Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La pratica commerciale lesiva (di Luca Antonio Caloiaro, Ricercatore di Diritto privato – Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza)


Il saggio esamina la recente modifica della disciplina delle pratiche commerciale scorrette, ove si registra il passaggio dalla prospettiva del consumatore medio a quella del consumatore leso, cui devono essere garantiti rimedi proporzionati ed effettivi nell'àmbito della giurisdizione ordinaria.

The harmful commercial practice

The essay examines the recent change in the regulation of unfair commercial practices, where there is a shift from the perspective of the average consumer to that of the harmed consumer, who must be guaranteed proportionate and effective remedies within the ordinary jurisdiction.

COMMENTO

Sommario:

1. Il nuovo art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il consumatore leso - 2. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: l’illecito consumeristico - 3. Segue. La contrarietà alla diligenza professionale - 4. Segue. L’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori. La struttura delle fattispecie particolari: pratiche ingannevoli ed aggressive - 5. Disciplina delle pratiche commerciale scorrette ed interesse pubblico alla regolazione del mercato. Dal consumatore medio al consumatore leso. Per un mutamento di prospettiva: pratiche commerciali scorrette e pratica commerciale lesiva. Dall’illecito amministrativo di pericolo all’illecito civile di evento - 6. Una possibile lettura riduzionista della norma in chiave processuale. Lesione del consumatore come interesse ad agire. Esclusione. Valore da attribuire alla clausola finale di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore - 7. La ridefinizione dei rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali lesive ed il diritto comune. Il divieto di pratiche commerciali scorrette e la nullità virtuale - 8. L’ampliamento della rilevanza dei mezzi dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva. L’annullabilità del contratto di consumo. Critica - 9. Segue. L’efficienza determinante dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela caducatoria avverso una pratica commerciale lesiva causam dans: il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons. - 10. L’efficienza meramente incidente dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela risarcitoria e la conformazione cogente del regolamento contrattuale alle dichiarazioni precontrattuali del professionista - NOTE


1. Il nuovo art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il consumatore leso

Il divieto di pratiche commerciali scorrette, solennemente sancito dall’art. 20 cod. cons., ha – sin dalla sua introduzione – scontato l’ineffettività della sanzione che lo ha accompagnato. L’art. 27 cod. cons., nella sua formulazione ante D. Lgs. 7 marzo 2023, n. 26, delineava unicamente una “tutela” amministrativa per i consumatori. La pratica commerciale scorretta è, in linea generale, colpita da una sanzione amministrativa pecuniaria comminata dall’Autorità garante del­la concorrenza e del mercato (cd. public enforcement). La potestà sanzionatoria amministrativa, alla luce delle modifiche normative sopravvenute (cfr. art. 27, comma 3-bis cod. cons., introdotto dal D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con modificazioni dalla L. 17 luglio 2020, n. 77), si è arricchita di ulteriori forme di tutela per i consumatori, tra cui una peculiare tutela amministrativa ripristinatoria, di cui è stata investita l’Autorità garante attraverso l’attribuzione della potestà (esercitabile anche in via cautelare, secondo i moduli tipici della tutela inibitoria) di ordinare la rimozione della pratica commerciale scorretta non solo nei confronti del professionista che si sia reso responsabile della pratica commerciale scorretta, ma anche dei terzi che abbiano contribuito alla relativa diffusione attraverso reti telematiche o di telecomunicazione, delle quali sono gestori o in relazione alle quali forniscono ser­vizi [1]: in virtù di tale potestà, ai fini dell’ordine di cessazione della pratica scorretta, diviene – ad esempio – sostanzialmente irrilevante l’imputazione della pratica commerciale scorretta al professionista o alla società di comunicazioni. Le maggiori criticità, invece, si sono registrate sul fronte della tutela civile uti singuli del consumatore (cd. private enforcement), cioè sul versante dei tradizionali mezzi di tutela civili a disposizione del singolo consumatore che il legislatore dovrebbe predisporre a protezione dei suoi interessi. Al riguardo, non è sufficiente corredare il consumatore della tutela collettiva degli interessi apprestata, per un verso, dall’azione rappresentativa, compensativa o inibitoria, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori (artt. 140-ter ss. cod. cons., introdotta dal D. Lgs. 10 marzo 2023, n. 28), per altro verso, [continua ..]


