Il saggio indaga il diritto di libera circolazione e connesso diritto all’unità familiare del cittadino europeo soggiornante in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza, come disciplinato dalla direttiva 2004/38/CE e come attuato in Italia dal d.lgs. 30/2007. In particolare ci si sofferma sul ricongiungimento con il partner extraeuropeo di una unione registrata o di una convivenza formalizzata o ancora di un matrimonio same-sex. Invero, le aperture della direttiva verso modelli familiari diversi dal matrimonio, pur se recepite alla lettera, non hanno – di fatto – trovato terreno fertile nella disciplina interna di attuazione, che per lungo tempo è rimasta lettera morta o comunque ha offerto tutele “minimaliste”. Ed anche a seguito dell’entrata in vigore della l. 76/2016, a disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto, i problemi di coordinamento che residuano tra il diritto di derivazione unionale e la sopravvenienza legislativa di diritto interno rendono spesso tutt’altro che piena o agevole la tutela della vita familiare del cittadino U.E. con il partner extra U.E, rischiando di rendere ineffettive libertà fondamentali previste dal Trattato.
The essay investigates the right of free movement and related right to family unity of European citizens residing in a Member State other than their home state, as governed by Directive 2004/38/EC and as implemented in Italy by Legislative Decree 30/2007. In particular, the essay focuses on reunification with the non-European partner under a registered partnership or de facto cohabitation or even same-sex marriage. Indeed, the directive’s openings to family models other than marriage, although slavishly transposed, did not find fertile ground in the domestic implementing regulations, which for a long time remained a dead letter or at least offered “minimalist” protections. And even following the entry into force of l. 76/2016, regulating civil partnerships and de facto cohabitations, the problems of coordination that remain between EU-derived law and supervening family law often make it far from full or easy to protect the family life of an E.U. citizen with a non-E.U. partner, with the risk of rendering fundamental Treaty freedoms ineffective.
1. Premessa - 2. Il diritto all’unità familiare tra partner non coniugati ai sensi della direttiva 2004/38/CE - 3. L’attuazione della direttiva europea tra recezioni “minimaliste” e applicazioni estensive: il d.lgs. 30/2007 e le successive modifiche - 4. Il ricongiungimento per le parti dell’unione civile omosessuale (interna o transnazionale) dopo la legge 76/2016 - 5. La tutela affievolita del diritto all’unità familiare tra partner di unioni registrate eterosessuali costituite all’estero - 6. Il ricongiungimento con il convivente more uxorio: il mancato coordinamento del d.lgs. 30/2007 con la l. 76/2016 - 7. Il matrimonio same-sex quale situazione legittimante il ricongiungimento familiare - NOTE
La tutela del diritto all’unità familiare di chi soggiorni regolarmente in uno Stato diverso da quello di origine non si esaurisce ad un solo livello normativo, ma coinvolge fonti statali e sovranazionali, in ragione della crescente incidenza del diritto comunitario (ora eurounitario) – confluita in competenza concorrente a partire dal Trattato di Amsterdam – in materia di visti, asilo e immigrazione [1], oltre alla competenza esclusiva dell’Unione in materia di libera circolazione e soggiorno entro il territorio U.E., pietra angolare della cittadinanza europea introdotta dal Trattato di Maastricht nel 1992. In corrispondenza a ciò, la disciplina si diversifica notevolmente a seconda che il ricongiungimento sia invocato da un cittadino extra U.E. nei confronti del familiare del pari extraeuropeo, od invece da un cittadino U.E. nei confronti del familiare extraeuropeo. Nel primo caso, la fattispecie è invero sottoposta alle norme nazionali sull’immigrazione, norme – di regola – marcatamente restrittive, venendo in gioco il concorrente interesse dello Stato ospitante a controllare i flussi migratori in entrata e cioè il diritto, preteso di pari dignità e rango, di presidiare le proprie frontiere e di regolamentare, nell’esercizio della propria sovranità, il flusso migratorio in entrata [2], con l’unico limite che le scelte, pur discrezionali, non risultino manifestamente irragionevoli [3]. Nella specie, il ricongiungimento del cittadino extra U.E. legalmente soggiornante in Italia con i familiari provenienti da altri Paesi [4] è disciplinato dagli artt. 28 ss. del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», infra t.u.imm.), disciplina che detta condizioni rigorose, sia pur occasionalmente temperata da interventi del legislatore europeo – in funzione di armonizzazione [5] – volti a semplificare le procedure e a mitigare i presupposti per la riunificazione familiare. In particolare si allude alla direttiva 2003/86/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 5/2007, che ha emendando in più punti il t.u.imm., espungendo molti dei requisiti restrittivi, e difficilmente accertabili nella prassi operativa, che la legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. legge Bossi-Fini) aveva introdotto [continua ..]
