Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La pratica commerciale lesiva (di Luca Antonio Caloiaro, Ricercatore di Diritto privato – Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza)


Il saggio esamina la recente modifica della disciplina delle pratiche commerciale scorrette, ove si registra il passaggio dalla prospettiva del consumatore medio a quella del consumatore leso, cui devono essere garantiti rimedi proporzionati ed effettivi nell'àmbito della giurisdizione ordinaria.

The harmful commercial practice

The essay examines the recent change in the regulation of unfair commercial practices, where there is a shift from the perspective of the average consumer to that of the harmed consumer, who must be guaranteed proportionate and effective remedies within the ordinary jurisdiction.

COMMENTO

Sommario:

1. Il nuovo art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il consumatore leso - 2. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: l’illecito consumeristico - 3. Segue. La contrarietà alla diligenza professionale - 4. Segue. L’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori. La struttura delle fattispecie particolari: pratiche ingannevoli ed aggressive - 5. Disciplina delle pratiche commerciale scorrette ed interesse pubblico alla regolazione del mercato. Dal consumatore medio al consumatore leso. Per un mutamento di prospettiva: pratiche commerciali scorrette e pratica commerciale lesiva. Dall’illecito amministrativo di pericolo all’illecito civile di evento - 6. Una possibile lettura riduzionista della norma in chiave processuale. Lesione del consumatore come interesse ad agire. Esclusione. Valore da attribuire alla clausola finale di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore - 7. La ridefinizione dei rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali lesive ed il diritto comune. Il divieto di pratiche commerciali scorrette e la nullità virtuale - 8. L’ampliamento della rilevanza dei mezzi dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva. L’annullabilità del contratto di consumo. Critica - 9. Segue. L’efficienza determinante dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela caducatoria avverso una pratica commerciale lesiva causam dans: il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons. - 10. L’efficienza meramente incidente dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela risarcitoria e la conformazione cogente del regolamento contrattuale alle dichiarazioni precontrattuali del professionista - NOTE


1. Il nuovo art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il consumatore leso

Il divieto di pratiche commerciali scorrette, solennemente sancito dall’art. 20 cod. cons., ha – sin dalla sua introduzione – scontato l’ineffettività della sanzione che lo ha accompagnato.

L’art. 27 cod. cons., nella sua formulazione ante D. Lgs. 7 marzo 2023, n. 26, delineava unicamente una “tutela” amministrativa per i consumatori. La pratica commerciale scorretta è, in linea generale, colpita da una sanzione amministrativa pecuniaria comminata dall’Autorità garante del­la concorrenza e del mercato (cd. public enforcement). La potestà sanzionatoria amministrativa, alla luce delle modifiche normative sopravvenute (cfr. art. 27, comma 3-bis cod. cons., introdotto dal D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla L. 17 luglio 2020, n. 77), si è arricchita di ulteriori forme di tutela per i consumatori, tra cui una peculiare tutela amministrativa ripristinatoria, di cui è stata investita l’Autorità garante attraverso l’attribuzione della potestà (esercitabile anche in via cautelare, secondo i moduli tipici della tutela inibitoria) di ordinare la rimozione della pratica commerciale scorretta non solo nei confronti del professionista che si sia reso responsabile della pratica commerciale scorretta, ma anche dei terzi che abbiano contribuito alla relativa diffusione attraverso reti telematiche o di telecomunicazione, delle quali sono gestori o in relazione alle quali forniscono ser­vizi [1]: in virtù di tale potestà, ai fini dell’ordine di cessazione della pratica scorretta, diviene – ad esempio – sostanzialmente irrilevante l’imputazione della pratica commerciale scorretta al professionista o alla società di comunicazioni.

Le maggiori criticità, invece, si sono registrate sul fronte della tutela civile uti singuli del consumatore (cd. private enforcement), cioè sul versante dei tradizionali mezzi di tutela civili a disposizione del singolo consumatore che il legislatore dovrebbe predisporre a protezione dei suoi interessi.

Al riguardo, non è sufficiente corredare il consumatore della tutela collettiva degli interessi apprestata, per un verso, dall’azione rappresentativa, compensativa o inibitoria, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori (artt. 140-ter ss. cod. cons., introdotta dal D. Lgs. 10 marzo 2023, n. 28), per altro verso, dall’azione di classe (art. 840-bis c.p.c.) e dell’azione inibitoria collettiva (art. 840-sexiesde­cies c.p.c.) [2].

Il punctum dolens resta, pur sempre, la natura dei rimedi esperibili in forma collettiva ovvero in forma individuale. Al riguardo, in dottrina sono state prospettate variegate posizioni [3], muovendo dall’ano­di­na formulazione dell’art. 19, comma 2, lett. a, cod. cons., ove è scandito che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette «non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto» (sul punto si tornerà, infra).

In proposito sembravano, però, schiudersi nuovi scenari di tutela in attesa del recepimento della Direttiva 2019/2161/UE, la quale – seppur lasciando impregiudicata «l’applicazione di altri rimedi a disposizione dei consumatori a norma del diritto dell’Unione o del diritto nazionale» (così l’art. 11-bis, par. 2, Dir. 2005/29/CE, introdotto dall’art. 3 della Dir. 2019/2161/UE) – prevede che «i consumatori lesi da pratiche commerciali sleali devono avere accesso a rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto» (in questi termini, l’art. 11-bis, par. 1, Dir. 2005/29/CE, per effetto delle modifiche apportate dall’art. 3 della Dir. 2019/ 2161/UE) [4].

Ebbene, al riguardo, era ragionevole aspettarsi che l’opera di recepimento normativo della Direttiva (la quale, come noto, vincola nel fine, lasciando liberi i legislatori nazionali nella scelta dei mezzi più appropriati, cfr. art. 288 TFUE) si focalizzasse, oltreché sui modi della tutela, sui presupposti di attivazione della tutela da parte dei consumatori lesi dalla pratica commerciale scorretta o, più precisamente, individuasse i termini della lesione del consumatore che ne consentivano la tutela: appare, infatti, del tutto evidente che riconoscere un risarcimento del danno senza lesione equivale a negarne la natura riparatoria e ad assegnargli una funzione afflittiva, la quale richiederebbe – per l’ap­punto – una norma espressa in tal senso (art. 25 Cost.).

Tuttavia, niente di tutto ciò è avvenuto: si può, all’inverso, solo registrare il su­pino recepimento [5], per effetto dell’art. 1, comma 7, D. Lgs. 7 marzo 2023, 26, con cui è stato aggiunto, all’art. 27 del codice del consumo, il comma 15-bis negli stessi, pedissequi termini della Direttiva. Assistia­mo, dunque, alla sostanziale rinuncia del legislatore alla definizione di un quadro più compiuto di tutele per i consumatori vittime di pratiche commerciali scorrette.

E così non resta che cimentarsi nell’interpretazione (per nulla agevole) dell’art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: «I consumatori lesi da pratiche commerciali sleali [ [6]] possono altresì adire il giudice ordinario al fine di ottenere rimedi proporzionati ed effettivi, compresi il risarcimento del danno subito e, ove applicabile, la riduzione del prezzo o la risoluzione del con­tratto, tenuto conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito e di altre circostanze pertinenti. Sono fatti salvi ulteriori rimedi a disposizione dei consumatori».

Preliminarmente, però, appare necessario definire e tratteggiare l’istituto delle pratiche commerciali scorrette al fine di individuare e delimitare la portata innovativa della nuova norma nel quadro delle tutele del consumatore, vagliando le possibili soluzioni ermeneutiche.


2. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: l’illecito consumeristico

Ai sensi degli artt. 18 ss. cod. cons., per «pratiche commerciali» si intendono i comportamenti, tenuti da professionisti, oggettivamente correlati all’attività di «promozione, vendita o fornitura» di beni o servizi a consumatori e posti in essere anteriormente, contestualmente o posteriormente all’instaurazione di un rapporto contrattuale [7]. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali o mere omissioni. L’art. 20, comma 2, cod. cons., stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto [8], del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta (o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori). Nella trama normativa, la disposizione generale è declinata in due figure particolari di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (artt. 21 ss., cod. cons.) e le pratiche aggressive (artt. 24 ss., cod. cons.). Nell’àmbito di ciascuna figura, vi sono pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli (art. 23, cod. cons.) o aggressive (art. 26, cod. cons.) (cd. “liste nere”).

L’articolata struttura normativa dell’istituto in esame è oggetto di una pluralità di letture: limitandoci alle principali, si fronteggiano, da un lato, l’opinione, diffusa in dottrina [9] e aderente all’intenzione del legislatore storico [10], secondo cui le norme particolari che contengono l’elencazione di clausole in ogni caso scorrette (cd. “liste nere”) prevalgono, per effetto del principio di specialità, sulle norme intermedie che definiscono le pratiche ingannevoli ed aggressive, le quali – a loro volta – prevalgono sulla norma generale, che costituisce una norma di chiusura e residuale; dall’altro lato, l’opinione, sostenuta da altra dottrina [11] e dalla prevalente prassi applicativa dell’Autorità garante [12], secondo cui la norma generale si pone come norma fondamentale dell’intera materia e le norme di dettaglio come applicazioni particolari di essa [13]. La seconda lettura è da preferire, in quanto, come è stato ben rilevato [14], il criterio di specialità – fondandosi sul principio di unità dell’ordinamento giuridico [15] – è funzionale alla risoluzione delle antinomie di norme, allorché la norma speciale stabilisce, in relazione ad una fattispecie suscettibile di essere sussunta nella più ampia norma generale, una disciplina diversa ed incompatibile con quella prevista dalla norma generale; invece, la qualificazione giuridica è unitaria, in quanto le figure particolari sono – al pari della figura generale – vietate (art. 20, comma 1, cod. cons.), così come uniformi sono le conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione del divieto (art. 27 cod. cons.).

Ebbene, nella trama normativa è, dunque, possibile individuare una norma generale (le pratiche commerciali scorrette, art. 20, comma 1 e 2, cod. cons.), due norme particolari (pratiche ingannevoli artt. 21 e 22, cod. cons., e pratiche aggressive, art. 24 cod. cons.) ed, infine, due norme contenenti elencazioni esemplificative di pratiche in ogni caso riconducibili alle norme particolari (“liste nere” di pratiche ingannevoli e aggressive, artt. 23 e 26 cod. cons.). Tali gruppi di norme devono essere esaminati distintamente.

La norma generale (art. 20 cod. cons.) pone un divieto e le norme particolari (pratiche ingannevoli, artt. 21 e 22, e pratiche aggressive, art. 24 cod. cons.) individuano la pratica commerciale scorretta oggetto del divieto ricorrendo al metodo analitico della fattispecie [16]. La struttura della norma generale (che, come vedremo, è riprodotta anche nelle fattispecie particolari), in quanto pone un divieto, individua l’illecito (il comportamento vietato) mediante l’enunciazione di due puntuali requisiti per la qualificazione in termini di scorrettezza, dunque di illiceità, di una pratica commerciale: la contrarietà della pratica alla diligenza professionale e l’idoneità della stessa a falsare il comportamento del consumatore medio [17]. È opportuno soffermarsi su entrambi i requisiti.


3. Segue. La contrarietà alla diligenza professionale

Il primo requisito si fonda sulla nozione di «diligenza professionale», la quale consisterebbe – secondo la poco brillante definizione normativa [18] – nell’assenza del «normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista» (art. 18, lett. h, cod. cons.) [19].

Il riferimento alla diligenza impone di considerarne le possibili accezioni e i variegati riferimenti normativi, al fine di trarne indicazioni ermeneutiche per l’interpretazione della definizione consumeristica di diligenza professionale.

È opportuno muovere dall’impiego della diligenza nella teoria dell’obbligazione, attesa la rilevanza sistematica che il concetto assume nella materia obbligatoria. Secondo l’opinione più diffusa, la diligenza indica la misura o il grado dello sforzo, della cura, dell’attenzione, della sollecitudine che il debitore è tenuto ad impiegare nell’adempimento dell’obbligazione [20] mediante il generale riferimento alla figura del bonus paterfamilias [21] (cfr. art. 1176, comma 1, c.c.; criterio, poi, talvolta ribadito con riferimento a peculiari rapporti: artt. 382, 703, comma 4, 1001, 1091, 1710, 1768, 1804, 1961, 2148, 2167 c.c.; e, talaltra, plasmato in ragione della natura dell’attività professionale cui il debitore è tenuto: artt. 1176, comma 2, 2104, 2174, 2392, 2407, 2409-terdecies c.c.) [22]; nel riferimento alla misura o al grado [23] sta l’essenza del concetto di diligenza così inteso, attraverso il quale non si vuole porre in risalto il dato soggettivo dello sforzo, dell’atten­zione, della tensione della volontà del debitore [24], ma il criterio (astratto) dettato dal legislatore al fine di individuare lo sforzo dovuto. In questa accezione – cd. normativa (o imperativa) [25] – la diligenza indica, in sostanza, una qualificazione soggettiva dell’agire, il modo di comportarsi ed – in definitiva – il modello (quello del bonus paterfamilias) cui commisurare il comportamento materialmente tenuto dal debitore.

L’altra accezione della diligenza è quella psicologica [26]: abbandonate le concezioni introspettive, volte ad indagare l’atteggiamento dello spirito che ha costituito il substrato psicologico dell’azione disapprovata (cioè la ragione psichica dell’agire male) [27], la diligenza, in tale accezione, è assorbita interamente nella teoria della colpa [28] e viene riferita all’atteggiamento psichico del soggetto in ordine alla prevedibilità e all’evitabilità di un evento lesivo [29], coniugandosi nella nozione psicologica sia il momento intellettualistico della possibilità di rappresentazione dell’evento (giudizio di prevedibilità) o di attuale conoscenza delle sue cause (giudizio di conoscibilità) sia il momento volontaristico dello sforzo impiegato per il mancato avveramento dell’evento lesivo (giudizio di evitabilità).

La netta distinzione tra la concezione normativa e quella psicologica di diligenza si coglie soprattutto sul piano della struttura del giudizio di negligenza (cioè, di colpa) [30]: nella concezione normativa lo standard del buon padre di famiglia è inteso alla stregua di una regola di condotta che racchiude in sé il giudizio di valore posto dal legislatore, in relazione al quale l’interprete dovrà semplicemente operare un giudizio di conformità [31] tra il comportamento materialmente tenuto e la misura di diligenza fissata dal legislatore [32]. Qui la difficoltà per l’interprete sta nel ricavare la regola di comportamento cui commisurare il contegno del soggetto da un concetto (sì astratto, ma) elastico qual è la diligenza [33]: il momento deontologico della valutazione sta, allora, nella relativizzazione del concetto elastico che consente di plasmare e definire lo sforzo dovuto nel tipo di prestazione considerato [34]. Attraverso il giudizio di conformità, che è mero giudizio di fatto, si trasla nel singolo comportamento la valutazione assiologica fissata dal legislatore e mediata dall’interprete attraverso lo standard del buon padre di famiglia [35].

Diversamente, nella concezione psicologica, il giudizio di colpa non si atteggia alla stregua di una valutazione di conformità, ma ha natura concretamente deontologica avendo come esclusivo riferimento il contegno oggetto della valutazione, impiegando i canoni psicologici della prevedibilità e della evitabilità del­l’evento adattati al singolo contesto e alle qualità soggettive dell’autore del contegno disapprovato.

In altri termini, nella concezione normativa il momento deontologico della diligenza si esprime nella valutazione astratta ex ante dal legislatore così come relativizzato dall’interprete (criterio astratto, ma relativo) [36]; nella concezione psicologica il momento deontologico della diligenza non ha un contenuto predeterminato dal legislatore, ma è concretamente individuato dall’interprete muovendo dall’esame del contesto in cui l’agente si trova ad operare e dalle sue qualità soggettive (criterio concreto).

L’applicazione di un criterio di valutazione astratto o concreto conduce a diversità sostanziali che si riscontrano altresì negli altri riferimenti normativi della diligenza all’infuori della materia obbligatoria, in special modo allorché essa divenga il metro di valutazione non dell’adempimento di un’obbligazione, ma dell’assolvimento di un onere [37].

Si può, al riguardo, considerare la valutazione di diligenza allorché è predicata con riferimento ad un onere di conoscenza (cfr. artt. 1341 e 1431 c.c.). In particolare, l’accertamento della riconoscibilità dell’errore (art. 1431 c.c.), da valutare avuto riguardo ad una «persona di normale diligenza» (oltreché «in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alle qualità dei contraenti»), ha dato luogo a raffinate discussioni circa la natura astratta (seppur relativizzata) oppure concreta del criterio da impiegare, giungendo a disquisire se il riferimento alla «persona di normale diligenza» implicasse la tutela dell’affidamento in astratto o in concreto [38]. Nel primo caso, l’impiego di un criterio astratto di contraente diligente nella valutazione di riconoscibilità conduce ad affermare l’irrilevanza di un errore riconosciuto o bilaterale, dovendo la riconoscibilità essere accertata in relazione ad un modello astratto di contraente «di normale diligenza» [39]; diversamente, nel secondo caso, predicandosi l’accertamento della riconoscibilità con riferimento al contraente concreto, l’errore riconosciuto e l’errore bilaterale conducono a ritenere in concreto soddisfatto il requisito di riconoscibilità dell’errore [40] (cfr., invece, per l’espressa equiparazione della conoscenza alla riconoscibilità, l’art. 1394 c.c. in relazione al conflitto di interessi del rappresentante).

Le medesime disquisizioni sulla natura del criterio da impiegare (astratto o concreto) possono replicarsi con riferimento all’art. 1341 c.c., sebbene il tenore letterale della norma abbia in parte diradato i dubbi sulla rilevanza tanto della conoscenza quanto della conoscibilità delle condizioni generali di contratto da parte dell’aderente («le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza» recita l’art. 1341, comma 1, c.c.). Anche qui la dottrina è divisa sulla natura del criterio da adottare per l’accertamento della conoscibilità delle condizioni generali da parte dell’aderente: secondo l’opinione più diffusa [41], la diligenza dell’aderente è improntata ad un criterio di normalità (dunque, astratto), con riferimento a ciò che è normale attendersi dalla massa degli aderenti in relazione al tipo di operazione economica, senza particolari sforzi o competenze; secondo altra opinione [42], la valutazione di conoscibilità secondo l’ordinaria diligenza deve essere concreta e contestualizzata.

Ad ogni modo, dall’esame delle figure soggettive di onere che impiegano il parametro della diligenza (artt. 1227, comma 2 [43], 1341, 1431 c.c.) si ricava un altro interessante dato: in queste ultime il riferimento alla diligenza è qualificato dall’aggettivo «ordinaria» o «normale», colorando il concetto di diligenza di quel contenuto di «medietà» e di «normalità» che, invece, il legislatore, nella materia obbligatoria, ha voluto stigmatizzare mediante il riferimento al buon padre di famiglia (cioè, al buon debitore – cfr. art. 1176, comma 1, c.c. –, non all’uomo medio) ed ancora di più alla diligenza professionale (il buon professionista, art. 1176, comma 2, c.c.) [44].

Pertanto, appare decisamente singolare che, nella definizione della «diligenza professionale», l’art. 18, lett. h, cod. cons. si riferisca al «normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista ...», contrariamente a quanto avviene nella teoria dell’obbligazione ove la diligenza professionale è l’espressione più penetrante della diligenza, che racchiude anche la perizia del debitore (imperitia culpae adnumeratur), non richiesta al debitore comune.

Questa notevole aporia della nozione consumeristica di “diligenza professionale” induce subito a dubitare fortemente dell’equivalenza strutturale e funzionale tra i due concetti di diligenza. Ma se ne ha una concreta dimostrazione allorché se ne provi a tracciare il contenuto.

Si consideri, infatti, che l’art. 20 cod. cons. pone il divieto di pratiche commerciali scorrette, cioè il divieto di pratiche contrarie alla diligenza professionale: ebbene, vietare un comportamento negligente equivale ad imporre un obbligo positivo di diligenza [45]. Tuttavia, postulare un dovere di diligenza significa ricorrere ad una formula ellittica e fuorviante: la diligenza non può essere intesa come oggetto di un autonomo (sia pur accessorio) dovere [46]; se essa rappresenta lo sforzo, la cura, la sollecitudine, l’attenzione, cioè – comunque la si intenda – la misura o il quomodo del comportamento dovuto dal debitore nell’adempimento di un dovere, giammai può costituirne l’oggetto.

In realtà, ad un attento esame, il requisito della contrarietà alla diligenza professionale – che consente di qualificare una pratica commerciale come scorretta – sembra voler individuare, nel riferimento alla diligenza professionale, un tipo di comportamento (non la sua misura né tantomeno modi di qualificazione soggettiva di un’azione) [47], cioè delinea, a ben vedere, una regola di comportamento, la cui violazione prescinde da un giudizio di imputazione soggettiva dell’azione in termini di colpa – cioè, di negligenza – del professionista [48].

In questa prospettiva, è stata formulata la dotta e raffinata proposta dottrinale [49] di definire la diligenza professionale consumeristica (artt. 18, lett. h, e 20, cod. cons.) ricorrendo al concetto mengoniano di perizia come diligentia in adimplendo ricavabile dall’art. 1176, comma 2, c.c., da intendere – cioè – non quale criterio di imputazione soggettiva della responsabilità debitoria (dunque, qualificazione soggettiva di un’attività attraverso la fissazione della misura di comportamento), ma come misura del contenuto della prestazione delle obbligazioni di fare relative all’esercizio professionale di un’attività, sul presupposto che le due diverse funzioni assegnate alla diligenza (criterio di determinazione della prestazione ovvero criterio di imputazione della responsabilità) non possano essere ricondotte ad un unico concetto di diligenza. Lasciati in disparte i dubbi che possono avanzarsi sulla validità teorica di tale presupposto [50], secondo la ricostruzione in esame, il comma 2 dell’art. 1176 c.c. enuncia una nozione del tutto autonoma di diligenza (qualificabile come perizia) contraddistinta dal carattere professionale e non riconducibile alla diligenza del bonus paterfamilias di cui al comma 1, neppure come sua species. In questo modo, la diligenza professionale, lungi dal costituire un criterio di imputazione della responsabilità, diviene fonte di determinazione del contenuto dell’obbligo del professionista tramite rinvio alle conoscenze ed abilità tecniche (leges artis) ed ai progressi tecnologi correnti cui è legittimo pretendere che il debitore si attenga [51]. Tuttavia, qualificare la diligenza professionale consumeristica come criterio di determinazione del contenuto della prestazione per ricavarne «l’imposizione di specifiche regole di condotta e di un generale precetto di azione in vista della salvaguardia dell’interesse del consumatore al compimento di processi cognitivi e decisionali consapevoli e all’esercizio della piena libertà negoziale» non pare una conclusione condivisibile.

Se, infatti, il concetto di diligenza lo si impiegasse alla stregua di un criterio elastico da cui l’interprete ricava una regola di azione volta alla salvaguardia dell’interesse altrui, allora la diligenza si atteggerebbe come un surrogato dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (artt. 1337 e 1375 c.c.) [52], senza apportare un significativo contributo di novità al sistema (che ne esce, peraltro, ulteriormente aggrovigliato). Del resto, al fine di intendere la diligenza professionale consumeristica in coerenza con il sistema, sembra che debba farsi leva sulla seconda parte della definizione normativa (tracciata dall’art. 18, lett. h, cod. cons.) che raffronta la diligenza (intesa come l’assenza del «normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti») rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista» (art. 18, lett. h, cod. cons.). La definizione della diligenza consumeristica di cui all’art. 20 cod. cons. sembra, allora, atteggiarsi come una sineddoche: si riferisce alla parte (la misura e il grado di competenza professionale) per indicare il tutto (il comportamento improntato ai principi di correttezza e buona fede).

In questo modo, sembra potersi restituire coerenza al sistema: infatti, nella disciplina dell’obbligazione, la diligenza di cui all’art. 1176 c.c., a prescindere dal suo concreto atteggiarsi a seconda della concezione di responsabilità debitoria prediletta dall’interprete [53], costituisce pacificamente un criterio di imputabilità (da intendere in senso lato, cioè quale criterio di imputazione di un fatto ad un soggetto) [54]; e così parimenti ove la diligenza sia collegata ad un onere, essa costituisce pur sempre un criterio di imputabilità, ma la questione è più sottile, giacché, per un verso, diviene criterio di imputabilità di un regolamento contrattuale non voluto (dall’aderente o dall’errante) [55], per altro verso, costituisce criterio di imputabilità di conseguenze giuridiche sfavorevoli (per il possessore tenuto alla restituzione dei frutti percepibili ma non percepiti [56] e per il danneggiato, cui non viene risarcito il danno, pur subìto, ma evitabile). Diversamente, nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.), lungi dal costituire un mero criterio di imputabilità della pratica, la diligenza professionale costituisce anzitutto un criterio di liceità della pratica commerciale, con la conseguenza che la contrarietà alla diligenza professionale ne indica l’antigiuridicità.

Tali ragioni convincono che il riferimento alla contrarietà alla diligenza professionale [57] debba essere inteso primariamente come criterio di antigiuridicità, cioè accertamento della slealtà della pratica.

Pertanto, se si condividono i precedenti rilievi, una pratica commerciale è scorretta se la condotta (commissiva o omissiva) del professionista è contraria alla correttezza e buona fede, intesa in senso oggettivo, esigibile nel settore professionale di appartenenza [58]: tale primo requisito dell’illecito consumeristico individua la violazione di una regola di comportamento, il cui contenuto è determinato mediante la predetta clausola generale [59]. Tale lettura della norma, del resto, su un piano sistematico appare quella meglio rispondente al riconoscimento normativo del «diritto fondamentale» del consumatore «all’esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà» (art. 2, comma 2, lett. c-bis, cod. cons.) e al correlativo dovere generale gravante sul professionista di improntare la propria attività commerciale «al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori» (art. 39 cod. cons.).


4. Segue. L’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori. La struttura delle fattispecie particolari: pratiche ingannevoli ed aggressive

Il secondo requisito dell’illecito consumeristico è, invece, costituito dall’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori; essa è definita (dall’art. 18, lett. e, cod. cons.) come la «idoneità ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso», con l’ulteriore, rilevante precisazione che per «decisione di natura commerciale» deve intendersi la «decisione presa da un consumatore relativa a se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a quali condizioni» (art. 18, lett. m, cod. cons.). Ebbene, l’idoneità della pratica commerciale a «falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori» allude alla potenziale efficienza incidente della pratica sul consenso del consumatore medio (cfr. art. 20, cod. cons.): efficienza meramente incidente giacché è sufficiente ad integrare l’alterazione del consenso («falsare il comportamento economico») la circostanza che il consumatore medio avrebbe concluso il contratto di consumo a condizioni diverse, senza doverne stabilirne il valore determinante; efficienza solo potenziale poiché neppure è necessario accertare se la condotta (omissiva o commissiva) del professionista abbia concretamente alterato la formazione del consenso dei consumatori, secondo i tradizionali moduli del nesso di causalità psicologica, richiesta per la rilevanza invalidante dei vizi del consenso (cfr. art. 1427 c.c.); essendo sufficiente solo l’attitudine oggettiva ed astratta della condotta (commissiva o omissiva) del professionista ad incidere sul processo formativo della volontà di un modello di consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto [60]. Il secondo requisito, a ben vedere, più che fondarsi su una (seconda) clausola generale [61], indica un puntuale canone valutativo di una condotta, per mezzo del ricorso ad un concetto giuridico elastico [62], che tuttavia consente la sua sicura determinabilità.