2. Il divieto di pratiche commerciali scorrette: l’illecito consumeristico

Ai sensi degli artt. 18 ss. cod. cons., per «pratiche commerciali» si intendono i comportamenti, tenuti da professionisti, oggettivamente correlati all’attività di «promozione, vendita o fornitura» di beni o servizi a consumatori e posti in essere anteriormente, contestualmente o posteriormente all’instaurazione di un rapporto contrattuale [7]. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali o mere omissioni. L’art. 20, comma 2, cod. cons., stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto [8], del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta (o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori). Nella trama normativa, la disposizione generale è declinata in due figure particolari di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (artt. 21 ss., cod. cons.) e le pratiche aggressive (artt. 24 ss., cod. cons.). Nell’àmbito di ciascuna figura, vi sono pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli (art. 23, cod. cons.) o aggressive (art. 26, cod. cons.) (cd. “liste nere”). L’articolata struttura normativa dell’istituto in esame è oggetto di una pluralità di letture: limitandoci alle principali, si fronteggiano, da un lato, l’opinione, diffusa in dottrina [9] e aderente all’intenzione del legislatore storico [10], secondo cui le norme particolari che contengono l’elencazione di clausole in ogni caso scorrette (cd. “liste nere”) prevalgono, per effetto del principio di specialità, sulle norme intermedie che definiscono le pratiche ingannevoli ed aggressive, le quali – a loro volta – prevalgono sulla norma generale, che costituisce una norma di chiusura e residuale; dall’altro lato, l’opinione, sostenuta da altra dottrina [11] e dalla prevalente prassi applicativa dell’Autorità garante [12], secondo cui la norma generale si pone come norma fondamentale dell’intera materia e le norme di dettaglio come applicazioni particolari di essa [13]. La seconda lettura è da preferire, in quanto, come è stato ben [continua ..]


3. Segue. La contrarietà alla diligenza professionale

Il primo requisito si fonda sulla nozione di «diligenza professionale», la quale consisterebbe – secondo la poco brillante definizione normativa [18] – nell’assenza del «normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista» (art. 18, lett. h, cod. cons.) [19]. Il riferimento alla diligenza impone di considerarne le possibili accezioni e i variegati riferimenti normativi, al fine di trarne indicazioni ermeneutiche per l’interpretazione della definizione consumeristica di diligenza professionale. È opportuno muovere dall’impiego della diligenza nella teoria dell’obbligazione, attesa la rilevanza sistematica che il concetto assume nella materia obbligatoria. Secondo l’opinione più diffusa, la diligenza indica la misura o il grado dello sforzo, della cura, dell’attenzione, della sollecitudine che il debitore è tenuto ad impiegare nell’adempimento dell’obbligazione [20] mediante il generale riferimento alla figura del bonus paterfamilias [21] (cfr. art. 1176, comma 1, c.c.; criterio, poi, talvolta ribadito con riferimento a peculiari rapporti: artt. 382, 703, comma 4, 1001, 1091, 1710, 1768, 1804, 1961, 2148, 2167 c.c.; e, talaltra, plasmato in ragione della natura dell’attività professionale cui il debitore è tenuto: artt. 1176, comma 2, 2104, 2174, 2392, 2407, 2409-terdecies c.c.) [22]; nel riferimento alla misura o al grado [23] sta l’essenza del concetto di diligenza così inteso, attraverso il quale non si vuole porre in risalto il dato soggettivo dello sforzo, dell’atten­zione, della tensione della volontà del debitore [24], ma il criterio (astratto) dettato dal legislatore al fine di individuare lo sforzo dovuto. In questa accezione – cd. normativa (o imperativa) [25] – la diligenza indica, in sostanza, una qualificazione soggettiva dell’agire, il modo di comportarsi ed – in definitiva – il modello (quello del bonus paterfamilias) cui commisurare il comportamento materialmente tenuto dal debitore. L’altra accezione della diligenza è quella psicologica [26]: abbandonate le concezioni introspettive, volte ad indagare [continua ..]