La direttiva 2004/38/CE, in attuazione dell’art. 21 TFUE (già art. 18 TCE) e superando la pregressa legislazione settoriale [8], ha esteso a tutti i cittadini dell’Unione, non ulteriormente qualificati, il diritto a ricongiungersi con i propri familiari. Per il resto, ha confermato l’impianto normativo preesistente, continuando a configurare quale presupposto imprescindibile per la sua applicazione lo spostamento del cittadino U.E. da uno Stato membro ad un altro: invero, l’aver esercitato la libertà di soggiorno in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza rimane condicio sine qua non per l’applicabilità del diritto eurounitario. In mancanza, la fattispecie deve considerarsi puramente interna allo Stato membro e, in quanto tale, sottoposta alle norme nazionali sull’immigrazione, norme – come accennato – di minor favore di quelle di derivazione unionale, giacché ispirate alla politica statale di controllo delle frontiere; ed allora, però, anche suscettibili di determinare le c.d. discriminazioni a rovescio, ogniqualvolta apprestino una disciplina deteriore rispetto a quella invocabile per i rapporti viceversa rientranti nel campo di applicazione del diritto eurounitario [9]. Tanto che, per sopperire a detta criticità e, più in generale, per non pregiudicare l’effetto utile ora della libertà di circolazione, ora della cittadinanza europea, la stessa Corte di Giustizia U.E., pur ribadendo che la direttiva 2004/38/ CE si applica a tutti i cittadini dell’Unione che si spostino in uno Stato membro diverso (c.d. Stato ospitante) da quello di cui hanno la cittadinanza, è andata progressivamente allargando le maglie della direttiva oltre l’ambito di applicazione suo tipico, ammettendone l’applicabilità in via analogica (o comunque estendendo la disciplina del diritto di soggiorno derivato in applicazione diretta dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE) anche ai casi di rientro del cittadino U.E. nel suo Stato di appartenenza dopo essersi spostato in altro Stato membro ed aver ivi sviluppato o consolidato una vita familiare. Con il che, anche il cittadino dell’Unione che faccia ritorno nel suo Paese d’origine godrà degli stessi diritti derivanti dalla direttiva; ciò sulla base della considerazione che, diversamente opinando, il cittadino U.E. verrebbe [continua ..]
Il legislatore italiano del 2007, nel recepire la direttiva con d.lgs. n. 30, non ha (ac)colto l’occasione per innovare il diritto interno rispetto al trattamento giuridico da riservare alle unioni non coniugali, ma si è limitato a riscrivere pressoché immutate le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 della medesima. Sì che, da un lato, il richiamo al partner di una «unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante», pur formalmente e identicamente presente nel d.lgs. 30/2007 (art. 2, lett. b, punto 2), è rimasto – all’indomani della sua entrata in vigore e in attesa di un intervento normativo in materia – privo di rilevanza e di utilità pratica [18], posto che l’ammissione delle unioni diverse dal matrimonio pur formate da almeno un cittadino europeo (compreso, come vedremo [19], il cittadino italiano) e pur contratte in uno Stato membro è rimasta, in definitiva, subordinata al trattamento a monte (e cioè ben oltre la specifica materia dell’immigrazione e della libera circolazione entro il territorio U.E.) ad esse riservato dal diritto domestico. È rimasto, dunque, loro inibito di valersi in Italia del diritto di circolazione e stabilimento, e del connesso diritto all’unità familiare, viceversa riconosciuto (sia pur sub condicione) dal diritto eurounitario. Venendo all’ulteriore previsione della direttiva (art. 3.2, lett. b) che richiede agli Stati membri di agevolare l’ingresso e il soggiorno di tutti quei soggetti che non rientrino nella ristretta nozione di «familiare» di cui all’art. 2, punto 2, il legislatore italiano l’ha attuata – in origine – in senso fortemente restrittivo, introducendo una precisa selezione dei mezzi di prova ammessi ad acclarare la stabile relazione. Ha, invero, previsto che lo Stato membro ospitante agevolasse il ricongiungimento tra il cittadino U.E. avvalsosi della libertà di circolazione e soggiorno in uno Stato UE diverso da quello di appartenenza ed il partner nei soli casi in cui la relazione stabile risultasse «debitamente attestata dallo Stato del cittadino dell’Unione» (art. 3, comma 2°, lett. b, [continua ..]