In sintesi, è possibile concludere che la norma generale sulle pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.) individua un illecito consumeristico che si compone di due requisiti: oltre alla contrarietà alla diligenza professionale della condotta considerata, la sua potenziale efficienza incidente sul consenso del consumatore.

Tale conclusione ci consente di precisare la natura dell’illecito consumeristico: essendo sufficiente per il suo perfezionamento la mera idoneità della pratica commerciale ad incidere sul processo formativo della volontà (necessariamente ipotetica) di un consumatore modello, può con sicurezza affermarsi che il legislatore abbia voluto delineare un illecito pericolo [63]. L’illiceità della pratica commerciale prescinde, così, dall’accertamento di una lesione del consumatore medio, inesistente in rerum natura, venendo in esclusivo rilievo la semplice messa in pericolo degli interessi della classe dei consumatori, compendiati nel riferimento al consumatore medio.

Le due fattispecie particolari (pratiche ingannevoli ed aggressive) ricalcano puntualmente la struttura della norma generale: anch’esse si compongono di due requisiti e si atteggiano parimenti ad illeciti di pericolo. Nelle pratiche commerciali ingannevoli, la condotta contraria alla diligenza professionale (primo requisito della fattispecie) si specifica nella dichiarazione falsa o equivoca (azione ingannevole: art. 21, cod cons.) o nella reticenza relativa ad un’informazione rilevante (omissione ingannevole: art. 22, cod. cons.) [64], idonea ad indurre in errore il consumatore medio [65], fermo l’accertamento della loro potenziale efficienza incidente sul consenso del consumatore medio (secondo segmento della fattispecie). Nelle pratiche commerciali aggressive (art. 24 cod. cons.), in relazione alle quali, la condotta contraria alla diligenza professionale (primo requisito della fattispecie) consiste nella molestia o nella coercizione – fisica o morale – volte ad esercitare una pressione psicologica sul consumatore medio, tale da indurlo a prestare un consenso che avrebbe dato a condizioni diverse (secondo requisito della fattispecie).

La complessa trama normativa si chiude con due norme esemplificative (cd. “liste nere”) di ciascuna delle due fattispecie particolari, volte ad indicare le pratiche «in ogni caso» ingannevoli o aggressive (artt. 23 e 26 cod. cons.): la peculiarità delle singole ipotesi contemplate nelle norme esemplificative sta nella presunzione di decettività o aggressività delle stesse, in relazione alle quali non occorre accertare i due requisiti della fattispecie: né la valutazione di contrarietà alla diligenza professionale della condotta considerata (formulato ex ante dal legislatore) né l’accertamento della potenziale efficienza della pratica sleale ad incidere sul consenso del consumatore. Formalmente formulate come presunzioni assolute (juris et de jure) di ingannevolezza (art. 23 cod. cons.) e di aggressività (art. 26 cod. cons.), le due “liste nere” sembrano, piuttosto, atteggiarsi alla stregua di norme interpretative materiali.


5. Disciplina delle pratiche commerciale scorrette ed interesse pubblico alla regolazione del mercato. Dal consumatore medio al consumatore leso. Per un mutamento di prospettiva: pratiche commerciali scorrette e pratica commerciale lesiva. Dall’illecito amministrativo di pericolo all’illecito civile di evento

Spostando l’attenzione dall’illecito consumeristico alle sanzioni (artt. 27 ss. cod. cons.), ci si avvede agevolmente come il legislatore italiano, in sede di recepimento della direttiva 2005/29/CE, pur avendo assoluta libertà nel plasmare le sanzioni e i modi della tutela avverso le pratiche commerciali scorrette [66], abbia affidato l’osservanza del divieto di pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.) principalmente alla sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 27, comma 9, cod. cons.), compendiata però dall’attribuzione, in capo alla medesima autorità amministrativa, della potestà inibitoria (art. 27 commi 2 e 8, cod. cons.) e di altri poteri istruttori e cautelari (art. 27, comma 3, 3-bis, 4 e 5, cos. cons.).

Il legislatore ha, in sostanza, configurato l’illecito consumeristico de quo come un illecito amministrativo di pericolo, che prescinde da una lesione attuale ai consumatori, anche collettivamente considerati, e che è sanzionato in una logica essenzialmente afflittiva, secondo le finalità e i moduli tipici del diritto sanzionatorio amministrativo [67]. Il che giustifica la diffusa constatazione secondo cui l’interesse tutelato dal divieto di pratiche commerciali scorrette non sia poi tanto quello del consumatore (neppure in forma seriale o collettiva) [68], ma l’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato concorrenziale (cfr., testualmente, l’art. 1, Dir. 2005/29/CE) [69].

L’azione amministrativa a tutela dell’interesse pubblico alla regolazione del mercato comporta conseguenze giuridiche che, variamente, tendono a eliminare lo stato di fatto che (non tanto offende, quanto più semplicemente) pone in pericolo l’interesse stesso. Essenziale, a tal fine, è l’anzidetta previsione di misure inibitorie, con cui vietare la diffusione ovvero ordinare la cessazione della pratica scorretta al fine di prevenire la lesione o la sua continuazione. La comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria opera, allora, in funzione prevalentemente dissuasiva e deterrente, oltreché nei casi di manifesta scorrettezza e di maggior gravità, in particolare là dove non sia stato possibile porre fine all’illecito consumeristico, facendo cessare la diffusione della pratica o modificandola in modo da eliminare i profili di illegittimità; in tali ipotesi, a fronte della cessazione dell’illecito e della rimozione delle sue conseguenze pregiudizievoli, l’autorità può definire il procedimento senza procedere all’accertamento dell’infrazione (art. 27, comma 7, cod. cons.). Inoltre, nella quantificazione della sanzione, l’autorità amministrativa tiene conto dei comportamenti medio tempore posti in essere dall’impresa per correggere la pratica commerciale scorretta (cfr. art. 27, comma 2-ter, lett. b, cod. cons.).

L’interesse pubblico alla regolazione del mercato, cui la disciplina delle pratiche scorrette è preordinata, fa emergere la prospettiva dell’attività [70]: non un singolo comportamento dell’impresa, che sia contrario alla diligenza professionale e sia idoneo a falsare il comportamento del consumatore medio, è sufficiente a porre in pericolo l’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato, ma soltanto una serie coordinata di condotte di sfruttamento della propria posizione commerciale (che, ai fini della disciplina delle pratiche scorrette, non necessariamente deve tradursi in una posizione dominante nel mercato) sono idonee a mettere in pericolo il suddetto interesse pubblico e giustificano l’intervento dell’autorità amministrativa [71]. L’emersione dell’interesse pubblico cui è preordinata l’azione sanzionatoria amministrativa scaturisce, quindi, dal pericolo di lesione degli interessi privati dei consumatori, di cui l’interesse pubblico appare, in certa guisa, come la sintesi, compendiata nella nozione di consumatore medio [72]: nella misura in cui è posta in pericolo la scelta consapevole e libera dei consumatori collettivamente considerati (o, se si vuole, del consumatore medio), viene in rilievo l’interesse pubblico alla regolazione del mercato, al fine di preservarne la concorrenzialità [73].

La tecnica sanzionatoria prescelta dal legislatore ed il fondamento pubblicistico che la illumina hanno inciso, in sostanza, sulla stessa configurazione sostanziale dell’illecito consumeristico, il quale – a dispetto del letterale riferimento all’atto (la pratica commerciale scorretta) piuttosto che all’attività – non poteva evidentemente riferirsi ad un singolo comportamento dell’impresa adottato nei confronti di un singolo consumatore.

Questo scenario, però, muta radicalmente ove il termine soggettivo della pratica commerciale scorretta non è più soltanto il consumatore medio, ma il consumatore leso dalla pratica, al quale devono, oggi, essere garantiti rimedi proporzionati ed effettivi avverso la stessa, secondo quanto dispone la recente novella (art. 27, comma 15-bis, cod. cons.). Dalla prospettiva dell’attività emerge, allora, la rilevanza del singolo atto e, conseguentemente, del suo destinatario, il consumatore leso.

Ecco come la pratica commerciale scorretta, da illecito amministrativo di pericolo fondato su una lesione potenziale, diviene oggi, per espresso (seppur tardivo) [74] riconoscimento normativo, un illecito civile di evento, per il perfezionamento del quale è necessario che il comportamento scorretto, cioè posto in violazione del divieto consumeristico (art. 20 cod. cons.), produca altresì una lesione effettiva nella sfera giuridica del singolo consumatore destinatario della pratica scorretta; per tale illecito di evento, sembra allora maggiormente appropriata la denominazione di pratica commerciale lesiva, giacché indica un illecito consumeristico avente diversa natura e consistenza giuridica. Avverso la pratica commerciale lesiva, il legislatore riconosce infatti al consumatore leso – e solo al consumatore, non anche alla microimpresa [75] – rimedi individuali proporzionati ed effettivi esperibili davanti al giudice ordinario [76], «compresi il risarcimento del danno subito e, ove applicabile, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, tenuto conto, se del caso, della gravità e della natura della pratica commerciale sleale, del danno subito e di altre circostanze pertinenti» e fatti, comunque, salvi «ulteriori rimedi a disposizione dei consumatori» (art. 27, comma 15-bis, cod. cons.).

Spetta ora all’interprete individuare i rimedi proporzionati ed effettivi avverso la pratica commerciale lesiva, della quale – in sostanza – il legislatore ha rinunciato a definire il puntuale trattamento giuridico, limitandosi a formulare alcuni scarni riferimenti che paiono soltanto indicativi per l’interprete, nella misura in cui sono individuati secondo un rapporto di continenza (va «compreso» tra i rimedi proporzionati ed effettivi il risarcimento del danno) oppure sono subordinati al vaglio dello stesso interprete (giacché testualmente preceduti dalla locuzione «ove applicabile»).

Ebbene, nella valutazione di effettività e proporzionalità del rimedio, pare essenziale muovere da una coordinata sistematica di fondo: se il protagonista dell’accertamento sanzionatorio (cd. public enforcement) avverso la pratica commerciale scorretta è l’autore della pratica, dunque il professionista, il protagonista della tutela civile (cd. private enforcement) avverso la pratica commerciale lesiva è la vittima della pratica, ovvero il consumatore, quale soggetto leso dalla pratica. In questo senso, la valutazione di effettività del rimedio appare centrale e non può che muovere dalla lesione subita dal consumatore e dalle sue esigenze di tutela; mentre il giudizio di proporzionalità del rimedio imporrà di tener conto anche dall’entità e della “sopportabilità” delle conseguenze giuridiche patite dal professionista per effetto del rimedio.

Un’ultima preliminare notazione. Si è visto come la novella intenda investire l’interprete dell’indivi­duazione del rimedio e, dunque, in definitiva, del trattamento giuridico della pratica commerciale lesiva, facendo elasticamente ricorso ai principi di effettività e proporzionalità; all’inverso, sembrerebbe però che la clausola di salvezza finale abbia una portata precettiva puntuale: sono fatti salvi i rimedi individuali, a disposizione del consumatore, già esistenti nell’ordinamento giuridico. E sul valore da attribuire a tale clausola di salvezza occorre, dunque, soffermarsi.


6. Una possibile lettura riduzionista della norma in chiave processuale. Lesione del consumatore come interesse ad agire. Esclusione. Valore da attribuire alla clausola finale di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore

Si è detto che, per effetto della novella al codice del consumo (art. 27, comma 15-bis, cod. cons.), è stato configurato un nuovo illecito consumeristico di evento derivante dalla violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette, che si aggiunge al precedente illecito amministrativo di pericolo.

Deve, però, darsi conto di una diversa, possibile opzione ermeneutica, che tuttavia – lo si anticipa – non pare accettabile.

Si tratta, in sostanza, di conciliare i due precetti normativi di cui si compone l’art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il primo precetto, contenuto nella prima parte della disposizione, sembra chiaramente delineare un nuovo illecito consumeristico, la pratica commerciale lesiva, che è oggetto di un proprio trattamento giuridico da determinare mediante il ricorso ai principi di proporzionalità ed effettività; il secondo precetto, contenuto nell’ultima parte della disposizione, consiste in una clausola di salvezza che lascia impregiudicati gli ulteriori rimedi già a disposizione del consumatore.

Ed allora, muovendo dalla clausola di salvezza che legittima il ricorso ai rimedi individuali (già esistenti nell’ordinamento) a disposizione del consumatore, potrebbe ritenersi che l’intero comma 15-bis dell’art. 27, cit., abbia una portata precettiva esclusivamente processuale, volta a puntualizzare, oltre alla devoluzione della controversia alla giurisdizione ordinaria, l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) – dunque, una condizione dell’azione – del consumatore avverso una pratica commerciale scorretta, che come illecito di pericolo, per un verso, potrebbe ben prescindere da ogni concreta lesione e, per altro verso, potrebbe ledere solo alcuni consumatori e non altri.

Tuttavia, siffatta lettura della norma sarebbe semplicemente riproduttiva del principio generale consacrato nell’art. 100 c.p.c., giacché non sembra potersi porre seriamente alcun problema di interesse ad agire nella configurazione dei rimedi civilistici individuali del consumatore avverso una pratica commerciale scorretta e lesiva, diversamente da quanto già avviene per l’esperimento delle comuni azioni di accertamento, costitutive o di condanna. Se l’interesse ad agire, secondo l’opinione tradizionale [77], allude al bisogno di tutela giurisdizionale conseguente ad una lesione del diritto (o, più ampiamente, della situazione giuridica protetta) affermata dall’attore [78], il punto non è stabilire se un consumatore possa agire in giudizio senza lesione, ma quale sia il diritto o la situazione giuridica sostanziale oggetto della lesione arrecata da una pratica commerciale scorretta. Si tratta, in sostanza, di individuare quale sia l’oggetto della tutela, al fine poi di rintracciare nell’ordinamento i modi della sua tutela; e a tal fine, non pare sufficiente limitarsi a quelli già a disposizione del consumatore, che sono sì fatti salvi dal legislatore, ma in quanto discendono dalla diversa qualificazione del fatto lesivo, a prescindere cioè dalla sua scorrettezza consumeristica. Il senso della novella sta nella previsione di un trattamento giuridico proprio della pratica commerciale lesiva, demandando all’interprete i modi della tutela proporzionati ed effettivi avverso la lesione arrecata da una pratica commerciale scorretta.

Per tali ragioni, la lettura meramente processuale dell’intero comma in esame si ritiene una lettura riduzionista, in quanto sostanzialmente volta a disconoscere l’emersione di un illecito consumeristico diverso da quello originariamente ricavabile dall’art. 20 cod. cons. e che oggi assume, altresì, i connotati di un illecito civile di evento.

La lettura riduzionista deve, invece, essere limitata alla clausola di salvezza finale del predetto comma, nella misura in cui fa salvi gli ulteriori rimedi già a disposizione: la salvezza deve ritenersi espressione del principio di relatività delle qualificazioni giuridiche ed allude alla possibilità di esperire un rimedio avverso il fatto lesivo, a prescindere dalla sua qualificazione in termini di pratica commerciale scorretta (perché, ad es., integrante un inadempimento contrattuale).


7. La ridefinizione dei rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali lesive ed il diritto comune. Il divieto di pratiche commerciali scorrette e la nullità virtuale

La clausola di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore contenuta nell’inciso finale dell’art. 27, comma 15-bis, cod. cons. consente di ricondurre ad unità sistematica i rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali scorrette e la disciplina del contratto in generale, come regolati dall’art. 19, comma 2, lett. a), cod. cons., secondo cui la disciplina consumeristica «non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto» [79].

I rapporti tra i due plessi normativi sono stati oggetto di due diverse letture: l’una, più rigorosa, di reciproca autonomia [80]; l’altra, evolutiva, di compenetrazione ed interferenza della disciplina consumeristica di origine europea nell’interpretazione delle disposizioni codicistiche [81].

Non pare, però, opportuno radicalizzare le due prospettive, in quanto entrambe muovono da un dato condiviso: la portata da attribuire al divieto di pratiche commerciali scorrette (art. 20, cod. cons.).

Il divieto, quale una norma proibitiva, cioè quale imperativo negativo [82], là dove abbia una incidenza diretta sul contratto o su un suo profilo [83], rientra potenzialmente nel campo applicativo della nullità virtuale del contratto contrario a norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.). Tuttavia, la dottrina, salve alcune sporadiche proposte anteriori al recepimento della direttiva [84], ha costantemente escluso la nullità del contratto concluso “a valle” di una pratica commerciale scorretta [85]. Una volta chiarite le ragioni per le quali la normativa consumeristica sulle pratiche commerciali scorrette debba intendersi principalmente come una disciplina dell’attività, e non dell’atto di consumo, occorre poi coerentemente trarne le conseguenze sistematiche senza impiegare con leggerezza categorie proprie della disciplina del contratto, che si attagliano, propriamente, alla dimensione dell’atto [86].

Il divieto di pratiche commerciali scorrette, infatti, fulmina tendenzialmente non il contratto di consumo, ma comportamenti anteriori o coevi alla stipula del contratto, cioè comportamenti ingannevoli, coercitivi o comunque sleali idonei a viziare potenzialmente il consenso del consumatore. In questi casi, la pratica commerciale, oltre ad essere scorretta, cioè potenzialmente incidente sul consenso del consumatore medio, può essere altresì lesiva, nella misura in cui ha effettivamente viziato, in misura determinante o incidente, il consenso del singolo consumatore; la lesione qui consiste nell’alterazione con mezzi illeciti della libertà e consapevolezza del consenso del consumatore, menomando quest’ultimo nell’esercizio dell’autonomia privata e ricadendo nel campo elettivo dei vizi del consenso dipendenti da un atto illecito, cioè del dolo e della violenza morale. Ci si avvede, allora, che non vi è spazio per affermare alcuna nullità virtuale del contratto “a valle” e che, piuttosto, il problema consiste nell’individuare i modi della tutela del consenso viziato del consumatore a fronte dell’illecito consumeristico del professionista (e sul punto ci si soffermerà infra, sub §§ 8, 9 e 10).

I comportamenti colpiti dal divieto di pratiche scorrette possono essere altresì successivi alla conclusione del contratto, incidendo su altre “decisioni di natura commerciale” (ad es., il recesso determinativo da un contratto di durata). In tal caso, però, il comportamento scorretto realizzato durante l’esecuzione del contratto, se ha provocato un danno al consumatore, potrà essere fonte di responsabilità contrattuale per il professionista [87]. In quest’ottica vanno, in particolare, considerate le pratiche scorrette, ingannevoli o aggressive, volte ad impedire la liberazione del consumatore dal vincolo contrattuale, cioè volte ad ostacolare l’esercizio del recesso determinativo, caratteristico dei contratti di consumo di durata [88]. L’interesse leso è quello del consumatore a liberarsi da un rapporto contrattuale che è divenuto sconveniente; pertanto, nel caso in cui la lesione di tale interesse discenda da una pratica scorretta del professionista che falsa la decisione del consumatore in merito all’esercizio del recesso determinativo, il professionista sarà tenuto a risarcire il danno per violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto secondo i consueti canoni della responsabilità contrattuale (artt. 1218 ss. c.c.).

Ebbene, tanto in caso di comportamenti anteriori o coevi al contratto quanto in caso di comportamenti successivi, il divieto di pratiche scorrette non colpisce il contratto in sé, ma i comportamenti che lo hanno occasionato oppure altri comportamenti endoesecutivi. Ed in tali casi non sembra esservi spazio per comminare alcuna nullità virtuale del contratto [89], poiché quest’ultimo non pare collidere con il divieto in esame.

Tale conclusione è, però, predicabile solo in linea generale, non in via principio, giacché ogni divieto, quale norma imperativa, a prescindere dalla sede normativa in cui è formulato, possiede l’attitudine a rilevare secondo la patologia del contratto in generale (art. 1418 c.c.) in virtù del principio di unità dell’ordinamento giuridico [90]. Che la conclusione “generale” circa l’esclusione della nullità per contrasto con il divieto di pratiche commerciali scorrette non possa costituire una conclusione “di principio”, si ricava dalla successiva introduzione, ad opera del legislatore, di nuove pratiche commerciali qualificate come scorrette (dunque, vietate), che possono bensì entrare nell’orbita della nullità virtuale per contrarietà a norme imperative: ad es., è stata così vietata, in caso di stipula di un contratto di mutuo con una banca, un istituto di credito o un intermediario finanziario, l’imposizione al cliente dell’abbinamento di una polizza assicurativa erogata dallo stesso mutuante ovvero dell’apertura di un contratto di conto corrente presso il medesimo mutuante (art. 21, comma 3-bis, cod. cons.) [91]; è stata, inoltre, vietata l’applicazione di un sovrapprezzo per il completamento di una transazione elettronica con un fornitore di beni o servizi (art. 21, comma 4-bis, cod. cons.) [92].

Lasciata in disparte la deprecabile scelta di inserire i due nuovi commi – che disciplinano due ipotesi coercitive del consenso del consumatore – nell’art. 21, cod. cons., dedicato alle pratiche ingannevoli, piuttosto che collocarle propriamente nell’àmbito delle pratiche aggressive (art. 24, cod. cons.), di cui condividono le note della coercizione (si noti, del resto, che il legislatore non le qualifica testualmente “ingannevoli”, ma semplicemente “scorrette”), deve osservarsi che, nel primo caso, stante l’espresso divieto derivante dalla qualificazione in termini di scorrettezza (art. 21, comma 3-bis, cod. cons.), può ben concludersi per la nullità del contratto accessorio al contratto di mutuo, cioè per la nullità del contratto di assicurazione o del contratto di conto corrente bancario perché in tal caso non si vieta semplicemente la condotta coercitiva che ha determinato il consenso del consumatore, ma direttamente il contratto accessorio che ne è derivato. Parimenti, nel secondo caso (art. 21, comma 4-bis, cod. cons.), sembra potersi concludere per la nullità parziale della clausola che imponga il sovrapprezzo per il completamento di una transazione elettronica [93], giacché è il sovrapprezzo ad essere vietato (non la condotta coercitiva che, in ipotesi, lo ha imposto), con il conseguente problema di stabilire, in questo caso, se il regime giuridico della nullità parziale debba ricavarsi dall’art. 36 cod. cons. o dall’art. 1419 c.c.

In quest’ottica, allora, può ben comprendersi la portata precettiva della clausola di salvezza dei rimedi già esistenti a disposizione del consumatore (art. 27, comma 15-bis, ult. parte, cod. cons.): nel dubbio, deve optarsi per i rimedi specificamente previsti per il consumatore; dunque, deve preferirsi il regime normativo della nullità di protezione ricavabile dall’art. 36 cod. cons.

Dalle precedenti considerazioni, vuole ricavarsi una coordinata interpretativa di fondo: in origine, era probabilmente difficile negare che i due plessi normativi fossero ispirati dalla logica dell’autonomia reciproca; tuttavia, alla luce dell’ampliamento del novero di pratiche scorrette tipizzate, non sembra oggi potersi ignorare la portata civilistica del divieto di pratiche commerciali, il quale va trattato alla stregua di ogni altra norma imperativa dell’ordinamento per la quale il legislatore non dispone alcun rimedio specifico. Occorrerà allora accertare, con il dovuto rigore, se il contratto si ponga effettivamente “a valle” del comportamento vietato ed, in tal caso, certamente escludere la nullità; ma se è il contratto in sé a collidere con il divieto, essendo in altri termini la sua stipula, o meglio la sua rilevanza giuridica, ad integrare la pratica commerciale scorretta vietata, allora – in mancanza di altra norma che disponga diversamente – non potrà che concludersi per la sua nullità virtuale ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., secondo le chiare indicazioni precettive oggi fornite non soltanto dall’art. 19, comma 2, lett. a, cod. cons., ma anche dall’art. 27, comma 15-bis, sec. parte, cod. cons.

All’inverso, sembrano oggi doversi sottoporre ad accurata rimeditazione i tentativi dottrinali di lettura evolutiva della patologia genetica del contratto compiuta sulla scorta delle indicazioni ermeneutiche ricavate dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in particolare fondate sull’assimilazione di queste ultime con i vizi del consenso, in virtù della predicata omogeneità tra dolo e pratiche ingannevoli e, parimenti, di quella intercorrente tra violenza morale e pratiche aggressive. A tali profili ora si dedicherà l’attenzione, al fine di valorizzare l’art. 27, comma 15-bis, cod. cons., nella parte in cui invita l’interprete a rinvenire il rimedio effettivo e proporzionato per il consumatore leso da una pratica commerciale scorretta.


8. L’ampliamento della rilevanza dei mezzi dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva. L’annullabilità del contratto di consumo. Critica

Le letture evolutive possono essere accomunate da un elemento caratterizzante: seppur con diversa estensione e pluralità di accenti, esse ritengono di poter ricavare dal divieto di pratiche commerciali scorrette un chiaro indice ermeneutico per l’ampliamento della rilevanza patologica dei mezzi dell’attività ingannatoria e coercitiva allo scopo di allargare le maglie del dolo e della violenza morale e, conseguentemente, di affermare l’annullabilità del contratto “a valle” di una pratica commerciale scorretta che abbia non tanto carpito o estorto (cfr. art. 1427 c.c.), quanto – più genericamente – determinato il consenso del concreto consumatore, il quale non avrebbe stipulato il contratto di consumo in assenza della pratica scorretta [94].

Quest’ampliamento della rilevanza patologica dei mezzi dell’attività ingannatoria e coercitiva è stato con vigore sostenuto da autorevole dottrina [95], con penetrante analisi che muove dal fondamento liberista della patologia genetica del contratto. La soluzione, tuttavia, non convince: ampliando la rilevanza invalidante a qualsiasi mezzo dell’attività ingannatoria o coercitiva, si finisce col postulare un’annullabilità per contrarietà ad una norma imperativa, cioè il divieto di pratiche commerciale scorrette (art. 20 cod. cons.), ingannevoli o aggressive. Le resistenze all’ammissibilità di una annullabilità per contrarietà ad una norma imperativa nel nostro sistema non discendono dalla struttura del rimedio (giacché è lo stesso legislatore a concepire delle annullabilità per violazione di una norma imperativa, cfr. artt. 23, 377, 396, 412, 1137, 1471 nn. 3 e 4, 2098, 2377), ma da una precisa scelta normativa (art. 1418, comma 1, c.c.) [96], che – peraltro – fa salve le diverse disposizione di legge (su cui, infra). Non può negarsi che qualsiasi violenza o inganno decisivi, comunque perpetrati, compromettono l’utilità della scelta per la vittima della violenza o dell’inganno; tuttavia, non può accogliersi il corollario secondo cui la negazione dell’ampliamento della rilevanza patologica di ulteriori mezzi ingannatori o coercitivi [97] costituisca una ingiustificata limitazione della teoria liberista (che, secondo la tesi criticata, ispirerebbe la disciplina dei vizi del consenso), il cui logico sviluppo dovrebbe invece affermare il principio che «una scelta razionale, e solo una scelta razionale, cioè libera e consapevole, arreca utilità individuale e generale, ed è giusta. Quindi valida; e altrimenti invalida» [98]. Senza necessità di scendere nell’esame del fondamento economico della teoria dei vizi dei consenso, l’assunto non pare ben orientato. Nel contratto, le parti sono (almeno) due e alla scelta irrazionale o coartata di una parte corrisponde di solito la scelta razionale e libera dell’altra. Allora, non sempre la scelta irrazionale di uno dei contraenti può comportare il sacrificio della scelta razionale dell’altro: a giustificare le limitazioni all’ampliamento della rilevanza patologica dell’attività ingannatoria e coercitiva sono, per un verso, i princìpi di affidamento e di conservazione del contratto e, per altro verso, l’esigenza di certezza del traffico giuridico.