4. Segue. L’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori. La struttura delle fattispecie particolari: pratiche ingannevoli ed aggressive

Il secondo requisito dell’illecito consumeristico è, invece, costituito dall’idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori; essa è definita (dall’art. 18, lett. e, cod. cons.) come la «idoneità ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso», con l’ulteriore, rilevante precisazione che per «decisione di natura commerciale» deve intendersi la «decisione presa da un consumatore relativa a se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a quali condizioni» (art. 18, lett. m, cod. cons.). Ebbene, l’idoneità della pratica commerciale a «falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori» allude alla potenziale efficienza incidente della pratica sul consenso del consumatore medio (cfr. art. 20, cod. cons.): efficienza meramente incidente giacché è sufficiente ad integrare l’alterazione del consenso («falsare il comportamento economico») la circostanza che il consumatore medio avrebbe concluso il contratto di consumo a condizioni diverse, senza doverne stabilirne il valore determinante; efficienza solo potenziale poiché neppure è necessario accertare se la condotta (omissiva o commissiva) del professionista abbia concretamente alterato la formazione del consenso dei consumatori, secondo i tradizionali moduli del nesso di causalità psicologica, richiesta per la rilevanza invalidante dei vizi del consenso (cfr. art. 1427 c.c.); essendo sufficiente solo l’attitudine oggettiva ed astratta della condotta (commissiva o omissiva) del professionista ad incidere sul processo formativo della volontà di un modello di consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto [60]. Il secondo requisito, a ben vedere, più che fondarsi su una (seconda) clausola generale [61], indica un puntuale canone valutativo di una condotta, per mezzo del ricorso ad un concetto giuridico elastico [62], che tuttavia consente la sua sicura determinabilità. In sintesi, è possibile concludere che la norma generale sulle pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.) individua un illecito consumeristico che si compone di due requisiti: oltre alla [continua ..]


5. Disciplina delle pratiche commerciale scorrette ed interesse pubblico alla regolazione del mercato. Dal consumatore medio al consumatore leso. Per un mutamento di prospettiva: pratiche commerciali scorrette e pratica commerciale lesiva. Dall’illecito amministrativo di pericolo all’illecito civile di evento

Spostando l’attenzione dall’illecito consumeristico alle sanzioni (artt. 27 ss. cod. cons.), ci si avvede agevolmente come il legislatore italiano, in sede di recepimento della direttiva 2005/29/CE, pur avendo assoluta libertà nel plasmare le sanzioni e i modi della tutela avverso le pratiche commerciali scorrette [66], abbia affidato l’osservanza del divieto di pratiche commerciali scorrette (art. 20 cod. cons.) principalmente alla sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 27, comma 9, cod. cons.), compendiata però dall’attribuzione, in capo alla medesima autorità amministrativa, della potestà inibitoria (art. 27 commi 2 e 8, cod. cons.) e di altri poteri istruttori e cautelari (art. 27, comma 3, 3-bis, 4 e 5, cos. cons.). Il legislatore ha, in sostanza, configurato l’illecito consumeristico de quo come un illecito amministrativo di pericolo, che prescinde da una lesione attuale ai consumatori, anche collettivamente considerati, e che è sanzionato in una logica essenzialmente afflittiva, secondo le finalità e i moduli tipici del diritto sanzionatorio amministrativo [67]. Il che giustifica la diffusa constatazione secondo cui l’interesse tutelato dal divieto di pratiche commerciali scorrette non sia poi tanto quello del consumatore (neppure in forma seriale o collettiva) [68], ma l’interesse pubblico al corretto funzionamento del mercato concorrenziale (cfr., testualmente, l’art. 1, Dir. 2005/29/CE) [69]. L’azione amministrativa a tutela dell’interesse pubblico alla regolazione del mercato comporta conseguenze giuridiche che, variamente, tendono a eliminare lo stato di fatto che (non tanto offende, quanto più semplicemente) pone in pericolo l’interesse stesso. Essenziale, a tal fine, è l’anzidetta previsione di misure inibitorie, con cui vietare la diffusione ovvero ordinare la cessazione della pratica scorretta al fine di prevenire la lesione o la sua continuazione. La comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria opera, allora, in funzione prevalentemente dissuasiva e deterrente, oltreché nei casi di manifesta scorrettezza e di maggior gravità, in particolare là dove non sia stato possibile porre fine all’illecito consumeristico, facendo cessare la diffusione della pratica o modificandola in modo [continua ..]


