Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Interpretazione della clausola compromissoria nell'attuale fisionomia della composizione della controversia a carattere arbitrale (di Giacomo Angelo Puggioni, Dottorando – Università degli Studi di Cagliari)


La clausola compromissoria solleva delicati problemi ermeneutici, sui quali la giurisprudenza, mutando il proprio precedente orientamento e, prendendo le mosse, in particolar modo, dall’art. 808ter cod. proc. civ., ha enucleato un canone interpretativo sintetizzabile in formule quali “in dubio pro arbitrato rituale”. Nel presente commento, tale criterio, operante in presenza di patti compromissori connotati da un elevato grado di opacità, viene esaminato alla luce della disciplina generale sull’interpretazione del contratto. In un secondo momento, le indagini ivi condotte si rivolgono al diritto vivente relativo, in senso lato, alla composizione della controversia a carattere arbitrale: quali sono i presunti punti di contatto tra l’arbitrato rituale e irrituale? Quali, invece, le asimmetrie che, quantomeno, sembrerebbero concorrere a giustificare la regola ermeneutica in esame? La trattazione non potrà che approdare alla controversa disciplina del lodo.

The interpretation of arbitration clause in the current legal framework of arbitral procedure

The arbitration clause raises some questions about its interpretation: the jurisprudence has changed its previous guidance and, on the basis of art. 808ter cod. proc. civ., has given interpretation that could be called “in dubio pro rituale arbitration”. The essay wants to compare this rule with the discipline of the interpretation of the contract and, subsequently, aims at surveying the “living law” about arbitration trial: which are the common rules concerning rituale and irrituale arbitration? Which are the differences that justify the mentioned rule of interpretation about arbitration clause? We must rely on the contentious regulation of arbitration award.

Cass., ord. 7 marzo 2024, n. 6140

In tema di clausola compromissoria, al fine di valutare se la stessa contenga una pattuizione di deferimento della controversia ad un arbitrato di tipo rituale ovvero irrituale, occorre interpretare la clausola medesima con riferimento al dato letterale, alla comune intenzione delle parti ed al comportamento complessivo delle stesse, senza che il mancato richiamo nella clausola alle formalità dell’arbitrato rituale deponga univocamente nel senso dell’irritualità dell’arbitrato.

SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Profili ricostruttivi dell’istituto - 3. La clausola compromissoria: canone interpretativo “in dubio pro ritualità”? - 4. Cenni su identità e asimmetrie tra ritualità e irritualità: confronto con l’opzione ermeneutica in esame (rectius con le sue giustificazioni) - 5. Lodo rituale - 5.1. Segue. Lodo irrituale: “determinazione contrattuale” - 6. Conclusioni - NOTE


1. Il caso

La controversia origina da un’asserita successione di quote societarie, per il cui ottenimento le attrici adiscono – conformemente a quanto previsto dallo statuto della società in questione – la ivi designata Camera Arbitrale, domandando che venga dichiarata l’invalidità di alcune delibere assembleari, l’invalidità di alcune correlate iscrizioni nel Registro Imprese, la responsabilità dell’amministratore unico e liquidatore e proponendo anche domanda di risarcimento dei danni subiti. Il Collegio arbitrale nominato, il quale ritiene rituale l’arbitrato promosso, accoglie alcune delle domande ad esso rivolte, condannando l’amministratore resistente al risarcimento del danno, oltre rivalutazione, interessi e spese.

Quest’ultimo, dopo aver visto rigettata la propria impugnazione da parte della Corte d’appello di Roma, propone ricorso per Cassazione, imperniandolo su due motivi, il primo dei quali è accolto dai giudici di legittimità (mentre resta assorbito il secondo), i quali ribaltano la decisione emanata in sede di gravame e cassano la sentenza impugnata con rinvio.

Il motivo ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione verte sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ. e dell’art. 829 n. 4 cod. proc. civ.: sollevato dal ricorrente il problema della natura rituale o irrituale del procedimento arbitrale de quo, la Suprema Corte statuisce che, ai fini di questa valutazione, “oltre che dell’intero contesto della scrittura compromissoria, deve tenersi conto, quale criterio sussidiario di valutazione, della condotta complessiva tenuta delle parti, ad essa attribuendo il rilievo consentito dall’art. 1362 cod. civ. che, come è noto, consente di utilizzare il comportamento complessivo delle parti in via sussidiaria, ove i risultati dell’interpretazione letterale e logico – sistematica non siano appaganti”. All’esito dell’esame svolto alla stregua di tali criteri, i giudici di legittimità sostengono che le parti avrebbero inteso promuovere un procedimento per arbitrato irrituale, traendo argomenti a sostegno di questa soluzione dal patto compromissorio così formulato: “Il Collegio arbitrale funzionerà con poteri di amichevole compositore”, in concorso, tra gli altri elementi, con il “comportamento” tenuto successivamente dalle parti e con la natura familiare della società della cui clausola statutaria si discute. Tale soluzione interpretativa diverge da quella accolta dal collegio arbitrale, il cui lodo rituale, in contrasto con la comune intenzione delle parti, viene dichiarato nullo, in quanto eccedente i “limiti della convenzione d’arbitrato” (art. 829 n. 4 cod. proc. civ.) [1].

Così interpretata, la fattispecie esaminata non ricadrebbe in quelle “in cui residuino dubbi sull’effettiva volontà dei contraenti contenuta nel patto compromissorio” [2], ipotesi sulle quali la Corte di Cassazione sembra mantenersi fedele all’orientamento sintetizzabile in formule quali “in dubio pro ritualità dell’arbitrato”: al verificarsi di una totale opacità in ordine alle determinazioni delle parti riversate sul procedimento arbitrale promosso, sarebbe stata corretta la scelta degli arbitri di procedere nei modi e nelle forme dell’arbitrato rituale [3]. Anche su quest’ultimo aspetto, non marginale ai fini della soluzione ivi accolta dai giudici di legittimità, verranno spese alcune riflessioni nel presente commento.


2. Profili ricostruttivi dell’istituto

Per preparare il terreno ad un’analisi specifica del problema, pare opportuno, da un lato, premettere alcune osservazioni di carattere dogmatico-ricostruttivo, aventi ad oggetto il problema della natura giuridica delle convenzioni di arbitrato e dell’arbitrato medesimo e, dall’altro, prendere in esame alcune rilevanti (ai nostri fini) identità e asimmetrie relative alla disciplina dei procedimenti per arbitrato rituale e irrituale. Tali aspetti verranno confrontati con le citate opzioni ermeneutiche – forse considerabili oggi diritto vivente [4] – e con le giustificazioni da alcuni addotte a loro fondamento.

Procedendo con ordine, si può osservare che le teorie sulla natura giuridica dell’arbitrato, segnatamente nella sua forma rituale, sembrano essere oggetto di una contrapposizione tra una tesi, semplificando, di matrice giurisdizionale/pubblicistica e una tesi privatistica/negoziale – accolta anche dalla pronuncia in commento –, tertium non datur [5]. Tale conflitto si registra anche in giurisprudenza, nella quale, soprattutto in ragione del mutare del panorama normativo, si è assistito grossomodo a un alternarsi diacronico di queste asserite incompatibili letture dell’istituto [6]. Secondo la dottrina più datata, gli argomenti addotti a sostegno del filone giurisdizionalista si rinverrebbero, ad esempio, nella collocazione topografica delle norme in materia arbitrale e nell’affinità di svolgimento tra arbitrato e processo civile [7]; fra queste affinità – così si legge anche in studi più recenti – un ruolo cardine è rivestito dalla figura del lodo, accostato alla sentenza emessa dal giudice togato: non è un caso che la disciplina dell’art. 824bis cod. proc. civ., sulla quale ci si soffermerà nei prossimi paragrafi, presti il fianco a una visione giurisdizionalista del fenomeno arbitrale [8]. Si tratta di una posizione, quest’ultima, divenuta oggetto di critica da parte della tesi negoziale, i cui esponenti, a sostegno delle proprie ragioni, fanno perno, in primo luogo, sul fondamento consensuale dell’istituto e sul limite delle controversie arbitrabili, corrispondente al limite di carattere generale che caratterizza ogni settore dell’autonomia privata. Le argomentazioni a favore dell’impostazione privatistica paiono efficacemente sintetizzate nella menzionata pronuncia delle Sezioni Unite [9], in cui si sottolinea che l’eventuale equiparazione del lodo (quoad effectum) alla sentenza pronunciata dai giudici dello Stato non è dirimente per la soluzione del problema sulla natura dell’arbitrato [10].

Quanto ora evidenziato non esaurisce i termini del dibattito, all’interno del quale ricorrono anche filoni di pensiero che propongono di privare l’endiadi pubblicistica-giurisdizionale del primo termine [11], nonché di smussare gli angoli della serrata dialettica descritta, in quanto sia la tesi negoziale sia quella giurisdizionale esprimono una visione parziale di un fenomeno, espressione, allo stesso tempo, di autonomia privata e giurisdizione [12]. Tale prospettiva eclettica appare suffragata dalla richiamata lettura della Costituzione [13] e non può esser considerata come indice di un aspetto peculiare dell’arbitrato, essendo ammessi, nel nostro ordinamento, diversi istituti che rappresentano (anche) un connubio di negozio e giurisdizione: si pensi alla separazione consensuale disciplinata dall’art. 158 cod. civ., che, secondo l’opinione prevalente, è un negozio familiare, ma è il provvedimento di omologa del tribunale – agendo dall’esterno – a condizionarne la produzione degli effetti giuridici [14]; oppure, in senso lato, si pensi alla volontaria giurisdizione, sub specie per le ipotesi ad essa riconducibili, in cui il provvedimento del giudice costituisce un elemento integrativo di efficacia degli atti negoziali; ancora, si pensi ad altri strumenti di composizione della controversia, quali la negoziazione assistita e la mediazione. Nell’elenco ora proposto, infine, potrebbe essere inclusa anche la controversa categoria dei negozi processuali [15], al cui interno vi è chi riconduce, ad esempio, il pactum de non petendo e de non exequendo [16], le clausole limitative della proponibilità di eccezioni, i patti di inversione o modifica dell’onere della prova e la clausola solve et repete [17].

Le alternative contemplabili, ad ogni modo, incidono anche sulla variante irrituale o libera dell’arbitrato, mediante la quale le parti affidano – all’interno di un’operazione a cui sembra dai più ascritto carattere negoziale [18] – a terzi privati da essi nominati, o comunque scelti con le modalità da loro elette, il compito di dirimere una controversia tra loro incorsa avente a oggetto diritti disponibili mediante una determinazione “contrattuale” (art. 808ter cod. proc. civ.) eteronoma, che le parti della lite riconoscono come propria [19]. La menzionata influenza della querelle presa in considerazione si ripercuote, infatti, sull’applicabilità delle norme del procedimento rituale su quello “libero” [20], la quale è stata – e in parte lo è anche oggi – perlopiù negata, tanto da far dubitare che le due forme in questione corrispondano a una categoria unitaria [21]. L’opzione giurisdizionale [22], soprattutto nelle impostazioni più datate rimarca la sussistenza di uno iato tra i procedimenti arbitrali, mentre quella pan-negoziale (anche nella variante eclettica) sembra maggiormente incline al loro accostamento all’interno di un unico genus [23].