Ecco, allora, la ragione per la quale la dottrina tradizionale inquadra i vizi del consenso come ipotesi tipiche di eccezionale rilevanza del motivo [99]. Del resto, ove si desse peso alla sola razionalità e libertà della scelta della vittima, la teoria dei vizi del consenso andrebbe costruita esclusivamente sul timore e sull’errore determinanti del consenso [100], senza dar peso ai fatti (per l’appunto: i mezzi dell’attività ingannatoria e coercitiva tipicamente considerati) che li hanno generati; ma tale costruzione non è stata accolta dal nostro sistema giuridico (cfr. artt. 1429 n. 4, 1437 e 1439 c.c.) [101] e non pare possa essere messa in discussione dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in relazione alla quale si pongono altre esigenze di tutela del consumatore e di speditezza dei traffici commerciali. Il che, sotto altro profilo, induce altresì a ritenere l’annullabilità un rimedio poco effettivo per il consumatore, che – secondo la diffusa prassi negoziale dei contratti di consumo – difficilmente potrà avvalersi dell’eccezione di annullabilità, quanto meno nei contratti ad esecuzione istantanea, e dovrà affidarsi principalmente all’esperimento giudiziale dell’azione di annullamento.


9. Segue. L’efficienza determinante dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela caducatoria avverso una pratica commerciale lesiva causam dans: il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons.

Occorre, allora, completare la ricerca del rimedio proporzionato ed effettivo (art. 27, comma 15-bis, prima parte, cod. cons.) avverso una pratica commerciale lesiva causam dans, in relazione alla quale, cioè, risulti che il consumatore non avrebbe prestato il consenso senza la pratica ingannevole o aggressiva. In tal caso, il rimedio caducatorio pare essere l’unico proporzionato, cioè adeguato allo scopo, ed effettivo, nella misura in cui consente di rimuovere la lesione arrecata al consumatore. Nella pluralità di rimedi caducatori presenti nel nostro ordinamento, deve essere preferito quello che appare maggiormente rispondente a garantire un’adesione libera e consapevole del consumatore all’accordo e questo pare essere meglio rappresentato dal diritto di recesso. Non si allude, però, al recesso penitenziale previsto dall’art. 52 cod. cons., soggetto ad un breve termine di decadenza di quattordici giorni, ma al recesso impugnatorio previsto dall’art. 53, comma 1, cod. cons. previsto per il caso di violazione dell’obbligo informativo sul diritto di recesso, in relazione al quale il periodo per l’esercizio del diritto di recesso è esteso di dodici mesi.

Risulta ormai una constatazione ampiamente diffusa che il recesso è impiegato dal legislatore per designare numerose fattispecie diverse tra loro, con grave disomogeneità del linguaggio legislativo [102], e che, dunque, non esista nel nostro ordinamento un concetto unitario di recesso, a meno che non voglia fondarsi sull’anodino dato strutturale della natura potestativa della dichiarazione di volontà, imponendo così all’interprete di coglierne piuttosto l’individualità sul piano della funzione [103]. Da questo punto di vista, poi, le difficoltà ricostruttive sono acuite anche dall’incostanza del linguaggio legislativo, che impiega termini differenti (la disdetta del locatore, la revoca del mandante, la rinunzia del mandatario, il riscatto del debitore della rendita perpetua) per indicare atti funzionalmente assimilabili ad altri denominati come recesso [104].

Alla contrapposizione, diffusa in tempi più risalenti [105], tra recesso ordinario, operante nei rapporti di durata privi di termine finale in funzione integrativa del regolamento contrattuale, e straordinario, che all’inverso lo altera e lo travolge, viene di recente preferita la tripartizione in recesso determinativo, recesso impugnatorio e recesso penitenziale [106]. Il recesso determinativo costituisce uno strumento di integrazione nei contratti di durata privi del termine finale, nel senso che il contraente, comunicando il recesso, stabilisce il termine prima non concordato. Il recesso impugnatorio (o di autotutela) comprende ipotesi variegate e consiste in uno strumento di reazione avverso vizi originari o sopravvenuti in funzione dell’eliminazione del vincolo contrattuale, seppur con diversa incidenza, che, talvolta, travolge lo stesso contratto (unica ipotesi cui andrebbe riconosciuta natura impugnatoria) e, talaltra, si limita ad interrompere la prosecuzione del rapporto contrattuale (promiscuamente si considerino: l’esclusione dell’associato, art. 24, comma 3, c.c.; il recesso nella disciplina della caparra confirmatoria, art. 1385 c.c.; nell’impossibilità sopravvenuta parziale, art. 1464 c.c.; nella vendita a corpo e a misura, artt. 1537, comma 2, e 1538, comma 2, c.c.; nell’assicurazione, per le reticenze e dichiarazioni inesatte dovute a colpa lieve dell’assicurato, art. 1893 c.c.; nel rapporto di lavoro subordinato, artt. 2118 e 2119 c.c.; nell’opera professionale, art. 2237, comma 2, c.c.; nonché l’esclusione del socio, art. 2286, c.c.). Il recesso penitenziale, invece, si atteggia come ius se poenitendi, attribuendo alla parte contrattuale il diritto di sciogliere unilateralmente il contratto, perché non più interessato alla sua instaurazione o continuazione (nell’appalto, art. 1671 c.c.; nel mandato oneroso, art. 1725; nella rendita perpetua, art. 1865 c.c.; nell’assicurazione contro i danni, art. 1899 c.c.; nel lavoro autonomo, art. 2227 c.c.; nell’opera professionale, art. 2237, comma 1, c.c.).

In questo quadro composito, deve essere esaminata la progressiva emersione del recesso consumeristico nella legislazione di origine europea: nei contratti conclusi a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali (artt. 52 e 53 cod. cons.), nei contratti di multiproprietà (art. 73 cod. cons.) e di pacchetti turistici (art. 36, lett. d, nonché artt. 40 e 41, D. Lgs. 23 maggio 2011, 79), nella commercializzazione a distanza dei servizi finanziari (art. 67-duodecies cod. cons.), nei contratti di credito ai consumatori (art. 125-ter t.u.b.) [107]. Le singole figure mostrano significative differenze di trattamento giuridico e non presentano un’omogeneità funzionale; come tali, dunque, sono insuscettibili di essere ricondotte ad unità [108]. Si consideri che in alcuni casi è sospesa l’efficacia dei contratti cui il recesso afferisce (cfr. art. 67-duodecies, comma 4, cod. cons., per i contratti a distanza relativi ai servizi finanziari) [109], in altri è previsto il divieto di ricevere acconti fino al scadenza del termine per recedere (cfr. art. 75 cod. cons., per i contratti di multiproprietà), in altri ancora il recesso può anche operare nei confronti di una proposta contrattuale alla stregua di una revoca (art. 55 cod. cons.; ma, diversamente, l’art. 74, comma 3, cod. cons.) [110]; talvolta all’esercizio del recesso è collegata la risoluzione di diritto dei contratti collegati (cfr. l’art. 58 cod. cons. per i contratti a distanza e per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali; l’art. 77 cod. cons. per i contratti di multiproprietà; l’art. 125-ter, comma 4, t.u.b., per i contratti di credito ai consumatori). Diverse sono, poi, le conseguenze dell’inadem­pimento dell’obbligo informativo precontrattuale sulla spettanza del diritto di recesso: dalla nullità testuale e relativa del contratto a distanza avente ad oggetto servizi finanziari (art. 67-septiesdecies, comma 4 e 5, cod. cons.) alla configurazione di un recesso con termine di esercizio significativamente maggiore, che vede la dilatazione di un anno con riferimento ai contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali (art. 53 cod. cons.; per le altre conseguenze, infra) e ai contratti di multiproprietà (art. 73, comma 3, lett. a, cod. cons.), ma che, con riferimento a questi ultimi, si riduce a tre mesi in caso di inadempimento di altri obblighi informativi (art. 73, comma 3, lett. b, cod. cons.).

Si ripropone, dunque, anche nella legislazione di provenienza europea quella eterogeneità di funzioni e di discipline collegate al recesso, che contraddistingue le figure di recesso tradizionalmente contemplate dal codice civile [111].

Con precipuo riferimento al recesso di pentimento relativo ai contratti conclusi a distanza ed ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali (oggi v. art. 52 cod. cons.; ma, nella disciplina anteriore alle modifiche al codice del consumo apportate dal D. Lgs. 21 marzo 2014, n. 21, v. l’art. 65 cod. cons.), pur nella varietà delle singole opinioni, è possibile raggruppare, da un lato, coloro che concepiscono il recesso nell’ottica del perfezionamento del consenso contrattuale del consumatore, mancante sino allo spirare del periodo di riflessione (degradando il contratto di consumo concluso a mera parte di una fattispecie più ampia, in via di formazione) [112], dall’altro lato, chi attribuisce al recesso natura risolutiva del contratto già perfezionato [113].

Secondo un’opinione diffusa in dottrina in tempi meno recenti, si era soliti affermare sbrigativamente che il recesso penitenziale non offra un rimedio al consumatore avverso una disfunzione nell’attuazione dello scambio, ma rispetto a fattori – presuntivi e standardizzati – di alterazione della volontà negoziale [114]. Per quanto non possa negarsi che il recesso penitenziale intenda assicurare la consapevole e libera formazione del consenso del consumatore, oggi pare doversi fermamente escludere la natura rimediale del recesso di pentimento, per la semplice ragione che il rimedio, quale reazione dell’ordinamento all’inosservanza di una norma mediante l’apprestamento di una tutela all’interesse leso dall’inosservanza, postula necessariamente la violazione di una norma, cioè una difformità del fatto compiuto dal fatto regolato, ed il bisogno di tutela che da essa scaturisce: circostanza che – a ben vedere – nel recesso di pentimento non è in alcun modo riscontrabile [115], atteso che il consumatore ha la facoltà di pentirsi, senza che rilevino eventuali inosservanze del professionista a fondare quella facoltà di ripensamento.

La questione si pone in termini differenti allorché il recesso consumeristico non è di mero pentimento, ma è concepito quale mezzo di impugnazione del contratto in funzione di un’inosservanza del professionista: in particolare, questa pare essere la funzione da assegnare oggi al recesso previsto dall’art. 53, comma 1, cod. cons., attribuito al consumatore a fronte dell’inadempimento dell’obbligo informativo precontrattuale relativo all’esistenza e alle modalità di esercizio del recesso [116]. Il recesso in esame, allora, non sembra partecipare della medesima natura del recesso di pentimento di cui all’art. 52, cod. cons., dovendogli in tal caso attribuire senz’altro natura rimediale [117]. Occorre, allora, chiarire che all’illecito precontrattuale non consegue semplicemente la dilatazione (di un anno) del termine di ripensamento per recedere [118]; si tratta, invero, di un diritto di recesso che si fonda sull’illecito altrui cui l’ordinamento riserva un peculiare trattamento giuridico proprio in ragione della lesione provocata al consumatore dall’omessa informazione doverosa. Infatti, lo statuto normativo del recesso impugnatorio consumeristico dei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali è dato non solo dall’art. 53, comma 1, ma anche dall’art. 57, comma 2, secondo periodo, e comma 4, lett. a), cod. cons., che – diversamente dal recesso di pentimento – escludono, ai fini restitutori, ogni responsabilità del consumatore per il perimento o il deterioramento del bene nonché ogni obbligazione per il servizio reso durante il periodo di recesso, in deroga non solo e non tanto dell’art. 57, comma 1, primo periodo, cod. cons. (il quale ammette la responsabilità nei soli limiti in cui l’utilizzo non è stato funzionale all’esperimento della prova e della verifica del funzionamento del bene) [119] e dell’art. 57, comma 3, cod. cons. (il quale, invece, riconosce al professionista il diritto al corrispettivo per il servizio reso in costanza del periodo di ripensamento), ma soprattutto dell’art. 2037, comma 3, c.c. e dell’art. 2041 c.c. [120], secondo i quali l’accipiens sarebbe comunque tenuto a indennizzare la controparte nei limiti del proprio arricchimento.

Il recesso impugnatorio attribuito, dunque, al consumatore per effetto dell’illecito precontrattuale del professionista consente al consumatore di rimuovere retroattivamente il contratto di consumo [121], facendo sorgere a carico delle parti i relativi obblighi restitutori: la restituzione del prezzo a carico del professionista e la sola restituzione del bene nello stato in cui si trova (anche deteriorato) a carico del consumatore (art. 57, comma 2, secondo periodo, cod. cons.). Se, tuttavia, il bene è perito (o è consumato) oppure il contratto ha ad oggetto un servizio o la fornitura dei beni consumabili indicati dagli artt. 50, comma 3, e 51, comma 8, cod. cons., il consumatore non è obbligato a restituire alcunché (cfr. art. 57, comma 4, lett. a, cod. cons.), restando a carico del solo professionista l’obbligo restitutorio relativo al prezzo ricevuto.

Parte della dottrina aveva già individuato nel diritto di recesso – ma inteso come ius se poenitendi – il mezzo più idoneo a reprimere le pratiche commerciali ingannevoli o aggressive perpetrate a distanza ovvero durante le trattative condotte fuori dei locali commerciali [122], postulando un «nesso di complementarietà» fra la disciplina delle pratiche scorrette e quella dei contratti a distanza e negoziati fuori dei locali commerciali in ragione dell’omogeneità del «tipo di abuso» perpetrato dall’autore di una pratica commerciale scorretta e da chi pone in essere una tecnica di negoziazione «aggressiva» [123] per la concreta idoneità a catturare l’attenzione del cliente e indurlo a prestare il proprio consenso in tempi ristretti [124], facendo leva sul cd. effetto sorpresa [125] che annienta ogni possibilità di seria ponderazione. Rimaneva, però, aperto il problema del trattamento giuridico delle pratiche commerciali scorrette in relazione alle quali non si verificava la «sovrapposizione» con la disciplina dei contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciale, cioè quando la pratica scorretta era attuata all’interno di un locale commerciale, giungendo alla conclusione della non estensibilità del diritto di pentimento.

Il ricorso a quest’ultimo pare, tuttavia, l’elemento che vizia l’intuizione della citata dottrina: non pare, infatti, possibile estendere la facoltà di pentimento consumeristica ad ipotesi non contemplate dal legislatore [126], nella misura in cui il recesso penitenziale deve pur sempre essere coordinato, a seconda della costruzione preferita dall’interprete, con la regola generale della vincolatività del contratto, cui è attribuita forza di legge (art. 1372 c.c.), per chi ritenga che il recesso incida sul contratto di consumo già perfezionato; oppure, per chi ritenga che l’omesso esercizio del recesso penitenziale costituisca il coelemento perfezionativo di una fattispecie ancora imperfetta, esso deve essere pur sempre coordinato con la regola generale sancita nell’art. 1355 c.c. [127], che reputa nulla l’assunzione di un’obbligazione subordinata alla scelta meramente potestativa dell’obbligato [128]. Dunque, a prescindere dalla qualificazione che si voglia operare, è difficile negare che il recesso penitenziale consumeristico abbia connotati eccezionali.

Ecco, però, che, qualora si assegni al recesso natura rimediale, nella misura in cui è concepito – in virtù di una precisa scelta normativa – come mezzo di impugnazione del contratto di consumo che consegue ad un illecito precontrattuale (art. 53, comma 1, cod. cons.), è possibile valutarne la proporzionalità ed effettività che consentono di ascriverlo ai “rimedi” indicati dal legislatore per reagire ad una pratica commerciale lesiva (art. 27, comma 15-bis, prima parte, cod. cons.). Indubbiamente la natura rimediale, di reazione ad un illecito, ne esclude il carattere eccezionale [129], che ad ogni modo non sarebbe di per sé ostativo, non facendosi questione di interpretazione analogica, ma di concretizzazione del precetto normativo fissato dall’art. 27, comma 15-bis, prima parte, cod. cons., nella misura in cui impone all’interprete di individuare il «rimedio proporzionato ed effettivo», ponendogli così l’unico limite della natura rimediale dell’istituto prescelto.

Venendo allora a valutarne dapprima l’effettività, deve essere considerato che il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons. è attribuito al consumatore quale mezzo per rimuovere un contratto che non è stato il frutto di una scelta libera e consapevole a causa dell’omessa informazione sul diritto di pentirsi, ricorrendo, allora, il medesimo oggetto di tutela riscontrabile nelle pratiche commerciali scorrette, le quali sono giustappunto vietate allo scopo di proteggere il consumatore da scelte negoziali che non avrebbe assunto, in particolare perché frutto di un inganno che ne ha alterato al consapevolezza (pratiche ingannevoli) o di una coercizione che ne ha limitato la libertà (pratiche aggressive).

L’identità dell’oggetto della tutela consente, dunque, di giudicare effettivo il rimedio rappresentato dal recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons., avverso una pratica commerciale scorretta che abbia viziato in maniera determinante il consenso del consumatore, inducendolo a stipulare un contratto che non avrebbe concluso. Ciò in quanto il rimedio caducatorio è, senza dubbio, quello maggiormente effettivo avverso un contratto non voluto.

Il recesso impugnatorio appare altresì proporzionato, nella misura in cui appresta un’efficace reazione avverso i soli comportamenti del professionista di gravità tale da viziare in maniera determinante il consenso del consumatore, senza però assumere carattere afflittivo per il professionista, che – a fronte del recesso ex art. 53 cod. cons. – conserva il diritto alla ripetizione della prestazione eseguita là dove quest’ultima fosse ripetibile (cioè nei limiti fissati dall’art. 57, comma 2, secondo periodo, cod. cons.). La prestazione eseguita dal professionista resterà, invece, irripetibile ove il bene sia perito oppure nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto un servizio o la fornitura dei beni consumabili indicati dagli artt. 50, comma 3, e 51, comma 8, cod. cons. (cfr. art. 57, comma 4, lett. a, cod. cons.).

La proporzionalità del rimedio caducatorio appena individuato si apprezza altresì nel confronto con il rimedio risarcitorio, che si rivelerebbe contraddittorio ed afflittivo per il professionista: contraddittorio perché il consumatore si troverebbe a chiedere a titolo di danno quanto forma oggetto di un’obbligazione pecuniaria che – non venendone rimossa la fonte – resterebbe validamente assunta; afflittivo per il professionista, in quanto quest’ultimo, a fronte dell’adempimento delle proprie obbligazioni contrattuali, sarebbe tenuto a risarcire un importo quanto meno pari al corrispettivo ricevuto, negando però al professionista la ripetizione della prestazione eseguita là dove quest’ultima fosse ripetibile (seppure nei limiti fissati dall’art. 57, comma 2, secondo periodo, cod. cons.).

Il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons. pare, infine, il rimedio appropriato per trattare altresì le ipotesi in cui la pratica scorretta del professionista, senza viziare il consenso del consumatore in occasione della conclusione del contratto di consumo, abbia successivamente ostacolato l’esercizio del recesso penitenziale riconosciuto al consumatore (per la diversa soluzione affermata con riferimento al recesso determinativo da un rapporto di durata, cfr. supra, § 7).


10. L’efficienza meramente incidente dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela risarcitoria e la conformazione cogente del regolamento contrattuale alle dichiarazioni precontrattuali del professionista

Il rimedio risarcitorio sembra, all’inverso, quello maggiormente appropriato in caso di pratica commerciale scorretta che abbia un’efficienza meramente incidente sul consenso del consumatore, il quale avrebbe comunque concluso il contratto di consumo, ma a condizioni diverse.

La distinzione tra carattere determinante ed incidente della pratica commerciale sul consenso del consumatore riposerà prevalentemente sulla seguente distinzione: è determinante quando induce la vittima a procurarsi un bene o un servizio di cui non ha bisogno; è incidente se induce la vittima a promettere, in vista della controprestazione, più di quanto gli convenisse. Dunque, la prima incide sull’oggetto della stipulazione, la seconda sulla misura della prestazione promessa [130]. Tuttavia, ben potrebbero darsi altre ipotesi in cui il carattere incidente del vizio non si apprezzi soltanto con riguardo alla misura del corrispettivo, ma alle ulteriori condizioni contrattuali reclamizzate dal professionista e non confluite nel regolamento contrattuale.

Ad ogni modo, quale che sia la natura del vizio incidente, la valutazione di effettività e proporzionalità del rimedio induce certamente ad escludere il rimedio caducatorio, il quale priverebbe il consumatore dell’accesso al bene o al servizio che si era procurato con il contratto in corrispondenza del suo effettivo bisogno.

Sotto la lente dell’effettività, la tutela di cui abbisogna il consumatore è, allora, quella che gli consenta di “riappropriarsi” del sovrapprezzo pagato al professionista o delle condizioni contrattuali cui egli aveva interesse, ma non confluite nel regolamento contrattuale. E tale risultato può raggiungersi, per un verso, attraverso la manutenzione del contratto, per altro verso, attraverso il riconoscimento del sovrapprezzo a titolo risarcitorio [131]. Pertanto, con riferimento ad un vizio incidente, il rimedio risarcitorio concorre astrattamente con il rimedio manutentivo, che può variamente essere rappresentato dalla correzione giudiziale dell’assetto di interessi (però, di incerta base normativa) o, secondo quanto prospettato in dottrina [132], dalla conformazione cogente del contenuto contrattuale in maniera corrispondente alle informazioni pubblicizzate o alle dichiarazioni precontrattuali (imponendo al professionista l’esecuzione del contratto con le modalità falsamente promesse dal professionista).

Se la correzione giudiziale del contratto è tema risalente, affiorato con la raffinata attribuzione di valore conformativo alla clausola generale di buona fede (art. 1375 c.c.) [133], ma privo di solida base normativa (salve alcune ipotesi testuali: ad es., art. 1384 c.c.; art. 57, comma 3, ult. parte, cod. cons.), appare maggiormente interessante analizzare la possibile portata conformativa delle dichiarazioni precontrattuali del professionista.

Sebbene non possa attribuirsi a quest’ultima ipotesi portata generale ed esclusiva [134], la conformazione del contratto stipulato sotto l’influenza di una pratica scorretta alle clausole prospettate e divulgate durante la fase precontrattuale in luogo di quelle più sfavorevoli inserite nell’autoregolamento è normativamente sancita dall’art. 49, comma 5, cod. cons. per i contratti conclusi a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali, nonché dall’art. 72, comma 4, cod. cons. per i contratti di multiproprietà e dall’art. 35, comma 1, cod. tur. per i contratti di pacchetto turistico.

All’infuori dei casi in cui è espressamente prevista, sorge allora l’interrogativo se sia possibile predicare la conformazione cogente del contenuto contrattuale con le dichiarazioni precontrattuali del professionista allorché queste ultime siano oggetto di specifici obblighi informativi precontrattuali del professionista (si pensi, ad es., agli artt. 185 ss. cod. ass. priv, con riferimento contratto di assicurazione) [135]. La conformazione cogente può essere utile con riguardo a quei contratti in relazione ai quali il consumatore non ha interesse a “riappropriarsi” del sovrapprezzo pagato, ma delle specifiche condizioni contrattuali reclamizzate che incidono sull’esercizio dei diritti contrattuali del consumatore e che costituiscono l’oggetto di precisi doveri informativi precontrattuali a carico del professionista [136]. In tal caso, la conformazione cogente del contratto alle dichiarazioni precontrattuali del professionista, ove sussista uno specifico obbligo informativo, sembra costituire il rimedio maggiormente effettivo, perché il consumatore beneficia delle condizioni contrattuali reclamizzate che hanno contribuito alla formazione del suo consenso, nonché proporzionato, in quanto il professionista sopporta le conseguenze delle sue dichiarazioni e millanterie (cuius commoda eius et incommoda).

All’inverso, ove il consumatore abbia interesse a “riappropriarsi” del sovrapprezzo pagato, in difetto di tutele normative specifiche (cfr. l’art. 125-bis, comma 6, T.U.B., il quale sancisce la nullità parziale della clausola del contratto di credito al consumo che prevede costi aggiuntivi non pubblicizzati a carico del consumatore), il rimedio risarcitorio pare l’unico effettivo e proporzionato.

Il rimedio risarcitorio, infatti, è, per un verso, conservativo del contratto, potendo produrre, in concreto, lo stesso risultato di una conformazione cogente degli effetti del contratto [137], realizzando così l’interesse leso del consumatore senza privarlo del bene o del servizio desiderato; per altro verso, è proporzionato nella misura in cui consente al professionista di ricevere la giusta remunerazione per il bene venduto o per il servizio reso, depurata dal sovrapprezzo frutto della pratica commerciale scorretta.

In sostanza, per il vizio incidente derivante da una pratica commerciale scorretta si tratta di mutuare il regime di responsabilità tradizionalmente affermato con riferimento al dolo incidente (art. 1440 c.c.) [138], la cui risarcibilità è ammessa nei limiti dell’interesse positivo differenziale, che è dato, giustappunto, dal sovrapprezzo pagato dal consumatore rispetto al prezzo di mercato del bene o del servizio.


NOTE

[1] Occorre precisare che in alcuni casi l’Autorità già si valeva di tale possibilità, estendendo la nozione di professionista di cui all’art. 18, comma 1, lett. b) non solo al soggetto autore della pratica commerciale (content provider), ma altresì al soggetto ideatore ed al soggetto che partecipa alla sua attuazione: in quest’ottica, le società di gestione di reti di comunicazione agivano in qualità di professionisti attuatori della pratica commerciale imputabile al content provider. Sul punto, anche per i riferimenti dei provvedimenti in cui l’AGCM si è valsa di tale facoltà, cfr. A. Gagliardi, Pratiche commerciali scorrette, cit., 9 s.