6. Una possibile lettura riduzionista della norma in chiave processuale. Lesione del consumatore come interesse ad agire. Esclusione. Valore da attribuire alla clausola finale di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore

Si è detto che, per effetto della novella al codice del consumo (art. 27, comma 15-bis, cod. cons.), è stato configurato un nuovo illecito consumeristico di evento derivante dalla violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette, che si aggiunge al precedente illecito amministrativo di pericolo. Deve, però, darsi conto di una diversa, possibile opzione ermeneutica, che tuttavia – lo si anticipa – non pare accettabile. Si tratta, in sostanza, di conciliare i due precetti normativi di cui si compone l’art. 27, comma 15-bis, cod. cons.: il primo precetto, contenuto nella prima parte della disposizione, sembra chiaramente delineare un nuovo illecito consumeristico, la pratica commerciale lesiva, che è oggetto di un proprio trattamento giuridico da determinare mediante il ricorso ai principi di proporzionalità ed effettività; il secondo precetto, contenuto nell’ultima parte della disposizione, consiste in una clausola di salvezza che lascia impregiudicati gli ulteriori rimedi già a disposizione del consumatore. Ed allora, muovendo dalla clausola di salvezza che legittima il ricorso ai rimedi individuali (già esistenti nell’ordinamento) a disposizione del consumatore, potrebbe ritenersi che l’intero comma 15-bis dell’art. 27, cit., abbia una portata precettiva esclusivamente processuale, volta a puntualizzare, oltre alla devoluzione della controversia alla giurisdizione ordinaria, l’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) – dunque, una condizione dell’azione – del consumatore avverso una pratica commerciale scorretta, che come illecito di pericolo, per un verso, potrebbe ben prescindere da ogni concreta lesione e, per altro verso, potrebbe ledere solo alcuni consumatori e non altri. Tuttavia, siffatta lettura della norma sarebbe semplicemente riproduttiva del principio generale consacrato nell’art. 100 c.p.c., giacché non sembra potersi porre seriamente alcun problema di interesse ad agire nella configurazione dei rimedi civilistici individuali del consumatore avverso una pratica commerciale scorretta e lesiva, diversamente da quanto già avviene per l’esperimento delle comuni azioni di accertamento, costitutive o di condanna. Se l’interesse ad agire, secondo l’opinione tradizionale [77], allude al bisogno di tutela giurisdizionale conseguente ad una lesione del diritto (o, più [continua ..]


7. La ridefinizione dei rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali lesive ed il diritto comune. Il divieto di pratiche commerciali scorrette e la nullità virtuale

La clausola di salvezza dei rimedi già a disposizione del consumatore contenuta nell’inciso finale dell’art. 27, comma 15-bis, cod. cons. consente di ricondurre ad unità sistematica i rapporti tra la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali scorrette e la disciplina del contratto in generale, come regolati dall’art. 19, comma 2, lett. a), cod. cons., secondo cui la disciplina consumeristica «non pregiudica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del contratto» [79]. I rapporti tra i due plessi normativi sono stati oggetto di due diverse letture: l’una, più rigorosa, di reciproca autonomia [80]; l’altra, evolutiva, di compenetrazione ed interferenza della disciplina consumeristica di origine europea nell’interpretazione delle disposizioni codicistiche [81]. Non pare, però, opportuno radicalizzare le due prospettive, in quanto entrambe muovono da un dato condiviso: la portata da attribuire al divieto di pratiche commerciali scorrette (art. 20, cod. cons.). Il divieto, quale una norma proibitiva, cioè quale imperativo negativo [82], là dove abbia una incidenza diretta sul contratto o su un suo profilo [83], rientra potenzialmente nel campo applicativo della nullità virtuale del contratto contrario a norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.). Tuttavia, la dottrina, salve alcune sporadiche proposte anteriori al recepimento della direttiva [84], ha costantemente escluso la nullità del contratto concluso “a valle” di una pratica commerciale scorretta [85]. Una volta chiarite le ragioni per le quali la normativa consumeristica sulle pratiche commerciali scorrette debba intendersi principalmente come una disciplina dell’attività, e non dell’atto di consumo, occorre poi coerentemente trarne le conseguenze sistematiche senza impiegare con leggerezza categorie proprie della disciplina del contratto, che si attagliano, propriamente, alla dimensione dell’atto [86]. Il divieto di pratiche commerciali scorrette, infatti, fulmina tendenzialmente non il contratto di consumo, ma comportamenti anteriori o coevi alla stipula del contratto, cioè comportamenti ingannevoli, coercitivi o comunque sleali idonei a viziare potenzialmente il consenso del consumatore. In [continua ..]