3. La clausola compromissoria: canone interpretativo “in dubio pro ritualità”?

L’arbitrato trova impulso e fonte della propria disciplina (anche) negli accordi con i quali i privati si vincolano a comporre le controversie (insorte o eventuali e future) per la via arbitrale, escludendo il ricorso al giudice dello Stato: si tratta del compromesso (art. 806 cod. proc. civ.) e del patto compromissorio, il quale, a sua volta, si articola nei sottotipi della clausola compromissoria (art. 808 cod. proc. civ.) e della convenzione di arbitrato in materia non contrattuale (art. 808bis cod. proc. civ.). Degli accordi compromissori, a differenza dei contrasti che indubbiamente si rinvengono in ordine alla natura dell’arbitrato, quasi nessuno sembra negare il carattere negoziale [24]. Gli effetti ricollegati a tali negozi, peraltro, non sono circoscritti alla menzionata “rinuncia” all’azione giudiziaria [25]: le convenzioni arbitrali concorrono, assieme alle eventuali prescrizioni successivamente dettate dagli autori delle stesse/(e tendenzialmente anche) parti del correlato procedimento [26] arbitrale a conformare in modo vincolante la natura rituale o irrituale dell’arbitrato e le regole che dovranno essere rispettate nello svolgimento dello stesso [27]. In un’ottica prettamente processuale, in cui l’arbitro viene in rilievo, quindi, meramente come giudice privato, il problema sembrerebbe poter acquisire rilevanza essenzialmente con riguardo al principio dispositivo – proiezione nel processo dell’autonomia privata – e al relativo corollario, rappresentato dal principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, così come tutelato con i mezzi di impugnazione dell’arbitrato.

In una tra le più elaborate ricostruzioni facenti capo al filone negoziale, si pone il problema dell’efficacia impegnativa di un atto di autonomia privata rispetto a un soggetto terzo allo stesso (l’arbitro/il collegio arbitrale) che viene considerato come parte di un differente contratto, concluso in un momento logicamente e cronologicamente successivo rispetto alla clausola compromissoria. Un problema qua è sollevato dal principio di relatività del contratto, per cui non sarebbe consentito agli autori della clausola medesima di imporre doveri a soggetti estranei a questa vicenda negoziale (argomentando, ad esempio, ex 1381, 1478 cod. civ. ecc.) [28] e questo, nell’ipotesi in esame, anche se decliniamo il medesimo principio come di salvaguardia delle sfere giuridiche individuali, attesa anche la natura senz’altro onerosa dell’eventuale contratto contemplabile [29]. Il problema pare essere da alcuni risolto sulla base del fatto che il legislatore avrebbe qui costituito una fattispecie del c.d. contratto di arbitrato autonoma dalla clausola compromissoria, ma, comunque, quale atto negoziale recante, tra i propri elementi di fatto, gli effetti prodotti dall’accordo compromissorio [30], i quali confluirebbero ex lege nell’insieme delle pattuizioni oggetto del secondo contratto. Si avrebbero due parti soggettivamente complesse, due autonomi centri di interesse [31]; da una parte i litiganti e dall’altra gli arbitri, senza che a ciò sia d’ostacolo il fatto che il legislatore, nella disciplina arbitrale, mostri di prendere in considerazione i comportamenti dei membri delle singole parti: i medesimi litiganti, per esempio, hanno facoltà di agire individualmente e anche in dissenso tra loro.

A prescindere dai rapporti con tale (da alcuni) ritenuto sussistente contratto di arbitrato, preso atto del pacifico inquadramento negoziale del solo accordo compromissorio, nell’ordinanza in esame e nella costante giurisprudenza di legittimità si conviene sul ruolo centrale rivestito, per la risoluzione dei problemi ad esso connessi, dalle norme in materia di interpretazione del contratto [32]. Suddette norme, in ragione dell’orienta­mento accolto dalla medesima giurisprudenza, devono essere, tuttavia, confrontate con una disposizione presente nel codice di rito: l’art. 808ter sarebbe espressione – si sostiene – di un sistema ove qualità di regola è ascritta all’arbitrato rituale, ciò con implicazioni di non poco conto sull’ermeneutica delle convenzioni [33]. L’iter individuato dalla Suprema Corte nell’ordinanza in esame, fedele a un indirizzo abbastanza consolidato [34], prevede che, in primo luogo, gli arbitri colgano il significato dell’accordo compromissorio sulla base delle regole previste dal codice civile per l’interpretazione del contratto [35]. Nell’eventualità in cui, avvalendosi delle stesse, non si riesca comunque a rintracciare fruttuosamente una comune intenzione delle parti – obiettivamente valutabile, resa riconoscibile e riferibile a sfere giuridiche diverse [36] –, si applica la regola di chiusura tratta dall’art. 808ter cod. proc. civ.: in assenza di “disposizione espressa per iscritto” – formula la cui rigidità viene, in certi casi, temperata [37] – volta a definire la controversia mediante determinazione contrattuale, si dovrà considerare il procedimento adito come arbitrato rituale [38]. Questa norma e il conseguente indirizzo ermeneutico descritto accolto dai giudici di legittimità troverebbero, peraltro, asserite ragionevoli giustificazioni di politica legislativa, poiché – come precisato anche nella richiamata sentenza del 2015 – l’arbitrato rituale, si afferma, sarebbe da prediligere poiché idoneo ad assicurare più elevate garanzie per le parti [39].

Ciò che forse, tuttavia, potrebbe essere sviluppato è il tentativo di dar corpo a tale lettura assiologica della norma, anche mediante un inquadramento sistematico di tale criterio ermeneutico all’interno nelle norme generali in tema di interpretazione del contratto, eventualmente considerando la regola di cui all’art. 808ter cod. proc. civ. come una specificazione settoriale delle stesse norme o come un’eccezione ai vincoli da esse imposti. In che modo il principio di matrice giurisprudenziale potrebbe accedere alla «metodologia dell’interpretazione» [40]? Da essa potremmo trarre qualche suggerimento sull’utilizzabilità dello stesso? [41] Per come congegnato, più nel dettaglio, potremmo forse ricondurlo all’interno delle sussidiarie e complementari (alle soggettive) regole c.d. oggettive (in particolari gli artt. 1367 ss. cod. civ.). Esse, per la loro applicabilità, presuppongono sempre una non univoca, oscura comune intenzione delle parti [42], a fronte della quale il legislatore si preoccupa del problema della scelta tra le possibili opzioni. Si vedano, ad esempio, gli artt. 1367 e 1369 [43] cod. civ. Si potrebbe immaginare l’art. 808ter quale espressione degli stessi? La risposta sembra essere, seppur con qualche riserva, negativa: l’alternativa contemplata dal criterio di conservazione (art. 1367 cod. civ.) pare veder prevalere il significato possibile e lecito su quello impossibile e illecito, tra un qualche effetto e un «effetto zero» e non tra effetti maggiori e effetti minori, con i possibili significati attribuibili alle espressioni contenute nell’ultima endiadi indicata [44].

Sosteniamo che, in linea di principio, l’appiattimento interpretativo, con l’adozione di regole simili a quella in esame, vada osservato con prudenza e richieda pregnanti legittimazioni, anche in virtù del fatto che la qualificazione del contratto – intesa come sussunzione in una determinata categoria giuridica o in un determinato tipo contrattuale, logicamente successiva all’interpretazione e che la presuppone [45] – dovrebbe procedere, secondo una certa impostazione, oggi prevalente, in base alla causa concreta del contratto [46]: l’ordinamento, così, dovrebbe fissare la portata e il significato del singolo negozio di volta in volta considerato, sarebbe tenuto a valutare l’interesse che il concreto contratto è diretto a realizzare, valorizzandone i dettagli [47]. Sulla base della propria formulazione, anche l’art. 1369 c.c. parrebbe prestarsi a sostegno dell’art. 808ter nel sistema arbitrale, ma il significato attribuito allo stesso, anche dalla giurisprudenza, esplicita invece come la norma sia espressione di un’interpretazione funzionale, volta a ricercare il significato della ragione pratica dell’affare [48].

Quindi, seppure accada che la disciplina direttamente contenuta nell’accordo compromissorio possa risultare scarna, potremmo asserire che alle parti sia possibile disporre dei propri interessi non solo vincolandosi a rinunciare ad esercitare l’azione davanti all’autorità giudiziaria [49], non solo scegliendo se definire la lite mediante un arbitrato rituale e irrituale, ma anche conformando con efficacia vincolante le regole del procedimento di volta in volta considerato, persino eleggendo il tipo contrattuale nel quale si sostanzierebbe il lodo irrituale. Il diritto vivente, che assumiamo come categoria ermeneutica, tuttavia, sembra privare di effettività tale ultimo assunto e a ciò si farà cenno nelle conclusioni del presente contributo.

Infine, sul punto, anche esulando dagli articoli 1362 ss. cod. civ., potrebbe agevolare la lettura dell’art. 808ter cod. proc. civ. norma un esercizio di accostamento a ipotesi normative, in via ipotetica, grossomodo contigue con la stessa: si pensi a quelle norme c.d. «presuntive», in virtù delle quali la legge stabilisce in via generale e astratta un determinato significato a certe espressioni, ad es. l’art. 588 cod. civ. [50] (“Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore”). Ancora, pare opportuno richiamare specifici settori, nei quali non sono mancati simili operazioni di collocazione sistematica [51] della norma settoriale nel quadro delle generali norme interpretative: mi riferisco a una regola cardine in materia consumeristica, oggi contenuta nell’art. 35 comma 2 cod. cons. “In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore”.

Ma l’interrogativo di fondo, filo rosso della seguente trattazione, insiste su un altro piano e potrebbe essere espresso in questo modo: quali sono, anche in ragione di quanto si è detto sul canone interpretativo descritto [52] e sulle ragioni di politica legislativa che sembrano concorrere a giustificarlo, le principali asimmetrie tra l’arbitrato rituale e irrituale?


4. Cenni su identità e asimmetrie tra ritualità e irritualità: confronto con l’opzione ermeneutica in esame (rectius con le sue giustificazioni)

Sulla base dell’assunto per cui il modello rituale sarebbe fautore di maggiori garanzie – le quali dovrebbero risiedere nella disciplina contenuta nel titolo VIII del IV libro del codice di rito – parrebbe opportuno vagliare se e quali norme ivi presenti siano applicabili anche all’arbitrato irrituale o, seguendo un diverso iter, verificare quale sia la portata della parte conclusiva del disposto di cui all’art. 808ter cod. proc. civ. (“altrimenti si applicano le disposizioni del presente titolo”). L’ordinanza in commento sembrerebbe riconoscere la sussistenza di una non trascurabile differenza di disciplina [53] tra le due, per così dire, figure arbitrali, prestando il fianco a un’idea (almeno) tendenziale di non applicazione di forme e norme previste in materia di arbitrato rituale a quello irrituale, al quale viene ascritta in certi casi la totale assenza di una procedimentalizzazione [54]. A nostro avviso, un’asserzione di tale tenore – che legittimerebbe l’eventuale mancanza, nell’arbitrato irrituale, di un’embrionale regolamentazione (pattizia e/o legislativa) proiettata verso l’emanazione del lodo e che disciplini la dialettica arbitri-parti e/o quella parti-parti va quantomeno coordinata con la previsione dell’art. 808ter (il “lodo contrattuale” è annullabile “se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio”) [55].