[2] La complessità della disciplina delle azioni collettive non consente di diffondersi sui relativi tratti distintivi. In questo breve spazio, si segnalano solo quelle che, ad un rapido sguardo, paiono essere le principali differenze tra azione di classe e azione rappresentativa. In primo luogo, è diversa la legittimazione attiva, che si traduce in una differente declinazione del giudizio di ammissibilità dell’azione: il vaglio di ammissibilità dell’azione rappresentativa in punto di legittimazione attiva non è costituita da una valutazione sostanziale di adeguatezza, ma da una valutazione soltanto formale, consistente nell’accertamento dell’iscrizione dell’ente nell’elenco di cui all’art. 137 cod. cons. (art. 140-septies, comma 8, lett. d, cod. cons.) e dell’ampiezza dell’oggetto sociale dell’ente ricorrente (art. 140-septies, comma 8, lett. f, cod. cons.); all’inverso, nell’azione di classe il vaglio di ammissibilità in punto di legittimazione attiva si fonda sulla diversa valutazione sostanziale di “adeguatezza” del ricorrente alla cura dei diritti individuali omogenei dei consumatori (art. 840-ter, comma 4, lett. d, c.p.c.), in quanto nell’azione di classe l’associazione ricorrente non è iscritta nell’elenco dell’art. 137 cod. cons. (tenuto dal Ministero dello Sviluppo economico, oggi Ministero delle Imprese e del Made in Italy), ma nell’elenco previsto dall’art. 840-bis c.p.c. (tenuto presso il Ministero della Giustizia).

In secondo luogo, sono diversi i caratteri dell’azione rappresentativa inibitoria, che prescinde dalla colpa e da una lesione attuale (essendo, così, sufficiente l’attribuzione di una condotta ad un determinato autore ed una mera lesione potenziale), rispetto all’azione inibitoria collettiva (art. 840-sexiesdecies c.p.c) che richiede invece atti «posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui». All’inverso, l’azione rappresentativa compensativa pare essere, nella sostanza, un’azione di classe dei consumatori con legittimazione attiva esclusiva (l’ente rappresentativo iscritto nell’elenco ex art. 137 cod. cons.) e con attribuzione all’ente rappresentativo della capacità di disporre dei diritti controversi dei consumatori in deroga all’art. 1966 c.c. (capacità, invece, attribuita al rappresentante comune dall’art. 840-quaterdecies c.p.c., che non è richiamato dall’art. 140-novies cod. cons.., ma solo in quanto compatibile dall’art. 140-decies, cod cons.).

Per una prima analisi di coordinamento delle due categorie di azioni collettive, cfr. G. De Cristofaro, Le «azioni rappresentative» di cui agli artt. 140-ter ss. c.cons.: ambito di applicazione, legittimazione ad agire e rapporti con la disciplina generale delle azioni di classe di cui agli artt. 840- bis ss. c.p.c., in Nuove leggi civ. comm., 2024, 1, 1 ss.

[3] Non è possibile dar conto in questo breve spazio delle innumerevoli prospettazioni offerte, soffermandoci più avanti su quelle che paiono maggiormente significative. Ad ogni modo, al solo fine di fornire un’indicativa panoramica di insieme, si consideri che sono stati sono stati prospettati: rimedi risarcitori (unici accessibili allorquando alla pratica commerciale scorretta non abbia fatto seguito la conclusione di un contratto), rimedi caducatori dei contratti cd. a valle di una pratica com­merciale scorretta, rimedi manutentivi del contratto volti a sollecitare un intervento integrativo di ortopedia contrattuale ad opera del giudice.

Deve, però, constatarsi, a dispetto degli sforzi ricostruttivi, la diffusa opinione di incomunicabilità sussistente tra la pratica commerciale scorretta (comportamento uni­laterale dell’impresa attuato con serialità sul mercato) ed il singolo contratto di consumo, su cui si tornerà infra § 7.

Si segnalano i più recenti lavori monografici sul tema: A. Fachechi, Pratiche commerciali scorrette e rimedi negoziali, Napoli, 2012; S. Tommasi, Pratiche com­merciali scorrette e disciplina dell’attività negoziale, Bari, 2012; T. Febbrajo, Il private enforcement del divieto di pratiche commerciali scorrette, Napoli, 2018; E. Labella, Pratiche commerciali scorrette e autonomia privata, Torino, 2018; L. Guf­fanti-Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, Napoli, 2020.

[4] Per l’esame del possibile impatto della nuova Direttiva 2019/2161/UE sull’ap­pli­cazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cfr. C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: alla vigilia del recepimento della Dir. 2019/2161/UE, in Contr., 2021, 5, 493 ss.

[5] Per le prime riflessioni sul recepimento della Direttiva 2019/2161/UE e per l’analisi puntuale dei vincoli (non particolarmente stringenti) cui il legislatore doveva attenersi, si rinvia a G. De Cristofaro, “Rimedi” privatistici individuali e pratiche commerciali scorrette. Il recepimento nel diritto italiano dell’art. 11-bis della direttiva 2005/29/CE (comma 15-bis, art. 27 c. cons.), in Nuove leggi civ. comm., 2023, 441 ss.

[6] Si noti che il legislatore nazionale non si è neppur curato di trasporre il lessico normativo delle direttive europee in quello domestico, ove le pratiche commerciali “sleali” sono denominate “scorrette”.

[7] Precisa, opportunamente, C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbl. contr., 2007, 776 ss., che, per quanto le «pratiche commerciali» cui si fa riferimento possono essere «poste in essere prima, durante e dopo» una «operazione commerciale» (art. 19, comma 1, cod. cons.), cioè, prima, durante e dopo la stipula di un contratto avente ad oggetto la «vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori» da parte di un professionista (art. 18, comma 1, lett. d, cod. cons.), la maggior parte di dette “pratiche” appare inevitabilmente destinata a collocarsi nella fase precontrattuale o, prima ancòra, nella fase di promozione della commercializzazione del “prodotto” senza che si sia ancòra avuto alcun contatto fra professionista e singolo consumatore: il divieto di “pratiche commerciali scorrette” è infatti dichiaratamente finalizzato principalmente a far sì che il consumatore possa «prendere una decisione consapevole» (art. 18, comma 1, lett. e, c. cons.) relativamente a «se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a quali condizioni» (cfr. art. 18, comma 1, lett. m, c. cons.).

[8] Si consideri che per «prodotto» si intende «qualsiasi bene o servizio, compresi i beni immobili, i diritti e le obbligazioni» (art. 18, lett. c, cod. cons.).

[9] Cfr. G. De Cristofaro, Il divieto di pratiche commerciali sleali, in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/CE e il diritto italiano, cit., 116 ss.; R. Calvo, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, in Contr. impr. Eur., 2007, 78; C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori, cit., 777.

[10] Cfr. Comm. Ce, The unfair commercial practices Directive. Questions and answers, MEMO/07/572, Bruxelles, 12 dicembre 2007, ove si attribuisce alla norma generale un valore normativo, per quanto autonomo, comunque residuale: la norma generale sarebbe stata introdotta, infatti, allo scopo di colpire con il divieto comportamenti nuovi, che il legislatore attuale non è stato in grado di prevedere, e quindi per consentire alle norme della direttiva di superare the test of time.

[11] M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contr. impr., 2009, 73 ss., al quale si deve una raffinata indagine sui rapporti tra norma generale e norme particolari e l’analisi di altre tesi intermedie tra le due (principali) richiamate nel testo.

[12] L’AGCM, nelle sue decisioni, è solita richiamare ed inquadrare le condotte sottoposte al suo esame sia nelle norme particolari sia nella norma generale di cui all’art. 20 cod. cons. Non a caso, infatti, tale modulo di giudizio è stato oggetto di critiche (invero, immeritate) in dottrina, cfr. A. Gagliardi, Pratiche commerciali scorrette, Torino, 2009, 33, il quale manifesta disorientamento innanzi all’operato dell’AGCM, cui imputa «di aver deciso di cogliere la portata residuale di quest’articolo, ritenendo sussistere una violazione del divieto generale ogni qual volta venga rinvenuta una violazione di uno degli artt. da 21 a 26 del Codice del consumo». L’A., muovendo – evidentemente – dalla lettura in chiave residuale della norma generale, censura le «inutili ripetizioni» della «valutazione del carattere scorretto di una fattispecie, svilendo la portata dell’art. 20, quarto comma, che stabilisce chiaramente che le pratiche contrarie agli artt. da 21 a 26 “sono scorrette”».

[13] In tal senso, limpidamente, M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 75 s.

[14] Id., op. ult. cit., 77.

[15] Per l’individuazione del fondamento dei criteri di correzione delle antinomie di norme giuridiche nel principio di unità dell’ordinamento giuridico nonché per la limpida disamina dei criteri di risoluzione del conflitto di norme volti alla disapplicazione di una delle due norme in conflitto (lex specialis derogat legi generali; lex posterior derogat legi priori; lex superior derogat legi inferiori), cfr. la fondamentale opera di K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, trad it. A. Baratta, Milano, 1970 (ma, 1968), 255 ss.

[16] Con riferimento alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, il ritorno (inedito per il legislatore europeo) alla prospettiva della fattispecie è segnalato da F. Piraino, Diligenza, buona fede, cit., 1120, sebbene la tecnica normativa della fattispecie deve, qui, misurarsi con la compresenza di criteri elastici e clausole generali (in particolare, i delicati rapporti tra diligenza, buona fede e ragionevolezza).

[17] I requisiti della contrarietà alla diligenza professionale e dell’idoneità a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore devono contestualmente sussistere ai fini del giudizio di scorrettezza, cioè di illiceità, della pratica commerciale. Cfr. Corte di Giustizia, Sez. VIII, 7 settembre 2016, C-310/15, Vincent Deroo – Blanquart c. Sony Europe Limited, secondo cui: «Una pratica commerciale può essere considerata sleale, ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 2005/29, solo se rispetta la doppia condizione, da un lato, di essere contraria alle norme di diligenza professionale e, dall’altro, di falsare o essere idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio in relazione al prodotto. In tale contesto, occorre ricordare che, conformemente al suo considerando 18, tale direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto dei fattori sociali, culturali e linguistici. Ed in particolar modo mediante un’informazione corretta del consumatore, un’offerta congiunta di diversi prodotti o servizi può soddisfare le esigenze di lealtà poste dalla direttiva 2005/29» (enfasi aggiunta).

Parimenti la giurisprudenza interna, la quale tende a riprendere fedelmente il dettato normativo: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19 febbraio 2019, n. 1167; Cons. Stato, sez. VI, 6 settembre 2017, n. 4245; Cons. Stato, sez. VI, 4 aprile 2011, n. 2099.

[18] È constatazione diffusa in dottrina: cfr., per tutti, S. Delle Monache, Pratiche commerciali scorrette, obblighi di informazione, dolo contrattuale, in Annuario del contratto 2009, Torino, 2010, 105, secondo il quale la normativa sulle pratiche commerciali scorrette è un esempio difficilmente eguagliabile di cattiva tecnica normativa, caratterizzata da un testo prolisso e dettagliato, ma intessuto, nello stesso tempo, di un continuo richiamo a concetti elastici (quando non a clausole generali): con il risultato di un periodare contorto e faticoso, che nessun guadagno significativo determina, in realtà, sul piano della certezza del diritto.

[19] È senz’altro poco felice, nell’àmbito di un unico contesto definitorio, l’accostamento della diligenza (art. 1176 c.c.) alla correttezza (art. 1175 c.c.), le quali nella teoria generale dell’obbligazione si pongono su piani nettamente distinti: il dovere di correttezza è dalla legge imposto ad entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio, sia al creditore sia al debitore, mentre la diligenza, da commisurare allo standard del “buon padre di famiglia” (o alla natura professionale dell’attività esercitata, art. 1176, comma 2, c.c.) è richiesta al solo debitore nell’adempimento dell’obbligazione. Cfr., per tutti, P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 178 ss.

Con riferimento alla definizione normativa in discorso, occorre rilevare che l’art. 2, lett. h), della direttiva 2005/29/CE, riferiva la diligenza professionale “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale di buona fede nel settore di attività del professionista”. Ad avviso di M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 94, il legislatore italiano, nel recepimento della direttiva, ha manifestato uno spunto di autonomia, riformulando la clausola generale, non tanto nella sua struttura di base (da questo punto di vista l’art. 19 c. cons. corrisponde all’art. 5, Dir. 29/2005/CE), quanto proprio nella definizione di «diligenza professionale»: esso ha infatti sostituito il riferimento alle «pratiche di mercato oneste» con quello relativo al «rispetto dei principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista». Tale scelta avrebbe una precisa portata normativa: escludere il rinvio alla prassi sociali nel riempire di contenuto la clausola generale. In tema, v. altresì G. De Cristofaro, La nozione generale di pratica commerciale “scorretta”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di G. De Cristofaro, Torino, 2008, 149.

[20] La diligenza, come noto, non è definita dal codice; tuttavia, nella Relazione del Ministro Guardasigilli Grandi al Codice Civile del 1942 (n. 559) si osserva che la diligenza, richiamata «in via generale nell’art. 1176 come misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta, riassume in sé quel complesso di cure e di cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto ed a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo. Si tratta di un criterio obiettivo e generale, non soggettivo e individuale: sicché non basterebbe al debitore, per esimersi da responsabilità, dimostrare di avere fatto quanto stava in lui, per cercare di adempiere esattamente l’obbligazione». Il criterio della diligenza quam in suis risulta, peraltro, abbandonato anche nel contratto deposito (cfr. art. 1768, comma 1, c.c., diversamente dal precedente art. 1843 c.c. abr.). La contrapposizione tra la cosiddetta diligentia diligentis, che si rapporta al tipo astratto del diligens paterfamilias, e la diligentia quam suis, che indica il grado di diligenza che il debitore pone nelle cose e negli affari propri, risale, come noto, lle fonti giustinianee, cfr. M. Talamanca, voce Colpa civile (storia), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 520 s.

Per la nozione astratta di diligenza, valorizzando il riferimento alla figura “buon padre di famiglia” compiuto dal codice vigente, si esprime la dottrina assolutamente maggioritaria: cfr. G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim dir. proc. civ., 1954, 609 ss.; R. Nicolò, voce Adempimento, in Enc. dir., I., Milano, 1958, 558, secondo cui l’art. 1176 c.c. ha costruito un tipo di diligenza astratta (da considerare sotto un profilo obiettivo e generale) e relativa (cioè non uniforme, ma commisurata al variare delle situazioni). In senso analogo, L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni di «mezzi», cit., 185 ss., spec. 187, 193 e 199, ad avviso del quale occorre espungere dalla valutazione di diligenza le capacità personali e le disponibilità individuali dell’obbligato, in quanto il grado di impiego di tali capacità e disponibilità è fissato in una misura oggettiva, senza riguardo alle sue attitudini morali e ai suoi apprezzamenti pratici.

Per la nozione concreta di diligenza, cfr. G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, Padova, 1966, 169 ss., includendo le doti individuali nella definizione della diligenza dovuta dal singolo debitore.

Su posizione intermedia si pone cfr. C.M. Bianca, voce Negligenza (dir. priv.), in Noviss. dig. it., XI, Torino, 1965, 192, il quale, pur riconoscendo come la legislazione positiva imponga, con il richiamo alla figura del buon padre di famiglia, una misura generale e astratta di valutazione del comportamento del debitore (abbracciando una nozione oggettiva di diligenza), da cui discende l’assoluta irrilevanza dell’inettitudine del soggetto ad adeguare la sua diligenza al modello della figura di buon padre di famiglia, conferisce – all’inverso – rilevanza a quegli impedimenti che colpiscano la sfera personale del soggetto, menomandone l’efficienza fisica o morale (ad es., malattia o morte recente di un congiunto).

[21] Per l’analisi storica e per la determinazione del valore attuale da attribuire allo standard del buon padre di famiglia, cfr. M. Giorgianni, voce Buon padre di famiglia, in Noviss. dig. it., II, Torino, 1958, 596 ss., ora in L’inadempimento, Appendice alla III ed., Milano, 1975, 327 ss. (da cui le successive citazioni).

[22] In realtà, l’unitarietà del concetto (e della funzione) della diligenza del bonus paterfamilias e della diligenza professionale è stata autorevolmente contestata (e sul punto si tornerà): cfr., L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni di «mezzi», cit., 198, 201, 204 ss.; aderisce al pensiero mengoniano, di recente, F. Piraino, Diligenza, buona fede, ragionevolezza, cit., 1139 ss.

[23] Il riferimento al grado di diligenza richiede alcune precisazioni. Pur non essendo possibile in questo breve spazio ripercorrere la storia del concetto di diligenza e l’origine della tripartizione in gradi di essa (per l’origine storica dei gradi della diligenza, risalenti alla tradizione giustinianea attraverso la ricostruzione dei glossatori, cfr. M. Talamanca, voce Colpa civile (storia), cit., 520 s.), alla considerazione di diversi gradi di diligenza in astratto ipotizzabili sembrava logico e naturale fare corrispondere, per amore di simmetria concettuale, una tripartizione di graduazioni che simmetricamente veniva estese al concetto correlativo di colpa: culpa lata, culpa levis e culpa levissima; e ciò a seconda che l’obbligato si sia reso responsabile di quella nimia negligentia, identificata nel non intelligere id quod omnes intelligunt (D. 50, 16, 223 pr.) (culpa lata) ovvero non abbia osservato la diligentia diligentis identificabile nel bonus paterfmailias (culpa levis), ovvero ancora quel grado massimo che è da attendersi da persona scrupolosissima quale il diligentissimus pater familias (culpa levissima), la quale nelle fonti giustinianee era riservata alla responsabilità aquiliana (in lege Aquilia et levissima culpa venit, D. 9, 2, 44 pr.) non anche nella responsabilità contrattuale (cfr. ancora, Id., op. loc. ult. cit.).

Per la convincente critica delle graduazioni della colpa, cfr. M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., 330 ss., che invita ad abbandonare graduazioni di sorta, per quanto frutto di costruzioni concettuali raffinate ed armoniche che ponevano la diligenza del buon padre di famiglia ed il corrispondente grado di colpa in posizione mediana, interpretando lo standard del buon padre di famiglia alla luce delle istanze della moderna vita di relazione che ne impongono una lettura più esigente ed inducano a superare il riferimento alla “medietà”. Più di recente, sempre in senso critico, cfr. altresì A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, sub artt. 1173-1176, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1988, 419 ss.

[24] Con la necessaria precisazione che la diligenza non si presenta mai come semplice atteggiamento dello spirito né designa una mera attitudine interiore, individuando piuttosto una qualificazione soggettiva di un’attività, di un comportamento (in cui quelle qualità soggettive devono estrinsecarsi): cfr. G. Osti, Deviazioni dottrinali, cit., 611 s. R. Nicolò, voce Adempimento, in Enc. dir., I., Milano, 1958, 558; negli stessi termini, L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni di «mezzi» (studio critico), I, in Riv. dir. comm., 1954, 187 e 193.

[25] Il dibattito dottrinale è ricco e variegato, distinguendosi – con l’approssimazione che contraddistingue ogni schematizzazione – una nozione normativa di diligenza da una nozione psicologica di diligenza (cd. soggettiva). Senza alcuna pretesa di esaustività, aderiscono alla nozione normativa della diligenza: S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 540; G. Osti, voce Impossibilità sopravveniente, in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1968, 294. ss., spec. 297 s. e nt. 5; U. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, 14, 52 s.; G. D’Amico, voce, Negligenza, in Digesto IV, disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, 24 s. e 33 s.; Id., La responsabilità ex recepto e la distinzione tra obbligazioni “di mezzi” e “di risultato”. Contributo alla teoria della responsabilità contrattuale, Napoli, 1999, 133 ss.; A. Belfiore, La colpa come criterio di responsabilità contrattuale: la nozione, in Studium iuris, 2007, 6, 679 e nt. 21.

[26] C. Maiorca, voce Colpa civile, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, 569 ss.; nonché, S. Pugliatti, voce Conoscenza, Enc. dir., IX, Milano, 1961, 70.

[27] Avverso le concezioni introspettive della diligenza si scaglia vigorosamente G. Osti, Deviazioni dottrinali, cit., 611 s.; siffatta concezione introspettiva è chiaramente parsa insostenibile alla letteratura giuridica moderna in ragione della sua eco moralizzatrice.

[28] La concezione psicologica della diligenza non si traduce nella formulazione di giudizio di colpa condotto alla stregua di un giudizio di introspezione psicologica del soggetto (cfr., C. Maiorca, op. ult. cit., 572, 575 e 580): il giudizio di colpa non esprime e non intende indagare, cioè, uno stato soggettivo della psiche, ma un modo di essere specifico del soggetto nei riguardi di un evento e delle sue circostanze; in altri termini, la colpa, intesa quale forma di qualificazione giuridica di un atto, opera la trasposizione dal piano naturale (ove la diligenza si definisce come una realtà psicologica) al piano giuridico (op. cit., 575 ss.).

[29] Atteggiandosi, in sostanza, come difettosità psichica; cfr. i rilievi critici in G. D’Amico, voce Negligenza, cit., 25 s., con approfonditi riferimenti alla dottrina penalistica.

[30] Tale aspetto è nitidamente colto da C.M. Bianca, voce Negligenza (dir. priv.), cit., 190: nei termini estremi, infatti, si rischia di risolvere la diligenza ora in un mero sforzo volitivo ora in una valutazione di formale esattezza dell’atto, mentre l’utile distinzione tra un concetto psicologico (o soggettivo) e un concetto normativo (o oggettivo) di diligenza non è fondata sulla soggettività od oggettività dei suoi elementi, ma si coglie piuttosto sul piano dei modi e della misura alla cui stregua condurre la valutazione, il giudizio di diligenza.

In questi diversi atteggiamenti dottrinari è stata talora ravvisata la distinzione della diligenza secondo un significato soggettivo od oggettivo del concetto.

L’utile distinzione tra un concetto soggettivo e un concetto oggettivo della diligenza, pur se connessa, non è per altro fondata sulla soggettività od oggettività dai suoi elementi ma piuttosto, come ora vedremo, sulla misura della loro valutazione.

[31] Proprio su tale elemento di giudizio si fonda, del resto, la nota critica alla nozione psicologica (intesa quale difettosità psichica dell’agente) formulata da H. Kelsen, Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, Tubingen, 1923, 127 s., e ripresa dai moderni sostenitori della teoria normativa della diligenza, cfr. G. D’Amico, voce Negligenza, cit., 25 s. La critica kelseniana si incentra sull’essenzialità della posizione del modello astratto di condotta diligente per poter predicare la negligenza della condotta considerata: «Il giudizio che accerta una mancanza di attenzione presuppone la rappresentazione del fatto che una determinata attenzione avrebbe dovuto essere applicata» (H. Kelsen, op. loc. ult. cit.).

La recente rilettura della concezione psicologica tende, invece, a criticare la nozione normativa di diligenza in quanto eliderebbe il piano dell’antigiuridicità per assorbirlo nella colpa, la quale, consistendo nel non aver tenuto quel comportamento che si sarebbe dovuto tenere, si limita a postulare la violazione del dovere di tenere un comportamento conforme al modello, coincidendo allora con la nozione di antigiuridicità. Per tali rilievi, cfr. C. Maiorca, voce Colpa civile (teoria gen.), cit., 549 ss.

Di recente, F. Piraino, Diligenza, buona fede, ragionevolezza, cit., 1139,

[32] La prospettiva della valutazione della conformità in cui la diligenza (in tale accezione) consiste è ben posta in risalto da S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), cit., 542.

[33] La diligenza è, senza dubbio, un concetto elastico (o indeterminato). Cfr. S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), cit., 540, il quale lo qualifica indifferentemente come concetto elastico o clausola generale, senza distinguere i due concetti. Su un piano generale, la distinzione dei concetti elastici (o indeterminati) dalle clausole generali è tracciata da K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 170 ss.; cui aderisce A. di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 539 ss. Sul punto si tornerà infra.

Per la qualificazione della diligenza come clausola generale, cfr. altresì G. D’Amico, voce Negligenza, cit., 27; nonché, G. Sicchiero, Dell’adempimento, in Comm. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, sub art. 1176 c.c., Milano, 2016, 29 ss.

[34] Cfr., ancòra, S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), cit., 544. La questione poi si sposta sui margini dell’opera di relativizzazione consentiti all’interprete.

[35] Di recente, G. Sicchiero, Dell’adempimento, cit., 7 ss., avvertendo lucidamente le finzioni applicative di cui è stata protagonista la figura astratta del buon padre di famiglia, icasticamente descritta come «un fantasma che tutti credono di vedere ma che non ha consistenza» (op. cit., 15), propone di condurre l’opera di concretizzazione della clausola generale di diligenza attraverso il parametro della «ragionevolezza» per la determinazione del comportamento dovuto (op. cit., 38 ss.). Tale ruolo della diligenza sarebbe, però, predicabile solo con riferimento alle obbligazioni che hanno ad oggetto «prestazioni non governabili» (rapportabili, seppur non in termini di coincidenza, alle obbligazioni tradizionalmente denominate “di mezzi”), tracciando una demarcazione dalle «prestazioni governabili» (rapportabili, invece, alle obbligazioni “di risultato”) (cfr. op. cit., spec. 127 ss.). In particolare, la distinzione tra obbligazioni governabili e non governabili non deve essere operata riferendosi al soggetto debitore (professionista o no), ma alla prestazione vista dal profilo oggettivo, rilevando che in questa molto spesso esistono fasi che sono oggettivamente realizzabili e possono allora costituire oggetto di promessa anche implicita (dunque, sono governabili dal debitore) ed altre che, sfuggendo al controllo di qualsiasi debitore, pretendono solo un suo comportamento (diligentemente) adeguato (si tratterà, allora di prestazioni non governabili). Cfr., sul punto, altresì G. Sicchiero, Dalle obbligazioni “di mezzi e di risultato” alle “obbligazioni governabili o non governabili”, in Contr. impr., 2016, 6, 1391 ss.

[36] S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), cit., 545.

[37] Si considerino, ad esempio, l’onere del danneggiato di non aggravare le conseguenze dannose derivanti dall’illecito altrui (art. 1227, comma 2, c.c.), l’onere di conoscenza delle condizioni generali di contratto gravante sull’aderente (art. 1341 c.c.), l’onere di riconoscere l’errore altrui gravante sul destinatario della dichiarazione contrattuale (art. 1431 c.c.), l’onere del possessore di percepire i frutti in vista della restituzione (art. 1148 c.c.). Cfr., sul punto, M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., 336 s.

[38] Per un verso, chi propende per la tutela del c.d. affidamento in concreto assume quale punto di osservazione la particolare posizione dello specifico contraente che ha posto in essere il contratto. Così, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 440; F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Giuffrè, Milano, 1948, 90; V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, Padova, 1990, 210 e 238; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966 (rist. 2012), 165; A. Trabucchi, voce Errore (dir. civ.), nel Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, ma rist. 1981, 671; M. Bessone, Errore comune ed affidamento nella disciplina del contratto, in Foro it., 1966, I, 1572 ss.; A. Giordano, In tema di rilevanza dell’errore bilaterale nel contratto, in Giust. civ., 1952, I, 456 ss.

