La clausola compromissoria solleva delicati problemi ermeneutici, sui quali la giurisprudenza, mutando il proprio precedente orientamento e, prendendo le mosse, in particolar modo, dall’art. 808ter cod. proc. civ., ha enucleato un canone interpretativo sintetizzabile in formule quali “in dubio pro arbitrato rituale”. Nel presente commento, tale criterio, operante in presenza di patti compromissori connotati da un elevato grado di opacità, viene esaminato alla luce della disciplina generale sull’interpretazione del contratto. In un secondo momento, le indagini ivi condotte si rivolgono al diritto vivente relativo, in senso lato, alla composizione della controversia a carattere arbitrale: quali sono i presunti punti di contatto tra l’arbitrato rituale e irrituale? Quali, invece, le asimmetrie che, quantomeno, sembrerebbero concorrere a giustificare la regola ermeneutica in esame? La trattazione non potrà che approdare alla controversa disciplina del lodo.
The arbitration clause raises some questions about its interpretation: the jurisprudence has changed its previous guidance and, on the basis of art. 808ter cod. proc. civ., has given interpretation that could be called “in dubio pro rituale arbitration”. The essay wants to compare this rule with the discipline of the interpretation of the contract and, subsequently, aims at surveying the “living law” about arbitration trial: which are the common rules concerning rituale and irrituale arbitration? Which are the differences that justify the mentioned rule of interpretation about arbitration clause? We must rely on the contentious regulation of arbitration award.
Cass., ord. 7 marzo 2024, n. 6140
In tema di clausola compromissoria, al fine di valutare se la stessa contenga una pattuizione di deferimento della controversia ad un arbitrato di tipo rituale ovvero irrituale, occorre interpretare la clausola medesima con riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, senza che il mancato richiamo nella clausola alle formalità dell’arbitrato rituale deponga univocamente nel senso dell’irritualità dell’arbitrato.
1. Il caso - 2. Profili ricostruttivi dell’istituto - 3. La clausola compromissoria: canone interpretativo “in dubio pro ritualità”? - 4. Cenni su identità e asimmetrie tra ritualità e irritualità: confronto con l’opzione ermeneutica in esame (rectius con le sue giustificazioni) - 5. Lodo rituale - 5.1. Segue. Lodo irrituale: “determinazione contrattuale” - 6. Conclusioni - NOTE
La controversia origina da un’asserita successione di quote societarie, per il cui ottenimento le attrici adiscono – conformemente a quanto previsto dallo statuto della società in questione – la ivi designata Camera Arbitrale, domandando che venga dichiarata l’invalidità di alcune delibere assembleari, l’invalidità di alcune correlate iscrizioni nel Registro Imprese, la responsabilità dell’amministratore unico e liquidatore e proponendo anche domanda di risarcimento dei danni subiti. Il Collegio arbitrale nominato, il quale ritiene rituale l’arbitrato promosso, accoglie alcune delle domande ad esso rivolte, condannando l’amministratore resistente al risarcimento del danno, oltre rivalutazione, interessi e spese. Quest’ultimo, dopo aver visto rigettata la propria impugnazione da parte della Corte d’appello di Roma, propone ricorso per Cassazione, imperniandolo su due motivi, il primo dei quali è accolto dai giudici di legittimità (mentre resta assorbito il secondo), i quali ribaltano la decisione emanata in sede di gravame e cassano la sentenza impugnata con rinvio. Il motivo ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione verte sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ. e dell’art. 829 n. 4 cod. proc. civ.: sollevato dal ricorrente il problema della natura rituale o irrituale del procedimento arbitrale de quo, la Suprema Corte statuisce che, ai fini di questa valutazione, “oltre che dell’intero contesto della scrittura compromissoria, deve tenersi conto, quale criterio sussidiario di valutazione, della condotta complessiva tenuta delle parti, ad essa attribuendo il rilievo consentito dall’art. 1362 cod. civ. che, come è noto, consente di utilizzare il comportamento complessivo delle parti in via sussidiaria, ove i risultati dell’interpretazione letterale e logico – sistematica non siano appaganti”. All’esito dell’esame svolto alla stregua di tali criteri, i giudici di legittimità sostengono che le parti avrebbero inteso promuovere un procedimento per arbitrato irrituale, traendo argomenti a sostegno di questa soluzione dal patto compromissorio così formulato: “Il Collegio arbitrale funzionerà con poteri di amichevole compositore”, in concorso, tra gli altri elementi, con il “comportamento” tenuto successivamente dalle parti e [continua ..]