Peraltro, la vigenza di un gruppo di norme comuni più ampio è propugnato da quella parte della dottrina che, affermando di ricusare un’interpretazione atomistica dell’art. 808ter [56], evidenzia che esso andrebbe interpretato nel prisma della citata legge delega del 2005, nella quale è sancito che “le norme in materia di arbitrato trovano sempre applicazione in presenza di patto compromissorio comunque denominato [57], salva la diversa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale” [58]. Il che denoterebbe così un’applicazione di massima, tanto all’arbitrato rituale quanto a quello irrituale, delle norme presenti negli artt. 806 ss. cod. proc. civ., salvo che intervenga un accordo di segno contrario.

Con più precisione, alcuni autori mostrano di distinguere tra diverse categorie di norme: alcune sicuramente inapplicabili all’arbitrato irrituale (tra le quali quelle che fanno capo agli artt. 824bis e 825 cod. proc. civ. [59]), altre di natura generale, volte a disciplinare l’intera area della composizione eteronoma della controversia a carattere arbitrale e, pertanto, sicuramente applicabili, e altre di dubbia compatibilità [60]. L’iniziativa è senz’altro virtuosa ed esplicita la scelta di abbandonare la piatta argomentazione di integrale inapplicabilità di un corpo normativo, forse non suffragata dal dato positivo; sarebbe qua probabilmente più opportuno, per determinare la normativa applicabile, procedere all’esame della ratio delle singole norme in materia arbitrale, esame che non si arresti al tenore letterale di queste, ottenendo in questo modo risultati più rigorosi [61].

Analizzando, inoltre, il disposto dell’art. 816bis cod. proc. civ., ne desumiamo che la fisionomia dei concreti procedimenti per arbitrato (anche solo) rituale possa essere estremamente variabile [62]: la relativa regolamentazione parrebbe articolarsi in un enclave di norme in buona parte derogabili, all’interno di un quadro – il processo civile – informato da una tendenziale inderogabilità, cioè in cui i soggetti coinvolti nella controversia, salvo che per ipotesi eccezionali, non possono modificare mediante accordi le regole attinenti all’attività dell’autorità del soggetto deputato al giudizio [63]. Proprio l’eventuale natura inderogabile o meno di alcune delle norme presenti negli artt. 806 ss. cod. proc. civ., nel caso in cui si creda che esse regolino esclusivamente l’arbitrato rituale, potrebbe rappresentare argomentazione a sostegno delle menzionate maggiori garanzie/miglior efficienza di questo procedimento e, in seconda battuta, concorrerebbe a giustificare la scelta di politica legislativa fatta propria dall’ordinamento con l’art. 808ter, interpretato nei modi indicati [64].

Focalizzando, a questo punto, l’attenzione su quelle porzioni di disciplina – nel dettaglio, su quella del lodo – che in modo pacifico tracciano un confine tra arbitrato rituale e irrituale, si può verificare la portata dello stesso e eventualmente capire se, quantomeno sul piano effettuale, sia soggetto o assoggettabile a temperamenti. Vi è, infatti, chi, in un’ottica funzionale, genericamente, fa presente che un medesimo obiettivo sarebbe perseguibile con entrambi i modelli arbitrali: è «l’attività dispositiva dei privati a far sì che la pretesa e la contestazione conformino l’assetto di interessi controverso, raggiungendo il risultato voluto: che è sempre quello di conformare un rapporto, costituendolo, modificandolo o estinguendolo, tanto alla stregua degli artt. 2907, 2908 e 2909 cod. civ. quanto a quella degli artt. 1321 e 1372 cod. civ.» [65]. Se, tuttavia, andando oltre osservazioni di tale tenore, si esamina il piano degli effetti giuridici, il discorso si complica e si arricchisce, investendo – preso atto anche del disposto dell’art. 824bis cod. proc. civ.– il più ampio tema degli effetti della sentenza (e, in particolare, del giudicato) e di quelli del contratto, sub specie di quei contratti asseritamente deputati alla definizione del procedimento per arbitrato irrituale [66].


5. Lodo rituale

Partendo dalla lettura dell’art. 824bis, esso non pone nel nulla, anche dal punto di vista linguistico [67], la distanza intercorrente tra il lodo e la sentenza, disponendo che il primo abbia “gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”, aspetto che ha, peraltro, concorso – richiamando le osservazioni del secondo paragrafo – nelle elaborazioni dei giuristi, a mettere nel dubbio la ricostruzione negoziale (o quantomeno anche negoziale) [68] operata anche dalla Suprema Corte [69].

Sulla norma, ad ogni modo, un primo problema, anche ai fini di una prospettiva di assimilazione tra le figure arbitrali, si rinviene già a livello interpretativo: vi è l’esigenza, di rilevanza sistematica, consistente nell’attribuire spessore alla formulazione dell’art. 824bis, il quale, alla luce di una lettura circolare con l’art. 813 cod. proc. civ., risolve il problema dell’ammissibilità di un atto che, benché pronunciato da uno o più soggetti privati (a cui “non compete la qualifica di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio”) e i cui effetti – secondo una certa impostazione – trovino fonte nel consenso delle parti [70], abbia l’efficacia di una sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria [71]. Quanto detto dovrebbe evidenziare che le differenze tra le due modalità di arbitrato non sembrano circoscrivibili, come sembra trasparire da alcune pronunce, al fatto che solo al lodo rituale possano conseguire “gli effetti di cui all’art. 825 cod. proc. civ.” [72]. Il dato normativo, peraltro, smentisce quest’assunto, perlomeno nei settori in cui non si registra alcuna incompatibilità tra lodo ex 808ter cod. proc. civ. e suscettibilità del lodo di essere reso esecutivo da parte del giudice (artt. 412 e 412quater cod. proc. civ.). Possiamo aggiungere che, in virtù, anche, degli interventi della Corte Costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione [73], il lodo rituale, di per sé, sembrerebbe, inoltre, esser ritenuto idoneo a conseguire l’autorità di accertamento del giudicato statale (anche sostanziale).


5.1. Segue. Lodo irrituale: “determinazione contrattuale”

Per quanto concerne, invece, il c.d. lodo contrattuale? Alle indicazioni del codice di rito – le quali precisano che gli arbitri definiscono la controversia “mediante determinazione contrattuale” e indicano i motivi per cui il lodo è annullabile – si accompagnano, tanto da parte della giurisprudenza quanto della dottrina, tentativi di regolamento dei confini di tale lodo da figure attigue, come il lodo rituale e la determinazione dell’arbitratore [74]. A differenza di quest’ultima, la quale viene considerata da autorevole letteratura come «autonomo atto giuridico che si caratterizza come […] avente ad oggetto la determinazione di un altrui contratto [75]», il lodo irrituale, quantomeno stando all’opinione dominante in giurisprudenza, costituirebbe una figura contrattuale. Nel dettaglio, sempre la giurisprudenza, oltre a fornire indicazioni volte a risolvere i problemi della disciplina che governa il rapporto giuridico intercorrente tra parti della controversia e arbitri irrituali – tendenzialmente qualificando i secondi quali mandatari dei primi [76] – pare avere cura anche di individuare i caratteri del lodo: si afferma che gli arbitri abbiano il compito di “ricercare una composizione amichevole, conciliante o transattiva” [77], o che essi definiscano la lite “mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse”. Ma si segnalano pure sentenze recenti in cui, al contrario, si sostiene che debba escludersi l’assimilabilità dell’arbitrato irrituale “al contratto di transazione atteso che la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti” [78]. Nelle posizioni rintracciabili in dottrina vi è chi ritiene che il lodo irrituale abbia la natura di un negozio transattivo posto in essere dagli arbitri ma vincolante per le parti, atteso il conferimento ad essi di un potere rappresentativo di transigere la lite [79]; c’è chi sostiene, invece, che il lodo irrituale non costituisca necessariamente un contratto di transazione [80], ma contempla questa possibilità; si considerino, infine, anche opinioni che si oppongono a una sovrapposizione del lodo irrituale con i contratti di accertamento o di transazione in senso tecnico [81].

Aderiamo provvisoriamente, anche solo per ipotesi di lavoro, all’idea per cui, in virtù di questo fenomeno dissociativo, di divergenza tra autori del negozio (=lodo irrituale) e soggetti destinatari dei relativi effetti giuridici [82] proprio dell’arbitrato “libero”, gli arbitri, a seconda del procedimento arbitrale contemplato, definiscano la lite con un contratto di transazione o di accertamento. Vi sono dei margini per cui la contrapposizione tra questi contratti e il lodo rituale, con i tratti qua individuati, possa temperarsi? Si potrebbe ipotizzare una risposta positiva: concentriamo l’attenzione sul lodo rituale di mero accertamento con autorità di giudicato e prendiamo le mosse dagli studi condotti da autorevole dottrina, la quale evidenzia che gli effetti del giudicato e quelli prodotti dai contratti di transazione e di accertamento sarebbero entrambi sussumibili nella categoria degli effetti preclusivi, segnatamente di quelli alla cui base sta l’esigenza pratica di rimuovere i “dubbi” e le correlate contestazioni [83] sul contenuto delle situazioni giuridiche [84]. La rimozione di suddette contestazioni potrebbe avvenire, infatti, mediante l’organo istituzionalmente deputato a tal fine, e, nel dettaglio, attraverso la sentenza passata in giudicato (specie in senso sostanziale), considerata dalla letteratura in esame come potenzialmente idonea a rendere irrilevanti giuridicamente incertezze tanto sulla situazione di fatto quanto sulla quaestio iuris controversa [85] e, pertanto, “capace” di privare anche di valore pratico le pretese – la situazione accertata è valida anche se risulta difforme dalla realtà anteriore, determinando una tendenziale insensibilità di ciò che è coperto dalla preclusione rispetto all’effettiva realtà giuridica anteriore – che si vogliano sollevare in nome di questi contrasti [86]. Ma il medesimo effetto [87] preclusivo potrebbe ritenersi perseguibile anche con altri strumenti [88], forse meno complessi e macchinosi: la transazione – essa «in modo identico e con la medesima intensità del giudicato, rende inammissibile una successiva contestazione sulle questioni regolate transattivamente, e preclude la decisione di merito» [89] – e il negozio di accertamento [90].

Tuttavia le osservazioni avanzate, nei termini proposti, non sembrano reggere, sollevando dei problemi che insistono su diversi piani. Innanzitutto, se, da un lato, ad oggi [91], prevalente dottrina e giurisprudenza ritengono tale figura atipica del negozio di accertamento ammissibile [92], maggiori interrogativi si sollevano con riguardo alla sua costruzione dogmatica e ai suoi effetti [93]. Infatti, vi è chi esclude che l’efficacia preclusiva si ricolleghi al contratto di accertamento, il cui effetto “accertativo” rileverebbe solo sul piano dell’onere della prova [94].

Inoltre, c’è chi attribuisce al concetto di efficacia preclusiva una funzione meramente descrittiva [95] ma non risolutiva per l’individuazione del meccanismo tecnico-giuridico attraverso il quale la preclusione medesima si realizza [96], in quanto, a seconda dell’atto giuridico osservato – negozio o sentenza passata in giudicato [97] –l’asserita insensibilità rispetto alla situazione antecedente opererebbe in termini diversi. Infatti, se l’oggetto di un secondo ipotetico processo – nei limiti del giudicato – fosse identico a quello definito dalla sentenza passata in giudicato, chi avesse adito il giudice per far valere nuovamente la situazione pregressa, in applicazione del ne bis in idem, vedrebbe il secondo procedimento da lui instaurato concludersi con una sentenza (in rito) di inammissibilità [98] (fenomeno preclusivo in senso tecnico), salvo che per quanto previsto dalla disciplina dei mezzi straordinari di impugnazione. Invece, alla domanda giudiziale, avente ad oggetto una situazione giuridica che ha trovato composizione, per esempio, mediante un contratto di transazione, conseguirebbe una sentenza di rigetto nel merito [99]; peraltro, il giudicato fa stato fra le parti, i loro eredi e aventi causa, per effetto della preclusione di cui all’art. 2909 cod. civ., che copre il dedotto e il deducibile, mentre la transazione fa stato tra le parti e la portata del relativo effetto processualmente preclusivo dipende dal suo oggetto [100].