Come noto, l’Italia ha regolamentato le unioni civili tra persone dello stesso sesso, oltre che le convivenze di fatto omo o eterosessuali (di cui infra ci occuperemo) [45], con l. 20 maggio 2016, n. 76 [46]. La legge, al comma 20 del suo unico articolo, dispone che «al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso» [47]. Con il che, per effetto di detta clausola di equiparazione al matrimonio, è da intendersi estensibile alle parti di un’unione civile – come atto avente forza di legge contenente le parole coniugi o matrimonio – sia la disciplina del t.u.imm. sul ricongiungimento familiare tra coniugi (artt. 29 e 30) [48], sia – per quello che più rileva in questo studio – il d.lgs. n. 30/2007 (attuativo della direttiva 2004/38/CE), nella specie l’art. 2, lett. b, punto 1, sulla libertà di circolazione e soggiorno del coniuge di cittadino europeo spostatosi in uno Stato membro diverso da quello di origine (o che faccia rientro in quello di origine dopo aver esercitato la libertà di circolazione in altro Stato membro) [49], disciplina che peraltro si applica – sia pur, dal 2013, con taluni correttivi (novellato art. 23, comma 1-bis, d.lgs. 30/2007) [50] – anche alle fattispecie meramente interne (id est, di diritto all’unità familiare invocato in Italia dal cittadino italiano c.d. statico per il familiare straniero). In altri termini, il cittadino di Stato terzo parte di un’unione civile con cittadino europeo (compreso il cittadino italiano) è da equiparare al coniuge del cittadino U.E.; e cioè si applicano agli uniti civilmente – data l’estensione del comma 20 l. 76/2016 – le norme del decreto 30/2007 espressamente e specificamente dettate per i coniugi (art. 2, lett. b, punto 1), con conseguente diritto automatico ed incondizionato di ingresso e soggiorno [continua ..]
Le norme del decreto 30/2007 a tutela delle unioni non coniugali, anziché quelle dettate per i coniugi, conserverebbero un utile terreno di applicazione anche – nel qual caso in quanto fattispecie che fuoriescono totalmente dal perimetro di tutela della legge 76/2016 e che sfuggono, a rigore, anche ai meccanismi di riconoscibilità delle norme di conflitto – con riguardo alle unioni eterosessuali costituite all’estero (id est, costituite ai sensi di discipline straniere, tanto europee quanto extraeuropee) da un cittadino di Stato terzo ed un cittadino europeo residente in Italia (compreso il cittadino italiano). Tuttavia, dette unioni, nemmeno ove costituite in uno Stato U.E., potrebbero rientrare – quantomeno de plano – sotto l’egida dell’art. 2 d.lgs. 30/2007 a tutela dell’«unione registrata», posto che alla stregua di detta norma il godimento dell’unità familiare fra partner è condizionato al fatto che lo Stato ospitante preveda l’unione registrata quale istituto alternativo e equivalente (e pur non identico) al matrimonio, mentre la legge 76/2016 prevede la sola unione civile omosessuale. Con il che, posto che l’Italia non vanta una disciplina di tutela delle unioni non coniugali eterosessuali, se non nella forma delle convivenze di fatto, un’opzione potrebbe essere quella di ammettere al ricongiungimento i partner di dette unioni – nella quale prospettiva sarebbero, peraltro, ricomprese anche le unioni contratte fuori dal territorio U.E. – alla stregua dell’art. 3, comma 2, lett. b, d.lgs. 30/2007 a tutela della «relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale», che però offre una tutela più debole, sub specie di mera agevolazione da parte dello Stato ospitante e scevra da ogni automatismo. Per evitare – allora – di far ricadere le unioni straniere eterosessuali nell’ambito di applicazione meno favorevole dell’art. 3, comma 2, lett. b, anziché in quello dell’art. 2, si è – alternativamente – proposta un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, al fine di evitare una discriminazione a rovescio [55]; dunque, anche i partner di unioni eterosessuali riceverebbero la tutela più ampia di cui all’art. 2, sempre purché registrate in base alla legislazione di uno Stato membro [continua ..]