Per preparare il terreno ad un’analisi specifica del problema, pare opportuno, da un lato, premettere alcune osservazioni di carattere dogmatico-ricostruttivo, aventi ad oggetto il problema della natura giuridica delle convenzioni di arbitrato e dell’arbitrato medesimo e, dall’altro, prendere in esame alcune rilevanti (ai nostri fini) identità e asimmetrie relative alla disciplina dei procedimenti per arbitrato rituale e irrituale. Tali aspetti verranno confrontati con le citate opzioni ermeneutiche – forse considerabili oggi diritto vivente [4] – e con le giustificazioni da alcuni addotte a loro fondamento. Procedendo con ordine, si può osservare che le teorie sulla natura giuridica dell’arbitrato, segnatamente nella sua forma rituale, sembrano essere oggetto di una contrapposizione tra una tesi, semplificando, di matrice giurisdizionale/pubblicistica e una tesi privatistica/negoziale – accolta anche dalla pronuncia in commento –, tertium non datur [5]. Tale conflitto si registra anche in giurisprudenza, nella quale, soprattutto in ragione del mutare del panorama normativo, si è assistito grossomodo a un alternarsi diacronico di queste asserite incompatibili letture dell’istituto [6]. Secondo la dottrina più datata, gli argomenti addotti a sostegno del filone giurisdizionalista si rinverrebbero, ad esempio, nella collocazione topografica delle norme in materia arbitrale e nell’affinità di svolgimento tra arbitrato e processo civile [7]; fra queste affinità – così si legge anche in studi più recenti – un ruolo cardine è rivestito dalla figura del lodo, accostato alla sentenza emessa dal giudice togato: non è un caso che la disciplina dell’art. 824bis cod. proc. civ., sulla quale ci si soffermerà nei prossimi paragrafi, presti il fianco a una visione giurisdizionalista del fenomeno arbitrale [8]. Si tratta di una posizione, quest’ultima, divenuta oggetto di critica da parte della tesi negoziale, i cui esponenti, a sostegno delle proprie ragioni, fanno perno, in primo luogo, sul fondamento consensuale dell’istituto e sul limite delle controversie arbitrabili, corrispondente al limite di carattere generale che caratterizza ogni settore dell’autonomia privata. Le argomentazioni a favore dell’impostazione privatistica paiono efficacemente sintetizzate nella [continua ..]
L’arbitrato trova impulso e fonte della propria disciplina (anche) negli accordi con i quali i privati si vincolano a comporre le controversie (insorte o eventuali e future) per la via arbitrale, escludendo il ricorso al giudice dello Stato: si tratta del compromesso (art. 806 cod. proc. civ.) e del patto compromissorio, il quale, a sua volta, si articola nei sottotipi della clausola compromissoria (art. 808 cod. proc. civ.) e della convenzione di arbitrato in materia non contrattuale (art. 808bis cod. proc. civ.). Degli accordi compromissori, a differenza dei contrasti che indubbiamente si rinvengono in ordine alla natura dell’arbitrato, quasi nessuno sembra negare il carattere negoziale [24]. Gli effetti ricollegati a tali negozi, peraltro, non sono circoscritti alla menzionata “rinuncia” all’azione giudiziaria [25]: le convenzioni arbitrali concorrono, assieme alle eventuali prescrizioni successivamente dettate dagli autori delle stesse/(e tendenzialmente anche) parti del correlato procedimento [26] arbitrale a conformare in modo vincolante la natura rituale o irrituale dell’arbitrato e le regole che dovranno essere rispettate nello svolgimento dello stesso [27]. In un’ottica prettamente processuale, in cui l’arbitro viene in rilievo, quindi, meramente come giudice privato, il problema sembrerebbe poter acquisire rilevanza essenzialmente con riguardo al principio dispositivo – proiezione nel processo dell’autonomia privata – e al relativo corollario, rappresentato dal principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, così come tutelato con i mezzi di impugnazione dell’arbitrato. In una tra le più elaborate ricostruzioni facenti capo al filone negoziale, si pone il problema dell’efficacia impegnativa di un atto di autonomia privata rispetto a un soggetto terzo allo stesso (l’arbitro/il collegio arbitrale) che viene considerato come parte di un differente contratto, concluso in un momento logicamente e cronologicamente successivo rispetto alla clausola compromissoria. Un problema qua è sollevato dal principio di relatività del contratto, per cui non sarebbe consentito agli autori della clausola medesima di imporre doveri a soggetti estranei a questa vicenda negoziale (argomentando, ad esempio, ex 1381, 1478 cod. civ. ecc.) [28] e questo, nell’ipotesi in esame, anche se decliniamo il medesimo [continua ..]