Per altro verso, vi è chi evidenzia come il legislatore, prescrivendo la riconoscibilità, non intenda affatto tutelare l’affidamento che in concreto la dichiarazione dell’errante abbia generato in quel determinato destinatario, bensì intende tutelare l’affidamento che la dichiarazione stessa possa generare in un tipo astratto di contraente di normale diligenza, non legato a situazioni soggettive concrete e specifiche di conoscenza o di errore (tutela del c.d. affidamento in astratto). Così, A. De Martini, In tema di riconoscibilità dell’errore bilaterale nel contratto, in Foro it., 1952, I, 434; G. Mirabelli, Delle obbligazioni. Dei contratti in generale (Artt. 1321-1469), in Commentario Utet, 1980, 547; G. Criscuoli, Errore bilaterale: comune e reciproco, in Riv. dir. civ., 1985, I, 621; G. Amorth, In tema di errore nelle compra-vendite d’opere d’arte antiche, in Foro it., I, 1948, 681; P. Barcellona, In tema di errore riconosciuto e di errore bilaterale, in Riv. dir. civ., 1961, I, 63 ss.

[39] Ammettendo, così, la possibilità che l’errore, pur riconosciuto dalla controparte, possa essere considerato non riconoscibile, con esclusione della sua rilevanza invalidante; oppure che un errore bilaterale, cioè un errore in cui sono cadute entrambe le parti, possa essere comunque considerato riconoscibile.

[40] In quest’ottica, il riconoscimento dell’errore impedirebbe la tutela dell’affidamento relativo ad una dichiarazione di cui si conosce l’erroneità, con la conseguenza che è sufficiente l’essenzialità dell’errore per l’annullabilità del contratto. Quest’ultima conseguenza è affermata con riferimento all’errore bilaterale da alcuni in virtù del rilievo secondo cui la controparte che condivide l’errore non può, secondo buona fede, eccepire di non averlo potuto riconoscere nell’altra parte, non potendo richiedere all’altra parte «una stregua di valutazione diversa da quella che adopra per sé», per il fatto stesso di condividerlo deve ammetterne la plausibilità (così E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. Vassalli, XV, 2, Torino, 1950, 440); da altri, sull’assunto che l’errore bilaterale escluda un affidamento (incolpevole) da proteggere, in quanto ciascun contraente dichiara per effetto del proprio errore e non di quello altrui (in tal senso, si esprime F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano, 1948, 90). Con riguardo a quest’ultimo assunto, condiviso dalla giurisprudenza (citata, infra, cpv.), si è obiettato che un affidamento «nella specie è sicuramente sorto nella controparte, la quale, proprio perché ha condiviso l’errore, non ha potuto nutrire alcun dubbio sulla validità della dichiarazione ricevuta» (così, A. Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966, 290; del pari, riconosce la sussistenza di “un affidamento da difendere”, R. Sacco, in R. Sacco e G. De Nova, Il contratto, IV ed., Torino, 2016, 521).

La giurisprudenza, con orientamento costante, in caso di errore bilaterale esclude la necessità della valutazione di riconoscibilità, non riscontrando un affidamento incolpevole da proteggere, in quanto ciascun contraente dichiara per effetto del proprio errore e non di quello altrui; pertanto, conferisce all’errore bilaterale rilevanza invalidante purché essenziale a prescindere dal requisito della riconoscibilità. Cfr. Cass., 23.3.2017, n. 7557, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 10, 1329, con mia nota di commento; Cass., 15.12.2011, n. 26975, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere», 2011, n. 475; Cass., 12.11.1979, n. 5829, in Rep. Foro it., voce «Contratti in generale», 1979, n. 272; Cass., 29.4.1965, n. 773, in Foro it., 1965, I, 1778, con nota di Bessone; Cass., 9.2.1952, n. 316, in Foro it., 1952, I, 431, con nota di De Martini.

[41] C.M. Bianca, voce Condizioni generali di contratto, I), Diritto civile, in Enc. Trecc., XI, Roma, 1988, 2, precisa che la misura dell’ordinaria diligenza deve riportarsi ad un criterio di normalità, con riferimento a ciò che è normale attendersi dalla massa degli aderenti in relazione al tipo di operazione economica; l’applicazione di questo criterio esclude che all’aderente possa richiedersi un particolare sforzo o una particolare competenza per conoscere le condizioni generali usate dal predisponente. Contra, di recente, G. Sicchiero, Il requisito della conoscibilità delle condizioni generali di contratto (art. 1341 c.c.), in Giur. it., 2020, 1646, il quale critica il criterio astratto della normale attendibilità, ritenendo possibile «solo una verifica concreta e contestualizzata, che il giudice dovrà svolgere senza appoggiarsi ad affermazioni belle nella forma ma non verificabili».

Ritengono, invece, parimenti che la diligenza richiesta sia quella media od ordinaria, non potendo richiedersi un particolare sforzo o una particolare competenza alla parte assoggettata: M. Dossetto, voce Condizioni generali di contratto, in Noviss. Dig. it., III, Torino, 1957, 1111; nonché U. Morello, voce Condizioni generali di contratto, in Dig. IV, Disc. priv., sez. civ., III, 1988, ed. on-line, n. 2.

In ogni caso, si ritiene correttamente che all’onere dell’aderente di accertarsi delle condizioni generali con l’ordinaria diligenza faccia riscontro l’onere del predisponente di rendere tali condizioni normalmente conoscibili da parte dell’aderente, nel senso che il predisponente deve rendere manifesta all’aderente l’esistenza delle condizioni generali e deve metterlo in grado di conoscerne il contenuto (cfr. C.M. Bianca, op. loc. ult. cit.).

[42] Cfr., ancòra, G. Sicchiero, Il requisito della conoscibilità delle condizioni generali di contratto (art. 1341 c.c.), in Giur. it., 2020, 1646; nonché A. Genovese, Le condizioni generali di contratto, Padova, 1954, 185, il quale deve afferma che la diligenza dell’aderente deve considerare la sua appartenenza ad una categoria ovvero, instaurando un parallelismo con l’art. 1176 c.c., deve avere riguardo alla posizione assunta dall’aderente nel contratto e alla circostanza che questi eserciti un’attività professionale.

[43] Con riferimento alla responsabilità contrattuale, la dottrina tende ad inquadrare l’onere di non aggravare il danno nel più ampio onere di collaborazione gravante sul creditore in forza del principio di buona fede e correttezza (art. 1175), cfr. G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Comm. Schlesinger-Busnelli, II ed., Milano, 2006, 65 ss., la quale riporta altresì la tendenza giurisprudenziale all’estensione del contenuto dell’onere sino a richiedere al creditore non solo di non aggravare ma altresì di ridurre il danno

[44] Cfr. i penetranti rilievi di M. Giorgianni, L’inadempimento, cit. 330 s., ribadendo che l’aggettivo «buono» prescinde del tutto dall’idea della «media» o della «normalità», intendendo indicare un valore assoluto che molto probabilmente l’uomo «normale» non riesce a raggiungere.

È indubbio che la definizione consumeristica della diligenza, attraverso l’impiego dell’aggettivo «normale», sembra demolire gli sforzi compiuti dalla dottrina della seconda metà del secolo scorso: sforzi vòlti ad eliminare quelle ambiguità della figura del buon padre di famiglia quale connessa ad un modello di uomo medio. Il problema è chiaramente collegato alla teoria della graduazione della colpa (cfr. supra, in nota) in base alla quale, tra i tre gradi di colpa, la diligenza del buon padre di famiglia e il corrispondente grado di colpa figuravano al centro, così da far assumere alla figura del buon padre di famiglia una posizione mediana. È da tale posizione che doveva emergere la suggestione del riferimento alla nozione di uomo medio (cfr., ancòra, Id., op. loc. ult. cit.).

Nella medesima direzione, A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1173-1176, Bologna-Roma, 1988, 418, al fine di scongiurare il pericolo della «medietà statistica» del buon padre di famiglia propone il ricorso ai contenuti etico-sociali rappresentati dalla realizzazione della «funzione sociale» (art. 42 Cost.) o dell’«utilità sociale» (art. 41 Cost.), che sono alla base del nostro assetto costituzionale, per arricchire il criterio di diligenza, similmente a quanto predicato per il criterio della buona fede, di quei contenuti deontologici che ne impongono uno standard di buon debitore, attento e scrupoloso, impedendo la qualificazione dell’agire diligente possa assestarsi al livello della misura media e normale.

[45] N. Bobbio, Teoria della norma giuridica, Torino, 1958, 127 ss., 150 ss.; Id., voce Norma giuridica, in Noviss. dig. it., XI, Torino, 331 ss., secondo cui comandi e divieti appartengono entrambi alla categoria degli imperativi: il primo è un imperativo positivo posto da una norma precettiva, cioè da una norma che comanda un comportamento secondo la seguente struttura logica: «A deve B» (dove A è il soggetto passivo della norma e B il comportamento oggetto della modalità deontica); il secondo è un imperativo negativo posto da una norma proibitiva, cioè da una norma che vieta un comportamento (A deve non B; ove “non B” indica il comportamento “B” che deve essere omesso per osservare il divieto). Il divieto, quale imperativo negativo, è allora il comando di astenersi dal compiere un’azione, cioè il comando di un’omissione: pertanto, vietare un’omissione significa comandare un’azione.

[46] Cfr. L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» (Studio critico), I, in Riv. dir. comm., 1954, 193 s.; S. Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), cit., 544, il quale ribadisce che la diligenza, quale criterio di valutazione, non può costituire il contenuto di un’obbligazione autonoma; A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, sub artt. 1173-1176, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1988, 452 s.; F. Piraino, Diligenza, buona fede, ragionevolezza, cit., 1133.

[47] Con nitore di pensiero, A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, 3, 37 ss., spec. 42.

[48] M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 89 ss., che pone in evidenza come, anche nel testo della normativa europea, gli altri due termini individuati dall’art. 2, lett. h, della direttiva 2005/29/Ce (“pratiche di mercato oneste” e “buona fede nel settore professionale”), surrettiziamente presentati come elementi della definizione di diligenza, hanno invece una portata normativa autonoma: ad avviso dell’A., la «sola interpretazione ragionevole è dunque, per contro, quella per cui le pratiche disoneste e quelle contrarie al principio di buona fede, sono vietate di per sé, a prescindere da un controllo sulla diligenza del relativo comportamento».

Contra, G. De Cristofaro, Il divieto di pratiche commerciali sleali, cit., 121, secondo cui “pratiche di mercato oneste” e “buona fede” costituirebbero solo «parametri da utilizzare per individuare il livello di competenza, cura ed attenzione cui ci si può legittimamente attendere il professionista si attenga».

Ad ogni modo, si consideri che la direttiva (sul punto, non recepita) stabiliva espressamente che i provvedimenti inibitori venissero adottati «anche in assenza di prove in merito alla perdita o al danno effettivamente subito, oppure in merito all’intenzionalità o alla negligenza da parte del professionista» (art. 11, par. 2º, dir. 2005/29/CE).

[49] F. Piraino, Diligenza, buona fede, ragionevolezza, cit., 1134 s., 1139 ss. (spec. 1143), 1151 s.

[50] A ben vedere, posto che la diligenza consiste in un criterio elastico di cui occorre determinare contenuto e funzione, se correttamente si distingue il contenuto costitutivo del criterio dalla funzione che al criterio si assegna, non è possibile assegnare una duplicità di funzioni alla diligenza solo se intesa in senso psicologico, nel qual caso essa varrà esclusivamente come criterio di imputazione della responsabilità. Diversamente, è ben possibile assegnare entrambe le indicate funzioni alla diligenza se intesa in senso normativo (come qualità tipica astratta determinante il contenuto della prestazione dovuta): la diligenza, indicando un modello di condotta cui rapportare il contegno materiale tenuto dal debitore, può fungere tanto da regola di esatto adempimento (exacta diligentia) quanto da regola di imputabilità (raffrontando il contegno alla diligenza dovuta per evitare l’impossibilità della prestazione). È la tesi di G. Osti, Deviazioni dottrinali, cit., 606 ss., che distingue la «colpa nell’adempimento» dalla «colpa dell’inadempimento» (recte, «dell’impossibilità oggettiva che determini l’inadempimento»).

La duplicità di funzioni dell’unitario concetto di diligenza è altresì predicata da chi muove da diversa ricostruzione del fondamento della responsabilità per inadempimento: cfr., sul punto, C.M. Bianca, voce Negligenza (dir. priv.), 193, il quale riconosce che il nostro ordinamento assume lo sforzo utile sia per determinare il contenuto del comportamento del debitore, ponendosi in tal modo come concorrente criterio d’individuazione dell’esatta prestazione dovuta, sia per valutare il comportamento tenuto dal debitore in relazione agli eventuali impedimenti incontrati, ponendosi allora come criterio di responsabilità.

[51] L. Mengoni, Obbligazioni di risultato, cit., 204 ss.

[52] Cfr. F. Piraino, Diligenza, buona fede, ragionevolezza, cit., 1161 s., secondo cui «con la commistione di diligenza e buona fede, la disciplina delle pratiche commerciali ha fatto propria una nozione di diligenza professionale rinnovata rispetto a quella tradizionale di osservanza delle leges artis perché contraddistinta non soltanto dalla necessità di attenersi alle conoscenze scientifiche, tecniche e tecnologiche e alle correlate procedure, ma anche dall’imposizione di specifiche regole di condotta e di un generale precetto di azione in vista della salvaguardia dell’interesse del consumatore al compimento di processi cognitivi e decisionali consapevoli e all’esercizio della piena libertà negoziale».

[53] Proprio perché la diligenza, senza voler considerare le ulteriori funzioni che le sono state assegnate (exacta diligentia, fonte di determinazione del contenuto dell’obbligazione, etc.), è comunque pacificamente intesa come criterio di imputabilità in funzione dell’ascrizione di una responsabilità personale del debitore inadempiente, sorge il gravoso e tormentato problema dei rapporti tra l’art. 1176 e l’art. 1218 c.c., che tanto ha affaticato la letteratura civilistica: il dilemma fondamentale, come noto, si riassume nello stabilire il termine dell’imputabilità, cioè se il fatto imputabile sia costituito esclusivamente dall’impossibilità assoluta ed oggettiva della prestazione (secondo il tenore letterale dell’art. 1218 c.c.) o se il fatto di cui vagliare l’imputabilità possa essere rappresentato anche dal contegno inadempiente del debitore ove la prestazione sia ancora possibile. Senza alcuna pretesa di esaustività, cfr. G. Osti, Deviazioni dottrinali, cit., 593 ss.; L. Mengoni, Obbligazioni di risultato, cit., I, 199 ss., e II, 280 ss.; M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., 191 ss., 229 ss., 270 ss., 289 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento dell’obbligazione, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1218-1229, II ed., Bologna-Roma, 1979, 1 ss.; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Comm. Schlesinger-Busnelli, II ed., Milano, 2006, 94 ss.

[54] Se, infatti, si eccettua il concetto normativo di imputabilità (in senso stretto) sancito dall’art. 85 c.p. (ripreso dall’art. 2046 c.c.), ove l’imputabilità è riferita ad un soggetto (per indicare il giudizio in ordine all’idoneità delle sue facoltà cognitive ed intellettive), il concetto giuridico di imputabilità (in senso lato) designa, piuttosto, l’attitudine di un fatto giuridico ad essere riferito ad (o posto in relazione con) un determinato soggetto in vista del collegamento degli effetti giuridici, cioè un fatto è imputabile in quanto riferibile ad un soggetto, dunque suscettibile di un’imputazione soggettiva (cfr. artt. 129-bis, 309, 562, 673, 744, 994, 1218, 1256, 1289, 1465, 1557, 1588, 1672, 1673, 1686, 1780, 1805, 1806, 1818, 2055 c.c.). Per tale via, ci si avvede che il concetto giuridico di imputazione è in sé neutro, in quanto volto ad istituire un legame tra un soggetto ed un fatto giuridico, cui sono collegati determinati effetti. S. Pugliatti, voce Autoresponsabilità, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 452, secondo cui l’imputazione viene a risolversi in un duplice giudizio: rispetto al comportamento, si ha un giudizio fenomenologico o storico, consistente nello accertamento del vincolo genetico; rispetto alle conseguenze, si ha un giudizio deontologico (basato su di un elementare principio di coerenza), in virtù del quale si deduce ed afferma la necessità che il soggetto sopporti le conseguenze del fatto (azione od omissione) proprio. Tuttavia, il fulcro – chiarisce l’autorevole dottrina – sta nella imputazione delle conseguenze del fatto all’autore di esso, la quale presuppone l’individuazione di un criterio che ad essa presieda, e l’applicazione specifica di tale criterio. Viene, così, confermata la neutralità del concetto di imputabilità. Cfr., altresì, C. Maiorca, voce Colpa civile (teoria gen.), cit., 548, 558 s., il quale distingue l’accezione soggettiva del concetto di imputabilità, in quanto relativa alla capacità personale dell’agente, da un’accezione oggettiva, allorché si prescinde dalla capacità di intendere e di volere, e l’imputabilità (qui nel senso di imputazione) viene intesa come il criterio, o presupposto legale (che può essere il più vario), in forza del quale un evento viene «imputato» (nel senso di «riferito») al soggetto della cui responsabilità si tratta (dunque, non necessariamente all’agente).

Con riferimento alla responsabilità debitoria, cfr. M. Giorgianni, L’inadempimento, cit., 295, il quale correttamente precisa: «La “imputabilità” dell’art. 1218 costituisce, evidentemente, una espressione neutra, la quale indica il collegamento della “impossibilità” alla attività del debitore, ovverosia alla violazione della norma che impone a costui una regola di condotta diretta ad impedire la “impossibilità” stessa. Vi ha, però, accanto a quella prevista dall’art. 1218, un’altra “imputabilità” che indica la violazione della regola di condotta diretta a far raggiungere al creditore il soddisfacimento degli altri interessi protetti dal rapporto obbligatorio. Posto che ambedue gli aspetti della “imputabilità” indicano la violazione di una regola di condotta diretta a soddisfare l’interesse del creditore, non è lecito, a nostro avviso, attribuire ai due aspetti un significato diverso».

[55] All’aderente è imputato il regolamento contrattuale divisato nelle condizioni generali di contratto (da lui non volute perché non predisposte) nella misura in cui poteva conoscerle usando l’ordinaria diligenza. All’errante è parimenti imputato il regolamento contrattuale non voluto (perché frutto di un errore, il quale comporta la discrasia tra l’interesse reale dell’errante e l’interesse regolato dal contratto erroneo) se l’errore non era riconoscibile da persona di normale diligenza.

[56] Dall’art. 1148 comma 1, prima parte, c.c. («Il possessore di buona fede fa suoi i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale e i frutti civili maturati fino allo stesso giorno») si argomenta a contrario che il possessore di mala fede non fa suoi i frutti naturali, e che deve restituire i frutti civili maturati. Dall’art. 1148 comma 1, prima parte, c.c. («Il possessore di buona fede «fino alla restituzione della cosa, risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti dopo la domanda giudiziale, e di quelli che avrebbe potuto percepire dopo tale data, usando la diligenza del buon padre di famiglia») si evince che il possessore di mala fede risponde, oltre che dei frutti percetti, anche dei frutti che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia. La responsabilità del possessore di mala fede, quale si desume dall’art. 1148 c.c. non segue, dunque, i binari dell’art. 2043 c.c.: egli risponde dei frutti indipendentemente dai danni arrecati al proprietario. Cfr. R. Sacco, voce Possesso, in Enc. dir., Milano, 1985, 517, il quale, però, si interroga se il fatto di possedere la cosa altrui in mala fede comporti l’obbligo di restituire i frutti, o invece determini l’obbligazione di restituire al soggetto leso la maggior somma fra i frutti percepiti (proprio arricchimento), il danno arrecato (perdita del soggetto leso), e i frutti percipiendi, giungendo alla conclusione secondo cui l’autore della lesione è tenuto a restituire il quantum di cui si è arricchito (amplius, R. Sacco, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto, Torino, 1959, passim).

[57] G. De Cristofaro, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori, cit., p. 1093, il quale sostiene invece che «la “diligenza professionale” non va [...] sovrapposta né confusa con i “principi generali di correttezza e buona fede”, che costituiscono per contro soltanto i parametri da applicare per individuare il livello di competenza, cura e attenzione che può reputarsi (mediamente) dovuto nel settore di attività del professionista e che ci si può conseguentemente attendere venga rispettato dal professionista medesimo nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori: proprio (e soltanto) il mancato rispetto di tale livello consente ed impone di qualificare una pratica come contraria alla “diligenza professionale”»; M. Libertini, op. ult. cit., p. 73 ss., il quale riconosce alla clausola generale di buona fede un’autonoma portata precettiva all’interno della disciplina delle pratiche commerciali; F. Piraino, op. ult. cit., pp. 1153 ss., spec. 1162 s., secondo il quale la formulazione adottata dal legislatore comunitario è frutto di una scelta consapevole, che arricchisce gli obblighi ai quali il professionista è tenuto nei confronti dei consumatori e quindi, di fatto, ne aumenta il grado di protezione.

[58] Donde il dubbio se tale nozione di buona fede (intesa come dovere di correttezza) possa corrispondere a quella, più specifica, di “correttezza professionale” (art. 2598 n. 3, c.c.) prevista in tema di concorrenza sleale: come autorevolmente rilevato, infatti, la regola della correttezza, formulata in termini generali nella norma di apertura del libro quarto, fuori dalla materia delle obbligazioni è talora ricondotta alle valutazioni ed alla condotta proprie di un particolare ambiente; il che, ad esempio, avviene nel campo delle attività economiche, ove la liceità della concorrenza è giudicata secondo le regole della “correttezza professionale” (cfr. P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), cit., n. 179 ss.).

Sul punto, cfr. i condivisibili rilievi di M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 93, secondo cui l’espressione “principio generale di buona fede nel settore di attività del professionista” non può essere interpretata nel senso di un rinvio al modo in cui il principio è autonomamente inteso dagli operatori del settore (con il che lo si accosterebbe notevolmente al concetto di “correttezza professionale” di cui all’art. 2598 n. 3, c.c.), da cui deriverebbero applicazioni non rispettose agli interessi dei consumatori: il “principio generale” deve, allora, avere, in quanto tale, una portata generale e comune a tutti i mercati ed il riferimento al “settore” serve solo a declinare i doveri di custodia, informazione e protezione, plasmandoli su quelle che possono essere le aspettative socialmente adeguate delle diverse categorie di consumatori tipici, nei diversi mercati e settori economici.

[59] L’interesse per la tecnica normativa fondata sulle clausole generali in contrapposizione al metodo casistico, imperniato sulla fattispecie, è sollecitato da S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Riv. dir. comm., 1967, 83 ss., spec. 90 s. e 94, il quale ne esaltava il ruolo in prospettiva di riforma del diritto civile.

Fondamentali contributi in ordine alla struttura e alle modalità di impiego delle clausole generali si devono agli studi di L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 5 ss., al quale si deve l’intuizione secondo cui le clausole generali sono “frammenti di norme”, norme incomplete caratterizzata da una fattispecie non autonoma (op. cit., 10 ss.); di A. Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., 1987, 1 ss., spec. 9 s., ove è posto in rilievo il loro ruolo integrativo delle norme costruite sullo schema della fattispecie («anche gli standards – a differenza dei princìpi che esprimono valori sommi e assoluti dell’ordinamento giuridico – sono norme giuridiche condizionate. Essi, cioè, pur se formalmente col solo riferimento all’effetto giuridico […] implicano un riferimento necessario al fatto giuridico», op. cit., 10); nonché, ancòra, di S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 709 ss., cui si deve la nota formula secondo cui “le clausole generali non sono principi, anzi sono destinate ad operare nell’ambito dei principi” (ivi, 721).

Nella letteratura tedesca, vi è chi ha formulato il tentativo di elaborare una tassonomia delle diverse forme di espressione normativa diverse dalla rigida e puntuale predeterminazione di una fattispecie, K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 170 ss. Tale tassonomia è ripresa, con riferimento al nostro ordinamento, da A. di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 539 ss.

Tra gli studi più recenti sulle clausole generali, C. Luzzati, Clausole generali e princìpi. Oltre la prospettiva civilistica, in Princìpi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Milano, 2017, 15 ss., spec. 21., il quale, dopo aver fornito una definizione di clausola generale che contempla il solo rinvio esterno a “norme sociali” – da cui, a ben vedere, sia l’ordine pubblico c.d. normativo sia il danno ingiusto (la cui, ampiamente discussa, ascrizione alle clausole generali risale a S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano 1964, 116 ss.) ne risulterebbero espunti –, ha cura di precisare (op. cit., p. 25) come, in realtà, «oggi è stata ventilata, talvolta addirittura caldeggiata, la possibilità di un rinvio anche a criteri interni all’ordinamento giuridico».

Per la (condivisibile e preferibile) possibilità di includere nel concetto di clausola generale il rinvio a valori interni dell’ordinamento, si è efficacemente espresso M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Riv. crit. dir. priv., 2011, 345 ss., spec. 349 ss. e 354.

[60] Il considerando 18 della direttiva CE/2005/29 afferma, come noto, che la «direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali». La giurisprudenza europea ha sinora ripreso pedissequamente l’interpretazione di consumatore medio così come fornita dal considerando 18, il quale delinea un modello razionale homo oeconomicus: cfr., ex multis, Corte di Giustizia, Sez. VIII, 7 settembre 2016, C-310/15, Vincent Deroo – Blanquart c. Sony Europe Limited.

Tuttavia la teoria della scelta razionale, su cui è stata plasmata la nozione consumatore medio, è, già dalla seconda metà del Novecento, duramente criticata dalla scienza economica moderna, la quale, incorporando nella propria analisi i risultati della psicologia cognitiva, ha stigmatizzato le illimitate capacità cognitive di cui gli individui dovrebbero disporre per rispettare gli assunti della scelta razionale, risultando del tutto irrealistiche ed incapaci di spiegare razionalmente i comportamenti osservabili nella realtà; cfr. gli studi pionieristici di H.A. Simon, A Behavioral Model of Rational Choice, in The Quarterly Journal of Economics, 69, 1955, 99 ss. Gli ulteriori studi condotti sui percorsi motivazionali degli agenti economici hanno, inoltre, evidenziato la ricorrenza di “scorciatoie” mentali (heuristics), cioè procedimenti mentali che semplificano la valutazione dei fattori rilevanti per le decisioni degli individui, ingenerando una serie di distorsioni suscettibili di comprometterne gli esiti (biases) raggiungibili secondo i criteri suggeriti dalla teoria della scelta razionale: v. il fondamentale studio di A. Tversky e D. Kahneman, Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, in Science, 1974, 185, 1124 ss. Da tale radicale ripensamento del soggetto economico muove la moderna teoria economia che sostiene la necessità di utilizzare teorie della scelta che si fondino su ipotesi più realistiche relative ai comportamenti umani (cd. economia comportamentale): cfr. C.R. Sunstein, C. Jolls, R.H. Thaler, A Behavioral Approach to Law and Economics, in Stan. L. Rev., 50, 1998, 1471 ss.