8. L’ampliamento della rilevanza dei mezzi dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva. L’annullabilità del contratto di consumo. Critica

Le letture evolutive possono essere accomunate da un elemento caratterizzante: seppur con diversa estensione e pluralità di accenti, esse ritengono di poter ricavare dal divieto di pratiche commerciali scorrette un chiaro indice ermeneutico per l’ampliamento della rilevanza patologica dei mezzi dell’attività ingannatoria e coercitiva allo scopo di allargare le maglie del dolo e della violenza morale e, conseguentemente, di affermare l’annullabilità del contratto “a valle” di una pratica commerciale scorretta che abbia non tanto carpito o estorto (cfr. art. 1427 c.c.), quanto – più genericamente – determinato il consenso del concreto consumatore, il quale non avrebbe stipulato il contratto di consumo in assenza della pratica scorretta [94]. Quest’ampliamento della rilevanza patologica dei mezzi dell’attività ingannatoria e coercitiva è stato con vigore sostenuto da autorevole dottrina [95], con penetrante analisi che muove dal fondamento liberista della patologia genetica del contratto. La soluzione, tuttavia, non convince: ampliando la rilevanza invalidante a qualsiasi mezzo dell’attività ingannatoria o coercitiva, si finisce col postulare un’annullabilità per contrarietà ad una norma imperativa, cioè il divieto di pratiche commerciale scorrette (art. 20 cod. cons.), ingannevoli o aggressive. Le resistenze all’ammissibilità di una annullabilità per contrarietà ad una norma imperativa nel nostro sistema non discendono dalla struttura del rimedio (giacché è lo stesso legislatore a concepire delle annullabilità per violazione di una norma imperativa, cfr. artt. 23, 377, 396, 412, 1137, 1471 nn. 3 e 4, 2098, 2377), ma da una precisa scelta normativa (art. 1418, comma 1, c.c.) [96], che – peraltro – fa salve le diverse disposizione di legge (su cui, infra). Non può negarsi che qualsiasi violenza o inganno decisivi, comunque perpetrati, compromettono l’utilità della scelta per la vittima della violenza o dell’inganno; tuttavia, non può accogliersi il corollario secondo cui la negazione dell’ampliamento della rilevanza patologica di ulteriori mezzi ingannatori o coercitivi [97] costituisca una ingiustificata limitazione della teoria liberista (che, secondo la tesi criticata, ispirerebbe la disciplina dei vizi [continua ..]


9. Segue. L’efficienza determinante dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela caducatoria avverso una pratica commerciale lesiva causam dans: il recesso impugnatorio ex art. 53, comma 1, cod. cons.