Ma, anche a tacere di tali ostacoli all’attenuazione delle distanze tra le figure esaminate e di quelli ulteriormente individuabili, il confronto tra i lodi non sembra possa esser portato avanti nei termini proposti, poiché pare che, a monte, una delle premesse debba essere oggetto di rimeditazione: non solo l’identifi­cazione del lodo irrituale con i negozi di accertamento e di transazione pare destinata a cadere – il generico richiamo a tali contratti parrebbe inconferente, non eloquente in ordine all’effettiva disciplina applicabile, e, in senso lato, all’arbitrato irrituale, con i conseguenti interrogativi in ordine alla regolamentazione concretamente applicabile, “luogo” in cui le ipotesi ricostruttive dovrebbero approdare – ma persino la natura contrattuale del lodo – ricavabile apparentemente dalla lettera dell’art. 808ter cod. proc. civ. [101] – solleva contrasti soprattutto in letteratura [102].


6. Conclusioni

Le difficoltà ricostruttive non son poche e alcune ambiguità di fondo sembrano, ad oggi, non aver ancora abbandonato la vicenda dell’arbitrato irrituale, anche a seguito della novella del 2006 [103]. Ciò non può che rappresentare un ostacolo all’individuazione dell’effettive asimmetrie potenzialmente idonee a giustificare (anche) la regola ermeneutica esaminata, nonché, a monte, a cogliere l’esatta fisionomia attribuita all’istituto.

Il generico riferimento al contratto di mandato, indentificato come un mandato collettivo [104] – secondo alcuni conferito anche nell’interesse dei mandatari [105] – solleva diversi interrogativi, soprattutto in relazione al fatto che – come asseriscono certi autori – nell’ipotesi dell’arbitrato mancherebbero i c.d. fatti di cooperazione esterna [106]. Ma, in senso lato, ciò che sembra potersi notare dal diritto vivente in materia di arbitrato irrituale è la poca permeabilità dell’istituto alla disciplina dei negozi a cui il lodo viene ricondotto: essa neppure sembrerebbe poter entrare a far parte del corpo normativo che regola il contratto relativamente atipico (sempre il lodo irrituale) in via analogica. Ma la questione è dubbia. Anche la regolamentazione delle patologie del lodo irrituale, non sempre intesa in modo univoco, sarebbe – si sostiene anche in giurisprudenza – rappresentata da un elenco tassativo di motivi di impugnazione, sottratti, quindi, all’individuazione ermeneutica della dottrina e della giurisprudenza medesima [107], peraltro – si aggiunge – modellata sull’impugnazione del lodo rituale.

In una logica di ampliamento delle potenzialità e utilità dell’istituto, un ruolo notevole potrebbe essere svolto dalla dimostrazione del suo legittimo atteggiarsi quale procedimento volto a consentire un’effettiva definizione transattiva della lite – il che resta contestato, tuttavia, a vario titolo, tanto da certa giurisprudenza quanto da alcuni esponenti della dottrina – in quanto, a differenza dell’arbitrato rituale, senz’altro qui mancherebbe un interesse diretto all’accertamento della verità delle posizioni dei litiganti; tale contratto, infatti, si muove su una logica che tendenzialmente prescinde «dall’accertamento della ragione e del torto» [108].


NOTE

[1] Ci si può interrogare, d’altra parte, soprattutto alla luce di alcune ricostruzioni negoziali in tema di arbitrato irrituale – delle quali si farà menzione – in ordine al comportamento degli arbitri, in termini di eventuale responsabilità degli stessi, problema che insiste su un piano di valutazione normativo differente rispetto a quello della validità/invalidità del lodo, preso in considerazione dalla presente ordinanza: cfr. N. Irti, Concetto giuridico di “comportamento” e invalidità dell’atto, in Riv. trim. dir. proc. civ., Giuffrè, 2005, pag. 1053 ss.

[2] Cass. 07 aprile 2015, n. 6909, in Dejure; Cfr. anche Cass. 07 agosto 2019, n. 21059, in Dejure; Cass. 05 luglio 2023, n. 18793, in Dejure.

[3] Nell’ordinanza si legge: “Né infine potrebbe giustificarsi il riferimento all’orientamento espresso nelle pronunce di questa Corte n.6909/2015 e n.21059/2019, di favor nei confronti dell’arbitrato rituale, dato che nella specie non residuano dubbi sull’effettiva scelta dei contraenti”. A riguardo cfr. Cass. 07 aprile 2015, n. 6909, cit.; Cass. 07 agosto 2019, n.21059, cit. Un problema diverso, ma relativo sempre a eventuali equivoci dovuti al confezionamento della convenzione arbitrale, è risolto dall’art. 808 quater, rubricato peraltro “Interpretazione della convenzione d’arbitrato” dispone che “nel dubbio, la convenzione d’arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce.”

[4] Soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della legge delega del 14 maggio 2005, attuata con il d.lgs. 40/2006.

[5] Sul dibattito anche antecedente tale riforma e ad oggi non sopito sulla natura negoziale o giurisdizionale dell’arbitrato si segnala M. F. Ghirga, La storia dell’arbitrato dal codice di procedura civile del 1940 ad oggi, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, I, Napoli, 2019, 83 ss. All’interno di questa contrapposizione, diversi Autori, tanto processualisti quanto sostanzialisti, accolgono la tesi negoziale cfr. S. Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, 1931, 97; ID., Commentario al codice di procedura civile. Libro primo. Disposizioni generali, 34 ss.; F. Santoro Passarelli, L’accertamento negoziale e la transazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., Giuffrè, 1956, 4 ss.; P. Rescigno, Arbitrato e autonomia contrattuale, in Riv. arb., Milano, 1991, 16. Precisa F. P. Luiso, Diritto processuale civile V. La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, Milano, 2021, 140; G. Verde, Diritto dell’Arbitrato, Torino, 2005, 4 ss.; G. Alpa, L’Arbitrato irrituale, in Contr. impr., CEDAM, 2011, 320 ss.; C. Punzi, Arbitrato, cit., 1 ss.; S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, Milano, 2008. Contra, tra gli altri, Mortara, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1904, 76; G. Schizzerotto, Dell’Arbitrato, Milano, 1958, 11, per il quale la sentenza andrebbe a recepire e assorbire l’attività degli arbitri, conferendo natura giurisdizionale al procedimento; E. F. Ricci, La Cassazione insiste sulla natura «negoziale» del lodo arbitrale: nuovi spunti critici (nota a Cass. 27 novembre 2011, n. 15023, in Dejure), in Riv. dir. proc, 2002, 1238 ss.; F. S. Damiani, Interpretazione del patto compromissorio e prevalenza dell’arbitrato rituale, in Il giusto processo civile, 4, Napoli, 2015, 1003.

[6] In Giurisprudenza, tra i tanti arresti rilevanti, si menziona Cass. 03 agosto 2000, n. 527, in Dejure: “La presenza, nel lodo, degli elementi costitutivi ed ontologici della “sentenza” pronunciata dagli organi giurisdizionali dello Stato non è idonea a dimostrarne la natura giurisdizionale, per l’assorbente ragione che il nostro ordinamento positivo riconosce la validità di forme di composizione delle controversie che si realizzano attraverso atti negoziali comportanti sia un “accertamento” che una declaratoria delle conseguenti obbligazioni delle parti. b) La constatazione che la legge fissa in modo analitico il regime formale del procedimento arbitrale e del lodo, può solo dimostrare che l’ordinamento positivo ha “processualizzato” il procedimento arbitrale, ma non anche che lo ha “giurisdizionalizzato”. Cfr. anche Cass. 05 maggio 2011, n. 9839, in Dejure. Di contro, anche prendendo le mosse da Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153, in Dejure, la quale darebbe una lettura diversa della disciplina vigente in materia, viene sostenuta da alcuni la natura giurisdizionale dell’arbitrato rituale. Il menzionato succedersi nel tempo degli orientamenti sulla natura dell’istituto è analizzato anche in C. Delle Donne, La Cassazione e i (difficili) rapporti tra arbitrato rituale e irrituale: il dubbio tenore della convenzione arbitrale fa presumere per l’opzione per la via rituale, in Riv. arb., Giuffrè, 3, 2015, 530 ss.

[7] S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., 2 ss.

[8] Anche prima dell’entrata in vigore della norma si riteneva che “la presenza, nel lodo, degli elementi costitutivi ed ontologici della “sentenza” pronunciata dagli organi giurisdizionali dello Stato” fosse un chiaro indice della natura giurisdizionale del procedimento (Contra sempre Cass. 03 agosto 2000, n. 527, cit.).

[9] Cass. 03 agosto 2000, n. 527, cit.

[10] Alcuni autori condividono la posizione della giurisprudenza secondo cui è erroneo «far derivare a ritroso dall’efficacia dell’atto conclusivo del procedimento la qualificazione giuridica dell’attività esercitata e la posizione, nell’ambito dell’ordinamento, di chi tale attività ha svolta» Così G. Verde, Diritto dell’Arbitrato, cit., 118 ss.; cfr. anche S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., 6.

[11] È stata accolta una nozione di giurisdizione non necessariamente ancorata al potere dello Stato: gli ostacoli frapposti dagli artt. 24, 25 e 102 Cost., sarebbero superabili, in ottemperanza del considerato principio, costituzionalmente riconosciuto, di “pluralità delle giurisdizioni”, la funzione giurisdizionale rappresenterebbe una prerogativa di cui possono essere titolari anche i privati, purché con il rispetto del contraddittorio e ulteriori limiti che saranno meglio precisati: cfr. Cfr. P. Perlingieri, L’Autonomia negoziale nella giustizia statale, in Il giusto processo civile, ESI, 2016, 291 ss.; ID., Tutela e giurisdizione, in Il diritto civile nella legalità costituzionale, V, ESI, 2020, 46 ss. Laddove si ponga l’accento su una prospettiva funzionale di giurisdizione si ampliano le ipotesi che ne costituiscono manifestazione. Se, inoltre, si ritiene che il fenomeno dell’arbitrato rituale sia esso stesso espressione di autonomia privata, viene incrementata la possibilità per i privati di incidere sulla funzione giurisdizionale, perlomeno laddove le controversie insorte vertano su diritti disponibili. Sulla conformità di una simile prospettiva alla Carta Fondamentale si v. anche cfr. Corte Cost. n. 223 del 19 luglio 2013, in cui la Corte, nell’affermare che nel rapporto tra giudice statale e arbitro si pone una questione di competenza, adotta una nozione unitaria di giurisdizione.

[12] Così F. Criscuolo, Arbitrato e diritto civile, Napoli, 2022, 12 ss.; ID., L’arbitrato tra autonomia e eteronomia, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, I, Napoli, 2019, 214 ss. Simili sovrapposizioni coinvolgono anche la figura degli arbitri, ai quali talvolta viene attribuita la «duplice veste di mandatari e giudicanti»: cfr. C. Consolo, Autonomia diretta delle parti vs discrezionalità dei difensori – e residualmente degli arbitri come mandatari – negli snodi dell’arbitrato quale giudizio isonomico, in L’autonomia negoziale nella giustizia arbitrale (Atti del 10° Convegno internazionale), ESI, 2015, 339 ss.