Sulla base dell’assunto per cui il modello rituale sarebbe fautore di maggiori garanzie – le quali dovrebbero risiedere nella disciplina contenuta nel titolo VIII del IV libro del codice di rito – parrebbe opportuno vagliare se e quali norme ivi presenti siano applicabili anche all’arbitrato irrituale o, seguendo un diverso iter, verificare quale sia la portata della parte conclusiva del disposto di cui all’art. 808ter cod. proc. civ. (“altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo”). L’ordinanza in commento sembrerebbe riconoscere la sussistenza di una non trascurabile differenza di disciplina [53] tra le due, per così dire, figure arbitrali, prestando il fianco a un’idea (almeno) tendenziale di non applicazione di forme e norme previste in materia di arbitrato rituale a quello irrituale, al quale viene ascritta in certi casi la totale assenza di una procedimentalizzazione [54]. A nostro avviso, un’asserzione di tale tenore – che legittimerebbe l’eventuale mancanza, nell’arbitrato irrituale, di un’embrionale regolamentazione (pattizia e/o legislativa) proiettata verso l’emanazione del lodo e che disciplini la dialettica arbitri-parti e/o quella parti-parti va quantomeno coordinata con la previsione dell’art. 808ter (il “lodo contrattuale” è annullabile “se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio”) [55]. Peraltro, la vigenza di un gruppo di norme comuni più ampio è propugnato da quella parte della dottrina che, affermando di ricusare un’interpretazione atomistica dell’art. 808ter [56], evidenzia che esso andrebbe interpretato nel prisma della citata legge delega del 2005, nella quale è sancito che “le norme in materia di arbitrato trovano sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato [57], salva la diversa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale” [58]. Il che denoterebbe così un’applicazione di massima, tanto all’arbitrato rituale quanto a quello irrituale, delle norme presenti negli artt. 806 ss. cod. proc. civ., salvo che intervenga un accordo di segno contrario. Con più precisione, alcuni autori mostrano di distinguere tra diverse categorie di norme: alcune sicuramente inapplicabili all’arbitrato [continua ..]
Partendo dalla lettura dell’art. 824bis, esso non pone nel nulla, anche dal punto di vista linguistico [67], la distanza intercorrente tra il lodo e la sentenza, disponendo che il primo abbia “gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, aspetto che ha, peraltro, concorso – richiamando le osservazioni del secondo paragrafo – nelle elaborazioni dei giuristi, a mettere nel dubbio la ricostruzione negoziale (o quantomeno anche negoziale) [68] operata anche dalla Suprema Corte [69]. Sulla norma, ad ogni modo, un primo problema, anche ai fini di una prospettiva di assimilazione tra le figure arbitrali, si rinviene già a livello interpretativo: vi è l’esigenza, di rilevanza sistematica, consistente nell’attribuire spessore alla formulazione dell’art. 824bis, il quale, alla luce di una lettura circolare con l’art. 813 cod. proc. civ., risolve il problema dell’ammissibilità di un atto che, benché pronunciato da uno o più soggetti privati (a cui “non compete la qualifica di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio”) e i cui effetti – secondo una certa impostazione – trovino fonte nel consenso delle parti [70], abbia l’efficacia di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria [71]. Quanto detto dovrebbe evidenziare che le differenze tra le due modalità di arbitrato non sembrano circoscrivibili, come sembra trasparire da alcune pronunce, al fatto che solo al lodo rituale possano conseguire “gli effetti di cui all’art. 825 cod. proc. civ.” [72]. Il dato normativo, peraltro, smentisce quest’assunto, perlomeno nei settori in cui non si registra alcuna incompatibilità tra lodo ex 808ter cod. proc. civ. e suscettibilità del lodo di essere reso esecutivo da parte del giudice (artt. 412 e 412quater cod. proc. civ.). Possiamo aggiungere che, in virtù, anche, degli interventi della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione [73], il lodo rituale, di per sé, sembrerebbe, inoltre, esser ritenuto idoneo a conseguire l’autorità di accertamento del giudicato statale (anche sostanziale).