Venendo alle convivenze more uxorio, la legge n. 76/2016 non ha – come noto – carattere generale e omnicomprensivo, avendo sostanzialmente equiparato i conviventi ai coniugi limitatamente a taluni profili, quali – ivi in estrema sintesi – ordinamento penitenziario, malattia e ricovero, abitazione nella casa di comune residenza, accesso agli alloggi dell’edilizia popolare, diritti nell’impresa familiare, risarcimento del danno per morte del convivente, successione nel contratto di locazione della casa di comune residenza in caso di morte del conduttore, diritto agli alimenti in caso di cessazione della convivenza per il partner che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Sì che, stricto iure, il ricongiungimento familiare fra conviventi, omo o eterosessuali, rimane attualmente privo di copertura, giacché i conviventi more uxorio non risultano ammessi all’esercizio di detto diritto da alcuna norma espressa o di rinvio contenuta nella legge 76/2016, tantomeno da qualsivoglia clausola generale di equiparazione al matrimonio, operante solo per gli uniti civilmente. Tanto che, ai sensi della disciplina interna sull’immigrazione, vige inalterato il testo dell’art. 29 t.u.imm., che ammette al ricongiungimento soltanto i coniugi ed è ora da intendersi esteso (nonostante il mancato adeguamento formale) ai soli uniti civilmente (ex art. 1, comma 20, l. 76/2016) [59]. Vero è che ove la coppia di conviventi sia formata da almeno un cittadino U.E. sopperisce, in luogo del più restrittivo e immutato testo unico sull’immigrazione, il regime di maggior favore dettato dal d.lgs. n. 30/2007, relativo alla libertà di circolazione e connesso diritto all’unità familiare del cittadino europeo soggiornante in uno Stato membro (nella specie, l’Italia) diverso da quello di origine, o del cittadino italiano che abbia fatto rientro nel suo Paese dopo essersi spostato in altro Stato membro, ed altresì operante – grazie alla generosa estensione di cui all’art. 23 d.lgs. 30/2007, sia pur temperata a seguito della novella del 2013 [60] – per il cittadino italiano c.d. statico che intenda godere della vita familiare in Italia [61]. Detta disciplina, lo ricordiamo, oltre che fra partner di una «unione registrata» (art. 2, lett. b, punto 2), ammette il godimento della vita [continua ..]
La direttiva 2004/38/CE, all’art. 2, punto 2, lett. a, non declina la nozione di «coniuge», né offre indicazioni sul sistema giuridico di riferimento cui ancorare il contenuto del termine (come viceversa fa [95] per la definizione di partner di unione registrata). Sì che, a rigore, nulla si oppone ad includere anche il coniuge omosessuale tra i beneficiari di ricongiungimento. Se non fosse che, all’epoca della emanazione della direttiva, non v’era ancora un consenso sufficiente, in ambito europeo, per una tale estensione, giacché il matrimonio tra persone dello stesso sesso era previsto in soli due Paesi (Belgio e Olanda). Come si rileva dai lavori preparatori, proprio a tali indici – oggi, invero, superati – faceva riferimento il Consiglio nel 2004, respingendo gli emendamenti proposti dal Parlamento e, appunto, optando per una definizione di «coniuge» limitata a partner di sesso opposto [96]. Nella successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2009 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE, il Parlamento europeo invitava gli Stati membri a dare piena attuazione ai diritti sanciti dall’articolo 2 e dall’articolo 3 della direttiva 2004/38/CE, e a riconoscere tali diritti anche ai partner dello stesso sesso, ma, quanto ai coniugi, specificava «coniugi di sesso diverso», invitando altresì «gli Stati membri a tenere presente che la direttiva impone l’obbligo di riconoscere la libera circolazione di tutti i cittadini dell’Unione (comprese le coppie dello stesso sesso), senza imporre il riconoscimento dei matrimoni fra persone dello stesso sesso». Solo in tempi relativamente recenti il diritto unionale – recte l’interpretazione dello stesso fornita dalla Corte di giustizia – si è aperto al ricongiungimento fra coniugi dello stesso sesso. Invero, nel caso Coman, la Corte di Giustizia, rovesciando il suo iniziale approccio – assolutamente restrittivo sul punto nel rispetto delle competenze statali in materia di diritto di famiglia – ha, per la prima volta, preso posizione sulla nozione di «coniuge» ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a, direttiva 2004/38/CE ed accolto una nozione evolutiva e autonoma, neutra sotto il profilo del genere, idonea a ricomprendere qualunque persona legata al cittadino dell’Unione da un valido vincolo [continua ..]