al convivente non coniugato di cittadina europea, ancorché in condizione di soggiorno irregolare. Per una rassegna di precedenti di legittimità, invece, in contrasto con il diritto europeo, così come autenticamente interpretato dalla Corte di giustizia nel caso Metock, si veda P. Morozzo della Rocca, Il diritto all’unità familiare e le sue discipline, cit., 150.
[79] Precisiamo, peraltro, che le incertezze sull’ammissione o meno del diritto all’unità familiare fra partner di fatto riguarda non solo le convivenze formatesi in Italia, e cioè da costituire/formalizzare in Italia, ma ancor più quelle formatesi all’estero – id est «debitamente attestate» in Stati diversi dall’Italia, compresi, a seguito della modifica del 2013, gli Stati extraeuropei –, per le quali si pone a monte un problema di riconoscibilità ai sensi dei criteri dettati dalle novelle norme di diritto internazionale privato, che spesso offrono soluzioni parziali (v. supra, sub art. 30-bis l. 218/1995) e per l’effetto recano un problema di compatibilità con la normativa di derivazione europea. Ove, infatti, dette unioni de facto non trovassero ingresso in Italia ai sensi dei meccanismi di diritto internazionale privato, da un lato si pone il problema di una libertà fondamentale garantita dal Trattato che verrebbe resa ineffettiva dalle norme domestiche. Dall’altro, si ripropongono (recte, si pongono anche per esse) le criticità legate alla costituzione in Italia di una convivenza fra partner (e pur, in questo caso, già partner attestati in altro Stato) non entrambi residenti in Italia (id est, di cui uno sia cittadino straniero irregolare), la convivenza di fatto di cui alla legge Cirinnà essendo istituto destinato (o comunque così applicato) ai soli residenti in Italia, tanto cittadini italiani, quanto cittadini stranieri (dunque, per essere residenti, regolari): cfr. Circolare del Ministero dell’Interno del 6 febbraio 2017, n. 231, in https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2017/11/2017_ministero-interno-parere-231.pdf, che afferma che la disciplina delle convivenze more uxorio ex lege 76/2016 si applica solo ai cittadini italiani o stranieri residenti in Italia, e altresì precisa che non si applica ai cittadini iscritti in AIRE.
[80] Pensiamo, infatti, all’imposizione di condizioni aggiuntive, a livello di prassi amministrativa, rispetto a quanto più agevolmente richiede la direttiva 2004/38/CE per ammettere il cittadino extra U.E. a godere dell’unità familiare con il partner europeo. Quanto all’orientamento giurisprudenziale che vi si oppone, ferma l’attendibilità dell’esito cui ambisce – e pur impregiudicata la necessaria fermezza contro prassi elusive della normativa, da potersi in ogni caso vincere, a prescindere dal lasciapassare dell’iscrizione anagrafica, con gli strumenti all’uopo positivamente previsti (v. infra, nel testo di questo paragrafo) – la forzatura si scorge nel percorso argomentativo concretamente addotto, posto che all’evidenza il contratto di convivenza, da documento (elemento) accessorio e non necessario nella generalità dei casi, se non appunto ed eventualmente per regolamentare i rapporti patrimoniali tra le parti (art. 1, comma 50, l. 76/2016), assurge ad elemento essenziale con riguardo alle convivenze con cittadini stranieri non regolari sul territorio nazionale. In altri termini, far discendere dal contratto di convivenza, previsto dalla legge come meramente facoltativo e dall’oggetto estremamente limitato, il riconoscimento dell’esistenza del rapporto stesso rappresenta una indubbia forzatura interpretativa non corrispondente alla natura dell’istituto delineato dal legislatore: così S. Rafanelli, Il convivente di fatto privo di permesso di soggiorno in possesso del contratto di convivenza: l’iscrizione anagrafica non è dovuta e lo dice anche il Tribunale, cit., 48.
[81] Art. 3.2 direttiva 2004/38/CE: «Senza pregiudizio del diritto personale di libera circolazione e di soggiorno dell’interessato, lo Stato membro ospitante, conformemente alla sua legislazione nazionale, agevola l’ingresso e il soggiorno delle seguenti persone (…)».
[82] Non può, invero, andar negletto il considerando n. 6 della direttiva, il quale prevede che la situazione dei non familiari di cui all’art. 2 debba essere «esaminata dallo Stato membro ospitante sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l’ingresso e il soggiorno possano essere concessi a tali persone …».
[83] Circolare del Ministero dell’Interno 18 luglio 2007, n. 39, cit.
[84] V. già par. 3.
[85] P. Morozzo della Rocca, Cittadinanza europea, libertà di circolazione e famiglie senza matrimonio, cit., 851.
[86] P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 851.
