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G. Giappichelli Editore

Ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare e suo perimetro di sindacabilità giudiziale: la parola ai giudici di legittimità (di Tommaso De Mari Casareto dal Verme, Assegnista di ricerca in Diritto privato – Università degli Studi di Trento)


Il contributo prende le mosse dalla recente ordinanza del Tribunale de L’Aquila che, ricorrendo al nuovo istituto del rinvio pregiudiziale, ha rimesso alla Corte di cassazione una questione di diritto sull’ammissibilità nell’ordinamento italiano della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare. La riflessione porta a concludere che, su di un piano astratto e generale, la rinuncia sia ammissibile in quanto compatibile con la funzione sociale della proprietà, ma il singolo atto unilaterale di rinuncia dovrà sottostare al sindacato giudiziale di meritevolezza in concreto. Tuttavia, il discorso intorno alla legittimità dell’atto di rinuncia rischia di rivelarsi un esercizio sterile, se si considera che non tanto la rinuncia – quale atto formale di dismissione del diritto – rappresenta un peso per la società, quanto alla base il fenomeno dell’abbandono de facto, in relazione al quale la funzione sociale dovrebbe tornare a esercitare il proprio ruolo di limite “interno” al diritto di proprietà.

Abandonment of real estate property between general admissibility and scope of judicial review

The contribution starts from the recent ruling whereby the Tribunal of L’Aquila referred to the Court of Cassation a preliminary question concerning the admissibility in the Italian legal system of the right to abandon real estate property. The reflection leads to conclude that, on the one hand, there is no legal reason grounding a general prohibition of such a right of the owner since abandonment is not per se inconsistent with the social function of property established in the Constitution. On the other hand, the legitimacy of the single act of abandonment shall be submitted to a review of its substantive validity in each individual case. Nevertheless, it seems like the question should be observed from the different point of view of the material act of abandonment, which shows to generate negative externalities for society regardless of the specific subject who legally owns property.

Trib. L’Aquila, ord. 15 gennaio 2024, n. 233

In presenza dei presupposti richiesti dalla legge per l’applicazione dell’art. 363bis c.p.c., va disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Suprema Corte di cassazione per la risoluzione della questione di diritto attinente all’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà su beni immobili, nonché all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto.

SOMMARIO:

1. Il caso e le questioni sottoposte alla Corte - 2. I termini del dibattito - 3. La generale ammissibilità della rinuncia abdicativa - 4. Il perimetro di sindacabilità giudiziale - 5 Considerazioni conclusive - NOTE


1. Il caso e le questioni sottoposte alla Corte

L’ordinanza annotata origina dalla domanda avanzata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e dall’Agenzia del Demanio che agivano in giudizio al fine di ottenere la declaratoria di nullità, invalidità e, in ogni, caso inefficacia nei confronti dello Stato dell’atto unilaterale con cui due soggetti avevano rinunciato alla proprietà di alcuni terreni inservibili e privi di reale valore economico in quanto tutti sottoposti a vincolo di pericolosità elevata del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico). A sostegno della propria domanda gli attori adducono l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una generica facoltà di rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, nonché la nullità dell’atto di rinuncia per la non meritevolezza e/o illiceità della causa in concreto, ex artt. 1322 e 1343 c.c., ovvero per illiceità del motivo (ai sensi dell’art. 1345 c.c.), ovvero ancora per essere l’operazione realizzata in frode alla legge (art. 1344 c.c.) o in violazione del divieto di abuso del diritto (art. 833 c.c.).

Il Tribunale di L’Aquila [1], ricorrendo al nuovo istituto del rinvio pregiudiziale introdotto dall’art. 363-bis c.p.c. [2], ha sospeso il giudizio di merito e rimesso alla Corte di cassazione la questione di diritto attinente sia alla generale ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, sia all’eventuale indicazione del perimetro del sindacato giudiziale sull’atto unilaterale di rinuncia. La questione ha da tempo ricevuto particolare attenzione nel dibattito giuridico [3], ma di recente ha conosciuto rinnovata considerazione dalla giurisprudenza e dalla dottrina in ragione dell’accresciuta frequenza statistica delle vicende rinunciative rispetto a quei beni immobili che producono vantaggi talmente limitati da divenire economicamente sconvenienti per il proprietario e da non trovare domanda di mercato neppure a titolo gratuito [4]. Tuttavia, la questione di diritto in esame non risulta finora essere stata specificamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, come anche osservato dalla Prima Presidente della Corte di cassazione nel decreto con cui ha dichiarato ammissibile il rinvio pregiudiziale in esame [5]. Tale circostanza rende quantomeno opportuna l’ordinanza di rimessione alla Suprema Corte perché essa possa esercitare la propria funzione nomofilattica.


2. I termini del dibattito

La questione dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa alla proprietà sconta ancora una sostanziale assenza di univocità di visioni. Nella dottrina si registra un tendenziale clima favorevole a riconoscere l’ammissibilità del negozio unilaterale di rinuncia abdicativa [6], spesso valorizzando la presenza nel Codice civile di indici normativi che espressamente contemplano ipotesi di rinuncia liberatoria o traslativa [7], in base alle quali il titolare, per liberarsi dalle obbligazioni precedentemente assunte, ha la facoltà di rinunciare al proprio diritto reale ovvero alla propria quota di comproprietà, che si trasferisce a soggetti terzi in virtù del principio di elasticità del diritto di proprietà ovvero per espressa previsione di legge. Tra queste fattispecie si evocano generalmente l’art. 882 c.c., in tema di rinuncia del comproprietario del muro al suo diritto al fine di esimersi dall’obbligo di contribuire alle spese di ricostruzione e riparazione, l’art. 550 c.c., in tema di cautela sociniana, l’art. 1104 c.c., che consente a ciascun partecipante alla comunione di rinunciare al proprio diritto di comproprietà al fine di sottrarsi alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, l’art. 1070 c.c., che consente al proprietario del fondo servente di liberarsi delle spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù, rinunziando alla proprietà del fondo stesso a favore del proprietario del fondo dominante [8]. Argomenti a favore di una generale ammissibilità della rinuncia sono stati ricavati anche dalla formulazione dei nn. 5 degli art. 1350 e 2643 c.c., i quali – tra gli atti che, rispettivamente, debbono farsi per iscritto e quelli per cui è obbligatoria la trascrizione – menzionano gli atti di rinunzia ai diritti indicati nei numeri precedenti degli articoli appena citati, tra i quali figura anche la proprietà di beni immobili [9].

Le voci contrarie, invece, invocano principalmente l’illegittimità dell’atto di rinuncia sulla scorta della sua contrarietà a norme imperative o principi inderogabili dell’ordinamento. Tra questi emerge l’argomento per cui la rinuncia abdicativa sarebbe in contrasto con la stessa funzione sociale della proprietà enunciata dall’art. 42 Cost. [10], nonché con i doveri di solidarietà economica di cui all’art. 2 Cost. [11], poiché essa concretizzerebbe un mero vantaggio egoistico del proprietario in danno della collettività [12]. Infatti, l’atto di rinuncia produce, quale effetto diretto del negozio, la mera dismissione del diritto di proprietà, e quale effetto indiretto o riflesso [13] il trasferimento automatico della proprietà allo Stato ai sensi dell’art. 827 c.c., per cui i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato [14]. Pertanto, in virtù di tale trasferimento il privato scarica unilateralmente tutti i pesi e i costi associati all’immobile sulla collettività, senza possibilità per lo Stato di sottrarsi a tale effetto in ragione della natura non ricettizia dell’atto di rinuncia che, per produrre effetti, non necessita né di conoscenza né di accettazione da parte dell’ente pubblico [15]. L’opzione abdicativa è stata anche ricondotta alla fattispecie dell’abuso del diritto o del negozio in frode alla legge [16], in quanto sarebbe unicamente preordinata a sottrarsi agli oneri, ai costi e alle responsabilità derivanti dalla titolarità del bene [17]. Secondo alcuni, poi, il trasferimento della proprietà allo Stato non potrebbe che integrare un acquisto della proprietà a titolo originario [18], in potenziale violazione della regola della tipicità e tassatività dei modi di acquisto della proprietà di cui all’art. 922 c.c. [19].