Per quanto concerne, invece, il c.d. lodo contrattuale? Alle indicazioni del codice di rito – le quali precisano che gli arbitri definiscono la controversia “mediante determinazione contrattuale” e indicano i motivi per cui il lodo è annullabile – si accompagnano, tanto da parte della giurisprudenza quanto della dottrina, tentativi di regolamento dei confini di tale lodo da figure attigue, come il lodo rituale e la determinazione dell’arbitratore [74]. A differenza di quest’ultima, la quale viene considerata da autorevole letteratura come «autonomo atto giuridico che si caratterizza come […] avente ad oggetto la determinazione di un altrui contratto [75]», il lodo irrituale, quantomeno stando all’opinione dominante in giurisprudenza, costituirebbe una figura contrattuale. Nel dettaglio, sempre la giurisprudenza, oltre a fornire indicazioni volte a risolvere i problemi della disciplina che governa il rapporto giuridico intercorrente tra parti della controversia e arbitri irrituali – tendenzialmente qualificando i secondi quali mandatari dei primi [76] – pare avere cura anche di individuare i caratteri del lodo: si afferma che gli arbitri abbiano il compito di “ricercare una composizione amichevole, conciliante o transattiva” [77], o che essi definiscano la lite “mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse”. Ma si segnalano pure sentenze recenti in cui, al contrario, si sostiene che debba escludersi l’assimilabilità dell’arbitrato irrituale “al contratto di transazione atteso che la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti” [78]. Nelle posizioni rintracciabili in dottrina vi è chi ritiene che il lodo irrituale abbia la natura di un negozio transattivo posto in essere dagli arbitri ma vincolante per le parti, atteso il conferimento ad essi di un potere rappresentativo di transigere la lite [79]; c’è chi sostiene, invece, che il lodo irrituale non costituisca necessariamente un contratto di transazione [80], ma contempla questa possibilità; si considerino, infine, anche opinioni che si oppongono a una sovrapposizione del lodo irrituale con i contratti di accertamento o di transazione in senso tecnico [81]. Aderiamo [continua ..]
Le difficoltà ricostruttive non son poche e alcune ambiguità di fondo sembrano, ad oggi, non aver ancora abbandonato la vicenda dell’arbitrato irrituale, anche a seguito della novella del 2006 [103]. Ciò non può che rappresentare un ostacolo all’individuazione dell’effettive asimmetrie potenzialmente idonee a giustificare (anche) la regola ermeneutica esaminata, nonché, a monte, a cogliere l’esatta fisionomia attribuita all’istituto. Il generico riferimento al contratto di mandato, indentificato come un mandato collettivo [104] – secondo alcuni conferito anche nell’interesse dei mandatari [105] – solleva diversi interrogativi, soprattutto in relazione al fatto che – come asseriscono certi autori – nell’ipotesi dell’arbitrato mancherebbero i c.d. fatti di cooperazione esterna [106]. Ma, in senso lato, ciò che sembra potersi notare dal diritto vivente in materia di arbitrato irrituale è la poca permeabilità dell’istituto alla disciplina dei negozi a cui il lodo viene ricondotto: essa neppure sembrerebbe poter entrare a far parte del corpo normativo che regola il contratto relativamente atipico (sempre il lodo irrituale) in via analogica. Ma la questione è dubbia. Anche la regolamentazione delle patologie del lodo irrituale, non sempre intesa in modo univoco, sarebbe – si sostiene anche in giurisprudenza – rappresentata da un elenco tassativo di motivi di impugnazione, sottratti, quindi, all’individuazione ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza medesima [107], peraltro – si aggiunge – modellata sull’impugnazione del lodo rituale. In una logica di ampliamento delle potenzialità e utilità dell’istituto, un ruolo notevole potrebbe essere svolto dalla dimostrazione del suo legittimo atteggiarsi quale procedimento volto a consentire un’effettiva definizione transattiva della lite – il che resta contestato, tuttavia, a vario titolo, tanto da certa giurisprudenza quanto da alcuni esponenti della dottrina – in quanto, a differenza dell’arbitrato rituale, senz’altro qui mancherebbe un interesse diretto all’accertamento della verità delle posizioni dei litiganti; tale contratto, infatti, si muove su una logica che tendenzialmente prescinde «dall’accertamento della ragione e del [continua ..]