[87] Pur infondato, posto che in entrambi i casi non vi sarebbe stata alcuna iscrizione di atti nei registri dello stato civile: così P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 851.
[88] Va invero precisato che il permesso di soggiorno per residenza elettiva, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, «non comporta un riconoscimento formale e diretto della coesione familiare, che si avrebbe solo col rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari o della carta di soggiorno per familiari di cittadino europeo. Non costituisce, dunque, quel passo in avanti che, tra i familiari di fatto, soprattutto i partner omosessuali hanno cercato e cercano di ottenere, affermando i loro diritti di eguaglianza nella differenza rispetto alle coppie eterosessuali ed in particolare riguardo ai matrimoni eterosessuali»: P. Morozzo della Rocca, op. ult. cit., 858.
[89] Cass. 24 aprile 2024, n. 11033, in ForoPlus.
[90] Cass. 24 aprile 2024, n. 11033, cit. La sentenza può dirsi solo in parte anticipata dalla già citata Cass. 17 febbraio 2020, n. 3876 e dalla conforme Cass. 18 febbraio 2021, n. 4394, in ForoPlus, posto che in detti precedenti la convivenza veniva ritenuta comprovabile, in ogni caso, solo mediante prove documentali (sia pur senza il necessario crisma dell’«ufficialità»).
[91] Espressione di P. Morozzo della Rocca, Il diritto all’unità familiare e le sue discipline, cit., 155.
[92] «Abuso di diritto»: «Gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare un diritto conferito dalla presente direttiva, in caso di abuso di diritto o frode, quale ad esempio un matrimonio fittizio. Qualsiasi misura di questo tipo è proporzionata ed è soggetta alle garanzie procedurali previste agli articoli 30 e 31». In giurisprudenza cfr. Cass. 14 maggio 2024, n. 13189, in One Legale; Cass. 19 febbraio 2024, n. 4324, ibidem.
[93] «Per difendersi da abusi di diritto o da frodi, in particolare matrimoni di convenienza o altri tipi di relazioni contratte all’unico scopo di usufruire del diritto di libera circolazione e soggiorno, gli Stati membri dovrebbero avere la possibilità di adottare le necessarie misure».
[94] In argomento v. C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, Giappichelli, 2014, 236 ss.; M. Di Filippo, La circolazione dello straniero nel diritto dell’Unione europea: una geometria variabile dei diritti e delle garanzie, in A.M. Calamia, M. Di Filippo, M. Gestri, Immigrazione, Diritto e Diritti: profili internazionalistici ed europei, CEDAM, 2012, 189 ss.
[95] Rinviando, lo ricordiamo, alle condizioni previste dalla legislazione dello Stato membro ospitante, e altresì subordinando al fatto che il vincolo sia stato contratto in uno Stato necessariamente U.E. (art. 2, punto 2, lett. b, direttiva, e omologa previsione del d.lgs. 30/2007).
[96] Cfr. la Posizione Comune n. 6/2004 definita dal Consiglio il 5/12/2003.
[97] Corte giust., Grande Sez., 5 giugno 2018, n. 673, Coman, cit. (v. già in nt. 10).
[98] Nel caso di specie, la direttiva 2004/38/CE risulta applicabile solo per analogia, occorrendo applicare direttamente l’art. 21, par. 1, TFUE, con condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva. Ricordiamo, invero, che è ormai pacifico nella stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia che, ancorché la direttiva 2004/38/CE si applichi a tutti i cittadini dell’Unione che si spostino in uno Stato membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, la stessa possa essere applicata (seppure in via analogica) anche ai cittadini dell’Unione che ritornino nel proprio Stato di origine dopo aver esercitato il diritto alla libera circolazione (e dunque soggiornato) in altro Stato dell’Unione: v. già citazioni in nota 10.
[99] Afferma la Corte che l’art. 21, par. 1, TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti dello Stato membro di cui il cittadino dell’Unione ha la cittadinanza rifiutino di concedere un diritto di soggiorno al cittadino extra-europeo cui il cittadino dell’Unione si sia unito in matrimonio same-sex nell’esercizio della sua libertà di circolazione in altro Stato U.E., adducendo – a pretesa giustificazione del rifiuto – il fatto che l’ordinamento interno non preveda il matrimonio tra persone dello stesso sesso: CGUE, Grande Sez., 5 giugno 2018, n. 673, Coman, cit., par. 51.
[100] Cfr. Trib. Reggio Emilia 13 febbraio 2012, n. 1041, cit.; Trib. Pescara 15 gennaio 2013, in http://www.articolo29.it. V. anche Trib. Verona 5 dicembre 2014, in http://www.certidiritti.it.