A livello giurisprudenziale si registrano oscillazioni tra la giurisprudenza ordinaria e quella amministrativa, che di solito affronta la questione nell’ambito della c.d. occupazione acquisitiva da parte della p.a. I giudici dell’amministrazione hanno alternato pronunce che negano cittadinanza alla rinuncia abdicativa [20] – poiché essa non può essere desunta dalle norme codicistiche che menzionano ipotesi tipiche di rinuncia liberatoria o traslativa [21] – ad altre che ammettono una “applicazione generale” dell’istituto [22]. La giurisprudenza ordinaria, seppure decisamente più esigua, appare maggiormente coesa nell’ammettere la rinuncia abdicativa quale espressione del potere di disposizione del proprietario [23].

La giurisprudenza di legittimità ha affrontato sporadicamente e incidentalmente la questione, non senza dimostrare un certo favore per l’ammissibilità della rinuncia abdicativa, militando talvolta persino per la configurabilità di una rinuncia “implicita” in tutti i casi nei quali il privato, a fronte dell’occupazione abusiva da parte della Pubblica Amministrazione, agisce in giudizio per ottenere il solo risarcimento del danno [24].

I suddetti contrasti hanno trovato una prima proposta di soluzione mediana da parte dell’Avvocatura Generale dello Stato nell’ormai celebre parere n. 37243/17 rivolto all’Avvocatura Distrettuale di Genova, ove si è affermato che fra le varie facoltà del proprietario vi è anche quella di rinunciare al diritto dominicale; tuttavia, il fatto che nel Codice civile siano disciplinate espresse ipotesi di rinuncia al diritto dominicale non può, a parere dell’Avvocature, lasciar presumere che essa costituisca un istituto generale. Il parere, di conseguenza, riconosce una validità di massima al negozio unilaterale di rinuncia, che sarebbe atipico e non rifiutabile da parte dello Stato, avendo cura di precisare, però, che la validità dell’atto deve essere vagliata caso per caso in relazione alla causa concreta del negozio abdicativo, che va sottoposta al giudizio di meritevolezza ex art. 1322 comma 2 c.c. al pari di qualsiasi negozio atipico, in forza dell’art. 1324 c.c., che prevede che agli atti unilaterali si applichi la disciplina generale dei contratti [25].


3. La generale ammissibilità della rinuncia abdicativa

In questo scenario l’ordinanza di rinvio rinvia alla Suprema Corte un quesito articolato in due distinti passaggi logico-giuridici. Il primo ha a che fare con la generale ammissibilità o meno nell’ordinamento giuridico della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare. Il secondo, subordinato alla risposta affermativa al primo quesito, indaga l’effettivo perimetro di sindacabilità dell’atto unilaterale di rinuncia concesso al giudice secondo i parametri della causa in concreto e della meritevolezza degli interessi. Sembra dunque che la questione della generale ammissibilità della rinuncia si muova sul terreno della possibilità di configurare in astratto, tra i poteri del proprietario, la facoltà di rinunciare al proprio diritto su un immobile; per poi guardare al sindacato in concreto sulla liceità dell’atto di esercizio di tale potere di rinuncia, che presuppone risolto in positivo il primo quesito.

Sul primo quesito, l’ordinanza di rinvio mette in luce gli argomenti della dottrina e della giurisprudenza prevalenti che valorizzano i già citati indici normativi a sostegno di una generale ammissibilità della rinuncia. Tale approccio ha spinto talvolta la giurisprudenza di merito a fondare il giudizio di ammissibilità sulla considerazione per cui la rinuncia abdicativa sarebbe «espressamente disciplinata» dal Codice, poco discostandosi così da una declaratoria di sostanziale tipicità dell’atto di rinuncia che, perciò, non sarebbe sottoposto al filtro della meritevolezza degli interessi «come invece richiesto per i contratti atipici, ex art. 1322 co. 2 c.c.» [26]. Tuttavia, tale ricostruzione – valorizzata anche dall’ordinanza in commento – non appare pienamente persausiva. Infatti, salvo per talune isolate eccezioni [27], la maggior parte delle voci favorevoli all’ammissibilità della rinuncia abdicativa qualifica l’atto rinunciativo come un negozio unilaterale atipico, non essendo espressamente previsto da alcuna norma di legge [28].

A ben guardare, non sembra possibile ricavare dalle già citate disposizioni codicistiche una disciplina espressa della rinuncia abdicativa [29], né quindi un principio di tipicità del relativo atto, poiché esse integrano fattispecie tipiche ove la rinuncia non è mai meramente abdicativa, ma produce quale effetto primario la liberazione dalle obbligazioni propter rem assunte dal rinunciante per il solo fatto di essere comproprietario o titolare di un diritto reale minore, mentre l’effetto traslativo a terzi del diritto o di quota di esso deriverebbe dal naturale carattere di elasticità della proprietà ovvero da, ricorrere di una espressa previsione di legge [30]. In entrambi i casi, poiché tali fattispecie attribuiscono al proprietario la facoltà eccezionale di liberarsi unilateralmente da un’obbligazione a fronte della rinuncia alla proprietà, esse necessariamente presuppongono un’espressa previsione di legge [31]. Parimenti, non convince l’idea di fondare la tipicità dell’atto di rinuncia sui nn. 5 degli artt. 1350 e 2643 c.c. Infatti, è stato osservato che tali riferimenti sono limitati alla forma e alla trascrizione della rinuncia, allorquando e affinché quest’ultima sia validamente posta in essere, e cioè nelle ipotesi espressamente contemplate dal Codice [32]. In ogni caso, sembra di potersi affermare che la formulazione della norma in termini generali non può validamente fondare l’esistenza di una disciplina espressa della rinuncia meramente abdicativa, che a conti fatti rimane priva di qualsivoglia referente normativo [33].

Anche se si volesse desumere dalle descritte disposizioni codicistiche l’esistenza di una regola generale di rinunciabilità della proprietà sugli immobili [34], essa avrebbe comunque a che fare con l’astratta ammissibilità del potere di rinunciare, piuttosto che con il carattere di tipicità del relativo atto di esercizio di tale potere e con l’esistenza di una sua disciplina normativa espressa. Infatti, le ricostruzioni che tradizionalmente – anche con riferimento al Codice Pisanelli – agganciavano a tali fattispecie l’ammissibilità della rinuncia si limitavano a individuare una astratta rinunciabilità del diritto, senza avere la pretesa di fondare la natura tipica dell’atto unilaterale di esercizio di tale diritto [35].

Non essendovi, dunque, alcuna disciplina espressa su cui fondare la generale ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare, l’unico appiglio normativo invocabile in tal senso sarebbe l’art. 832 c.c., ove interpretato nel senso che la rinuncia debba ritenersi ricompresa nello stesso contenuto del diritto dominicale e, quindi, nel potere di disposizione del proprietario [36]. Ma tale argomentazione si limita ad individuare una astratta legittimazione della facoltà di rinunciare, argomentabile valorizzando la natura e la struttura del diritto dominicale nella sua dimensione “unitaria”. Secondo tale impostazione, la proprietà sarebbe un diritto essenzialmente sintetico e unitario, la cui “pienezza” si risolverebbe in una sintesi, e non in una somma di facoltà sull’oggetto della proprietà [37].