[13] Si richiama nuovamente P. Perlingieri, L’Autonomia negoziale nella giustizia statale, cit., 291 ss. Quanto detto, che sottolinea la polisemia che aleggia attorno al termine giurisdizione, si badi, non elide lo iato intercorrente tra le prerogative rimesse al giudice togato e all’arbitro, a cominciare dal limite di cui all’art. 806 cod. proc. civ.

[14] O, secondo altri orientamenti, ad essere idoneo a integrare e modificare con proprie determinazioni le lacune dell’accordo, se richiesto congiuntamente dai coniugi: cfr. T. Auletta, Diritto di famiglia, Giappichelli, 2024, 209 ss. Si tenga conto, peraltro, anche del quadro interpretativo volto ad ascrivere validità e efficacia anche agli accordi non omologati che rispettino alcuni limiti: cfr. per es. Cass. 20 ottobre 2005, n. 20290, in Dejure; Cass. 23 settembre 2013, n. 21736, in Dejure. Per un esame del problema cfr. E. Al Mureden, La separazione personale dei coniugi. La crisi della famiglia, in Trattato di dir. civ. e comm. diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni, Giuffrè, 2015, 137 ss.

[15] Si tratta di una figura frutto della elaborazione della dottrina tedesca di fine XIX secolo, nella quale venivano ricompresi diversi atti, operanti solo ai fini processuali, ma rispetto ai quali si riteneva di dover attribuire alla volontà dei rispettivi autori un ruolo analogo a quello da essa svolto nei negozi “di diritto sostanziale”: cfr. V. Denti, Negozio processuale, in Enc. del dir., Giuffrè, 1978, 138. L’autonomia dogmatica e la sussistenza di implicazioni ricollegabili direttamente alla categoria è, tuttavia, tutt’altro che pacifica: si richiamano, tra gli altri, gli studi di V. Denti, Negozio processuale, cit., 138 ss.; S. Satta, Accordo, b) Diritto processuale civile, in Enc. del dir., Giuffrè, 1958, 300; G. De Nova, Accordi delle parti e decisione, in https://www.altalex.com/documents/news/2008/06/08/accordi-delle-parti-e-decisione, 2008.

[16] Per una disamina delle impostazioni di stampo processualista in ordine agli accordi di non chiedere, si richiama M. Orlandi, Riduzione. Diritto senza forza, Giappichelli, 2024, 1 ss. Peraltro, sulla rilevanza meramente processuale di queste figure si sollevano dei dubbi e, in particolare, ci si interroga sulla “capacità” dei menzionati pacta di incidere direttamente sulla struttura del rapporto di diritto sostanziale: sul tema ID. Riduzione. Diritto senza forza, cit., 21 ss.; 53 ss.; ID., La categoria dell’obbligazione ridotta, in Giust. civ., Giuffrè, 3, 2019, 447 ss.; T. Dalla Massara, M. Orlandi, Studi sull’accordo di non chiedere, RomaTre-Press, 2024.

[17] F. Criscuolo, Arbitrato e diritto civile, cit., 22 ss.

[18] Recente giurisprudenza sembra ricondurre l’arbitrato irrituale a un contratto di mandato, un mandato congiunto a comporre la controversia: così, ad esempio, Cass. 13 aprile 2022, n. 12058, in Dejure; Cass. 26 ottobre 2021, n. 30000, in Dejure. Contra S. Marullo di Condojanni, cit., 18 ss.

[19] Cfr. G. Alpa, L’Arbitrato irrituale, cit., 321.

[20] G. Alpa, L’Arbitrato irrituale, cit., 322 ss.

[21] Tra le argomentazioni a sostegno di questa tesi, si evidenzia che il limite dell’opzione arbitrale, consacrata nella convenzione di arbitrato nelle sue varianti – l’indisponibilità del diritto, salva diversa disposizione di legge – coincide con il confine per antonomasia degli atti di autonomia privata: si avrebbe così un rapporto negoziale, in virtù del quale le parti hanno convenuto di assoggettare la decisione dei relativi rapporti controversi alla decisione degli arbitri, alla quale sono, per propria scelta e nei termini della stessa, vincolati. Cfr. F. De Santis, Arbitrato rituale e giurisdizione statale, cit., 210 ss.

[22] Cfr. Cass., 25 ottobre 2013, n. 24153, cit.

[23] Si segnala che, nel corso della trattazione, l’espressione procedimento verrà utilizzata in senso generico, quale sequenza di atti collegati e prodromici alla composizione arbitrale della controversia, senza alludere esplicitamente all’una o alle diverse ricostruzioni richiamate.

[24] F. Festi, La convenzione di arbitrato, in in Trattato dei contratti, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2014, 1180; P. Perlingieri, Tutela e giurisdizione, cit., 66. Maggiori dubbi si sollevano, invece, sulla natura contrattuale, anche se pare che, ad oggi, sia questa la tesi dominante: cfr., tra gli altri, P. Rescigno, Arbitrato e autonomia contrattuale, cit., 16 ss.; G. Bonilini, I Contratti diretti alla composizione e prevenzione delle liti, in Istituzioni di diritto privato a cura di M. Bessone, Giappichelli, 1997, 899 ss.; v. F. Criscuolo, Arbitrato e diritto civile, cit., 18 ss.; contra l’opinione che riconduce le convenzioni arbitrali all’interno della categoria del contratto poiché facenti parte dei c.d. negozi extraprocessuali (si rimanda nuovamente a V. Denti, Negozio processuale, cit., 138 ss.). Al di fuori di tale qualificazione, inoltre, le clausole compromissorie sono inquadrabili in vari modi, sulla base di classificazioni che insistono su diversi piani: si rammenta, ad esempio, la loro sussunzione nelle c.d. «clausole-precetto», ossia «dichiarazioni dei contraenti che […] fissano le note di uno specifico effetto negoziale, dato dal precetto, rispettivamente, di devolvere le liti in arbitrato» (cfr. G. Andreotti, Le metaclausole, Giuffrè, 2021, 26).

[25] Ciò si traduce nella possibilità, in costanza della sua violazione, di sollevare l’eccezione di incompetenza del giudice, in caso di arbitrato rituale, o l’eccezione di improponibilità della domanda in caso di arbitrato irrituale: cfr., da ultimo, anche Cass. 10 giugno 2024, 16071, in Dejure.

[26] L’istituto in esame, anche in considerazione della ampia querelle menzionata, presta continuamente il fianco a una latente sovrapposizione tra le parti del processo (ossia coloro che pongono in essere gli atti del processo e, per altro verso, i destinatari dei provvedimenti del giudice, si veda A. Proto Pisani, Parte (dir. proc. civ.), in Enc. del dir., Giuffrè, 1981, 917) e, sotto un’altra valutazione, le parti del negozio: il riferimento all’uno o all’altro concetto dipenderà in parte dalla presa di posizione di ognuna sulla natura dell’istituto e anche la figura degli arbitri – assumendo alcune ricostruzioni (al di fuori della posizione assunta da S. Marullo di Condojanni, anticipando le successive riflessioni, si segnala che anche la qualifica di mandatari che, talvolta, soprattutto la giurisprudenza ascrive agli arbitri nell’arbitrato irrituale, determina esiti differenti sulla questione) – assurgerà alla qualità di parte negoziale. Questa sovrapposizione tra parte processuale e parte del contratto, evidente soprattutto laddove si accolgano le elaborazioni definite “eclettiche” del fenomeno, impone comunque di avvedersi della linea di demarcazione che intercorre tra le prime e le seconde, intese queste, seppur con qualche individuata resistenza anche a livello normativo, quali «autori del regolamento negoziale ed anche (in quanto autori), i destinatari delle conseguenze, degli effetti che scaturiscono da esso» (così G. B. Ferri, Parte del negozio giuridico, in Enc. del dir., Giuffrè, 1981, 901 ss.).

[27] Si consideri, a titolo esemplificativo l’art. 816bis (“Le parti possono stabilire nella convenzione d’arbitrato, o con atto scritto separato, purché anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri debbono osservare…”), la determinazione convenzionali sulle regole del procedimento arbitrale, secondo un certo indirizzo giurisprudenziale, sarebbero nella disponibilità delle parti del procedimento – con l’assenso degli arbitri – a differenza di quanto espressamente sancito nell’art. 816bis medesimo, anche dopo l’inizio del procedimento medesimo.

[28] C. Donisi, Il problema del negozio giuridico unilaterale, Napoli, 1972, p. 69 ss. evidenzia che l’autonomia privata è suscettibile di essere osservata anche in chiave per così dire negativa, nel suo profilo inibitorio, che coincide con il limite di non coinvolgere arbitrariamente interessi che esulano dalla propria sfera giuridica. Sul corretto significato da attribuire al principio di relatività si rimanda anche a V. Roppo, Il contratto, cit., 529 ss. Cfr. anche C. M. Bianca, Il contratto, 2019, Giuffrè, 517 ss.; A. Cataudella, I contratti. Parte generale, II, Giappichelli, 2000, 214 ss.; A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Giuffrè, 2015, 112 ss.

[29] In primo luogo per l’obbligazione gravante sugli arbitri, qualificata come indivisibile, di rendere il lodo entro un termine (S. Marullo di Condojanni, Il contratto, cit., 184 ss.).

[30] Il contratto di arbitrato, tra i propri presupposti di fatto, avrebbe l’esistenza di un valido e efficace accordo compromissorio S. Marullo di Condojanni, Il contratto, cit., 18 ss. Si confronti l’art. 816bis cod. proc. civ. (“Le parti possono stabilire nella convenzione d’arbitrato, o con atto scritto separato, purché anteriore all’inizio del giudizio arbitrale, le norme che gli arbitri debbono osservare nel procedimento e la lingua dell’arbitrato…”) considerato, peraltro, come norma dispositiva, essendo ammesso in giurisprudenza che le determinazione convenzionali sulle regole del procedimento arbitrale, sarebbero nella disponibilità delle parti del procedimento – con l’assenso degli arbitri – a differenza di quanto espressamente sancito – anche dopo l’inizio del “procedimento” medesimo (La ratio della norma sarebbe, in quest’ottica, quella di tutelare l’interesse degli arbitri a conoscere previamente le regole che essi dovranno osservare: cfr. Cass. 04 maggio 2011, n. 9761, in Dejure. Sul punto anche C. Consolo, Autonomia diretta delle parti vs discrezionalità dei difensori, cit., 349 ss.).

[31] Sulla nozione di parte, intesa come centro di interesse cfr. G. B. Ferri, Parte del negozio giuridico, cit., 904.

[32] Tra le ultime pronunce, si segnalano, oltre all’ordinanza in commento, Cass. 31 gennaio 2023, n. 2795, in Dejure; Cass. 10 maggio 2018, n. 11313, in Dejure. Del resto, anche se non volessimo accedere all’opinione per cui gli accordi compromissori si identifichino in contratti, con un’interpretazione estensiva, si ritengono comunque applicabili, secondo certe impostazioni e con gli opportuni adattamenti, anche ad atti diversi dai contratti medesimi (V. Roppo, Il contratto, cit., 443): atti unilaterali anche non tra vivi e anche non patrimoniali, statuti, provvedimenti amministrativi e “negozi familiari”, ivi, a titolo esemplificativo, la separazione consensuale dei coniugi: Cass. 01 ottobre 2012, n. 16664, in Dejure. Si veda anche, sul punto, C. M. Bianca, La famiglia, cit., 254.