[101] Memorandum del 26 ottobre 2012, n. 400/C/2012/8996/IIdiv. Uno studio del 2013 ha evidenziato che, a seguito della suddetta Circolare del 2012, gli uffici dell’immigrazione non fornivano la carta di soggiorno di cui all’articolo 10 della direttiva, ma proponevano un permesso di soggiorno per due anni: Citizens without borders, “Libertà di circolazione e residenza nell’Unione europea, una sfida per la cittadinanza europea”, 39.
[102] Ora, attraverso l’equiparazione delle coppie omosessuali ai conviventi more uxorio; ora, equiparandole alle coppie unite in matrimonio. Per una valutazione comparatistica delle soluzioni accordate dai vari Stati si veda, tra tanti, A. Cordiano, Tutela delle coppie omosessuali ed esigenze di regolamentazione, in Familia, 2004, 107-131; C. Forder, Riconoscimento e regime giuridico delle coppie omosessuali in Europa, in Riv. crit. dir. priv., 2000, 107 ss.
[103] Risoluzione 8 febbraio 1994 sulla parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità, in Medicina e morale, 1994, n. 6, 1212-1215 (v. anche P. Schlesinger, Una risoluzione del Parlamento europeo sugli omosessuali, in Corr. giur., 1994, 393); Risoluzione 16 marzo 2000 sul rispetto dei diritti umani nell’Unione europea; Relazione 10 maggio 2005 sulla protezione delle minoranze e le politiche contro la discriminazione nell’Europa allargata; Risoluzione 18 gennaio 2006 sull’omofobia in Europa.
[104] La sentenza Coman – in effetti – non chiude tutte le questioni, posto che l’equiparazione tra coniuge eterosessuale e coniuge omosessuale, a rigore, opera ai soli fini e nei soli casi che si sono delineati nel testo. Pare comunque ragionevole ritenere che la nozione lata e neutrale di coniuge, accolta ed offerta dalla Corte di Lussemburgo, possa essere estensivamente applicata (o analogicamente estesa) anche quando: 1) il cittadino dell’Unione non abbia mai esercitato la libertà di circolazione in altro Stato membro: ricordiamo, invero, l’orientamento estensivo della stessa Corte di Giustizia, volto ad ampliare l’applicazione dei principi eurounitari sostanzialmente anche a situazioni meramente interne (v. già citazioni in nota 11); 2) il matrimonio omosessuale si stato contratto in uno Stato terzo (che naturalmente lo ammetta): ricordiamo, invero, che l’art. 2, punto 2, lett. a, della direttiva, oltre a non rinviare, per la qualificazione di coniuge da ammettere al ricongiungimento, a differenza dell’art. 2, punto 2, lett. b sull’unione registrata, alle condizioni previste dalla legislazione dello Stato membro ospitante, nemmeno condiziona, sempre a differenza dell’art. 2, punto 2, lett. b, al fatto che il vincolo sia stato contratto in uno Stato necessariamente U.E. (v. già par. 4 e, funditus, L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 130 ss.).
[105] Ciò, sia in virtù delle aperture contenute nella stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, incline, come visto (v. già citazioni in note 10 e 49), ad estendere le disposizioni della direttiva 2004/38/CE (in via analogica o tramite applicazione diretta delle norme del Trattato) alle fattispecie di rientro del cittadino U.E. nel suo Stato di appartenenza dopo aver esercitato la libertà di circolazione in diverso Stato membro; sia per espresso disposto di una nostra norma interna di attuazione, l’art. 23 d.lgs. 30/2007, la quale, anche come da ultimo novellata, estende – come si è dato conto nel par. 3 – le previsioni del decreto medesimo, se più favorevoli, ai familiari non aventi la cittadinanza italiana dei cittadini italiani «che hanno esercitato il diritto di libera circolazione in ambito europeo» (art. 23, comma 1), compresi dunque i cittadini italiani che, dopo essersi spostati in altro Stato membro, facciano rientro nel proprio Paese d’origine ed ivi intendano godere della vita familiare altrove iniziata o comunque condotta.