Emerge, quindi, l’idea che la possibilità di ammettere la rinuncia sia fondamentalmente legata al modo in cui si ricostruisce il contenuto del diritto di proprietà in un determinato sistema giuridico. Emerge la differenza tra la suddetta ricostruzione unitaria del diritto dominicale e quella tipica del common law, ove una concezione “frammentaria” della proprietà immobiliare delinea una struttura del diritto come somma di interessi [38] o “fascio di diritti” [39], tra cui non figura l’abbandono per ragioni storicamente protettive del signore feudale [40]. Sui quadranti di common law vige tutt’ora il esplicito divieto di abbandonare la proprietà immobiliare, sebbene anche lì una parte della dottrina abbia recentemente mostrato di essere favorevole ad ammettere la rinuncia [41]. È stato osservato come alla base di tale divieto vi sarebbe anche una concezione «proprietary responsibility», ricollegata a un vero e proprio munus legato all’acquisto del titolo proprietario nei confronti della collettività, sullo sfondo di una più generale ritrosia di tipo culturale del mondo angloamericano ad accettare l’idea che lo Stato assuma il ruolo di centro di imputazione dei costi della proprietà in luogo del soggetto privato [42].

Diversamente, in virtù della suddetta concezione sintetica e unitaria, nel potere di disposizione del proprietario sarebbe ricompresa non solo la possibilità di trasferire il proprio diritto a soggetti determinati, ma anche quella di rinunciarvi puramente e semplicemente [43], divenendo così la «massima espressione del potere di disposizione del proprietario» [44], pur se da esercitarsi entro i limiti stabiliti dall’ordinamento giuridico. Accettando questa prospettiva, non si tratterebbe più di rinvenire una o più norme giuridiche che, in positivo, attribuiscano il potere di rinuncia al proprietario, ma di non rinvenire, in negativo, specifici divieti o principi in grado di limitare o vietare l’esplicarsi di tale potere [45].

Questa ricostruzione, inoltre, meglio si concilierebbe con il tradizionale insegnamento secondo cui la rinuncia in generale può avere ad oggetto ogni diritto, di carattere sostanziale o processuale, anche futuro o eventuale, con l’unico limite che non vi osti un espresso divieto di legge oppure che non si tratti di diritto che si espressamente detto irrinunciabile e indisponibile [46], e purché l’abdicare al diritto discenda da una manifestazione sicura e inequivoca della volontà di rinunciare [47], espressa attraverso un negozio unilaterale destinato a perfezionarsi e a produrre effetti con la semplice esteriorizzazione della volontà abdicativa, senza necessità che tale negozio sia diretto e portato a conoscenza di alcuno [48]. La proprietà, allora, in quanto diritto disponibile e in assenza di espressi divieti al riguardo, sarebbe astrattamente – ma a questo punto anche concretamente – rinunciabile [49].


4. Il perimetro di sindacabilità giudiziale

Il secondo punto su cui viene sollecitato l’intervento nomofilattico della Suprema Corte concerne il perimetro del sindacato che, in concreto, l’autorità giudiziaria è chiamata a svolgere sull’atto di rinuncia, secondo i criteri della liceità della causa e della meritevolezza degli interessi. Una volta risolta in senso positivo la questione della generale ammissibilità della rinuncia, si tratterebbe di verificare nel caso concreto la validità dell’atto di esercizio del potere, alla luce dei concreti interessi perseguiti dal privato, anche per verificarne gli eventuali scopi fraudolenti. A tal fine, il principale parametro di valutazione è rappresentato dal dato costituzionale e, in particolare, dal rispetto delle istanze solidaristiche immanenti nella funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost., degli obblighi di solidarietà economica e sociale desumibili dall’art. 2 Cost., nonché dal rispetto della sicurezza dei consociati ex art. 41, comma 2, Cost., tutti costituenti limite inderogabile delle prerogative dominicali ex art. 832 c.c.

Mettere in pratica questi principi in relazione ad un caso concreto non è punto agevole. È stato detto che l’atto di rinuncia in sé e per sé non possa essere dichiarato illegittimo per il solo fatto che alla base di esso vi siano mere valutazioni di convenienza economica e di opportunità per il proprietario, che di per sé sarebbero da ritenersi lecite e non contrastanti con la funzione sociale della proprietà [50]. Anche secondo parte della dottrina – che rinviene nell’atto di rinuncia un atto tipico con schema causale rigido, i cui scopi pratici sono giocoforza puramente dismissivi [51] – l’atto di rinuncia sarebbe di per sé meritevole di tutela [52], e non potrebbe essere dichiarato nullo per illiceità della causa, poiché non vi sarebbe controllo alcuno su tale atto di autonomia privata in assenza di un rapporto di relazione tra soggetti diversi [53].

D’altro canto, limitare il sindacato del giudice a tale profilo rischierebbe, da un canto, di confinare il controllo sulla liceità dell’atto su un terreno di eccessiva astrattezza, poco compatibile con un vaglio sulla causa in concreto che dovrebbe avere a riferimento lo «scopo pratico» del negozio [54], e, dall’altro, di legittimare un approccio individualistico alla rinuncia di stampo liberale classico, tipico della concezione del diritto dominicale plasmata dai codici ottocenteschi [55]. Allora, la compatibilità dell’atto di rinuncia con il dato costituzionale non può che essere valutata in concreto, al di là della semplice convenienza economica dell’affare e guardando al bilanciamento tra scopi individualistici e interessi della collettività, non per mettere questi interessi in conflitto, ma per promuovere la coesistenza del carattere privato della proprietà con la sua funzione sociale [56].

In tale prospettiva non necessariamente gli scopi egoistici sono incompatibili con la funzione sociale della proprietà, così come impedire al privato di rinunciare ad un bene economicamente sconveniente non necessariamente assicura una migliore attuazione della funzione sociale. Infatti, è stato osservato che adottare un sistema di “proprietà imposta” finirebbe spesso con il far gravare i costi di un bene “inutile” sul singolo anziché permettere di diluirne il carico sulla società nel suo complesso [57], senza contare che lo Stato rappresenta il soggetto che può farsi carico di costi insostenibili per il privato, per fare in modo che la proprietà venga successivamente reimpiegata nell’interesse generale e, dunque, divenga nuovamente produttiva [58].

D’altronde, risiede in parte in tale funzione la ratio dell’art. 838 c.c. che, sebbene scarsamente applicato, fonda il potere dello Stato di espropriare i beni di cui il privato abbia abbandonato la conservazione, la coltivazione o l’esercizio in modo che nuocciano alla produzione nazionale, così da assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi [59].

A ben guardare, dunque, l’abbandono de facto di beni immobili è in grado di rappresentare di per sé un peso per la società nel suo complesso a prescindere dalla titolarità effettiva del diritto di proprietà, tutte le volte che lo stato di degrado e dissesto del bene comporti non solo un danno al decoro di un centro abitato o dell’ambiente circostante, ma anche il rischio di potenziali crolli e altre situazioni di pericolo per la comunità che vi risiede. Per tale ragione, tra le (poche) leggi speciali di attuazione dell’art. 838 c.c. si segnala l’art. 5 della l. 6 ottobre 2017, n. 158 [60], che prevede la possibilità per i piccoli comuni di adottare misure volte all’acquisizione e alla riqualificazione di immobili al fine di contrastare l’abbandono di terreni o edifici in stato di degrado per prevenire le cause di fenomeni di dissesto idrogeologico, crolli o comunque situazioni di pericolo.

Osservando la questione da tale angolo visuale, l’entità dell’effettivo trasferimento unilaterale dei costi dell’immobile dal privato alla comunità sembra ridimensionarsi e il problema della compatibilità con la funzione sociale della proprietà finisce per riguardare il fenomeno che sta alla base dell’atto dismissivo, i.e. l’abbandono de facto. In tale prospettiva, sarebbe utile valorizzare il ruolo che in certi contesti può assumere lo strumento dell’amministrazione condivisa [61], in virtù del quale la pubblica amministrazione e taluni “cittadini attivi” assumono la responsabilità condivisa di riqualificare beni e spazi di interesse generale in disuso convertendoli così a “beni comuni” [62]. Anche in tale contesto, dunque, lo strumento della rinuncia abdicativa – sebbene attuato per meri scopi egoistici – potrebbe esitare in concreto in una migliore attuazione della funzione sociale della proprietà, qualora il passaggio del bene da privato a pubblico, in virtù dell’art. 827 c.c., possa favorire l’ulteriore passaggio da bene pubblico a bene comune più agevolmente rispetto a quando sia conservata la titolarità del diritto in capo al privato [63].