Nella nostra dottrina, si è così registrata un’attenzione crescente verso la psicologia cognitiva come nuovo strumento di indagine giuridica: cfr. G. Bellantuono, Razionalità limitata e regole contrattuali: promesse e problemi della nuova analisi economica del diritto, in Liuc Papers, 94, 2001, 1 ss.; R. Caterina, Processi cognitivi e regole giuridiche, in Sistemi intelligenti, 2007, III, 381 ss.; Id., Psicologia della decisione e tutela del consumatore, in Ann. giur. ec., 2012, I, 1 ss.; Id., Architettura delle scelte e tutela del consumatore, in Cons. dir. e merc., 2012, I, 73 ss.

Nell’ottica di ampio respiro appena tracciata, con precipuo riferimento alla nozione di consumatore medio consegnataci dal legislatore europeo, A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, cit., 46 ss., ha radicalmente posto in discussione la correttezza del postulato neoclassico di consumatore medio quale razionale homo oeconomicus, muovendo dagli studi di economia comportamentale che hanno dimostrato che la razionalità economica degli uomini è limitata. E la limitazione della razionalità economica può discendere da svariati fattori: dalla disinformazione, dalle asimmetrie informative, da propensioni psicologiche, come l’avversione al rischio, da suggestioni pubblicitarie, dalla distanza, dal bisogno, da dinamiche irrazionali del mercato ed, appunto, da pratiche sleali, aggressive o ingannevoli. Cfr., inoltre, M. Bertani, Pratiche commerciali scorrette e consumatore medio, Milano, 2016, 18 ss., il quale si diffonde nel puntuale esame delle norme che presuppongono l’esistenza di limitazioni cognitive del consumatore medio, tra cui, oltre alle norme generali in tema di identificazione del gruppo dei consumatori di riferimento (nelle tre varianti dell’average consumer test, del target group test e del vulnerable consumer test) contenute nell’art. 20 cod. cons., anche la pratica ingannevole consistente in una comunicazione che, seppur veritiera, «nella sua presentazione complessiva» (cfr. art. 21, comma 1 cod. cons.) risulti idonea ad indurre in errore il consumatore medio (cd. framing effect) nonché la pratica aggressiva consistente nello sfruttamento degli stati emozionali del consumatore derivanti da eventi tragici (cd. visceral factors, cfr. art. 25, comma 1, lett. c, cod. cons.).

Per l’approfondimento degli itinerari dell’economia comportamentale al fine di offrire una rilettura dei modelli di razionalità sottesi agli istituti del diritto privato cfr. AA.VV., Oltre il soggetto razionale. Fallimenti cognitivi e razionalità limitata nel diritto privato, a cura di G. Rojas Elgueta e N. Vardi, Roma, 2014, passim. All’analisi del recesso penitenziale consumeristico nella prospettiva dell’economia comportamentale è dedicata la monografia di E. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze comportamentali, Torino, 2019, 9 ss.

Di recente, la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione VI, ordinanza 10 ottobre 2022 n. 8650) sembra aver condiviso appieno le critiche dell’autorevole dottrina appena riportato ed ha avanzato un radicale dubbio circa l’esattezza del consolidato assunto ermeneutico fatto proprio dal considerando 18, sollevando la relativa questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia: ad avviso dei giudici amministrativi, il concetto di consumatore medio deve essere costruito ricorrendo non soltanto alla nozione classica dell’homo oeconomicus ma anche alle acquisizioni delle più recenti teorie (sviluppate nell’àmbito dell’economia comportamentale) sulla razionalità limitata, che hanno dimostrato come le persone agiscono spesso riducendo le informazioni necessarie con decisioni “irragionevoli” se parametrate a quelle che sarebbero prese da un soggetto ipoteticamente attento ed avveduto acquisizioni che impongono una esigenza protettiva maggiore dei consumatori nel caso – sempre più ricorrente nelle moderne dinamiche di mercato – di pericolo di condizionamenti cognitivi. Il consumatore medio non sarebbe allora un consumatore normalmente informato e ragionevole, ma un consumatore a razionalità limitata.

[61] In tal senso sembrano esprimersi autorevoli opinioni: così, M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 73 ss., spec. nota 1.; nonché A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, cit., 41, il quale però sottolinea il legame a «standard elastici, come la diligenza, o a dati ipotetici, come la capacità di decidere diversamente».

[62] Per la distinzione dei concetti giuridici elastici dalle clausole generali, cfr. K. Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, cit., 170 ss. Nella nostra civilistica, riprende la tassonomia di K. Engisch, A. di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p. 539 ss.

[63] In questi termini, correttamente, la giurisprudenza amministrativa: ex multis, Cons. Stato, 8 febbraio 2021, n. 1152, traendone la conseguenza che «è del tutto irrilevante sia l’eventuale esiguità delle segnalazioni sia la natura occasionale o episodica della condotta» rilevando anche «la mera potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista».

[64] Ai sensi dell’art. 22, comma 1, cod. cons. si considera «ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso». Inoltre, il comma 2 della norma citata, precisa che, comunque, si considera «un’omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1, tenendo conto degli aspetti di cui al detto comma, o non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già evidente dal contesto nonché quando, nell’uno o nell’altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».

A ben vedere, però, le fattispecie indicate dall’art. 22, comma 2, prima parte, cod. cons., nella misura in cui si riferiscono alla condotta di occultare o di presentare informazioni in modo oscuro, ambiguo, etc., non si riferiscono ad un’omissione, ma ad una condotta commissiva, giacché «anche il nascondere come una attività diretta al celare [...], come ammoniva Cicerone, è diverso dal tacere»: così, limpidamente, A. Trabucchi, voce Dolo, in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960 (rist., 1981), 153. Per il medesimo rilievo, con specifico riguardo alle pratiche commerciali ingannevoli, cfr. R. Calvo, Le pratiche commerciali “ingannevoli”, in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, La direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, (a cura di) G. De Cristofaro, Torino, 2007, 201.

[65] Si tratta, dunque, a ben vedere, in entrambi i casi (cioè sia con riferimento alle azioni ingannevoli sia alle omissioni ingannevoli) di comportamenti astrattamente idonei ad indurre in errore, il che accosta tali ipotesi al dolo negoziale (artt. 1439 e 1440 c.c.), sebbene presentino maggiori assonanze con le dichiarazioni inesatte e le reticenze nel contratto di assicurazione (artt. 1892 e 1893 c.c.), dalle quali si distinguono per il profilo dell’imputazione soggettiva, non essendo necessario accertare – con riferimento alle pratiche commerciali scorrette – né il dolo né la colpa grave (cfr. supra, nel testo).

Inoltre, l’accostamento al dolo impone di distinguere le azioni ingannevoli (art. 21 cod. cons.) dal cd. dolus bonus, il quale, come noto, consiste nel comportamento (lecito) di chi esalta i pregi della propria prestazione o ne attenua i difetti. Come noto, il dolo (dolus malus) consiste in raggiri, cioè in comportamenti intenzionalmente volti a trarre in inganno il deceptus; il dolus bonus consiste in comportamenti che non superano la soglia di rilevanza patologica, perché incapaci di essere qualificati come raggiri: per alcuni autori ciò deriverebbe dall’assenza di animus decipiendi, altri autori invece argomentano dall’inidoneità del comportamento a trarre in inganno una persona di normale diligenza.

In tal caso, anche la pratica commerciale consistente in “dichiarazioni esagerate o in dichiarazioni che non sono destinate ad essere prese alla lettera” non potrà essere qualificata come scorretta (art. 20, comma 3, ult. periodo, cod. cons.) proprio perché il comportamento non è astrattamente idoneo ad indurre in errore una persona di normale diligenza (in tal caso, da rapportare al consumatore medio).

[66] La direttiva, come noto, demandava agli Stati membri il compito di determinare le «sanzioni da irrogare», purché «effettive, proporzionate e dissuasive» (art. 13, dir. 2005/29/CE).

[67] Cfr. A. Travi, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1989, 392, il quale osserva che lo spazio applicativo in cui può appieno esplicarsi la funzione deterrente del diritto sanzionatorio amministrativo andrà ricavato là dove non siano riscontrabili minacce intollerabili dei beni giuridici costituzionalmente protetti (come nell’illecito penale) né eventi dannosi per i beni individuali o collettivi (come nell’illecito civile), bensì comportamenti, più spesso, pericolosi, talvolta anche dannosi, per gli interessi generali non meritevoli di tutela penale oppure per gli interessi specifici della pubblica amministrazione.

[68] Pur autorevolmente sostenuta, muovendo dal precedente riferimento contenuto all’art. 140 cod. cons., cfr. C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e consumatori, cit., 777, nonché N. Zorzi Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, cit., 924, la quale già ammetteva una tutela risarcitoria collettiva dei consumatori. Al riguardo, deve osservarsi che la tutela dell’interesse collettivo dei consumatori, più che sancita dal legislatore, è stata apprezzabilmente affermata e costruita in via esegetica dalla dottrina, pur in assenza di meccanismi rimediali effettivi. Tale lavoro ricostruttivo ha, indubbiamente, giovato, creando il terreno fertile che ha preparato l’introduzione delle norme sulla tutela individuale e collettiva dei consumatori (su cui, infra).

[69] In dottrina, si avverte che l’approccio comunitario privilegia la dimensione collettiva dello scambio ed il legislatore europeo essenzialmente regola il mercato: cfr. A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, in Riv. dir. priv., 2010, 37 ss., per il quale la disciplina delle pratiche scorrette è l’ennesima espressione dell’interesse alla regolazione del mercato manifestato dal legislatore europeo, preoccupato della sua efficienza e di correggerne i fallimenti; confermando un modello europeo di disciplina collettiva degli scambi in contrapposizione alla regolazione della dimensione individuale dello scambio privilegiata dai codici nazionali (imperniati sul contratto). Tuttavia, l’A. cerca di trarre dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette ulteriori indicazioni per l’interprete, al fine di costruire un sistema di tutele del rapporto individuale di consumo nell’ottica di una moralizzazione non solo del mercato, ma dei rapporti (op. cit., 60 ss., su cui infra). Esattamente, invece, C. Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Obbl. contr., 2010, 411, osserva che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette non si configura affatto quale modello di tutela individualistica dei consumatori, secondo i canoni ordinari del diritto privato, quanto piuttosto come modello di organizzazione dell’attività comunicativa delle imprese: diversamente dal codice civile, che opera dal punto di vista della concreta distorsione della volontà negoziale, stabilendone i limiti di rilevanza a tutela della continuità dei traffici, il codice del consumo opera dal punto di vista della mera astratta idoneità di una pratica ad indurre i consumatori a prendere una decisione che altrimenti non avrebbero preso, assumendo ad oggetto di tutela giuridica la trasparenza del mercato attraverso la regolazione delle condotte delle imprese (op. cit., 417).

Tali affermazioni sono puntualmente riprese dalla giurisprudenza amministrativa, la quale parimenti individua l’oggetto della tutela della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nell’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato. Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, 12 marzo 2020, n. 1751, che ribadisce: «l’illecito di scorrettezza è un illecito di pericolo, che non richiede per la sua configurazione l’attualità di una lesione agli interessi dei consumatori, quanto, piuttosto, che una pratica sia idonea a produrla. Il bene giuridico tutelato, infatti, è soltanto indirettamente la sfera patrimoniale del consumatore: in via immediata, attraverso la libertà di scelta si vuole salvaguardare il corretto funzionamento del mercato concorrenziale».

[70] La dottrina ha segnalato che il rilievo dell’attività rappresenta l’elemento di novità apportato dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel diritto dei consumatori, tradizionalmente incentrato sull’atto di consumo. Cfr. L. Rossi Carleo, Consumatore, consumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Eur. dir. priv., 2010, 685 ss., spec. 699 e 703, la quale rileva come, a seguito della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, si registri un passaggio determinante: «l’attenzione, incentrata in precedenza essenzialmente sull’atto, viene a focalizzarsi sull’attività, determinando, in tal modo un significativo ampliamento della nozione di “consumatore”, ormai svincolato dalla posizione di contraente». Nello stesso senso, N. Zorzi Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, in Contr. impr., 2011, 922, la quale, nell’interpretazione dell’art. 19, comma 2, lettera a, cod. cons. (secondo cui la disciplina delle pratiche commerciali scorrette non pregiudica l’applicazione delle disposizioni in materia contrattuale, in particolare in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto), muove esattamente dal presupposto che la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette si aggiunge a quella del contratto, ognuna avendo un proprio àmbito d’applicazione, l’una concernendo pratiche e dunque comportamenti, attività, e l’altra concernendo singoli atti, al fine poi di esaminare le possibili ripercussioni dell’una sull’altra. Ed ancora, seppur accentuando l’impermeabilità tra le due discipline, G. Grisi, Rapporto di consumo e pratiche commerciale, in Eur. dir. priv., 2013, 6 ss., per il quale la disciplina delle pratiche commerciali scorrette è disciplina dell’attività, non dell’atto.

Del resto, pur spostando l’attenzione dalla attività del professionista al consumatore, la relativa nozione, pur ribadita nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette (art. 18 lett. a, cod. cons.) ricalcando pedissequamente la nozione generale (art. 3, lett. a, cod. cons.) ed ancòra incentrata sul riferimento all’azione («la persona fisica che agisce»), ne esce diversa giacché questo agire si riduce ad una mera potenzialità, come conferma «l’ipotesi in cui la vicenda instaurata tra consumatore e professionista si ferma alla fase addirittura precedente alle trattative»: così, E. Bargelli, L’ambito di applicazione della direttiva 2005/29/CE, in in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/CE e il diritto italiano, a cura di G. De Cristofaro, Torino, 2007, 98.

[71] Non pare, dunque, che questo sfruttamento debba necessariamente declinarsi in un approfittamento della razionalità limitata del consumatore (secondo la definizione di scorrettezza proposta da A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, cit., 54), potendo bensì consistere anche nel semplice pericolo di approfittamento.

[72] Sulle discordanti interpretazioni di tale nozione, cfr. supra § 4, testo e note.

[73] Non può chiaramente celarsi l’influenza del pensiero di T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 874, il quale, muovendo dall’analisi dell’evoluzione storica del diritto commerciale, finemente osserva come sia la stessa affermazione della libertà di iniziativa economica a porre il problema della disciplina della concorrenza, che ne costituisce la diretta conseguenza: la competizione tra imprenditori germina dalla libertà di accesso al mercato. Finalità della concorrenza diviene, allora, quella di «assicurare il trionfo del (economicamente) più degno»: in quest’ottica, dunque, la competizione tra imprenditori costituisce il criterio per la scelta del più degno affidata al giudizio dei consumatori, come strumento per promuovere il progresso economico (Id., op. cit., 928).

[74] La dottrina, sin dall’apparizione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette ha cercato di superare l’apparente incomunicabilità tra quest’ultima e gli istituti civilistici tradizionali: l’esame delle variegate opinioni espresse sarà condotto nel prosieguo (§§ 7 e ss.).

[75] Per espressa disposizione di legge, alla microimpresa è esteso soltanto «il titolo» relativo «alle pratiche commerciali scorrette» poste in essere da professionisti; e, come detto, la pratica commerciale lesiva è fattispecie diversa dalla pratica commerciale scorretta.

Con riguardo all’applicazione della disciplina dele pratiche scorrette ale microimprese, cfr. G. De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette e «microimprese», in Nuove leggi civ. comm., 2014, 3 ss., nonché, E. Labella, Pratiche commerciali scorrette e autonomia privata, Torino, 2018, 60 s.

[76] Si consideri che l’attribuzione della potestà sanzionatoria all’Autorità garante della concorrenza e del mercato comporta, invece, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, comma 1, lett. l, cod. proc. amm.) per le controversie aventi ad oggetto i relativi provvedimenti, anche sanzionatori (giurisdizione ribadita nello stesso art. 27, comma 14, cod. cons.).

[77] L’interesse ad agire è, dall’opinione dominante, costruito come interesse puramente processuale: così, già, G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1962, 167. La natura processuale è confermata da P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, I, Padova, 1943, in Opere giuridiche, IV, Napoli, 1970, 134 ss., secondo il quale «l’interesse processuale ad agire e a contraddire sorge appunto quando si verifica in concreto quella circostanza la quale fa ritenere che la sodisfazione dell’interesse sostanziale tutelato dal diritto non possa essere più conseguita senza ricorrere all’autorità giudiziaria», per cui « l’interesse processuale non nasce in uno stesso punto col diritto soggettivo, ma nasce dopo, al momento in cui il diritto soggettivo comincia a trovarsi in uno stato di insodisfazione» (corsivi dell’A.). Similmente, M.T. Zanzucchi, Diritto processuale civile, I, a cura di C. Vocino, 1964, 128, il quale precisa che tale interesse processuale nasce in generale «da uno stato di fatto contrario al diritto, che non può essere rimosso senza l’intervento degli organi giurisdizionali» e «si sostanzia nel danno, che alla parte verrebbe ove questi non interponessero la loro attività». L’interesse ad agire è stato, dunque, precisato come «interesse processuale, secondario e strumentale rispetto all’interesse sostanziale primario» e che ha per oggetto non il bene cui mira il l’interesse sostanziale, ma «il provvedimento che si domanda al magistrato, come mezzo per ottenere il soddisfacimento dell’interesse primario, rimasto leso dal comportamento della controparte, o più genericamente dalla situazione di fatto oggettivamente esistente», cfr. E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1980, 121 ss., spec. 136.

Secondo A. Attardi, L’interesse ad agire, Padova, 1955, 158 ss., inteso l’interesse ad agire come uno stato di lesione del diritto dedotto in giudizio, esso presenterebbe una propria autonomia esclusivamente quanto alle azioni di mero accertamento ed alle azioni cautelari. Nelle azioni di mero accertamento l’interesse ad agire si concreterebbe in una oggettiva incertezza circa l’esistenza (o inesistenza) del diritto fatto valere scaturente da una contestazione (o da un vanto) altrui oppure da una situazione di c.d. apparenza giuridica; nelle azioni cautelari, invece, tale figura coinciderebbe con il c.d. periculum in mora.

La dicotomia tra interesse processuale e sostanziale è, invece, radicalmente criticata da S. Satta, Interesse ad agire e legittimazione, in Foro it., 1954, IV, 169 ss., per il quale l’interesse processuale non esiste, in quanto ciò che si deduce nel processo è unicamente l’interesse sostanziale oggetto della tutela. Più di recente, B. Sassani, Note sul concetto di interesse ad agire, Rimini, 1983, passim, nonché Id., voce Interesse ad agire, I) Diritto Processuale civile, in Enc. giur. Trecc., 2 s., non tanto alla concezione processuale di interesse ad agire, quanto alla concettualizzazione dell’interesse ad agire in un’entità processuale secondaria e strumentale,. L’A. esattamente osserva che l’opinione dominante, nella ricognizione del concetto di interesse ad agire, muove dai seguenti passaggi logici: 1) interesse sostanziale tutelato dall’ordinamento; 2) lesione di questo interesse; 3) conseguente interesse processuale al provvedimento giudiziale remotivo della lesione e satisfattivo, quindi, dell’interesse primario sostanziale. Ad avviso dell’A., l’interesse ad agire andrebbe valutato sul piano sostanziale, senza confonderlo con la situazione sostanziale dedotta quale oggetto del processo, né ipostatizzandolo come nuova entità processuale (un interesse alla tutela distinto dall’interesse tutelato), piuttosto limitandosi ad intenderlo nella dialettica giuridica tra l’astratta idoneità dell’interesse sostanziale alla soddisfazione del suo titolare e la concreta idoneità della tutela processuale prescelta alla quella soddisfazione. In sostanza, sembra potersi affermare che in quest’ottica il concetto di interesse ad agire è ridotto ad un giudizio teleologico di natura sostanziale, con finalità esclusivamente processuali, senza cioè mai assurgere ad oggetto dell’accertamento giurisdizionale.

[78] Cfr., di recente, ancòra A. Attardi, voce Interesse ad agire, in Digesto IV, Disc. priv., sez. civ., X, Torino, 1993, 520, il quale torna a ribadire che è lo stato di lesione del diritto il fatto dal quale sorge l’interesse ad agire che è oggetto di un esame, da parte del giudice, e che è distinto sia da quello che verte sull’esistenza (o inesistenza) del diritto stesso sia dalla valutazione che sempre il giudice compie circa la sussistenza dei presupposti della legittimazione ad agire.

[79] All’interpretazione della norma ha dedicato attente riflessioni N. Zorzi Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, in Contr. impr., 2011, 921 ss., con ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza. Come noto, l’interpretazione della norma ha dato luogo ad una copiosa letteratura, che tuttavia non pare utile ripercorrere in questo spazio, preferendo limitare nel prosieguo le citazioni alle posizioni più significative.

[80] Per l’interpretazione più rigorosa, S. Delle Monache, Pratiche commerciali scorrette, obblighi di informazione, dolo contrattuale, cit., 107 s., 124 ss., il quale non esclude in radice possibili interpretazioni evolutive del sistema normativo tradizionale dei vizi del consenso, ma non da condurre alla luce della (aggiungerei, confusa) disciplina delle pratiche commerciali scorrette, quanto piuttosto nell’àmbito di un ponderato e meditato processo di avvicinamento ed unificazione del diritto privato europeo, di cui all’epoca l’A. scorgeva le tracce nel Draft Common Frame of Reference. Nella prospettiva dell’autonomia dei due plessi normativi sembra porsi altresì C. Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, cit., 411 e 417.

[81] A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, cit., 58 ss., spec. 61; si pongono in tale prospettiva, C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori, cit., 783, per il quale le due discipline non costituiscono «monadi reciprocamente impermeabili», dovendo il giurista interrogarsi se ed in che misura al disciplina di origine europea possa riflettersi sull’interpretazione del diritto comune del contratto; nonché M. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 479 ss., la quale, ritenendo che il legislatore del recepimento abbia optato per la scelta di un tacito rinvio al sistema (op. cit., 481 s.), propone di ampliare la rilevanza patologica dei mezzi dell’attività ingannatoria integranti dolo negoziale, includendovi il mero mendacio e persino la reticenza (op. cit., 485 ss.).

[82] Cfr. supra nota 45.

[83] In questo breve spazio, non è possibile dar conto delle svariate proposte formulate in merito all’incidenza della norma imperativa sul contratto: la migliore dottrina distingue il contratto illecito dal contratto contrario a norme imperative (anche detto, contratto illegale), plasmando il regime giuridico della nullità del contratto illecito sugli artt. 1417, 1972 e 2126 c.c. (controversa ne è, inoltre, la convertibilità ex art. 1424 c.c.). In particolare, per contratto illecito deve intendersi quel contratto la cui causa (art. 1343 c.c.), il cui motivo comune esclusivamente determinante (art. 1345 c.c.), il cui oggetto (art. 1346 cod. civ.) o la cui condizione (art. 1354, comma 1, c.c.) sono contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Il contratto illecito incondizionatamente nullo, nel senso che la nullità ne rappresenta la conseguenza diretta ed immediata (art. 1418, comma 2, e 1354, comma 1, c.c.), diversamente dal contratto meramente contrario a norme imperative o illegale (art. 1418, comma 1, c.c.), la cui nullità è invece subordinata al previo accertamento dell’assenza di disposizioni normative che dispongano diversamente.

la distinzione concettuale, nei termini in cui la impieghiamo oggi, del contratto illegale dal contratto illecito compare consapevolmente in E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 50 s., 101 ss. e 114 ss., il quale discerne il negozio giuridico in irrilevante, illegale ed illecito, nell’àmbito di una prospettiva di ampio respiro che tripartisce le possibili risposte dell’ordine giuridico di fronte all’atto di autonomia privata e, più in generale, a qualsiasi comportamento della vita sociale: l’ordine giuridico può, cioè, assumere un atteggiamento di indifferenza, di protezione e di riprovazione. Nell’àmbito della seconda ipotesi, il diritto può subordinare dell’atto di autonomia privata all’osservanza di certi limiti e all’adempimento di determinati oneri, la cui inosservanza dà luogo alla figura del negozio illegale, soggetto alla sanzione dell’invalidità.

Più di recente, la distinzione tra contratto illecito e contratto illegale è riproposta e precisata da G. De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 435 ss., spec. 438 s., ed in quest’ultimo senso tale distinzione è stata impiegata nel dibattito dottrinario successivo: cfr. U. Breccia, Causa, in G. Alpa, U. Breccia e A. Liserre, Il contratto in generale, t. III, in Tratt. dir. priv. diretto da M. Bessone, vol. XIII, t. 3, Torino, 1999, 116 ss., spec. 134; D. Maffeis, Contratti illeciti o immorali e restituzioni, Milano, 1999, 77 ss.; G. Perlingieri, Negozio illecito e negozio illegale. Una incerta distinzione sul piano degli effetti, Napoli, 2003, 10 ss.; A. Federico, Illiceità contrattuale ed ordine pubblico economico, Torino, 2004, 44 ss.

[84] A. Gentili, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in Contr., 2006, 171; L. Di Nella, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali aggressive, in Contr. e impr. Eur., 2007, 62, il quale però collegava la nullità di protezione alle sole pratiche aggressive.

[85]C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori, cit., 779; M. Nuzzo, Pratiche commerciali sleali ed effetti sul contratto: nullità di protezione o annullabilità per vizi del consenso?, in Le pratiche commerciali sleali. Direttiva comunitaria ed ordinamento italiano, a cura di Minervini-Rossi Carleo, Milano, 2007, 236 ss.; M. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, cit., 484; G. D’Amico, voce Formazione del contratto, in Enc. dir., Annali II, 2, Milano, 2008, 590 ss.; A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, cit., 58 ss., spec. 62 s., mutando, dunque, avviso rispetto all’opinione precedentemente espressa, in attesa del recepimento della direttiva; S. Delle Monache, Pratiche commerciali scorrette, obblighi di informazione, dolo contrattuale, cit., 108 ss.; C. Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, cit., 413.

[86] Il rilievo è di G. Grisi, Rapporto di consumo e pratiche commerciali, cit., 12.

[87] Negli stessi termini, M. Maugeri, Pratiche commerciali scorrette e annullabilità, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1519, con riferimento all’ipotesi in cui la pratica consista nell’«imporre al consumatore che intenda presentare una richiesta di risarcimento del danno in virtù di una polizza di assicurazione di esibire documenti che non possono ragionevolmente essere considerati pertinenti per stabilire la fondatezza della richiesta, o omettere sistematicamente di rispondere alla relativa corrispondenza, al fine di dissuadere un consumatore dall’esercizio dei suoi diritti contrattuali» (fattispecie disciplinata nella cd. lista nera di pratiche aggressive dall’art. 26, lett. d, cod. cons.), condivisibilmente ritiene che in questo caso non sembri appropriato invocare la violenza, essendo probabilmente invocabile l’art. 1375 cod. civ. (in materia di buona fede nell’esecuzione del contratto) o, addirittura la disciplina in materia di inadempimento, ma sicuramente non la violenza.