[33] Tra i sostenitori di questa impostazione si segnalano, tra gli altri, C. Consolo, Autonomia diretta delle parti vs discrezionalità dei difensori, cit., 362 ss; F. S. Damiani, Interpretazione del patto compromissorio e prevalenza dell’arbitrato rituale, cit.., 1003; B. Sassani, L’arbitrato irrituale, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, I, Napoli, 2019, 307 ss. Secondo un inquadramento più datato, il rapporto regola-eccezione menzionato opererebbe in termini inversi e la qualità di regola ascritta questa volta alla forma irrituale discenderebbe dalla “eccezionalità della deroga alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria introdotta con l’arbitrato rituale”: Cass. 01 febbraio 2019, n. 833, con nota di E. Fazzalari, La distinzione fra arbitrato «rituale» ed «irrituale»: qualcosa si muove?, in Riv. arb., Milano, 1999, 256 ss.; F. Festi, Convenzione di arbitrato, in Trattato dei contratti, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2014, 1202 ss.

[34] Esso parrebbe prendere le mosse, in particolare, da Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153, cit. Sull’orientamento antecedente in tema di interpretazione dell’accordo compromissorio: il dubbio sul significato della clausola si sarebbe dovuto risolvere nel senso dell’arbitrato irrituale, ciò, tuttavia non perché suggerito da una particolare norma di legge – l’art. 808ter non era ancora stato introdotto nell’ordinamento – ma poiché, nonostante la presenza di un alone di sospetto che si sostiene che circondasse la figura, il patto compromissorio opaco avrebbe comportato una sanzione per gli autori della clausola, consistente nella perdita della «possibilità di ricorrere alla giustizia dello Stato» (che si otterrebbe, pertanto, per equivalente solo con l’instaurazione di un procedimento per arbitrato rituale), o, in altri termini, nella sopportazione della conseguenza comparativamente sfavorevole, costituita dalla possibilità di ottenere solo un risultato considerato – sempre comparativamente – di minor pregio (id est il lodo c.d. negoziale): G. Alpa, L’Arbitrato irrituale, cit., 322 ss. In giurisprudenza il favor per l’arbitrato libero si registra, per es. in Cass. 28 giugno 2000, n. 8788 in Dejure. Sull’idea per cui l’arbitrato libero rappresentasse un surrogato dell’arbitrato rituale cfr. B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 307. Forse, sarebbe più opportuno discorrere in termini di insuccesso conseguente all’inosservanza dell’onere di formulare una chiara clausola compromissoria, alla quale consegue la mancata possibilità di ottenere il – ritenuto più vantaggioso – procedimento per arbitrato rituale: sulle varie declinazioni del concetto di sanzione e sui rapporti dello stesso con la figura dell’onere si rimanda a V. Caredda, L’onere e la norma: prove di accesso al diritto, in Giust. civ., 1, Giuffrè, 2019, 77 ss.; ID., Autoresponsabilità e autonomia privata, Giappichelli, 2005, 55 ss.

[35] Nell’ordinanza in commento si fa esplicito riferimento al 1362 comma 2 per la valutazione extratestuale del comportamento complessivo delle parti, al quale, nella controversia esaminata, sembrerebbe ascrivibile un ruolo primario, poiché, come ben evidenziano alcuni autori, l’utilizzo generico di formule quali “Il Collegio arbitrale funzionerà con poteri di amichevole compositore”, solleva problemi di non poco conto, in particolare per i rapporti tra gli artt. 808ter e 822 cod. proc. civ., ai sensi del quale le parti possano stabilire “con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità”: sul tema F. Galgano, Diritto e equità nel giudizio arbitrale, in Contr. Impr., Cedam, 1991, 461 ss. Né l’utilizzabilità di questo criterio sembrerebbe potersi negare in ragione dei vincoli di forma che si riconducono alla clausola compromissoria: di questo avviso V. Roppo, Il contratto, cit., 447.

[36] Si assume per “comune intenzione” – anche in costanza del tramonto del dogma della volontà, smentito dalla legge, in virtù del quale operava una concezione dell’atto di autonomia privata, che vedeva nella volontà reale, interiore, psicologica l’elemento essenziale, l’elemento costitutivo per eccellenza del contratto – «il concorde intento formatosi fra entrambe le parti, in quanto si è reso riconoscibile nella loro comune o congruente dichiarazione e condotta»: E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, ESI, 1994, 334.

[37] La regola è intesa in senso più rigido da alcuni, circoscrivendo ulteriormente le ipotesi in cui la formulazione della clausola possa essere interpretato quale impulso ad un arbitrato irrituale: B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 308, ss. La Corte di Cassazione, nel caso in esame, ritiene che, facendo un uso accorto delle norme sull’interpretazione del contratto e, in particolare, valutando il comportamento complessivo delle parti, si possa pervenire al medesimo risultato.

[38] Dato che quando una norma attribuisce una qualifica specifica ad un comportamento implicitamente richiama anche la qualifica contraria, allora potremmo ritenere che l’art. 808ter preveda che il patto compromissorio che non faccia espressa menzione dell’intenzione di ottenere dagli arbitri una “determinazione contrattuale” debba essere sempre inteso come teleologicamente orientato all’arbitrato rituale.

[39] F. S. Damiani, Interpretazione del patto compromissorio e prevalenza dell’arbitrato rituale, cit., 1011, 1014 ss.: «sempre nell’ottica della tutela delle parti, non si può fare a meno di notare che l’arbitrato rituale offre a queste ultime garanzie ben più ampie di quello libero, sia dal punto di vista del procedimento, che è regolato in maniera assai più dettagliata e nel rispetto dei principi fondamentali del processo, sia dal punto di vista dei rimedi avverso la decisione, che appaiono certamente più ampi e completi di quelli previsti per il lodo irrituale, ivi compresi quelli introdotti dall’art. 808-ter cod. proc. civ.».

[40] L’espressione è di N. Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, in Riv. Trim. di dir. proc. civ., Giuffrè, 1999, 1139 ss.

[41] Un tale lavoro potrebbe contribuire, da un lato, a giustificare, alla luce degli studi sull’ermeneutica negoziale, la regola in esame? Oppure, in senso inverso, prendendo le mosse dall’art. 808ter, una proficua interazione potrebbe, forse, dar risultati fruttuosi anche per la configurazione del significato degli artt. 1362 ss.? Il passaggio logico da norme ritenute di portata generale a norme settoriali e l’iter inverso potrebbe fornire preziosi spunti anche dal punto di vista ermeneutico delle norme considerate: una simile ipotesi di lavoro si registra, ad esempio, nello studio della relazione tra art. 1227 comma 2 e artt. 1913, 1914 e 1915 cod. civ., queste ultime quali (solo apparentemente) espressioni della prima nel settore assicurativo: si confrontino le riflessioni spese in V. Caredda, Concorso del fatto colposo del creditore. Art. 1227, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Giuffrè, 2020, 207 ss.

[42] C. M. Bianca, Il contratto, cit., 378; V. Roppo, Il contratto, II, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2011, 450 ss. Sulla razionalizzazione e gerarchia dei canoni ermeneutici anche L. Bigliazzi Geri, L’Interpretazione del contratto. Artt. 1362 – 1371, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Giuffrè, 2013, 39 ss.; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 337 ss.; Principi e problemi di interpretazione contrattuale, cit., 1153 ss.

[43] Della quale, a dire il vero, è dubbia la sua collocazione nelle regole oggettive: C. M. Bianca, Il contratto, cit., 394 ss.

[44] Così V. Roppo, Il contratto, cit., 454; L. Bigliazzi Geri, L’Interpretazione del contratto, cit., 309, la quale solleva l’attenzione sul fatto che l’adozione del significato maggiore o minore potrebbe innescare conflitti tra incompatibili principi. Contra alcune impostazioni, secondo le quali il principio abbraccerebbe «tutte le ipotesi in cui, anche in caso di dichiarazione univoca, si opera in modo che la dichiarazione stessa raggiunga il massimo di utilità compatibile con le esigenze e i limiti posti dall’ordinamento giuridico»: R. Franceschelli, Intorno al principio di conservazione dei contratti, in Scritti civilistici e di teoria generale del diritto, Giuffrè, 1975, 229. Per una ricostruzione complessiva sul tema, si rimanda a C. Grassetti, Conservazione (principio di), in Enc. dir., Giuffrè, 1961, 176

[45] Di questo avviso C. M. Bianca, Il contratto, 375 ss. In N. Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, cit., 1143, si precisa che «conoscendo il significato delle parole dette o scritte da A o B, siamo in grado di istituire la relazione di conformità con una od altra delle fattispecie legali».

[46] La causa così intesa è, essa stessa, il criterio di interpretazione e di qualificazione di ogni singolo contratto.

[47] Tra gli autori che accolgono tale impostazione sulla causa del contratto, si rimanda, per tutti, a G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Giuffrè, 1966, 353, il quale definisce la causa come «funzione economico-individuale». E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, Giuffrè, 2000; C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, CEDAM, 1998; C. M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., Giuffrè, 2014, 256; C. M. Bianca, Il contratto, cit., 409 ss. Con riguardo alle norme in materia di interpretazione del contratto, G. Palermo, L’autonomia negoziale, III, Giappichelli, 2015, 79 ss., sottolinea che l’art. 1366 cod. civ. riassume «in sé l’esigenza di enucleare le concrete finalità perseguite sia pure in modo non compiutamente espresso, ovvero obliquo, dal disponente».

[48] C. M. Bianca, Il contratto, cit., 394 ss.; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22343, in Dejure.

[49] Cfr. G. Andreotti, Le metaclausole, cit., 25 ss.

[50] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 345.

[51] Nello specifico sul tema si segnala S. Martuccelli, Il canone dell’interpretazione più favorevole al consumatore, in Studi in onore di G. Benedetti, ESI, 2008, 1015 ss.

[52] All’interno dell’ordinanza in esame, la fedeltà a tale principio potrebbe qui ravvisarsi: “Né infine potrebbe giustificarsi il riferimento all’orientamento espresso nelle pronunce di questa Corte n.6909/2015 e n.21059/2019, di favor nei confronti dell’arbitrato rituale, dato che nella specie non residuano dubbi sull’effettiva scelta dei contraenti”. Al più, avendo alla base del problema un principio di politica legislativa, non un principio che obbedisca ad indefettibili ragioni logiche, esso potrebbe sopportare dei limiti.

[53] Si argomenta, infatti, nella presente ordinanza, quanto alla distinzione tra le due figure di arbitrato, che, nell’arbitrato rituale, le parti non solo vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 cod. proc. civ., ma devono anche essere osservate le norme sul procedimento arbitrale, mentre, nell’arbitrato irrituale, esse intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale”. In ragione della natura «non contenziosa dell’incarico», autorevole dottrina sostiene che le norme di cui agli artt. 806 ss. cod. proc. civ. non debbano essere applicate: cfr. E. Gabrielli, L’oggetto del contratto. Artt. 1346-1349, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Giuffrè, 2015, 202.

[54] Infatti uno degli elementi che sarebbero indice della scelta delle parti di ricorrere a un arbitrato irrituale è rappresentato dal fatto che nelle clausole del rispettivo patto compromissorio “non risultano evocate attività procedimentalizzate degli arbitri”.