5 Considerazioni conclusive

La Suprema Corte, nel dare risposta ai quesiti sollevati dal tribunale abruzzese, dovrà svolgere il difficile compito di fornire una prima interpretazione uniforme alla questione dell’ammissibilità nel nostro ordinamento della rinuncia abdicativa alla proprietà immobiliare.

Alla luce delle considerazioni svolte, la questione della generale ammissibilità della rinuncia – cui è subornata l’individuazione dell’esatto perimetro di sindacabilità giudiziale – da qualsiasi prospettiva venga osservata sembra che non possa risolversi che in senso positivo. Infatti, riesce difficile immaginare che la funzione sociale della proprietà possa spingersi sino a rendere il proprietario “prigioniero” di un diritto che non gli interessa più, a maggior ragione perché non si rinviene alcun esplicito divieto al riguardo nell’or­dinamento giuridico. Peraltro, su un piano astratto e generale, il solo effetto dismissivo del diritto non può dirsi di per sé contrario alla funzione sociale della proprietà, non potendosi a priori escludere, ad esempio, che un proprietario decida di abbandonare un bene immobile che non rappresenta un peso per la collettività, ma che, al contrario, è ancora in grado di possedere un valore di mercato positivo [64].

Cionondimeno, nella realtà dei fatti il riconoscimento di una astratta ammissibilità del potere di rinunciare potrebbe tradursi in un esercizio sterile, se si considera che in ogni caso la liceità dell’atto di esercizio di tale potere dovrà sottostare ad un sindacato di meritevolezza in concreto che non potrà limitarsi ad un mero vaglio di compatibilità tra gli interessi individuali del proprietario e la funzione sociale della proprietà, ma dovrà concretizzarsi in un serio giudizio di bilanciamento e di coesistenza tra prerogative private e interessi pubblici che tenga conto di tutte le circostanze del caso concreto. Ad esempio, dovrebbero considerarsi tutte le circostanze che hanno indotto il privato a rinunciare, comprese le modalità con cui, eventualmente, il bene in questione è divenuto un peso per la società e il ruolo che il soggetto proprietario ha svolto nel causare ovvero agevolare la degradazione del bene in questione.

Tuttavia, si tratterebbe con tutta evidenza di un onere probatorio gravoso per l’amministrazione, se si considera che nemmeno il solo scopo egoistico del proprietario può di per sé considerarsi contrario alla funzione sociale della proprietà in tutti quei casi in cui, nella realtà dei fatti, emerga che il miglior compromesso tra interessi privati e interesse generale sia che lo Stato stesso, anche in condivisione con i cittadini, si faccia carico di un peso che, in un certo senso, ha già preventivamente “accettato” per il tramite dell’art. 827 c.c. [65]. Tale livello di complessità sembra riflettere il fatto che, forse, la questione della compatibilità con la funzione sociale della proprietà si pone primariamente, ancor più che rispetto alla rinuncia in sé, con riguardo al fenomeno che ne sta alla base, costituito dall’abbandono de facto di beni immobili il cui stato di dissesto già rappresenta un peso e un pericolo per la società nel suo complesso a prescindere dal soggetto che ne sia l’effettivo titolare. E allora, se è vero che la questione sarà suscettibile di porsi in numerosi giudizi, essa presto o tardi dovrà essere affrontata da una prospettiva che sappia guardare ad un momento ancora precedente all’atto di rinuncia, in modo da restituire alla funzione sociale la sua natura di limite “interno” al diritto di proprietà, in quanto ragione stessa per la quale il diritto viene attribuito ad un certo soggetto [66], e non solo parametro esterno di sindacabilità del singolo atto di rinuncia.


NOTE

[1] Trib. L’Aquila 15 gennaio 2024, n. 233. All’ordinanza in commento ha fatto seguito un altro rinvio pregiudiziale disposto dal Trib. Venezia 22 aprile 2024, n. 4569, che ha rimesso alla Corte la questione circa l’ammissibilità della rinuncia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare.

[2] La disposizione è stata introdotta dal D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Ai sensi del primo comma dell’art. 363-bis c.p.c., «il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione esclusivamente di diritto, quando concorrono le seguenti condizioni: 1) la questione è necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e non è stata ancora risolta dalla Corte di cassazione; 2) la questione presenta gravi difficoltà interpretative; 3) la questione è suscettibile di porsi in numerosi giudizi».

[3] È stato osservato che già nel diritto romano, intorno al III secolo d.C., si affacciava sulla scena il problema della dismissione del bene, dato che nei frammenti del Digesto riconducibili a Paolo e Ulpiano si tratta della derelictio anche degli immobili, e dall’età classica in poi i romani sono stati per lo più favorevoli alla derelizione degli immobili. L’opinione prevalente, sopravvissuta durante il diritto intermedio sino all’età delle codificazioni, era che fosse possibile “disfarsi” di un bene attraverso la volontà con il contestuale abbandono del possesso. Infatti, il Codice Napoleone non regolava espressamente l’istituto, ma la dottrina lo ammetteva secondo tradizione richiamando gli articoli 539, 656 e 699. Nemmeno il Codice civile italiano del 1865 regolava espressamente l’abbandono, pur richiamandolo indirettamente in varie norme, e ciò probabilmente si spiegava con la scarsa frequenza con cui il fenomeno si verificava. Tale assetto indusse la dottrina del tempo a dedurre che la facoltà di abbandonare il bene fosse insita nello stesso diritto di proprietà. Per un approfondimento delle tematiche, cfr. C. Bona, L’abbandono mero degli immobili, Editoriale Scientifica, 2017, 20 ss.; V. Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Riv. dir. civ., 2017, 1, 192; M. Comporti, Abbandono, in Enc. giur. Treccani, 1988, 2 ss.; G. Branca, Abbandono (derelictio), in Enc. dir., vol. I, Giuffrè, 1958, 1 ss.; G. Donatuti, Derelizione, in Enc. it. scienze, lettere ed arti, App. I, Roma, Istituto dell’enciclopedia italiana, 1949, 510; P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, Vallardi, 1925, 284 ss.; B. Brugi, Istituzioni di diritto civile, Società Editrice Libraria, 1923, 397; F. Atzeri Vacca, Delle rinunzie secondo il Codice civile italiano, Unione tipografico-editrice torinese, 1910, 105.

[4] C. Salvi, Proprietà e possesso, in S. Mazzamuto (diretto da), Trattato del diritto privato, III, Giappichelli, 2021, 136.

[5] Decreto della Prima Presidente della Corte di cassazione del 28 febbraio 2024, consultabile al sito: https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Provv_PP_rinvio_preg_RG_2098_2024_Trib_LAquila.pdf.

[6] Quello della negozialità della rinuncia rappresenta uno dei primi interrogativi che hanno interessato il dibattito sul tema. La maggior parte della dottrina si esprime in favore della natura negoziale della rinuncia, sulla scorta dell’importanza del ruolo della volontà nel compimento dell’atto dismissivo. Per una ricostruzione storica, cfr. G. Branca, voce Abbandono, cit., 1 ss. Sulla rinuncia come negozio giuridico, cfr. F. Macioce, Rinuncia (diritto privato), in Enc. dir., vol. XL, Giuffrè, 1989, 926 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Morano, 1962, 144; S. Pugliatti, I fatti giuridici, Giuffrè, 1945, 40. In senso critico alla natura negoziale, invece, L. Bozzi, La negozialità degli atti di rinuncia, Giuffrè, 2008, 48 ss., che qualifica la rinuncia alla stregua di un atto giuridico in senso stretto. In simili termini si veda anche, nella giurisprudenza, Trib. Perugia 30 aprile 2021, n. 704, dove si legge che la rinuncia si avvicina “ad un atto giuridico puro piuttosto che ad un negozio”. Sul punto anche E. Damiani, La rinuncia alla proprietà immobiliare è abuso del diritto?, in Jus Civile, 2022, 1, 6.