[88] A titolo esemplificativo, si consideri il gestore elettrico che comunica con modalità opache o equivoche le modificazioni tariffarie del servizio in esercizio dello ius variandi contrattualmente pattuito, al fine di applicare corrispettivi maggiorati senza che l’utente medio riesca ad accorgersene. Il caso è attualmente all’attenzione dell’Antitrust, con riferimento alle modiche unilaterali del contratto comunicate da un gestore elettrico via mail ai clienti con la dicitura “abbiamo qualcosa di importante da comunicarti”, ma senza chiarire né nell’oggetto né nel testo della comunicazione che si trattava di una modificazione tariffaria unilaterale e limitandosi ad indicare la nuova tariffa applicata in un allegato della mail.

[89] Si era, poi, soliti formulare alcuni esempi di pratiche scorrette da cui poteva sì discendere la nullità del contratto, ma in virtù di altre disposizioni: e, così, si è correttamente detto (cfr., in part., C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori, cit., 780 s., nonché M. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, cit., 482 s.) che la violazione dell’art. 22, comma 4, lett. b, cod. cons. (mancata comunicazione dell’identità del professionista) può dar luogo a nullità nei casi disciplinati dall’art. 52, comma 3, cod. cons.; che la violazione dell’art. 22, comma 4, lett. e (mancata comunicazione del diritto di recesso laddove questo sussista) potrà dar luogo a nullità qualora sussistano gli estremi di cui all’art. 67 septies-decies, comma 4, cod. cons. o all’art. 30, comma 7, t.u. finanziari; che, in caso di pratica scorretta prevista dall’art. 23, lett. i, cod. cons. (affermare, contrariamente al vero, o generare comunque l’impressione che la vendita del prodotto è lecita), il contratto sarà certamente nullo, ma ex art. 1418, comma 2, cod. civ.

Inoltre, sempre ad avviso di Ead., op. loc. ult. cit., anche la violazione degli obblighi di informazione di cui all’art. 22, comma 4, lett. a e c, cod. cons. (mancata specificazione delle caratteristiche del prodotto e mancata indicazione o indicazione poco chiara del prezzo o delle modalità di calcolo dello stesso) può comportare sia la nullità per indeterminatezza dell’oggetto del contratto, qualora sia impossibile determinare anche per relationem quest’ultimo (23), sia la reazione che segue in caso di violazione del combinato disposto degli artt. 34, comma 2o, e 36 dello stesso codice, qualora ancorché non impossibile in via oggettiva la determinazione sia difficile per il consumatore. Tuttavia, quest’ultimo assunto non sembra potersi condividere. In senso contrario si è efficacemente espresso S. Delle Monache, Pratiche commerciali scorrette, obblighi di informazione, dolo contrattuale, cit., 129, il quale esattamente esclude che possa dichiararsi la nullità del contratto “a valle” per indeterminatezza dell’oggetto nell’ipotesi in cui il professionista abbia mancato di fornire al consumatore le informazioni di cui all’art. 22, c. 4, lett. a e c, сod. cons. Con riferimento a quelle previste dalla lett. a, che attengono alle «caratteristiche principali del prodotto», l’omissione potrà rilevare, alternativamente, sul piano dell’errore o dell’inadempimento, a seconda che il consumatore si sia falsamente rappresentato le qualità di ciò che acquista ovvero il professionista assuma un impegno, secondo il significato obiettivo del contratto, relativo a un bene (o servizio) dotato di pregi maggiori o diversi rispetto al bene (o servizio) concretamente offerto alla clientela. Quanto poi alle informazioni relative al prezzo del prodotto o alle modalità per calcolarlo (lett. c), è agevole osservare che, pur in assenza di qualsiasi accordo sul corrispettivo dovuto al professionista, il contratto ben difficilmente potrebbe giudicarsi nullo, atteso il funzionamento dei noti criteri determinativi legali, a carattere suppletivo, dettati in sede di regolamentazione normativa dei singoli tipi contrattuali (artt. 1474 e 1657 c.с.).

[90] Il principio dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico, che mal tollera una completa irrilevanza della disciplina sulle pratiche commerciali sleali rispetto alla diversa normativa sul contratto (ed in particolare sull’invalidità del contratto), è puntualmente invocato da N. Zorzi Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, cit., 925, la quale, a sua volta, richiama il pensiero di P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 227.

[91] Comma aggiunto dall’art. 36-bis, comma 1, D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214 e, successivamente, così modificato dall’art. 28, comma 3, D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27.

[92] Comma aggiunto dall’art. 15, comma 5-quater, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221.

Peraltro, la norma deve essere coordinata con la successiva modifica dell’art. 62 cod. cons. (ad opera del D. Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21), che, conformemente all’art. 3, comma 4, D. Lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, vieta ai professionisti di imporre ai consumatori, in relazione all’uso di determinati strumenti di pagamento, «spese» per l’uso di detti strumenti, «ovvero nei casi espressamente stabiliti, tariffe che superino quelle sostenute dal professionista». Il testuale riferimento al «sovrapprezzo» contenuto nell’art. 21, comma 4-bis, cod. cons. sembra, tuttavia, più ampio, dovendosi intendere nel senso che il professionista, cui è comunque precluso il rimborso delle predette «spese», le imponga a titolo di «sovrapprezzo», cioè di corrispettivo maggiorato o comunque di compenso per l’utilizzo o la messa a disposizione del mezzo di pagamento elettronico (sovrapprezzo che, di regola, sarebbe ammissibile se espressamente concordato con il consumatore, cfr. art. 65 cod. cons.).

[93] Nullità parziale, peraltro, che non sarebbe agevole ricavare dall’art. 33 cod. cons., cioè dalla contrarietà a buona fede della clausola, la quale – nella misura in cui prevede un corrispettivo (ulteriore, perciò definito “sovrapprezzo”) per un servizio di pagamento – comporterebbe un sindacato sull’equilibrio economico del contratto (art. 34, comma 2, cod. cons.).

[94] In tale ordine di idee, seppur con le avvertite diversità di accenti che conducono a richiedere presupposti differenti per l’annullabilità del contratto “a valle” di pratica commerciale scorretta, si pongono: C. Granelli, Le “pratiche commerciali scorrette” fra imprese e consumatori, cit., 780 s., nonché M. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, cit., 482 s.; M. Nuzzo, Pratiche commerciali sleali ed effetti sul contratto: nullità di protezione o annullabilità per vizi del consenso, cit., 238; A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, 61 ss.; N. Zorzi Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, cit., 952 ss.

[95] A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, 61 ss., spec. 63., secondo il quale se se la pratica commerciale ha effettivamente fuorviato nel caso singolo la scelta compita dal consumatore, occorre assumere che «qualsiasi pratica ingannevole è dolo e qualsiasi pratica aggressiva è violenza, indipendentemente dal mezzo usato».

[96] È opinione diffusa, infatti, che il sistema della cause di annullabilità rappresenti «un sistema tendenzialmente tipico e tassativo», così V. Roppo, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2011, 713; parimenti, più di recente, E. del Prato, Le annullabilità, in Tratt. Roppo, IV, Rimedi-1, a cura di A. Gentili, II ed., Giuffrè, 2023, 185, diversamente dalla nullità, che – all’inverso – costituisce uno schema elastico, e cioè indipendente dalla testuale previsione della nullità allorché il vizio consiste nella contrarietà del contratto a norme imperative (cfr. l’art. 1418): per questa ragione, l’annullabilità assume carattere residuale e resta assorbita ogni qual volta venga in rilievo il contrasto del programma contrattuale con una norma imperativa.

[97] A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, 61 ss., secondo cui il mendacio, la reticenza indebita, ai fini dell’inquinamento dell’autenticità della scelta, equivalgono al raggiro. Le molestie, le pressioni psicologiche invadenti, alla minaccia di un male ingiusto e notevole. Alla luce della teoria liberista è il che, non il come, l’altrui scelta è viziata, che è rilevante. Richiedere, perciò, in aggiunta, che la violenza faccia temere mali ingiusti e notevoli, che l’inganno operi attraverso raggiri ed artifizi, alla luce della teoria non è logico sviluppo, ma ingiustificata limitazione della tesi che ispira i c.d. “vizi” della volontà. Tuttavia, per un verso, nella violenza morale, il fondamento del “dogma” dell’ingiustizia è chiarito dalla dottrina tradizionale: nel conflitto di interessi in cui si muove la vita dei traffici, non si può garantire un’autodeterminazione degli individui, libera, sia dal peso enorme delle circostanze di fatto, sia dalla pressione delle forze economiche abilmente messe in gioco o sfruttate da un interessato; chi ha la possibilità di giovarsi di una situazione conforme al diritto non compie ingiustizia, e non pone in essere una violenza (cfr. A. Trabucchi, voce Violenza, cit., 947). Per altro verso, nel dolo, la necessità dei raggiri si giustifica con l’ampliamento della rilevanza patologica dell’errore sui motivi, giacché ove l’errore fosse essenziale (art. 1429 c.c.) e pur sempre riconoscibile (art. 1431 c.c.), di certo non occorrerebbero i raggiri per l’annullabilità del contratto.

[98] A. Gentili, Pratiche sleali e tutele legali: dal modello economico alla disciplina giuridica, 61 ss.

[99] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 436 s., 457 e 462, per il quale i vizi del volere sono tali nella misura in cui operano sulla volontà col porre un motivo atto a farla deviare dal cammino normale che altrimenti avrebbe percorso; A. Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova, 1937, 84 ss., 90 ss.; Id., voce Violenza, cit., 943.; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1966 (rist. 2012), 160, con specifico riferimento all’errore-vizio, quale falsa rappresentazione della realtà, che si pone quale motivo della volontà negoziale; nonché, sotto altro profilo, V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., 99 s., che individua una stretta correlazione tra il principio di irrilevanza dei motivi e la restrizione ai soli raggiri quali mezzi ingannatori idonei alla configurabilità del dolo.

A ciò si aggiunga la tipicità e tassatività delle cause di annullabilità, pacificamente affermata dalla prevalente dottrina: cfr., ancòra, V. Roppo, op. loc. ult. cit., E. del Prato, op. loc. ult. cit., nonché U. Majello, La patologia discreta del contratto annullabile, in Riv. dir. civ., 2003, 348, il quale, nel tracciare la differenza tra la nullità con legittimazione relativa e l’annullabilità, afferma che la prima è una reazione contro la violazione dei limiti all’autonomia privata, mentre la seconda «non tutela l’osservanza delle norme che limitano l’autonomia privata, ma tutela al contrario la libertà decisionale di quei contraenti che si trovino in situazioni tipiche tali da non poterla esercitare in piena responsabilità».

[100] Secondo l’insegnamento ricavabile dalla tendenza speculativa dei trattatisti a ricondurre la materia dei vizi del volere alle due cause (perturbative) determinanti della volontà rappresentate dall’errore e dal timore: cfr., tra questi, E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 436 s., che perentoriamente afferma: «Anormalità che lasciano bensì sussistere la determinazione causale, ma la viziano in taluno de’ suoi elementi, perturbandone il processo formativo, sono l’errore (spontaneo o provocato da dolo) e il timore (in quanto dipenda da violenza). Possiamo chiamar questi vizi della determinazione causale, ossia della motivazione del volere». Nella ricostruzione offerta dall’illustre A., dolo e violenza altro non sono che atti illeciti da cui dipendono i vizi della determinazione causale, cioè l’errore e il metus (op. cit., 457).

Cfr., invece, per l’autonomia concettuale del dolo dall’errore e dalla violenza, cfr. A. Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, cit., 178 ss.

[101] Di recente, M. De Poli, Servono ancora i «raggiri» per annullare il contratto per dolo? Note critiche sul concetto di reticenza invalidante, in Riv. dir. civ., 2004, 927 s., nonché Id., I mezzi dell’attività ingannatoria e la reticenza da: Trabucchi alla stagione della «trasparenza contrattuale», in Riv. dir. civ., 2011, 650 ss., 677 ss., 686 ss., indagando in chiave attuale i possibili mezzi dell’attività ingannatoria, ribadisce l’utilità teorica e pratica della dottrina della machinatio, la quale ha l’indubbio vantaggio di presentarsi come fattispecie tipica «ricca», che cioè consente di selezionare, tra i vari comportamenti causalmente idonei a produrre una falsa rappresentazione, quelli dotati di maggior complessità, articolazione e, in ultima analisi, di gravità, sì da consentire al giudice di dedurre, tramite gli stessi e la loro particolare conformazione, sia la connotazione psicologica dell’agente (ed allora la machinatio funge da prova dell’animus, della voluntas fallendi) sia la capacità ingannatoria dei mezzi utilizzati (in questo caso, invece, la machinatio è prova dell’obiettiva decettività del comportamento). Una fattispecie «ricca» agevola la prova giudiziale di elementi che sono difficilmente accertabili con la prova storica e facilmente apprezzabili con quella critica. La tipicità della machinatio e la necessità di distinguere concettualmente il dolo dall’errore inducono, inoltre, l’A. a riconoscere rilevanza invalidante alla semplice menzogna (Id., I mezzi dell’attività, cit., 651, nota 4, 689 ss., 694) e, all’inverso, a disconoscere rilevanza invalidante, quale dolo omissivo, al silenzio (reticenza) della parte che riconosce l’errore spontaneo altrui, non potendo essere equiparata la speculazione (e, conseguente, conservazione) dell’errore spontaneo all’induzione in errore provocata dal dolo: nella reticenza mancherebbe l’efficienza causale qualificata imposta dalla norma (op. ult. cit., 688 s.), giacché non vi è alcuna norma nella disciplina del dolo negoziale che predichi l’equivalenza causale positiva (dei raggiri) a quella negativa (op. ult. cit., 653; nonché, Id., Servono ancora i raggiri, cit., 928); e così la conservazione dell’errore altrui (intesa come volontaria non rimozione) non può assurgere a mezzo ingannatorio.

[102] Cfr. G.F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Milano, 1962, 242 ss.; Id., Prime osservazioni sul recesso straordinario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, 86; W. D’Avanzo, voce Recesso, in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1967, 1027; A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, 160 ss.; G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, 1 ss., il quale, più nettamente, discorre di povertà, o talvolta autentica imprecisione, del linguaggio legislativo.

[103]A. di Majo Giaquinto, Recesso unilaterale e principio di esecuzione, in Riv. dir. comm., 1963, II, 124 s. G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., 3.

[104] Cfr., ancòra, Id., op ult. cit., 4 ss.

[105] Per la bipartizione tra recesso ordinario e straordinario, adottata nella sistematica tedesca (ove si distingue fra ordentliche e ausserordentliche Kuen-digung), v. G.F. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, cit., 205 ss. e 242 ss., anche per una revisione dei termini in cui la contrapposizione era correntemente prospettata.

[106] G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., 13 ss., 37 ss., 65 ss; G. Gabrielli e F. Padovini, voce Recesso (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 27 ss.; P Sirena, Effetti e vincolo, in Trattato del contratto, diretto da V.​ Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, II ed., Milano, 2023, 25 ss.; V. Roppo, Il contratto, cit., 518 ss., parimenti tripartisce i recessi legali in recessi di liberazione, recessi in autotutela e recessi di pentimento; nonché E. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze comportamentali, Torino, 2019, 100 ss.

[107] A queste ipotesi è assimilabile il recesso attribuito (non specificamente al consumatore, ma) all’assicurato nel contratto di assicurazione sulla vita (art. 177, comma 1, cod. ass. priv.).

[108] M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, Milano, 2016, 103.

[109] La sospensione dell’efficacia contrattuale nel periodo di recesso è carattere distintivo della disciplina della prima fattispecie di recesso di origine europea comparsa nel nostro ordinamento giuridico: si allude al recesso dai contratti aventi ad oggetto valori mobiliari stipulati mediante vendite a domicilio previsto dall’art. 18-ter della Legge 7 giugno 1974, n. 216, introdotto dall’art. 12 della legge 23 marzo 1983, n. 77 («Istituzione e disciplina dei fondi comuni di investimento mobiliare»), poi abrogato dall’art. 214, comma 1, lett. x, D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, recante il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il quale ha previsto il recesso che l’art. 30, 6° comma del d.lgs. 58/1998, testé richiamato, ha replicato la scelta di sospendere l’efficacia dei contratti, questa volta di collocamento di strumenti finanziari e di gestione di portafogli individuali conclusi fuori sede, durante il periodo di recesso, prolungato a sette giorni e decorrente dalla data di sottoscrizione da parte dell’investitore.

  1. Roppo, Offerta al pubblico di valori mobiliari e tecniche civilistiche di protezione dei risparmiatori-investitori, in Giur. it., 1983, IV, 208 s, secondo cui «l’esercizio del recesso non determina, propriamente, lo scioglimento degli effetti contrattuali, ma piuttosto ne impedisce la produzione», in quanto gli effetti del contratto non si producono al momento della sua conclusione, giacché per legge la sua efficacia è sospesa; ne risulterebbe, dunque, «un meccanismo di condizionamento sospensivo», tale da dedurre il mancato esercizio del recesso in una condizione negativa sospensiva meramente potestativa, che si sottrarrebbe alla nullità ex art. 1355 c.c., in quanto la mera potestatività è normativamente prevista ed afferisce non ad una condizione volontaria, ma ad una condicio iuris. Si noti che la sospensione ex lege degli effetti contrattuali impedisce di costruire il recesso legale come condizione risolutiva meramente potestativa, che, secondo l’opinione prevalente, si sottrae all’art. 1355 c.c. (cfr., per tutti, A. Falzea, voce Condizione, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 8; contra, tuttavia, P. Rescigno, voce Condizione, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 796).

Diversa è, invece, la ricostruzione proposta da G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., 72, per il quale l’accordo raggiunto, «benché di fatto e secondo le regole generali già definitivo, è imperativamente degradato al livello di una semplice opzione a favore dell’acquirente»; ad avvisto dell’A., la disciplina in esame non avrebbe previsto un vero recesso, ma una dichiarazione che impedisce il definitivo perfezionamento del contratto, secondo un meccanismo non ignoto allo strumentario legale codicistico e rappresentato dalla riserva di gradimento nella vendita allorché la cosa sia nella disponibilità del compratore (art. 1520, comma 3, c.c.). La raffinata tesi della degradazione dell’accordo ad opzione è criticata da D. Valentino, Recesso e vendite aggressive, Napoli, 1996, 181 ss., in forza del rilievo per cui la qualificazione in termini di opzione impone di ricondurre il suo esercizio all’inerzia del compratore, attribuendo al silenzio un valore dichiarativo che non gli appartiene e costruendo un di consenso presunto espressivo di una mera fictio iuris.

[110] Già con riferimento alla disciplina dettata dal D. Lgs. n. 50/1992, D. Valentino, Recesso e vendite aggressive, cit., 204 ss., ha già chiarito che il diritto di recesso, normativamente riconosciuto anche prima della conclusione del contratto con riguardo alla proposta, non può che concretarsi, qualora il consumatore assuma la veste di proponente, in un potere di revoca della proposta, assoggettato, peraltro, ad una disciplina parzialmente diversa da quella dettata dall’art. 1328 c.c., perché può essere esercitato anche dopo che il contratto si è concluso per essere l’accettazione pervenuta all’indirizzo del proponente, purché la revoca della proposta sia stata inviata entro il periodo di riflessione legale. Il decorso del termine preclude al consumatore la possibilità di revocare la proposta anche se l’accordo non si è ancora perfezionato, ma la regola dovrebbe valere solo per le proposte irrevocabili, alla luce della considerazione che il farne applicazione anche a quelle revocabili comporterebbe, per il “consumatore” proponente, un trattamento deteriore rispetto a quello del normale consumatore, che può revocare la proposta sino a quando il contratto non sia stato concluso (art. 1328 c.c.).

Nello stesso senso, più di recente, a seguito della recente novella del 2014 al codice del consumo, M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 139 s., osserva opportunamente che il legislatore, nel riferire il recesso alla proposta (art. 55, lett. b, cod. cons.), non si limiti più a richiamare una generica offerta contrattuale (come nel previgente art. 45, comma 2, cod. cons., riferendosi a «proposte contrattuali sia vincolanti che non vincolanti»), ma un’offerta dalla quale discendono “obblighi di concludere il contratto”, ovverosia alla sola proposta irrevocabile.

 

[111] In tal senso, M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 104.

[112] V. Scalisi, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Eur. dir. priv., 2001, 3, 495, ritiene il recesso un coelemento essenziale del consenso ed una fonte di qualificazione accertativa dello stesso, dal cui esercizio non deriverebbe la efficacia (per avverata condicio), ma la costitutiva completezza strutturale della fattispecie. R. Di Raimo, Autonomia privata e dinamiche del consenso, Napoli, 2003, 80 ss., lega informazione e consenso sul piano strutturale e funzionale, ritenendo che gli effetti del contratto di consumo a distanza o negoziata fuori dai locali commerciali si producano «in ragione della concorrenza di tre fatti: lo scambio di dichiarazioni, l’atto informativo (che, quindi, si trova ora collocato nell’area dell’effetto) e il mancato esercizio del recesso»; in quest’ottica lo scambio delle dichiarazioni contrattuali è ritenuto insufficiente, dovendo ritenersi normativamente presunta l’assenza di un consenso effettivo al momento della dichiarazione in virtù della previsione di un obbligo legale di informazione e dell’attribuzione del diritto di recesso al consumatore: «se perciò la consapevolezza del consumatore è affidata all’informazione, il contratto, concluso prima, sarebbe concluso senza consenso». In quest’ultimo ordine di idee si pone, altresì, C. Pilia, Accordo debole e diritto di recesso, Milano, 2008, 452 ss., il quale ritiene che gli obblighi di informazione e i vincoli di trasparenza sarebbero funzionali all’espressione ponderata e libera della volontà contrattuale del contraente più debole, delineando i termini di una singolare e innovativa sequenza procedimentale.

Una notevole variante alle sequenze procedimentali di formazione del contratto di consumo è rappresentata dalla tesi dell’op­zione di acquisto, cui l’accordo è imperativamente degradato, sostenuta però con riferimento al recesso dalla vendita a domicilio di valori mobiliari (previsto dall’art. 18-ter della Legge 7 giugno 1974, n. 216) da G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., 72, e ripresa da M. Gorgoni, Sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali alla luce del d. lg. n. 50/1992, in Contr. e impr., 1993, 152 ss., nonché da P. Manes, Il diritto di pentimento nei contratti dei consumatori dalla legislazione francese alla normativa italiana di attuazione della direttiva 85/577, in Contr. impr. Eur., 1996, 969; N. Parodi, L’uscita programmata dal contratto, Milano, 2005, 70 ss.

Muovendosi su un piano di maggior pragmatismo, R. Sacco, Il contratto, cit., 481 s., preferisce qualificare il recesso di pentimento come una revoca, che toglie di mezzo (gli effetti di) una dichiarazione che non è ancora un contratto, non ravvisando ostacoli ad ammettere una revoca anche a contratto concluso; l’incontro di volontà fra proposta e accettazione, se è presente una sorpresa (su cui infra, nel testo e in nota), non è un vero contratto, perché il contratto in questo caso si completa quando siano presenti una proposta, un’accettazione, e un’assenza di revoca.

[113] E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, Milano, 2010, 112 ss., muovendo dall’analisi del testo del previgente art. 66 cod. cons. reputa che il recesso comporti «lo scioglimento di un vincolo contrattuale già formato e la reversione degli effetti reali eventualmente prodotti».

Nello stesso senso, A.M. Benedetti, voce Recesso del consumatore, in Enc. dir., Annali, IV, Milano, 2011, 958 e 966, il quale ascrive il recesso penitenziale consumeristico ad un vero e proprio diritto di recesso, del quale ripeterebbe la caratteristica ontologica fondamentale, la potestatività, la quale assicura al recedente l’uscita dal rapporto mediante la semplice manifestazione della volontà (tuttavia, in questo modo sembra attribuirsi troppo peso al dato strutturale). L’assunto è, più di recente, condiviso da M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 150 s. e 159, la quale, tuttavia, fermo l’avvenuto perfezionamento del contratto di consumo, opportunamente distingue tra i contratti di vendita (art. 52, comma 2, lett. b, cod. cons. nonché artt. 52, comma 3, e 57, comma 2, primo periodo, cod. cons.), da un lato, e i contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi e di fornitura prestazione dei servizi ovvero la fornitura di acqua, gas o elettricità, quando non sono messi in vendita in un volume limitato o in quantità determinata, di teleriscaldamento o di contenuto digitale non fornito su supporto materiale (art. 52, comma 2, lett. a e c, cod. cons. nonché artt. 50, comma 3, 51, comma 8, e 57, commi 3 e 4, cod. cons.), dall’altro: con riferimento ai primi, discorre di rilevanza asimmetrica tra adempimento e inadempimento, facendo leva sull’art. 52, comma 3, cod. cons., che attribuisce alle parti il potere («possono») e non l’obbligo di eseguire il contratto durante il periodo di ripensamento consumeristico, con la conseguenza che nella pendenza del termine per recedere solo l’adempimento sarebbe giuridicamente rilevante (non l’inadempimento), nella misura in cui il debitore può adempiere, ma il creditore non può esigere (Ead., op. ult. cit., 152 s., che richiama il concetto di rilevanza asimmetrica elaborato da M. Orlandi, Pactum de non petendo e inesigibilità, Milano, 2000); con riferimento ai secondi, pur reputando pienamente perfezionato il contratto di consumo con l’accordo, lo ritiene temporaneamente inefficace nel periodo di ripensamento, salvo la possibilità del consumatore di attribuire immediata efficacia al contratto con la richiesta di dare inizio all’esecuzione (cfr. artt. 50, comma 3, 51, comma 8, e 57, comma 3, cod. cons.), collegando però gli effetti contrattuali ad una fattispecie complessa formata dal contratto concluso e dalla richiesta del consumatore di dare inizio all’esecuzione (Ead., op. ult. cit., 154 ss.). In definitiva, ad avviso dell’A.., durante la pendenza del termine, per i contratti di vendita vi sarebbe una sospensione temporanea dell’esigibilità; per i contratti di servizi e fornitura sopra indicati vi sarebbe, invece, una sospensione temporanea degli effetti contrattuali, salva la richiesta di esecuzione del consumatore; in entrambi i casi, il recesso incide su un contratto perfezionato, sciogliendo i suoi effetti ex nunc sia con riferimento ai contratti di servizi (Ead., op. ult. cit., 161) sia con riferimento ai contratti di vendita, nel quale caso, a fronte dell’estinzione delle obbligazioni contrattuali, sorgerebbero tra le parti contrattuali obbligazioni non autenticamente restitutorie, ma di segno invertito sul modello del sistema giuridico tedesco (Ead., op. ult. cit., 166 ss., spec. 180). Al sistema tedesco e al confronto con il tradizionale sistema codicistico italiano delle restituzioni ha dedicato attenzione E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 333 ss.

  1. Sirena, Effetti e vincolo, in Trattato del contratto, diretto da V.​ Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, II ed., Milano, 2023, 129, riconduce, con linearità, il recesso di pentimento del consumatore alla vendita con riserva di (non) gradimento allorché la cosa si trovi presso l’acquirente, come disciplinata dall’art. 1520, comma 3, c.c., richiamando, sul punto, il pensiero di C.M. Bianca, La vendita e la permuta, I, in Tratt. Vassalli, II ed., Torino, 1993, 356 ss., che qualifica la dichiarazione di non gradimento del compratore come recesso dal contrato già perfezionato.