[55] Di questo avviso anche G. Petrelli, Arbitrato, trascrizione e altre pubblicità legali, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, I, Napoli, 2019, 392 ss. Il codice sembra oggi delineare una procedimentalizzazione dell’istituto che potrebbe differenziarlo da una connotazione risalente che lo caratterizzava: ci riferiamo alla tendenza diffusasi in una prassi risalente per cui le parti rimettevano la lite a un terzo, consegnandogli un foglio in bianco da loro sottoscritto preventivamente, perché il terzo medesimo lo riempisse; tutto ciò senza l’osservanza di alcuna forma processuale: cfr. F. Santoro Passarelli, La transazione, Napoli, 1975, 51 ss.

[56] Le singole norme, del resto, non sono isolabili dal sistema e l’effetto giuridico si determina compiutamente in funzione del sistema medesimo: cfr. A. Falzea, Efficacia giuridica, cit.,

[57] Ossia, alla luce di tale interpretazione, tanto rituale quanto irrituale.

[58] Ciò attenua e non di poco la distanza tra il “procedimento” rituale e quello irrituale: cfr. F. P. Luiso, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, cit., 145 ss. Ugualmente favorevole all’applicabilità di diverse norme presenti nel titolo VIII del IV libro del c cod. proc. civ. è G. De Nova, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia privata, in Riv. arb., 3, Milano, 423 ss. Ritiene che alcuni tra gli artt. 806 ss. cod. proc. civ. siano espressione di principi comuni ad ambedue i tipi anche B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 313.

[59] Le ipotesi di avvicinamento delle due figure arbitrali che verranno proposte forse dimostrano che la presunta radicalità della contrapposizione, talvolta, potrebbe essere attenuata e smussata con qualche accorgimento, ma sembrano comunque arrestarsi di fronte all’assunto per cui solo “nell’arbitrato rituale le parti vogliono la pronuncia di un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 cod. proc. civ.”, cfr. Cass. 05 luglio 2023, n.18973, in Dejure.

[60] Cfr. B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 313 ss. Dubbi consistenti, di particolare rilievo nell’ottica di individuazione di porzioni comuni di disciplina, si registrano con riguardo alla disciplina della trascrizione dell’atto con il quale la parte dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale. Tra le posizioni avanzate dalla dottrina, vi è chi, argomentando sulla base della lettera degli artt. 2652 e 2653 cod. civ. – nei quali non si registrerebbe alcuna distinzione tra le due categorie di procedimenti arbitrali – e supportando tale rilievo con un’interpretazione – si dice – costituzionalmente orientata di queste norme (art. 24 Cost.) ritiene che la disciplina propria della trascrizione trovi applicazione anche in presenza di procedimenti per arbitrato irrituale. Un’ampia disamina del problema, con riferimenti, peraltro, alle opposte ricostruzioni contemplate, è presente in G. Petrelli, Arbitrato, trascrizione e altre pubblicità legali, cit., 399 ss.

[61] Una prospettiva metodologica accolta anche da V. Caredda, Le liberalità diverse dalla donazione, Torino, 1996, 245 ss. per l’individuazione della normativa applicabile agli atti di liberalità.

[62] A differenza di quanto sembra sostenuto nell’ordinanza e anche alla luce dell’art. 816bis, la previsione che dispensa dall’osservanza delle formalità di procedura sembra ininfluente rispetto alla natura rituale o irrituale del procedimento arbitrale promosso: cfr. C. Tenella Sillani, Decisione secondo diritto e secondo equità, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, V, Napoli, 2019, 138.

[63] O forse il fatto che si tratti di norme derogabili potrebbe condurci a ritenere che si tratti di norme di diritto sostanziale? Sempre ai fini dell’inquadramento della natura di queste norme, d’altra parte, non sembra, tuttavia, che possa trascurarsi la sede (il codice di procedura civile) prescelta dal legislatore: simili argomentazioni sono al centro di un importante dibattito vertente sulla natura sostanziale o processuale dell’art. 2697 cod. civ. Si v. S. Patti, Le prove, cit., 129 ss.

[64] Sulla natura derogabile o meno delle norme in materia G. De Nova, Disciplina legale dell’arbitrato e autonomia privata, cit., 423 ss.

[65] F. Criscuolo, L’Arbitrato tra autonomia ed eteronomia, cit., 244 ss.

[66] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, cit., 291, include, alla luce di una classificazione che verte sul contenuto dei negozi giuridici, all’interno della categoria dei c.d. «negozi di secondo grado», tanto la transazione, quanto il compromesso e l’arbitraggio.

[67] Il che non è una peculiarità del nostro ordinamento, ma anche in inglese (award) e in castigliano (laudo) la decisione degli arbitri ha un nome diverso rispetto alla decisione del giudice togato. Al contrario, in altri ordinamenti, come quello francese (sentence arbitrale) e quello tedesco (Schiedsspruch), si utilizzano espressioni equivalenti alla locuzione «sentenza arbitrale», la quale si rinviene anche nel nostro ordinamento: l’art. 2819 cod. civ. è rubricato proprio “sentenze arbitrali”.

[68] Il riferimento è nuovamente a F. Criscuolo, Arbitrato e diritto civile, cit., 11 ss.

[69] Cass. 03 agosto 2000, n. 527, cit.

[70]E non sul potere autoritativo dello Stato: F. P. Luiso, L’art. 824bis cod. proc. civ., in Judicium,

https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&opi=89978449&url=https://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/133/F.%2520P.%2520Luiso.pdf&ved=2ahUKEwjAwLj04caHAxUuhv0HHbF3AaYQFnoECBcQAQ&usg=AOvVaw1DeIesnNcLal_XBQ9do6Ip

[71] Nella disciplina del codice vigente, invece, l’efficacia di sentenza del lodo, atto autonomamente impugnabile, non sembra condizionata al deposito (e all’accertamento del tribunale della sua “regolarità formale”) dello stesso. Questi ultimi sarebbero, invece, presupposto, dell’esecutività, dell’attitudine all’iscrizione ipotecaria del lodo (art. 2819 cod. civ.), della “sua trascrivibilità, e conseguente efficacia anche verso terzi” (Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153 cit.).

[72] Cass. 05 luglio 2023, n. 18973, in Dejure.

[73] Corte Cost. 19 luglio 2023, n. 223, in Dejure; Cass. 25 ottobre 2013, n. 24153, cit.

[74] I criteri di distinzione peraltro, per certi versi rimangono ancora incerti, in ragione – come si indicherà anche a breve – dell’influenza esercitata dalle connessioni con il negozio di accertamento e della transazione: cfr. E. Gabrielli, L’oggetto del contratto., cit., 200 ss. Al di fuori del dictum dell’arbitratore, una linea di demarcazione si registra a monte, in quanto l’attività demandata agli arbitratori medesimi risiederebbe nella determinazione di un elemento oggettivamente mancante, uno strumento di completamento di un contratto concluso ma non completo (così E. Gabrielli, L’oggetto del contratto, cit., 202; P. Rescigno, Arbitrato e autonomia privata, cit., 13 ss.), mentre l’arbitrato troverebbe il suo ambito di applicazione in rapporti che, seppur controversi, sono perfetti. Contra E. Del Prato, Transazione (dir. priv.), cit., 815 che rinviene la differenza nell’«oggetto della cognizione».

[75] Così C. M. Bianca, Il contratto, cit., 300 ss., il quale ricusa le tesi che ascrivono alla determinazione dell’arbitratore natura di mero fatto o di negozio giuridico.

[76] Anche con riguardo all’arbitrato rituale, non sono mancate in merito posizioni, che si sono avvalse della categoria dell’ufficio di diritto privato, o che, offrendo una più articolata disamina dei rapporti tra la clausola compromissoria e il, da essa distinto e autonomo, contratto di arbitrato, ritengono che questo costituisca figura sui generis, al quale si applicano, in primo luogo, le norme del codice di procedura civile (806 ss. cod. proc. civ.) e, in caso di insufficienza di queste disposizioni, le norme in tema di mandato e di prestazione d’opera intellettuale: sul tema si v. S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., 45 ss. In giurisprudenza, costante è il riferimento alla figura del mandato: Cass. 28 maggio 2021, n. 14986, in Dejure; Cass. 26 ottobre 2021, n. 30000, in Dejure; Trib. Mil. 09 settembre 2022, n. 2006, in Dejure. In certi casi, più nello specifico, si afferma che si tratti di un “mandato congiunto a comporre la controversia” (Cass. 13 aprile 2022, n. 12058, in Dejure; Trib. Mil. 09 settembre 2022, n. 2006, cit.; concorde, in letteratura, anche M. Marinelli, La natura dell’arbitrato irrituale, profili comparatistici e processuali, Giappichelli, 2002, 105). Peraltro, sul punto, è evidente che gli eventuali ostacoli o, comunque, l’esigenza di rintracciare una compatibilità tra diversi corpi di disciplina, dovuti al dato normativo oggetto degli artt. 806 ss. cod. proc. civ., verrebbero meno laddove si ritenga che queste norme si applichino esclusivamente all’arbitrato rituale. In caso contrario, ci si dovrà confrontare con le criticità all’accoglimento della tesi del mandato evidenziate anche dalla letteratura sul tema: S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., 22 ss. Questo dibattito presenta molti punti di contatto, guarda caso, con la definizione del rapporto intercorrente tra parti del contratto e l’arbitratore, lungo il quale ritroviamo, tra le altre, la tesi del mandato e quella del contratto d’opera: sul tema cfr. sempre E. Gabrielli, L’oggetto del contratto, cit., 252 ss.

[77] Cass. 28 maggio 2021, n. 14986, in Dejure. Cfr. anche Cass. 09 ottobre 2017, n. 23571, in Dejure.

[78] Cass. 13 aprile 2022, n. 12058, cit.

[79] Cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., 332 ss. Di diverso avviso recenti pronunce della Suprema Corte, in cui si esclude l’assimilabilità dell’arbitrato irrituale alla transazione, in quanto la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti: cfr. Cass. 13 aprile 2022, n. 12058, cit.

[80] «Accade talvolta che le parti attribuiscano ad uno o più mandatari di comune fiducia il compito di comporre o prevenire una lite […] se i mandatari sono autorizzati a disporre reciproche concessioni delle parti, le loro determinazioni hanno la natura della transazione, se invece il mandato prevede che essi debbano applicare i criteri del diritto, o dell’equità, le loro determinazioni hanno natura di negozio di accertamento»: così P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Giuffrè, 2018, 464. Contra F. Galgano, Diritto e equità nel giudizio arbitrale, cit., 471. «Come, agendo per conto di entrambe le parti, questi mandatari potrebbe farsi reciproche concessioni?»:

[81] M. Franzoni, Il contratto di accertamento: un paradosso, in Riv. dir. priv., Cacucci, 2021, 193, afferma che non si tratterebbe di un vero e proprio contratto di accertamento, ma «un arbitramento o comunque un atto con finalità integrativa» di un atto di accertamento. Il riferimento all’accertamento, mero riferimento a una presunta categoria sovraordinata ordinante, sarebbe volto a indicare l’atipicità dell’atto, ma sostanzialmente inconferente in punto di disciplina applicabile al lodo: ID., Il contratto di accertamento, cit., 198.

[82] Per una disamina dei fenomeni di dissociazione, sub specie di quelli che si determinano in conseguenza delle ipotesi di sostituzione nella conclusione dei negozi, si rimanda a A. Luminoso, Il mandato, UTET, 2000, 5 ss.