[7] In senso favorevole alla possibilità di trarre dalla presenza di ipotesi di abbandono liberatorio anche la configurabilità della rinuncia meramente abdicativa, cfr. M. Bellinvia, La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato, studio 216-2014/C, 2014, §3.

[8] Per una ricostruzione cfr., ex multis, E. Damiani, La rinuncia, cit., 5 ss.; C. Salvi, Proprietà e possesso, cit., 135; M.F. Giorgianni, Sull’ammissibilità della rinuncia alla proprietà, in Riv. notar., 2019, 3, 587; C. Bona, L’abbandono, cit., 37 ss.

[9] In questo senso, V. Brizzolari, Note a margine di un caso emblematico di rinuncia alla proprietà immobiliare, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 3, 636; Id., La rinuncia, cit., 190, che osserva come il fondamento della rinuncia abdicativa si rinvenga negli artt. 1350 e 2643 c.c., i quali seppure non affermando direttamente la rinunciabilità del diritto di proprietà sugli immobili, ne regolamentano pur sempre la forma, assorbendo così il problema della sua ammissibilità.

[10] In questo senso, Trib. Genova 5 febbraio 2019; T.A.R. Piemonte 28 marzo 2018, n. 368, in Riv. giur. edil., 2018, 3, I, 715; T.A.R. Puglia 17 settembre 2008, n. 2131; T.A.R. Puglia 17 settembre 2009, n. 2081.

[11] C. Salvi, Proprietà e possesso, cit., 138.

[12] E. Damiani, La rinuncia, cit., 11 ss.; N. Scarano, La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà (esclusiva) sui beni immobili: osservazioni sui più recenti orientamenti e prospettive comparate, in Contr. impr., 2021, 3, 982.

[13] Il trasferimento della proprietà dell’immobile all’ente pubblico sarebbe un effetto meramente indiretto dell’atto di rinuncia. In questo senso, G.V. Colonna, A proposito della causa della rinuncia abdicativa alla proprietà, in Notariato, 2020, 4, 380, che osserva come nella rinuncia alla proprietà la dismissione del diritto rientra tra quelli che tradizionalmente si usa classificare come “effetti diretti” del negozio, mentre il trasferimento della proprietà all’ente pubblico avviene come “effetto indiretto” o “riflesso”. Si veda anche T. Pasquino, La rinunzia alla proprietà immobiliare, con particolare riferimento alla quota in multiproprietà, in Nuovo dir. civ., 2019, 2, 27.

[14] Sul fatto che la rinuncia abdicativa produca, quale unico effetto diretto del negozio, la mera dismissione del diritto la dottrina è per lo più concorde. Si vedano, ex multis, L. Bozzi, La negozialità, cit., 49 ss.; G.V. Colonna, A proposito della causa, cit., 378; F. Macioce, Rinuncia, cit., 931; L. Bigliazzi Geri, Oneri reali e obbligazioni propter rem, Giuffrè, 1984, 137.

[15] La dottrina propende per il carattere non ricettizio dell’atto di rinuncia, in quanto non richiede la conoscenza né l’accettazione da parte di altri soggetti per produrre effetti. Per tutti, cfr. C. Bona, L’abbandono, cit., 43, 74 ss.; L. Cariota Ferrara, Il negozio, cit., 136. Di recente nella giurisprudenza, di veda T.A.R. Lombardia 18 dicembre 2020, n. 2553, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 3, 631, con nota di Brizzolari, laddove si afferma che «l’orientamento più aderente al sistema, e perciò più convincente e preferibile, è quello – prevalente nella dottrina civilistica – che, argomentando da una serie di indici normativi – tratti, in particolare, dagli artt. 827, 1118, comma 2, 1350 n. 5 e 2643 n. 5 c.c. –, propende per l’ammissibilità in generale dell’istituto, arrivando a concludere che si tratta di un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’’esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso».

[16] F. Piaia, Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare nella dinamica della comparazione degli interessi: una lettura alternativa, in Riv. crit. dir. priv., 2022, 329 ss.

[17] Tra questi si ricordano, esemplificativamente, gli adempimenti fiscali diretti e indiretti, la manutenzione ordinaria e straordinaria al fine di non arrecare danni alla collettività, gli obblighi di cui al Codice dell’Ambiente concernenti lo smaltimento di rifiuti e la bonifica di terreni inquinati, così come la responsabilità di natura privatistica connessa agli eventuali danni cagionati dalla rovina dell’immobile ex art. 2053 c.c. e, in generale, 2043 c.c. Si veda, per tutti, R. Franco, La rinunzia alla proprietà (immobiliare): ripensamenti sistematici di (antiche e recenti) certezze. Spunti per una comparazione giuridica, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, 84 ss.

[18] Nel senso che l’art. 827 c.c. fonderebbe un acquisto della proprietà a titolo originario, cfr. C. Bona, L’abbandono, cit., 73 s.; A. Quarta, Non-proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, Edizioni Scientifiche Italiane, 2016, 261; R. Materi, M. Molinari, Atto di abbandono della proprietà tra volontà privata e interesse pubblico, in Notar., 2016, 6, 567; G.V. Colonna, A proposito della causa, cit., 381; V. Brizzolari, La rinuncia, cit., 201; C.M. Bianca, Diritto civile, La proprietà, VI, Giuffrè, 2017, p. 285. Nella giurisprudenza, Cass. 11 marzo 1995, n. 2862, in Notar., 1998, 18 ss., con nota di Orlandoni.

[19] In questo senso, G. Orlando, Rinuncia opportunistica alla proprietà immobiliare e abbandono immobiliare, in Dir. econ., 2021, 1, 236 s. Nella giurisprudenza di legittimità, si veda Cass. SS. UU. 16 febbraio 2018, n. 3873, in Foro it., 2018, 4, I, 1200 ss., con nota di Bona: «sia la Costituzione (art. 42, secondo comma, a tenore del quale spetta alla legge determinare i modi di acquisto della proprietà) che il codice civile (art. 922, che, nell’elencare i vari modi di acquisto della proprietà, conclude con la formula “e negli altri modi stabiliti dalla legge”) configurano una vera e propria “riserva di legge” in ordine ai modi di acquisto della proprietà, in forza della quale la proprietà può acquistarsi solo nei modi “legali”, solo nei modi che il legislatore ha inteso prevedere (non solo – ovviamente – in seno al codice civile, ma anche in altri campi del diritto: si pensi ai vari casi di appropriazione coattiva previsti dal diritto pubblico o dal diritto processuale in materia esecutiva), non potendosi ammettere modi di acquisto della proprietà (o di altri diritti reali) diversi da quelli che il legislatore abbia previsto e disciplinato».

[20] In questi termini, T.A.R. Toscana 31 agosto 2020, n. 1022, in Redaz. Giuffrè Amm., 2020.

[21] Sul punto e per una ricostruzione della giurisprudenza amministrativa contraria all’ammissibilità della rinuncia, cfr. T.A.R. Lazio 6 febbraio 2019, n. 87, in Foro amm., 2019, 2, 303 ss.: «si rileva che la possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare non può essere desunta in via interpretativa da norme che ne disciplinano casi specifici, dalle quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo ipotesi tipiche; né essa si può evincere, in maniera chiara, dagli artt. 1350, comma 1, n. 5 e 2643, comma 1, n. 5, cod. civ. che disciplinano la forma della rinunzia traslativa e bilaterale al diritto di proprietà, e non abdicativa unilaterale. Neppure l’art. 827 cod. civ. contiene alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di proprietà o agli atti e fatti giuridici che possono aver dato luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario». In senso conforme, T.A.R. Piemonte 28 marzo 2018 n. 368, cit.; T.A.R. Calabria 12 maggio 2017 n. 438; T.A.R. Puglia 16 settembre 2014 n. 1111; T.A.R. Campania 1° settembre 2009, n. 4865.