[106] Quanto, infine, ad una eventuale estensione delle (più favorevoli) norme di derivazione unionale anche al cittadino italiano c.d. statico, che non abbia, cioè, esercitato la libertà di circolazione in altro Stato membro e che pur rivendichi il diritto all’unità familiare in Italia con il partner straniero dello stesso sesso cui si sia unito in matrimonio – per esempio – in uno Stato extra U.E., ciò parrebbe ammissibile in applicazione del pur novellato art. 23 d.lgs. 30/2007, il cui neo introdotto comma 1-bis – ancorché, come visto, meno generosamente rispetto alla originaria formulazione del 2007 – riconosce comunque un titolo di soggiorno al cittadino di Stato terzo familiare del cittadino italiano che non abbia esercitato la libertà di circolazione. Ove poi il fatto che il matrimonio omosessuale sia stato contratto in uno Stato extra U.E. si ritenga rappresentare, più che la “staticità” stessa del cittadino italiano, un ostacolo ad applicare alle fattispecie meramente interne la normativa di derivazione unionale, così come interpretata dalla Corte di Giustizia nel caso Coman – ove, come visto, la Corte parrebbe a rigore limitare ai matrimoni omosessuali contratti in Stati U.E. (ma per una lettura critica v. nota 104) – nondimeno il diritto all’unità familiare tra il cittadino italiano statico e il coniuge straniero same-sex potrebbe ricevere tutela alla stregua del diritto nazionale sull’immigrazione, se debitamente coordinato (dato il silenzio normativo e la mancanza di qualsivoglia adeguamento formale allo ius superveniens) con la novella del 2016. Ricordiamo, invero, che: – ai sensi dell’art. 28, comma 2, t.u.imm., ai familiari stranieri di cittadini italiani possono applicarsi, in luogo delle disposizioni del d.lgs. n. 30/2007 (che ha sostituito il d.P.R. n. 1656/1965), se più favorevoli le norme del t.u.imm.; – che le norme del t.u.imm. sul ricongiungimento familiare tra coniugi sono ormai da estendersi, a seguito della novella del 2016, agli uniti civilmente (art. 1, comma 20, l. 76/2016); – ed aggiungiamo ora che le norme di diritto internazionale privato che hanno completato la Legge Cirinnà prevedono (recte, vengono interpretate nel senso) che il matrimonio omosessuale contratto all’estero da almeno un cittadino italiano produca in Italia gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana (art. 32-bis l. 218/1995, su cui v. nota 107). Sì che, in qualità di (recte, riqualificati in) uniti civilmente, la coppia mista di coniugi omosessuali dovrebbe essere ammessa al ricongiungimento familiare alla stregua delle norme del t.u.imm. relative ai coniugi (artt. 29 e 30), da estendersi agli uniti civilmente ai sensi dell’art. 1, comma 20, l. 76/2016.
[107] Ivi potendo limitare a brevi cenni (e rinviando a L. Pascucci, Diritto all’unità familiare dello straniero e “nuovi” modelli di convivenza, cit., 114 ss.), valga semplicemente il rilievo che a seguito della entrata in vigore della legge Cirinnà, e della relativa disciplina attuativa, è stato testualmente previsto che i matrimoni omosessuali celebrati all’estero producano gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana (ma) solo ove contratti da cittadini entrambi italiani: neo-introdotto art. 32-bis l. 218/1995 e art. 1, comma 28, l. 76/2016. L’art. 32-bis non interviene, invece, sull’efficacia in Italia dei matrimoni omosessuali contratti all’estero da due cittadini stranieri, e la sua formulazione è dubbia anche con riguardo a quelli celebrati fra uno straniero ed un cittadino italiano (c.d. matrimoni misti). Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione (Cass. 14 maggio 2018, n. 11696, in Nuove leg. civ. comm., 2018, 1436 ss., con nota (critica) di V. Caredda, Matrimonio “misto”: efficacia e trascrivibilità, e in Fam. dir., 2019, 136 ss., con nota di M.L. Serra, Sulla trascrizione del matrimonio omosessuale estero e diritti fondamentali della persona), la quale ha applicato il medesimo regime giuridico di cui all’art. 32-bis ai matrimoni misti, con necessaria conversione dell’unione coniugale in unione civile (v. già in nota 106), mentre ha escluso l’applicazione della norma all’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un matrimonio contratto all’estero da due cittadini stranieri, da trascriversi dunque «come tale, senza operare alcuna conversione», conservando l’efficacia originaria. Di conseguenza, per il matrimonio same-sex contratto all’estero da cittadini entrambi di Stati terzi, il meccanismo di riconoscimento sarà quello generalmente applicabile in base alle norme di diritto internazionale privato, con conseguente operatività dei criteri di collegamento stabiliti negli articoli da 26 a 30 l. 218/1995 o, ove applicabili, dei regolamenti U.E. in materia matrimoniale; il riconoscimento sarà cioè «subordinato – oltre che all’accertamento della validità formale del matrimonio sulla base delle leggi alternativamente richiamate dall’art. 28 della legge n. 218/1995 – al fatto che, fatti salvi gli effetti del rinvio, la legge nazionale di entrambi i coniugi, richiamata dal precedente art. 27, preveda il matrimonio omosessuale» (D. Damascelli, La legge applicabile ai rapporti patrimoniali tra coniugi, uniti civilmente e conviventi di fatto nel diritto internazionale privato italiano e europeo, in Riv. dir. int., 2017, 1103 ss., spec. par. 2).