[83] Nel dettaglio, si intende una situazione di incertezza giuridicamente rilevante, non uno stato interiore, un mero stato soggettivo, ma «la traduzione sociale del dubbio, ossia un conflitto tra apprezzamenti di due soggetti diversi»: le parole sono di A. Falzea, Accertamento, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1958, 207 ss. Cfr. A Falzea, Efficacia giuridica, cit., 178 ss. Riflessioni su tale elaborazione che fanno capo alla dottrina richiamata, si rinvengono, da ultimo, anche in P. Sirena, La teoria dell’efficacia giuridica nel pensiero di Angelo Falzea, in Riv. dir. civ., 2017, p. 1011 ss. e in C. Granelli, L’“accertamento” nel pensiero di Angelo Falzea, in Jus civ., 2024, 29 ss.

[84] A. Falzea, Efficacia giuridica, cit., 178 ss.

[85] Sul punto non rileva qui la tripartizione delle sentenze – di accertamento, di condanna, costitutiva – poiché l’ambivalenza propria del giudicato, la quale include le due ipotesi della conservazione e della modificazione riguarda necessariamente ed esclusivamente l’accertamento, presupposto della condanna o dell’effetto costitutivo, i quali rappresentano svolgimenti della situazione giuridica accertata e quindi presuppongono esaurito il primo, distinto e preliminare rispetto a questi svolgimenti giurisdizionali. Sull’efficacia preclusiva «integrale» del giudicato, a differenza, ad esempio, della confessione, i cui effetti preclusivi sarebbero circoscritti alla quaestio facti, cfr. anche S. Patti, Le prove, in Tratt. dir. priv., G. Iudica e P. Zatti, Giuffrè, 2021, p. 114.

[86] Insiste su un diverso piano e non collide con quanto detto – anzi si ritiene che corrobori il ragionamento – il problema della giustizia o ingiustizia della sentenza, sul punto si v. sempre A. Falzea, Accertamento, cit., 213 ss.

[87] A. Falzea, Accertamento, cit., 210 ss. Si tenga conto, ad ogni modo, che le menzionate esigenze di tutela della “giustizia” qua vengono meno, atteso che, nell’ipotesi del contratto di transazione, di seguito esaminato, le parti non tendono all’accertamento della verità. Di questo avviso anche S. Patti, Le prove, cit., 113.

[88] L’accertamento negoziale, secondo autorevole dottrina, rappresenterebbe un equivalente privatistico dell’accertamento giudiziale: F. Carnelutti, Note sull’accertamento negoziale, in Riv. dir. proc. civ., 1940, I, 3 ss.

[89] Cfr. A. Falzea, Efficacia giuridica, cit., questo, all’evidenza, con i limiti contenuti nella disciplina propria della transazione, si v. gli artt. 1971 ss. cod. civ. Il convenuto che sollevasse la exceptio litis per transactionem finitae, in caso di accoglimento della stessa, otterrebbe, analogamente all’eccezione di giudicato, un effetto preclusivo sostanziale: cfr. A. Falzea, Accertamento, cit., 217. Cfr. anche E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, cit., 304, in cui si afferma che la funzione della transazione è di tipo «costitutivo-preclusivo, ossia tende, tramite un effetto costitutivo a realizzare un obiettivo preclusivo puro rispetto all’accertamento negoziale, tale cioè da escludere ogni controllo obiettivo sulla situazione pregressa». L’effetto preclusivo «puro» ivi ascritto alla transazione è circoscritto chiaramente all’area della disponibilità dei diritti e opera in presenza – così richiederebbe il legislatore – delle reciproche concessioni.

[90] A. Falzea, Accertamento, cit., 218 ss. individua l’effetto preclusivo come elemento indefettibile di ogni figura di accertamento. L’espressione “effetto preclusivo di ogni contestazione” del negozio di accertamento era ricorrente anche in giurisprudenza: ad es. si v. Cass. 10 gennaio 1983, n. 161, in Dejure; Cass. 05 giugno 1997, n. 4994, in Dejure.

[91] Una sintesi delle diverse posizioni in merito è operata da A. Gentili, Autonomia privata e potere di accertamento, in Riv. dir. civ., 6, Giuffrè, 2017, 1367 ss. e R. Fercia, Accertamento, in Dig. Disc. Priv. sez civ., Agg., VII, UTET, 2012, 32 ss.

[92] F. Santoro Passarelli, L’accertamento negoziale e la transazione, in Riv. Trim. dir. proc. civ., Giuffrè, 1956, 4 ss., esclude la compatibilità tra negozio giuridico e effetto di accertamento.

[93] La giurisprudenza, spesso, attribuisce al negozio di accertamento efficacia dichiarativa (recentemente anche Cass. 04 dicembre 2023, n. 33777, in Dejure, ma si v. anche, tra le altre, Cass. 17 settembre 2004, n. 18737, in Dejure), non rapportabile a quella costitutiva – propria della transazione (di questo avviso anche M. Franzoni, La transazione, in Trattato dei contratti, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2014, 1084 ss.) – e a quella estintiva, sussumibile in una nozione ampia del verbo “regolare” di cui all’art. 1321 cod. civ.

[94] Vi è chi esclude una recisione in questi termini del contratto di accertamento dal rapporto giuridico “di primo grado” da esso conformato: C. M. Bianca, Il contratto, Giuffrè, 2019, 478 ss. ritiene che l’effetto accertativo rilevi esclusivamente sul piano probatorio, poiché il contratto di accertamento dispensa la parte dall’onere di provare il rapporto come accertato, ponendo, semmai a carico della parte a ciò interessata, l’onere di fornire la prova contraria. Sull’idea che il contratto di accertamento crei esclusivamente una presunzione iuris tantum circa l’esistenza della posizione accertata e riconosciuta, in ciò distinguendosi dal contratto di transazione, V. Roppo, Il contratto, cit., 494 ss; non sembra accoglie la teoria dell’efficacia preclusiva anche S. Patti, Le prove, cit., 113 ss. E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, cit., 306 ss., dimostrando di accogliere un’idea di possibile graduazione dell’effetto preclusivo, sostiene che tale accertamento non possa sopraelevarsi a quello giudiziale al punto da “coprire” anche l’esistenza della situazione controversa, così l’accertamento c.d. preclusivo viene limitato al quomodo e dell’interesse conteso.

[95] Si v. in merito C. Granelli, L’“accertamento” nel pensiero di Angelo Falzea, cit., 41 ss.

[96] Per un’ampia disamina delle impostazioni sul tema si v. sempre C. Granelli, L’“accertamento” nel pensiero di Angelo Falzea, cit., 41. Per quanto attiene alle diverse impostazioni in punto di efficacia della transazione, invece, amplia disamina si rinviene in E. Del Prato, Transazione (dir. priv.), in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, 1992, 813 ss.

[97] E. Navarretta, La causa e le prestazioni isolate, cit., 306 ss: mancando le garanzie fornite dal presupposto causale dell’aliquid datum aliquid retentum, un accordo tra i privati tale da far presumere iuris et de iure l’esistenza del diritto andrebbe a onerare chi vanta un interesse antagonista a tale verità giuridica, contrastando con i limiti di cui all’art. 2698 cod. civ. Sulla portata di suddetti si limiti si veda S. Patti, Le prove, cit., 358 ss. Ancora, con riguardo alle differenze tra transazione e accertamento, dal punto di vista degli effetti di tali negozi, M. Franzoni, Il contratto di accertamento: un paradosso, cit., 188 ss.

[98] C. Granelli, L’“accertamento” nel pensiero di Angelo Falzea, cit., 40.

[99] Di questo orientamento M. Franzoni, La transazione, cit., 1084 ss.

[100] M. Franzoni, La transazione, cit., 1086.

[101] Volta esclusivamente, in negativo, ad escludere che esso venga considerato alla stregua di una sentenza: Cfr. F. Festi, Convenzione di arbitrato, cit., 1246.

[102] Alcuni autori asseriscono che si tratti di un atto che produce gli effetti dell’art. 1372 cod. civ. ma che non «sia un contratto come tutti gli altri […], non essendo affatto soggetto alle impugnative negoziali del codice civile», ma ad una autonoma azione di impugnativa, i cui motivi, tassativamente indicati nell’art. 808ter, appaiono comunque enucleati sulla falsariga dell’impugnazione per nullità del lodo rituale. Si esclude, pertanto, a titolo esemplificativo, l’applicabilità sic et simpliciter degli artt. 1425 ss. cod. civ., nonché la possibilità di fondare l’impugnazione del lodo sui rimedi di cui all’art. 1349 cod. civ., considerati un tempo valvola di garanzia di un sistema non corredato neanche di un minimum di disciplina: B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 312, 323. Si veda anche F. Festi, Convenzione di arbitrato, cit., 1245 ss.

[103] In dottrina, in particolare, si evidenzia che «in ogni caso, con la riforma del 2006, l’arbitrato libero – alla luce dell’art. 808 ter, comma 2, c.p.c. – diviene piuttosto un minus che un aliud rispetto all’arbitrato di cui al codice di rito: si disciplina il lodo contrattuale come un provvedimento sostanziale decisorio anche se con effetti simili (ma non uguali) a quelli di un negozio e senza l’esecutività giudiziale, e non già, invece, come un vero e proprio negozio a tutti gli effetti, quale – se deve rimanere in vita questa figura – essenzialmente è»: C. Consolo, Profili introduttivi, in Trattato di diritto dell’arbitrato diretto da D. Manducci, V, Napoli, 2019, 15. Quando si discorre in ordine alle concrete esigenze sottese all’avvalersi dell’arbitrato irrituale, ci si limita, di solito, ad affermare che il ricorso allo stesso sia (o sia stato) suggerito da esigenze di riservatezza che la pubblicazione del lodo sarebbero poste a rischio o, in generale, dalla volontà di escludere l’ordinamento statale (B. Sassani, L’arbitrato irrituale, cit., 305); per altri invece, la ragione di fondo, prettamente processuale, risiederebbe sulla ragione per la quale, a differenza di quanto accadrebbe per la parte soccombente di un lodo rituale invalido, qui non vi sarebbe la necessità di attivarsi tempestivamente per contestare il lodo medesimo nei termini di decadenza previsti (F.P. Luiso, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, cit., 147 s.).

[104] Sull’istituto e sulle correlate peculiarità in punto di disciplina, cfr. G. Di Rosa, Il mandato, Artt. 1710-1730, Tomo secondo, in Il codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, diretto da F. D. Busnelli, Giuffrè, 2017, 77 ss.

[105] Si segnala, tuttavia, che tale interesse non sembra possa ritenersi sussistente in ragione del solo compenso spettante agli arbitri: cfr. A. Luminoso, Il mandato, cit., 29 e G. Di Rosa, Il mandato, cit., 139. Meno problemi all’identificazione con il contratto di mandato sembrano invece ricorrere con riguardo agli atti che possono formarne oggetto, tra i quali rientrerebbero in ogni caso, non solo i negozi giuridici (A. Luminoso, Il mandato, cit., 39): il riferimento è a quelle ipotesi che arrivano anche a negare o quasi la natura contrattuale del lodo irrituale.

[106] S. Marullo di Condojanni, Il contratto di arbitrato, cit., 30 ss.

[107] Non rileverebbero, di per sé, i vizi che consentirebbero di fondare l’impugnazione negoziale: di questo avviso anche C. Consolo, Profili introduttivi, cit., 13 ss.

[108] E. Del Prato, Transazione (dir. priv.), cit., 813.