[22] Si veda di recente Cons. Stato 20 marzo 2024, n. 2714.

[23] Cfr. Trib. Rovereto 24 maggio 2023, in Foro it., Rep. 2023, voce “Comunione e condominio”; Trib. Pavia 3 novembre 2022 n. 1354, in Redaz. Giuffrè 2018; Trib. Firenze 15 settembre 2022, n. 2529, in Redaz. Giuffrè 2022; Trib. Brindisi 29 agosto 2019, n. 1230, in Redaz. Giuffrè 2019; Trib. S. Maria Capua Vetere 25 luglio 2017, n. 2407, in Redaz. Giuffè 2018.

[24] La questione era stata affrontata incidentalmente da Cass. SS. UU. 4 marzo 1997, n.1907, in Dir. giur. agr., 1998, 424 ss., con nota di Stolfi. Successivamente, cfr. Cass. SS. UU. 19 gennaio 2015, n.735, in Giust. civ. Mass. 2015; in Foro it., 2015, 2, 1, 436 ss., con nota di Pardolesi. In senso conforme, Cass. 30 marzo 2023, n. 8958, in Redaz. Giuffrè, 2023; Cass. 14 giugno 2019, n. 16061, in Giust. civ. Mass. 2019. In senso contrario, di recente Cass. 22 gennaio 2024 n. 2132, secondo cui la rinuncia abdicativa, come qualsiasi atto di rinuncia, deve essere univoca.

[25] Anche tale proposta è stata criticata, in quanto il filtro della causa concreta del negozio, pur non attaccando in astratto la facoltà di rinunciare, renderebbe di fatto impossibile la rinuncia medesima. Cfr. Brizzolari, Note a margine, cit., 639. Analogamente, E. Damiani, La rinuncia, cit., 10.

[26] In tale senso si è espresso un recente orientamento del Trib. Firenze 15 maggio 2023, n. 1462, che ha accertato la generale ammissibilità della rinuncia, giungendo ad una sostanziale declaratoria di tipicità dell’atto attraverso una motivazione che muove dall’individuazione di un suo generale riconoscimento da parte di talune disposizioni contenute nel Codice civile che richiamano la rinuncia ad un diritto reale e, in particolare, al diritto di proprietà. Secondo il Tribunale fiorentino, tale conclusione sarebbe condivisa anche dalla giurisprudenza, che ha riconosciuto la compatibilità della rinuncia abdicativa con il negozio unilaterale, di carattere non ricettizio, avente efficacia meramente dismissiva della quota di comproprietà insistente sul bene comune, con il conseguente accrescimento delle quote degli altri comproprietari per effetto del principio di elasticità che caratterizza il diritto dominicale. «Ne discende» – con le parole del giudice – «che, ai fini della validità della rinuncia abdicativa, essendo la stessa ammessa nell’ordinamento giuridico in quanto espressamente disciplinata, non è necessario che l’atto di rinuncia sia diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, come invece richiesto per i contratti atipici, ex art. 1322 co. 2 c.c.». In senso conforme si era espresso il medesimo organo giudicante l’anno prima, con la decisione del 15 settembre 2022, n. 2529, cit.

[27] Nel senso della tipicità dell’atto di rinuncia si veda A. Bozzi, Rinunzia (diritto pubblico e privato), in Nov. dig. it., XV, Utet, 1968, 1147, ove si fa riferimento ad un atto tipico con schema causale rigido. Ancora prima, in simili termini, S. Pugliatti, I fatti giuridici, cit., 41, parla di “schema tipico” del negozio di rinuncia.

[28] Sulla atipicità del negozio di rinuncia abdicativa cfr., ex multis, G. Orlando, Rinuncia, cit., 233; N. Scarano, La rinuncia abdicativa al diritto di proprietà (esclusiva) sui beni immobili: osservazioni sui più recenti orientamenti e prospettive comparate, in Contr. impr., 2021, 3, 982. In giurisprudenza, cfr. Trib. Rovereto 24 maggio 2023, cit.

[29] Il riferimento è alle norme del Codice civile poc’anzi citate, e cioè principalmente gli artt. 882, 550, 1104 e 1070 c.c.

[30] Cfr. V. Brizzolari, La rinuncia, cit., 207 s.: mentre nel caso della rinuncia del comproprietario ex art. 1104 c.c. l’effetto riespansivo è conseguenza del carattere di elasticità della proprietà, nel caso dell’art. 1070 c.c. è la legge a stabilire che la proprietà si trasferisce al proprietario del fondo dominante.

[31] In questo senso, N. Scarano, La rinuncia, cit., 966.

[32] Trib. Genova 1° marzo 2018, in Foro it., Rep. 2018, voce “Proprietà”.

[33] In senso simile si è espresso il T.A.R. Piemonte 28 marzo 2018, n. 368, cit., ove ha precisato che «gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere, in realtà: a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e non abdicativa, previamente concordati tra le parti, costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è possibile concepire un possibile conflitto con eventuali terzi acquirenti; b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai diritti immobiliari specificamente indicati dal codice (diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali non lasciano mai (…) il diritto “acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della proprietà»

[34] Il riferimento è agli artt. 1118, comma 2 e 1070 c.c. In merito alla prima norma, v’è chi ha visto nel divieto per il condomino di rinunziare al suo diritto sulle parti comuni il fondamento dell’esistenza di una regola generale della rinunciabilità del diritto, in assenza della quale il divieto de quo non avrebbe ragion d’essere. Similmente, l’art. 1070 c.c., a norma del quale il proprietario del fondo servente può sempre liberarsi delle spese cui è tenuto per l’uso o la conservazione della servitù rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante, sottenderebbe una deroga al mero effetto abdicativo della rinuncia pura e semplice, prevedendo un’ipotesi speciale in cui ad esso si aggiunge anche l’effetto liberatorio, il quale – a differenza della rinuncia pura e semplice – necessita di un’espressa previsione di legge. Su questi temi cfr. V. Brizzolari, La rinuncia, cit., 190; M. Bellinvia, La rinunzia, cit., § 3.

[35] In questo senso, ex multis, V. Brizzolari, Note a margine, cit., 636; A. Bozzi, Abbandono di fondo, in Nuovo Dig. it., I, Utet, 1937, 6; G. Deiana, Abbandono (derelictio) (dir. civ.), in Enc. dir., I, Giuffrè, 1958, 10 ss.

[36] In questo senso si esprimeva già M. Costantino, Contributo alla teoria della proprietà, Edizioni Scientifiche Italiane, 1967, 67, secondo cui il proprietario può disporre del proprio diritto tanto donandolo quando rinunciando ad esso. Di recente, cfr. anche D. Carusi, Le situazioni giuridiche soggettive, in E. Gabrielli (a cura di), Diritto Privato, Giappichelli, 2023, 97; V. Brizzolari, Note a margine, cit., 636.

[37] Per la ricostruzione in senso unitario della proprietà, di derivazione pandettistica, come sintesi e non somma di facoltà, cfr. B. Windscheid, Diritto delle Pandette, I, 2, Utet, 1925, p. 113 (trad. a cura di Fadda e Bensa). Si veda anche C. Salvi, Il contenuto del diritto di proprietà. Artt. 832-833, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2019, p. 22.; A. Gambaro, La proprietà. Beni, proprietà, possesso, Giuffrè, 2017, pp. 215, che qualifica la proprietà come un diritto unitario che si scompone poi in una serie di categorie differenziate. Il tema rievoca, poi, il classico dibattito sviluppatosi tra la concezione unitaria del diritto e quella dottrina, ancora in parte attuale, che cominciò a parlare “delle” proprietà al plurale valorizzando la pluralità di “statuti” proprietari. Sul punto, cfr. S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla proprietà terriera, Giuffrè, 1954; P. Rescigno, Proprietà (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, 1988, 260 ss.; F. Sangermano, La proprietà tra le proprietà. Un affresco concettuale e assiologico, Edizioni Scientifiche Italiane, 2023, 1 ss.