Occorre, allora, completare la ricerca del rimedio proporzionato ed effettivo (art. 27, comma 15-bis, prima parte, cod. cons.) avverso una pratica commerciale lesiva causam dans, in relazione alla quale, cioè, risulti che il consumatore non avrebbe prestato il consenso senza la pratica ingannevole o aggressiva. In tal caso, il rimedio caducatorio pare essere l’unico proporzionato, cioè adeguato allo scopo, ed effettivo, nella misura in cui consente di rimuovere la lesione arrecata al consumatore. Nella pluralità di rimedi caducatori presenti nel nostro ordinamento, deve essere preferito quello che appare maggiormente rispondente a garantire un’adesione libera e consapevole del consumatore all’accordo e questo pare essere meglio rappresentato dal diritto di recesso. Non si allude, però, al recesso penitenziale previsto dall’art. 52 cod. cons., soggetto ad un breve termine di decadenza di quattordici giorni, ma al recesso impugnatorio previsto dall’art. 53, comma 1, cod. cons. previsto per il caso di violazione dell’obbligo informativo sul diritto di recesso, in relazione al quale il periodo per l’esercizio del diritto di recesso è esteso di dodici mesi. Risulta ormai una constatazione ampiamente diffusa che il recesso è impiegato dal legislatore per designare numerose fattispecie diverse tra loro, con grave disomogeneità del linguaggio legislativo [102], e che, dunque, non esista nel nostro ordinamento un concetto unitario di recesso, a meno che non voglia fondarsi sull’anodino dato strutturale della natura potestativa della dichiarazione di volontà, imponendo così all’interprete di coglierne piuttosto l’individualità sul piano della funzione [103]. Da questo punto di vista, poi, le difficoltà ricostruttive sono acuite anche dall’incostanza del linguaggio legislativo, che impiega termini differenti (la disdetta del locatore, la revoca del mandante, la rinunzia del mandatario, il riscatto del debitore della rendita perpetua) per indicare atti funzionalmente assimilabili ad altri denominati come recesso [104]. Alla contrapposizione, diffusa in tempi più risalenti [105], tra recesso ordinario, operante nei rapporti di durata privi di termine finale in funzione integrativa del regolamento contrattuale, e straordinario, che all’inverso lo altera e lo travolge, viene di recente preferita [continua ..]


10. L’efficienza meramente incidente dell’attività ingannatoria e dell’attività coercitiva sulla prestazione del consenso del consumatore. La tutela risarcitoria e la conformazione cogente del regolamento contrattuale alle dichiarazioni precontrattuali del professionista

Il rimedio risarcitorio sembra, all’inverso, quello maggiormente appropriato in caso di pratica commerciale scorretta che abbia un’efficienza meramente incidente sul consenso del consumatore, il quale avrebbe comunque concluso il contratto di consumo, ma a condizioni diverse. La distinzione tra carattere determinante ed incidente della pratica commerciale sul consenso del consumatore riposerà prevalentemente sulla seguente distinzione: è determinante quando induce la vittima a procurarsi un bene o un servizio di cui non ha bisogno; è incidente se induce la vittima a promettere, in vista della controprestazione, più di quanto gli convenisse. Dunque, la prima incide sull’oggetto della stipulazione, la seconda sulla misura della prestazione promessa [130]. Tuttavia, ben potrebbero darsi altre ipotesi in cui il carattere incidente del vizio non si apprezzi soltanto con riguardo alla misura del corrispettivo, ma alle ulteriori condizioni contrattuali reclamizzate dal professionista e non confluite nel regolamento contrattuale. Ad ogni modo, quale che sia la natura del vizio incidente, la valutazione di effettività e proporzionalità del rimedio induce certamente ad escludere il rimedio caducatorio, il quale priverebbe il consumatore dell’accesso al bene o al servizio che si era procurato con il contratto in corrispondenza del suo effettivo bisogno. Sotto la lente dell’effettività, la tutela di cui abbisogna il consumatore è, allora, quella che gli consenta di “riappropriarsi” del sovrapprezzo pagato al professionista o delle condizioni contrattuali cui egli aveva interesse, ma non confluite nel regolamento contrattuale. E tale risultato può raggiungersi, per un verso, attraverso la manutenzione del contratto, per altro verso, attraverso il riconoscimento del sovrapprezzo a titolo risarcitorio [131]. Pertanto, con riferimento ad un vizio incidente, il rimedio risarcitorio concorre astrattamente con il rimedio manutentivo, che può variamente essere rappresentato dalla correzione giudiziale dell’assetto di interessi (però, di incerta base normativa) o, secondo quanto prospettato in dottrina [132], dalla conformazione cogente del contenuto contrattuale in maniera corrispondente alle informazioni pubblicizzate o alle dichiarazioni precontrattuali (imponendo al professionista l’esecuzione del contratto con le [continua ..]


NOTE