In termini molto simili, già si esprimeva G. Alpa, Jus poenitendi e acquisto di valori mobiliari, in Riv. soc., 1987, 1503, che ravvisava nel recesso dai contratti aventi ad oggetto valori mobiliari stipulati mediante vendite a domicilio previsto dall’art. 18-ter della Legge 7 giugno 1974, n. 216 il medesimo fondamento della prassi negoziale che si esprime con la possibilità di recesso qualora al merce “non soddisfi” l’acquirente (clausola “soddisfatti o rimborsati”): l’affare si considera concluso e produttivo di effetti, salvo il recesso del compratore.

[114] Cfr. A. di Majo, Il linguaggio dei rimedi, in Eur. dir. priv., 2005, II, 357; nonché M.C. Cherubini, Tutela del «contraente debole» nella formazione del consenso, cit., 15 ss., cui aderisce E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 111 s. e 314. In quest’ottica, di recente, si pone altresì E. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze comportamentali, cit., 34 ss., che rintraccia il fondamento del diritto di recesso nell’orizzonte delle scienze comportamentali, ove emerge la necessità di correggere le anomalie motivazionali contingenti alle scelte di consumo dettate dalla razionalità limitata del consumatore e, tuttavia, non integranti una disfunzione dell’accordo sussumibile nelle categorie civilistiche tradizionali: il recesso viene, così, a costituire «un rimedio agli acquisti irrazionali e/o impusivi» (op. cit., 40).

[115] In questi termini, già, muovendo da riflessioni di carattere sistematico sul concetto di rimedio, S. Mazzamuto, La nozione di rimedio nel diritto continentale, in Eur. Dir. priv., 2007, 3, 594 s., il quale, dopo aver osservato che la funzione del rimedio sia quella di ristabilire un ordine giuridico violato o irrealizzato per la frapposizione di un elemento anche esterno, correttamente precisa che non può riscontrarsi alcun rimedio là dove l’atto di esercizio del diritto, potere o facoltà non soddisfa un bisogno di tutela insorto a seguito della violazione o inattuazione di un interesse primario, ma si limita a soddisfare un interesse protetto in assenza di conflitto specifico (formulando gli esempi del recesso di pentimento, della revoca della proposta e della richiesta del prospetto informativo). In termini simili, P. Sirena – Y. Adar, La prospettiva dei rimedi nel diritto privato europeo, in Riv. dir. civ., 2012, II, 366, i quali, nel propugnare un’accezione molto rigorosa di rimedio fondata non solo sulla lesione di un interesse giuridicamente protetto, ma anche sull’imputabilità della lesione al soggetto responsabile, escludono il recesso penitenziale dalla categoria dei rimedi poiché «non solo non è funzionalmente giustificato, ma non è neppure strutturalmente ricollegato alla lesione di un interesse del consumatore che sia imputabile al professionista contraente».

Escludeva, parimenti, la natura rimediale del recesso penitenziale, G. Grisi, Lo ius poenitendi tra tutela del consumatore e razionalità del mercato, in Riv. crit. dir. priv., 582, a parere del quale l’esercizio del recesso «lascia insoddisfatto l’interesse che il consumatore, mediante la conclusione del contratto “sgradito”, intendeva soddisfare»; nonché, più di recente, in termini analoghi, M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 184 ss., muovendo però dal significato ontologico di rimedio come strumento di cura del contratto, cioè di rimedio come mezzo offerto mezzo offerto dall’ordinamento per consentire alle parti di realizzare l’interesse che intendevano perseguire con il contratto: anche ad avviso di quest’ultima A., il recesso penitenziale si porrebbe in una logica diametralmente opposta, in quanto il suo esercizio lascerebbe insoddisfatto proprio l’interesse che il consumatore intendeva soddisfare. Tuttavia, della correttezza di questo assunto è lecito dubitare: il recesso penitenziale, a rigore, mira propriamente alla – massima – soddisfazione dell’interesse che il consumatore intendeva soddisfare, al punto da consentirgli di caducare un contratto per lui sconveniente (cioè inadeguato al suo interesse) anche in assenza di patologia. Questa pare essere la nota caratteristica del pentimento, tale da consentire di negare allo stesso natura rimediale. Nell’ottica opposta, A. di Majo, op. loc. ult. cit., sostiene infatti la natura rimediale del recesso di pentimento proprio facendo leva sull’insoddisfazione dell’interesse (data dalla «conclusione del contratto, non rappresentativa del reale interesse dell’un contraente»), cui il pentimento rimedierebbe: a ben vedere, tuttavia, il pentimento non «rimedia» ad un’insoddisfazione di un interesse, ma «soddisfa» direttamente un interesse del consumatore, anche se l’inte­resse è sopravvenuto rispetto alla conclusione del contratto di consumo nel periodo di riflessione; ed è chiaro che l’interesse sopravvenuto, non esistendo al momento della stipula, non può in alcun modo dirsi «insoddisfatto» dal contratto. Ciò che, in altri termini, vuole qui ribadirsi è che il pentimento è concepito nella logica della soddisfazione di un interesse e non nella logica del rimedio ad una lesione di un interesse (che implica una violazione dell’ordine giudico).

Giunge parimenti ad escludere la qualificazione in termini di rimedio del recesso penitenziale, muovendosi però sul piano strutturale della fattispecie, V. Scalisi, Lineamenti di una teoria assiologica dei rimedi giuridici, in Riv. dir. civ., 2018, 1052, coerentemente alla concezione perfezionativa del recesso adottata dall’A, per il quale non può «parlarsi di vero e proprio rimedio, allorché il dispositivo tecnico messo in campo dall’ordine giuridico è inteso soltanto alla riorganizzazione in senso più efficiente e razionale della composizione strutturale della fattispecie».

[116] Il rapporto tra obblighi informativi e diritto di recesso è, da sempre, tema di grande dibattito: in particolare, l’obbligo di comunicazione concernente la spettanza del recesso penitenziale è sempre stato considerato unicamente in funzione dell’effettivo esercizio del diritto di pentimento, in chiave di vera e propria interdipendenza funzionale dell’obbligo di comunicazione con il diritto di recesso. Tale premessa, nel noto caso Heininger (Corte Giust. UE, 13.12.2001, causa C-481/99, in Corr. giur., 2002, 869, con nota di Conti), ha infatti condotto la Corte di Giustizia ha statuire il principio per il quale, nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali, in caso di omessa informazione sul diritto di recesso, lo spatium deliberandi a favore del consumatore doveva intendersi sine die. La lettura dell’art 5 della Dir. n. 85/577/CEE sembrava, infatti, consentire l’elaborazione del principio secondo il quale il decorso del periodo di riflessione non può essere separato dall’adempimento dell’obbligo informativo, pena «l’impossibilità» (cfr. la motivazione della pronuncia citata, p. 45) per il consumatore di avvalersi del rimedio. Il ragionamento della sentenza Heininger, pur relativo alla sola disciplina dei contratti negoziati al di fuori dei locali commerciali, influenza le successive scelte del legislatore comunitario ed apre la stagione del c.d. recesso sine die.

La disciplina della negoziazione a distanza dei servizi finanziari (dir. n. 2002/65/CE) e quella novellata del credito al consumo (dir. n. 2008/48/CE) attribuiscono, invero, al consumatore uno spatium deliberandi sine die ogni volta che venga omessa l’informazione sullo ius poenitendi (cfr. art. 6 dir. n. 2002/65/CE ed art. 14 dir. n. 2008/48/CE).

L’inversione di tendenza si registra a partire dall’altrettanto noto caso Hamilton (Corte Giust. UE, 10.4.2008 causa C-412/06), pur riconoscendo l’interdipendenza funzionale tra obbligo informativo e recesso, nega la sussistenza di diritto un recesso esercitabile sine die in caso di reticenza del professionista nell’ipotesi in cui il contratto di consumo sia stato integralmente eseguito (cfr. la motivazione della sentenza da ultimo cit., p. 45 s., ove precisa, peraltro, che il caso Heininger riguardava un contratto di mutuo che non era stato completamente eseguito).

La dir. n. 2011/83/UE si pone in rapporto di continuità con l’ultima pronuncia della Corte di Giustizia: nei contratti conclusi a distanza e fuori dai locali commerciali, la decorrenza dell’iniziale periodo di riflessione di quattordici giorni è formalmente svincolata dalla comunicazione delle informazioni concernenti il diritto di pentimento; il dies a quo è, infatti, espressamente collegato alla conclusione del contratto o alla consegna della merce (art. 9, dir. n. 2011/83/UE). L’art. 10 della stessa direttiva, nel precisare, infine, che nel caso di reticenza del professionista, al “periodo di recesso iniziale” se ne aggiunge un altro (supplementare) di dodici mesi, sancisce testualmente la decadenza dal diritto di recesso a prescindere dall’adempimento degli obblighi informativi, che rileva limitatamente nel caso in cui siano adempiuti entro l’anno.

Il rapporto tra obblighi informativi e diritto di recesso è puntualmente indagato da F. Rende, Il recesso comunitario dopo l’ultima pronuncia della Corte di Giustizia, in Riv. dir. civ., 2009, 525 ss.; nonché Id., Il ruolo dell’informazione sul recesso dopo la sentenza Walbusch Walter Busch, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 679 s.

[117] In tal senso sembra esprimersi F.P. Patti, Il recesso del consumatore: l’evoluzione della normativa, in Eur. Dir. priv., 2012, IV, 1007 ss., spec. nota 14, ove precisa: «con riguardo allo ius poenitendi i connotati del rimedio inteso nel significato più ristretto (o in senso “tecnico”) sembrano [...] ricorrere allorquando li professionista abbia violato lo specifico obbligo di informazione sul relativo diritto e ne sia conseguito un prolungamento del temine per esercitare li recesso [...]. In questo caso, risulta leso l’interesse del consumatore ad essere informato correttamente a causa di un comportamento imputabile al professionista».

  1. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze comportamentali, cit., 32, pur distinguendo tra «recesso informato» e «recesso disinformato», attribuisce ad entrambi natura rimediale al solo fine «di preservare l’unità concettuale del rimedio» (la quale, però, dovrebbe essere un posterius, non un prius).

[118] Su questa posizione sembrerebbe implicitamente porsi A. Cataudella, I contratti. Parte generale, VI ed., Padova, 2023, 80 s. e nota 85, il quale, peraltro, precisa che all’illecito precontrattuale non consegue un obbligo di risarcimento del danno a titolo di responsabilità precontrattuale, essendo contemplato, quale unico effetto dello stesso, il prolungamento del termine per l’esercizio del recesso.

[119] Prima della novella al codice del consumo apportata dal D. Lgs. n. 21/2014, il previgente art. 67 cod. cons., (sulla scia dell’art. 7 D. Lgs. n. 50/1992) poneva la sostanziale integrità del bene da restituire come condizione essenziale per l’esercizio del recesso, precisando che, a tal fine, era sufficiente il normale stato di conservazione derivante da un uso e una custodia mediamente diligente: pertanto, i soli deterioramenti che non intaccavano il normale stato di conservazione – purché frutto di un uso diligente – ricadevano sul professionista ed il consumatore, di conseguenza, poteva esercitare il recesso senza essere tenuto a indennizzare il professionista per la perdita di valore del bene; per quanto riguarda le ulteriori vicende negative intervenute nel lasso di tempo precedente all’esercizio del recesso (sia il perimento del bene sia il deterioramento che ne intaccava la soglia della «sostanziale integrità» e del «normale stato di conservazione»), sorgeva l’interrogativo, nel silenzio del codice del consumo, se la preclusione del diritto di recesso presupponesse il carattere imputabile dell’evento negativo (perimento o grave deterioramento del bene) al consumatore. Per riferimenti sul dibattito, cfr. E. Bargelli, Il sinallagma rovesciato, cit., 116 ss. Prima della novella, il codice del consumo non faceva alcun cenno, tuttavia, all’eventualità che il consumatore avesse o meno ricevuto un’informazione adeguata sul diritto di recesso; tuttavia, un’attenta dottrina già era pervenuta a riconoscere la spettanza del diritto di recesso al consumatore cui non fosse stata fornita un’adeguata informativa sul diritto di recesso, a prescindere alla sostanziale integrità del bene da restituire. Così, Ead., op. ult. cit., 262 s. e 316 s.

[120] In tal senso, lucidamente, G. Di Lorenzo, La restituzione impossibile. Contributo allo studio dell’obbligazione conseguente alla risoluzione per inadempimento, Milano, 2022, 132.

[121] A fronte del riconoscimento del carattere impugnatorio del recesso, non può ipotizzarsi alcuna qualificazione dello stesso in termini di elemento perfezionativo di una fattispecie ancora imperfetta, concezione diffusa in dottrina con riferimento al recesso penitenziale (cfr. amplius, supra, in nota). Per opinione unanime, infatti, l’art. 53 cod. cons. segna il «definitivo abbandono» del recesso penitenziale sine die, riconosciuto in un primo tempo dalla pronuncia Heininger e successivamente negato dalla sentenza Hamilton. Cfr., ex multis, F. Rende, Il ruolo dell’informazione sul recesso dopo la sentenza Walbusch Walter Busch, cit., 680; E. Bacciardi, Il recesso del consumatore nell’orizzonte delle scienze comportamentali, cit., 28 e 160 ss.

[122] A. Fachechi, Pratiche commerciali scorrette e rimedi negoziali, Napoli, 2012, 97, osservando esattamente che «quando la scorrettezza di una delle parti influenza in maniera determinante la volontà dell’altra, tanto da indurla a un bisogno di acquisto altrimenti mai avvertito, rimuovere il pregiudizio vuol dire sciogliere li vincolo».

[123] L’accurata analisi delle tecniche di negoziazione «aggressive» è condotta da D. Valentino, Vendite aggressive e recesso del consumatore, cit., 12 ss. la quale esamina puntualmente le tesi dottrinali sostenute dai giuristi francesi in merito alla natura del recesso consumeristico, dalla tesi della formazione progressiva del contratto alla tesi dello scioglimento di un contratto già concluso, ripercorrendo l’evoluzione normativa francese in rapporto alle tecniche di marketing adottate gradualmente dalle imprese e ponendo in luce come l’esercizio del diritto di recesso venga modellato ed adattato in relazione alle emergenti esigenze tecniche di sviluppo dei contratti di consumo, imprescindibilmente legate alla contestualità o meno della consegna del bene con il pagamento del prezzo o addirittura all’anticipazione di quest’ultimo rispetto alla prima. In origine, infatti, la L. n. 22 dicembre 1972, n. 72-1137 relative alle vendite a domicilio (note altresì come vendite porta a porta), all’art. 3 attribuiva un délai de réflexion di sette giorni mediante il riconoscimento al consumatore di un droit de renonciation, decorrente dalla data di sottoscrizione del contratto (da redigere per iscritto a pena di nullità) apposta di suo pugno; il periodo di riflessione non sospende gli effetti contrattuale, ma è accompagnato da un divieto per il venditore di ricevere il pagamento del prezzo (op. cit., 26 s. e 34). E nel vigore di questa normativa, la tesi della formazione progressiva del contratto era particolarmente diffusa (op. cit., 29 ss.), traendo linfa anche dalla attribuzione del diritto di recesso pur nelle ipotesi di mera sottoscrizione di un ordine di acquisto, ma con il problema di giustificare il titolo della consegna anticipata del bene. In un secondo tempo, mutando il quadro economico e sociale, il legislatore francese riforma la pregressa disciplina l. 23 giugno 1989, n. 89-421, regolando altresì le vendite concluse mediante l’uso del telefono: viene, in particolare, eliminato il divieto di pagamento del prezzo, attribuendo al consumatore un diritto di recesso entro sette giorni, decorrenti dalla consegna oppure dalla sottoscrizione se non contestuale alla consegna (op. cit., 51 s.). Ancora, la l. 6 gennaio 1988 che disciplina le vendite a distanza, da intendere come quelle in cui manca un contatto personale ed in cui l’offerente raggiunge il consumatore con una tecnica generalizzata ed indifferenziata, come nelle vendite televisive, prevede un droit de repentir esercitabile in sette giorni a partire dalla consegna (op. cit., 54), in relazione a vendite che, a seguito dell’invito ad offrire formulata a distanza, si perfezionavano con l. In questo nuovo scenario normativo, ben difficilmente era possibile continuare a proporre la tesi della formazione progressiva del contratto, a meno di non ipotizzare l’esecuzione delle due prestazioni a titolo diverso, dovendo piuttosto riconoscere che in un contratto, già concluso ed eseguito, ben si possa configurare il potere di una sola delle parti di porre nel nulla la negoziazione (op. cit., 57).

[124] A. Fachechi, Pratiche commerciali scorrette e (apparente) gap normativo: il “sistema” dei rimedi negoziali, in Studium iuris, 2015, 185.

[125] U. Breccia, La contrattazione su valori mobiliari e il controllo della contrattazione «sorprendente», in AA.VV., La vendita “porta a porta” di valori mobiliari, a cura di M. Bessone e F.D. Busnelli, Milano, 1992, 17 ss.; R. Sacco, Il contratto, cit., 477 ss., il quale nitidamente osserva che il consenso può dirsi libero solo quando è filtrato attraverso il vaglio critico cui provvedono certe difese psicologiche, pronte ad entrare in funzione se il soggetto sa di dover prendere decisioni impegnative e delicate; le difese non sono in funzione quando una sollecitazione improvvisa e pressante menoma le difese del possibile contraente: in tal caso il consenso è viziato dalla sorpresa. La sorpresa è una figura nota al legislatore italiano del 1942, che ne parla in tema di imputazione del pagamento (art. 1195 c.c.). Ivi la sorpresa, operata dal creditore che rilascia la quietanza, vizia l’accettazione del debitore che ha pagato (sebbene qui l’accettazione non abbia il significato che troviamo nell’art. 1326 c.c.).

[126] Nel sistema di tutele precedente all’introduzione dell’art. 27, comma 15-bis, cod. cons., M. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, cit., 484, nutriva forti perplessità in merito alla possibilità di estendere in via analogica, alle fattispecie di cui agli artt. 18 ss. cod. cons., il recesso penitenziale, perché regolato da discipline frammentarie e i termini in esse contenuti diversi l’uno dall’altro.

Anche M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 184 ss., all’esito del puntuale esame del recesso penitenziale come modellato dal D. Lgs. m. 21/2014, ritiene che esso non costituisca un istituto di carattere generale, come si desume dal numeroso elenco di esclusioni che ne limitano fortemente l’àmbito di applicazione, tale da renderlo insuscettibile di essere esteso oltre il contesto soggettivo ed oggettivo delineato dal legislatore.

[127] Con riferimento al recesso penitenziale, nella concezione considerata nel testo, che gli attribuisce valore perfezionativo di una fattispecie complessa, non vengono in rilievo i noti dubbi sull’estensibilità dell’art. 1355 c.c. alla condizione risolutiva meramente potestativa, intendendosi – in sostanza – l’omesso esercizio del recesso come coelemento di efficacia.

Ad ogni modo, pare opportuno segnalare che l’opinione maggiormente diffusa in dottrina ritiene valida l’alienazione di un diritto e l’assunzione di un obbligo sotto condizione risolutiva meramente potestativa: cfr., A. Falzea, voce Condizione, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 8; S. Maiorca, voce Condizione, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1988, ed. online, n. 20; M. Costanza, Della condizione nel contratto, sub artt. 1353-1361, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1997, 71 ss.

In senso contrario, si sono espressi: F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., 199; D. Barbero, Condizione, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959, 1103; P. Rescigno, voce Condizione (dir. vig.), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 796, il quale propende per la nullità parziale della condizione risolutiva meramente potestativa (viziatur sed non viziat), con la conseguenza che l’alienazione di un diritto o l’assunzione dell’obbligazione sotto condizione risolutiva meramente potestativa producono, immediatamente, effetti definitivi.

A conclusione opposta giunge chi, muovendo da un piano preminentemente qualificatorio, argomenta la validità della clausola che subordina la risoluzione del contratto alla mera volontà dell’alienante o dell’obbligato negandogli natura di condizione e attribuendogli la natura di recesso: cfr. S. Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, cit., 136 ss., spec. 143; cui adde, C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, cit., 501, ritenendo – coerentemente – ammissibile la clausola nei limiti in cui è possibile accordare alla parte un diritto di recesso.

[128] La potestatività dell’assunzione del vincolo obbligatorio è oggi acuita dal novellato art. 52, comma 3, cod. cons., che, con regola generale, attribuisce alle parti il solo potere («possono») e non l’obbligo di eseguire il contratto durante il periodo di ripensamento consumeristico, con la conseguenza che nella pendenza del termine per pentirsi solo l’adempimento sarebbe giuridicamente rilevante (non l’inadempimento), nella misura in cui il debitore può adempiere, ma il creditore non può esigere: il che, come visto, ha indotto M.P. Pignalosa, Contratti a distanza e recesso del consumatore, cit., 152 ss. a discorrere di “rilevanza asimmetrica”.

[129] L’autorevole contraria opinione manifestata con riferimento alle ipotesi codicistiche di recesso impugnatorio (ad es.: artt. 1385, 1464, 1539, 1893 c.c.) da G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, cit., 56 ss., che ne affermava l’eccezio­nalità (negando, dunque, l’applicazione analogica delle singole norme che lo contemplano), si giustificava con il rilievo che l’attribuzione del recesso impugnatorio, pur se connessa ad una patologia rilevante anche secondo la disciplina generale dei contratti, comporta in ogni modo una deroga a tale disciplina, quanto meno sul piano procedimentale, giacché consente di conseguire la rimo- zione del vincolo per una via più spedita e, per ciò stesso, con minori garanzie per l’altra parte, che la subisce; ed ancora più netta, poi, gli appariva la deroga, se il recesso permette addirittura di reagire, in via più spedita, di fronte a circostanze che, secondo la disciplina comune dei contratti, non legittimerebbero ad avvalersi nemmeno dei più defatiganti mezzi di reazione.

L’opinione dell’illustre A. deve, infatti, essere apprezzata e ribadita ove si abbia esclusivo riguardo al diritto comune del contratto; ma, nel diritto dei consumatori, quale plesso normativo di settore che ambisce a regolare in via generale il rapporto di consumo, non può predicarsi l’eccezionalità di una norma o un istituto normativo di settore raffrontando questi ultimi con norme ed istituti del diritto comune: sarebbe fallace il termine (la norma del diritto comune) su cui fondare il giudizio di eccezionalità.

Sul problema dei rapporti tra diritto dei consumatori e diritto comune, C. Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Europa e dir. priv., 2006, p. 397 ss. (si v. dello stesso A., Diritto privato generale e diritti secondi. Responsabilità civile e impresa bancaria, in Jus, 1981, p. 158 ss.); N. Lipari, Parte generale del contratto e norme di settore nel quadro del procedimento interpretativo (anche in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 4 ss.; G. Vettori, Il diritto dei contratti fra Costituzione, codice civile e codici di settore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 751 ss.; A. Zoppini, Sul rapporto di specialità tra norme appartenenti ai “codici di settore” (lo ius variandi nei codici del consumo e delle comunicazioni elettroniche), in Riv. dir. civ., 2016, 136 ss.

Con specifico riferimento ai rapporti tra contratti del consumatore e al contratto in generale, V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, 769 ss.; Id., Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico?, in Corr. giur., 2009, 267 ss.; P. Sirena, La dialettica parte generale – parte speciale nei contratti stipulati con i consumatori, in E. Navaretta (a cura di), Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, cit., 493 ss.; G. Alpa, I contratti dei consumatori e la disciplina generale dei contratti e del rapporto obbligatorio, in Riv. dir. civ., 2006, spec. p. 354, il quale rileva che le disposizioni consumeristiche debbano sempre interpretarsi restrittivamente e non siano suscettibili di un’applicazione analogica interna al loro perimetro sottosistemico.

[130] Lo notava, del resto, già con riferimento ai tradizionali vizi del consenso, R. Sacco, Il contratto, cit., 560 e 616, ad avviso del quale questa è la ragione per cui il dolo determinante conduce all’annullamento e il dolo incidentale conduce ad un risarcimento che ha tutti i caratteri della rettifica.

[131] Come del resto avviene da tempo con riferimento al dolo incidente (art. 1440 c.c.), ove si ritiene risarcibile il cd. interesse positivo differenziale. In giurisprudenza, di recente, cfr. Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2024, n. 5380.

[132] F. Rende, Nuove tecniche di condizionamento delle scelte di consumo e rimedi conformativi al regolamento contrattuale, in Contratti, 2012, 745 s., accoglie l’ipotesi di una conformazione del contratto stipulato sotto l’influenza di una pratica scorretta alle clausole prospettate e divulgate in luogo di quelle più sfavorevoli, e ciò sulla base di un più generale «principio di vincolatività dell’informazione prenegoziale» già adottato dall’art. 69, all. I, della Proposal for a Regulation on a Common European Sales Law.

[133] Sul punto la letteratura giuridica è ormai sterminata e sarebbe vano qualsiasi tentativo di darne esaurientemente conto in questo breve spazio. Si limita il richiamo a quella che pare l’opera fondamentale sul tema, avendo posto le basi del suo successivo sviluppo: S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969 (rist. integr., 2004), passim e spec. 175 ss.

[134] E di ciò si mostra consapevole lo stesso F. Rende, Nuove tecniche di condizionamento delle scelte di consumo e rimedi conformativi al regolamento contrattuale, cit. 744.

[135] Cfr. E. del Prato, Assicurazione della responsabilità professionale e tutela del professionista contro clausole vessatorie e pratiche commerciali scorrette, in Annali SISDiC, 2017, 1, 34, il quale reputa che la non corrispondenza del contenuto contrattuale alla nota informativa (art. 185 cod. ass. priv.) fornita all’assicurato deve essere presidiata da una tutela in forma specifica: il contratto non è solo quello che risulta dal documento sottoscritto, ma, in virtù degli obblighi legali per l’assicuratore, comprende, in caso di difformità, le prestazioni pubblicizzate e quelle prospettate all’aderente. Questa è una espressione pregnante dell’esigenza di conferire al contratto la portata favorevole all’aderente: in questo senso il contratto viene a comprendere l’integrale dinamica della contrattazione.

[136] Singolare è la previsione dell’art. 117, comma 6, T.U.B. che sancisce la nullità delle clausole che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli rispetto a quelli pubblicizzati, senza sancire espressamente l’eterointegrazione cogente delle condizioni pubblicizzate.

[137] Cfr., già R. Sacco, op. loc. ult. cit.; nonché E. del Prato, op. loc. ult. cit., 34.

[138] Si diffonde sulla natura precontrattuale e sulla disciplina della responsabilità del professionista M. Lamicela, Pratiche commerciali scorrette e rimedi. Nuove strategie di private enforcement tra restituzioni e risarcimento, Torino, 2024, 267 ss., la quale ritiene di non seguire l’approccio dicotomico alla natura della responsabilità precontrattuale e di ricercare le soluzioni disciplinari del regime applicabile (prescrizione, danni risarcibili, onere della prova, etc.) ricorrendo allo strumento interpretativo dell’analogia (op. cit., 280).