[38] Mentre negli ordinamenti di civil law la proprietà è vista come il più ampio e indivisibile potere sulla cosa, in common law essa si concretizza in una somma di specifici “entitlements” sui beni, tanto che la categoria giuridica unitaria di “ownership” neppure ha avuto modo di affermarsi nelle esperienze anglosassoni. In questo senso, S. van Erp, B. Akkermans (eds.), Cases, Materials and Text on Property Law, Hart Publishing, 2012, 213 ss., 306. È stato osservato anche come nei paesi di common law il termine “property” abbia di conseguenza assunto una dimensione più ampia e differente rispetto alla nostra “proprietà”, nel senso che comprende ogni situazione di appartenenza o di godimento su beni o di “concurrent interests”. Sul punto, cfr. U. Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Aa. Vv., Proprietà e possesso, vol. I, in A. Gambaro, U. Morello (diretto da), Trattato dei diritti reali, Giuffrè, 2008, 105.

[39] La teoria del fascio di diritti (bundle of rights) viene generalmente ricondotta alle riflessioni di W.N. Hohfeld, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning, in Yale L. Journ., 1913, Vol. 23, No. 1, 16 ss., su cui si sono sviluppate le ricostruzioni successive della proprietà come diritti passibile di essere suddiviso in molti segmenti o interessi più piccoli. Sul punto si veda anche D.R. Johnson, Reflections on the Bundle of Rights, in Verm. L. Rev., 2007, 32(2), 252; C. Salvi, Il contenuto, cit., 26.

[40] Significativa per una ricostruzione delle ragioni storico-politiche che, nel sistema anglosassone, fondano il generale divieto di abbandono della proprietà immobiliare, si veda la pronuncia Court of Session-Inner House, 12 December 2013, n. 108, Joint Liquidators of Scottish Coal Co Ltd v Scottish Environment Protection Agency, in cui si legge che «the abandonment of land had been conceptually impossible under feudalism». La regola contro l’abbandono in età feudale è stata concepita per proteggere il signore assicurandogli che avrebbe sempre avuto un mezzadro a cui rivolgersi per l’adempimento degli oneri legati alla terra. Cfr. anche V. Brizzolari, La rinuncia, cit., 216 ss.

[41] Negli ordinamenti di common law tradizionalmente si considera lecita la rinuncia della proprietà sui beni mobili (chattels) mentre non è ammissibile la rinuncia di beni immobili (real estate). Tra i principali leading cases statunitensi si ricorda la sentenza della Superior Court of Pennsylvania, Pocono Springs Civic Association, Inc. v. MacKenzie (1995), in cui si affermava che «perfect title, under Pennsylvania law, cannot be abandoned». Nella dottrina si registrano, invece, alcune caute aperture verso l’ammissibilità della rinuncia immobiliare. Cfr. L.J. Strahilevitz, The Right to Abandon, in Univ. Pennsyl. Law Rev., January 2010, Vol. 158, No. 2, 355 ss; E.M. Peñalver, The Illusory Right to Abandon, in Mich. Law Rev., November 2010, Vol. 109, No. 2, 191 ss. Per una ricostruzione della tematica, R. Franco, La rinunzia, cit., 77 ss.; N. Scarano, La rinuncia, cit., p. 967.

[42] In questo senso, G. Resta, Il problema della rinunzia alla proprietà immobiliare nella prospettiva del diritto comparato, in Riv. dir. civ., 2024, 2, 275 s., anche con riferimento alle riflessioni di K. von Schütz, Keeping It Private: The Impossibility of Abandoning Ownership and the Horror Vacui of the Common Law of Property, in McGill L. J., 2021, 66, 744 s.

[43] V. Brizzolari, La rinuncia, cit., 193.

[44] G.V. Colonna, A proposito della causa, cit., 377, che osserva come la rinuncia alla proprietà costituisce la massima espressione del potere di disposizione, che è cosa diversa dal potere di alienazione. Sulla distinzione, L. Mengoni, F. Realmonte, Disposizione (atto di), in Enc. dir., XIII, Giuffrè, 1964, 189 ss.

[45] N. Scarano, La rinuncia, cit., 980.

[46] Cass. 9 marzo 1971, n. 649, in Mass. Giur. it., 1971; Cass. 29 ottobre 1968, n. 3616, in Giur. it., 1969, I, 1, 245 ss.

[47] In dottrina si veda R. Sgroi, sub art. 1324, in Id. (a cura di), Libro IV. Delle obbligazioni, in C. Ruperto (diretto da), La giurisprudenza sul Codice civile coordinata con la dottrina, Giuffrè, 2005, 997 ss. In giurisprudenza, si veda la recente Cass. 22 gennaio 2024 n. 2132, in Dejure, ove afferma che «la rinuncia abdicativa, come tutti gli atti di rinuncia ai propri diritti, deve essere univoca».

[48] Cfr. Cass. 23 luglio 1997, n. 6872, in Foro. it., Rep. 1997, voce “Rinunzia in genere”, n. 1, ove ha affermato che «la rinuncia costituisce di regola un negozio unilaterale, che è perfetto e produce effetti con la semplice esteriorizzazione in forma espressa o tacita della volontà abdicativa, senza necessità che sia diretto e portato a conoscenza di alcuno».

[49] In questo senso, M.F. Giorgianni, Sull’ammissibilità, cit., 587.

[50] In questo senso, Trib. Firenze, 15 maggio 2023, n. 1462, cit.: «nell’eventuale valutazione di convenienza economica effettuata dal proprietario in relazione all’atto di rinuncia al proprio diritto di proprietà su un bene immobile, non può ravvisarsi l’illiceità del motivo o della causa del negozio, non essendo vietato dall’ordinamento giuridico il perseguimento di una finalità di tal genere, che, anzi, è espressamente tenuta in considerazione nelle fattispecie di cui agli artt. 882 e 1070 c.c.».

[51] A. Bozzi, Rinunzia (diritto pubblico e privato), cit., 1147.

[52] Secondo questa impostazione, la rinuncia esprimerebbe di per sé un interesse meritevole di tutela, coincidente con la dismissione della situazione giuridica. Cfr. F. Macioce, Rinuncia, cit., 930; L.V. Moscarini, Rinunzia, in Enc. giur., vol. XXVII, Treccani, 1991, 5 ss.

[53] G.V. Colonna, A proposito della causa, cit., 379; M. Bellinvia, La rinunzia, cit., § 2.

[54] È consolidata nella giurisprudenza l’impostazione per cui causa concreta la causa concreta del contratto coincide «con lo scopo pratico dalle parti perseguito mediante la stipulazione, o, in altre parole, con l’interesse che l’operazione contrattuale è propriamente volta a soddisfare». In questo senso, cfr. la recente Cass. 14 marzo 2024, n. 6930, in Guida dir., 2024, 16. In senso conforme, ex multis, Cass. SS. U.U. 8 marzo 2019, n. 6882, in Dir. giust., 11 marzo 2019, con nota di Corrado; Cass. 2 agosto 2023, n. 23519, in Redaz. Giuffrè, 2023.

[55] Per una completa ricostruzione del processo storico che ha portato dalla concezione individualista dei codici civili ottocenteschi alla funzione sociale, cfr. F. Sangermano, La proprietà, cit., 52 ss.; C. Salvi, Il contenuto, cit., 33 ss.

[56] S. Rodotà, Il diritto di proprietà tra dommatica e storia, in Id., Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, 2013, 1238. Sul punto si veda anche anche L. Mengoni, Proprietà e libertà, in C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi (a cura di), Scritti I. Metodo e teoria giuridica, Giuffrè, 2001, 92; E. Damiani, La rinuncia, cit., 11.

[57] Sul tema, R. Pardolesi, C. Bona, Sull’abbandono dell’immobile e sulla proprietà imposta, in Corr. giur., 2017, 8-9, 1113 ss.

[58] In questi termini, V. Brizzolari, Note a margine, 635 s., il quale osserva come già nell’interpretazione tradizionale dell’art. 827 c.c. si intravedeva un riferimento alla funzione sociale, nella misura in cui tra le rationes della norma vi sarebbe pure quella di evitare che le cose rimangano improduttive, il che rende opportuno impedire che un immobile vacante resti acefalo e fare in modo che esso trovi sempre qualcuno che se ne prenda cura. Si vedano L. Barassi, Proprietà e comproprietà, Giuffrè, 1951, 205; R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 44; L.A. Caloiaro, La rinuncia alla proprietà immobiliare tra principio di tipicità e funzione sociale, in Nuova giur. civ. comm, 2018, 1547 ss. In giurisprudenza, si esprime in senso simile Trib. Firenze, 15 settembre 2022, n. 2529, cit., secondo cui «al contrario, risulta invece conforme ai principi solidaristici che, in presenza di un terreno con elevata pericolosità geomorfologica, che determina una situazione di rischio per la circolazione su strada pubblica, utilizzata quindi dalla collettività, in conseguenza della rinuncia alla proprietà da parte del privato, i costosi interventi di messa in sicurezza siano finanziati con risorse pubbliche provenienti dalla .fiscalità generale, anziché gravare sul singolo proprietario, del resto neppure colpevole per la conformazione del luogo e la composizione del suolo».

[59] In questo senso, Trib. Genova, 5 febbraio 2019, in Riv. Notar., 2019, 3, II, 580: «il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità viene scoraggiata dal legislatore in vari modi; ad esempio con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione».

[60] Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni (17G00171) (GU Serie Generale n.256 del 02-11-2017).

[61] Il modello dell’amministrazione condivisa è stato proposto da G. Arena, Intro­duzione all’amministrazione condivisa, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1997, 117, 29 ss., e si fonda sull’ipotesi che l’amministrazione consideri i cittadini (siano essi singoli, associati o soggetti economici) come co-amministratori, i quali possono diventare protagonisti nella soluzione di problemi di interesse generale e, al tempo stesso, soddisfare le proprie esigenze mettendo le proprie risorse in comune con l’amministrazione. È stato osservato, poi, che l’amministrazione condivisa, da modello inizialmente solo teorico, è diventata oggi «una pratica viva delle istituzioni e della società civile» (F. Cortese, Amministrazione condivisa e biografia giuridica della Nazione, in G. Arena, M. Bombardelli (a cura di), L’amministrazione condivisa, Editoriale Scientifica, 2022, 15), sino ad essere considerata «alla stregua dell’ordi­na­mento positivo» (V. Cerulli Irelli, L’amministrazione condivisa nel sistema del diritto amministrativo, ivi, 24).

[62] Sul tema, senza pretesa di esaustività, G. Arena, I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto per l’Italia fra cittadini e le istituzioni, Milano, 2020; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, La terza, 2011; A. Ciervo, I beni comuni, Ediesse, 2012. In particolare, i regolamenti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni adottati da numerosi Comuni italiani e redatti sulla base del prototipo elaborato nel 2014 dall’associazione «Laboratorio per la sussidiarietà» (Labsus) in collaborazione con il Comune di Bologna e prevedono che l’attuazione dello strumento dell’amministrazione condivisa venga attuato attraverso patti di collaborazione tra l’amministrazione e alcuni “cittadini attivi” che si impegnano a impiegare le proprie risorse per riqualificare spazi di interesse generale in cambio di un uso collettivo del bene. Per una ricostruzione, cfr. S. Franca, Cura dei beni comuni e responsabilità condivisa: spunti ricostruttivi, in Munus, 2018, 1, 47 ss.

[63] Cfr. G. Arena, Da beni pubblici a beni comuni, in Riv. trim. dir. pub., 2022, 3, 653 s., che osserva come vengono a crearsi tre categorie di beni: beni pubblici di cui è responsabile solo l’amministrazione; beni privati di cui sono responsabili esclusivamente soggetti privati; beni pubblici di cui sono responsabili sia l’amministrazione sia soggetti privati. «Questi ultimi sono beni comuni perché comune (pubblica e privata) è la responsabilità della loro cura». In realtà, i regolamenti per l’amministrazione condivisa prevedono espressamente che anche un bene privato possa divenire bene comune: infatti, la qualifica di bene comune non incide sulla titolarità della situazione giuridica. Tuttavia, nel caso di beni privati la questione è più complessa poiché è necessario il consenso del proprietario e la sottoscrizione anche da parte sua del patto di collaborazione, in virtù del quale è obbligato a concedere il bene in uso collettivo. È stato ulteriormente osservato che in caso di “non uso” del bene risulta molto più complesso ampliare il campo dei beni comuni anche a quelli privati, poiché l’assegnazione eventuale alle collettività locali di tali beni comporterebbe, da un lato, l’accertamento delle condizioni di degrado e di abbandono e di pericolo per la pubblica incolumità e, dall’altro, l’avvio del procedimento espropriativo e dell’acquisizione del bene in mano pubblica. In questo senso, P. Urbani, Alla ricerca della Civitas: i beni comuni urbani, in Pausania, 19 settembre 2022, disponibile al sito: https://www.pausania.it/alla-ricerca-della-civitas-i-beni-comuni-urbani-di-paolo-urbani/.

[64] Una ricostruzione delle possibili ipotesi in cui un bene potrebbe essere abbandonato è fornita da L.J. Strahilevitz, The Right to Abandon, cit., 362, 405 ss. Una prima categoria è rappresentata da quei beni che possiedono un valore di mercato negativo (negative-market-value property), in cui a sua volta possono individuarsi beni che hanno un valore soggettivo positivo (es., un valore affettivo) e quelli con valore soggettivo negativo. I primi raramente vengono abbandonati, mentre i secondi rappresentano la stragrande maggioranza delle ipotesi di abbandono. Tuttavia, anche i beni con un valore di mercato positivo (positive-market-value property) possono essere abbandonati e ciò avviene con più frequenza di quanto si pensi. Sebbene ciò avvenga più frequentemente con i beni mobili (l’autore fornisce l’esempio dei cimeli rappresentativi di tirannie o dittature ereditati da familiari e che, pur avendo un certo valore di mercato, nessuno acquisterebbe mai), non può escludersi a priori che un simile fenomeno sia configurabile anche per beni immobili.

[65] In questo senso, V. Brizzolari, Note a margine, cit., 635, che osserva che «è vero che nessuno può divenire proprietario di un bene contro il suo consenso, ma lo Stato, se di ‘‘consenso’’ può discorrersi, l’ha espresso nel momento in cui ha posto l’art. 827 cod. civ.».

[66] R. Franco, La rinunzia, cit., 18. In questo senso, cfr. P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della proprietà, Jovene, 1971, 71. Così anche P. Rescigno, Proprietà, in Enc. dir., XXXVII, Giuffrè, 1988, 268 s., secondo cui «nella normativa del codice civile, e nella stessa definizione dei poteri del proprietario, è già racchiusa, tuttavia, una capacità di adeguamento assiduo dell’istituto, secondo le esigenze che volta a volta s’imporranno all’esperienza. Ci si riferisce all’inciso finale dell’art. 832 – «entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico» – e soprattutto al richiamo dell’ordinamento nel suo complesso e nella sua mutevolezza».