Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Aiuto medico a morire e dipendenza da trattamenti di sostegno vitale: verso una tutela ragionevole del diritto del malato a congedarsi dalla vita per liberarsi dal dolore (di Veronica Bongiovanni, Ricercatore di Diritto privato – Università degli Studi di Messina)


Il contributo si concentra sul contrasto interpretativo sorto con riferimento alla delimitazione della portata del requisito della dipendenza da trattamenti sanitari di sostegno vitale, richiesto, per poter ottenere assistenza a morire, dall’ordinanza n. 207/2018 nonché dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale e recentemente ribadito con la sentenza n. 135/2024. Invero, il concetto di trattamento di sostegno vitale non risulta definibile in termini rigorosi né in ambito medico né a fortiori in quello giuridico. Così, posta l’ormai acquisita rilevanza normativa di tale concetto ai fini della possibilità di ricondurre o meno il caso concreto nel perimetro di non punibilità delineato dalla Consulta, è stata avviata un’indagine, considerando le varie letture che sono state date a tale requisito nell’ambito del dibattito dottrinale e dell’elaborazione giurisprudenziale, nell’ottica di individuare l’interpretazione che, in una logica conforme al principio di ragionevolezza, appaia maggiormente in linea con l’impianto assiologico su cui si regge il nostro ordinamento.

Medical aid in dying and dependence on life-sustaining treatments: towards a reasonable protection of the patient's right to take leave of life to free himself from pain

The contribution focuses on the interpretative conflict that arose with reference to the delimitation of the scope of the requirement of dependence on life-sustaining health treatments, required, in order to obtain assistance in dying, by order n. 207/2018 as well as by judgment n. 242/2019 of the Constitutional Court and recently reaffirmed with judgment n. 135/2024. Indeed, the concept of life-sustaining treatment cannot be defined in rigorous terms either in the medical field or a fortiori in the legal field. Thus, given the now acquired normative relevance of this concept for the purposes of the possibility of bringing the specific case within the perimeter of non-punishability outlined by the Consulta, an investigation was started, considering the various interpretations that have been given to this requirement in the context of the doctrinal debate and jurisprudential development, with a view to identifying the interpretation that, in a logic compliant with the principle of reasonableness, appears most in line with the axiological system on which our legal system is based.

SOMMARIO:

1. Le scelte di fine vita nell’attuale assetto ordinamentale e le questioni rimaste ancora aperte dopo l’intervento del legislatore e le pronunce della Corte costituzionale - 2. La problematica delimitazione della portata del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e l’utilizzo, ai fini della valutazione della rilevanza dell’interesse ad ottenere assistenza al suicidio, del criterio prognostico temporale - 2.1. I trattamenti sostitutivi di funzioni vitali, la cui sospensione comporta la morte del paziente in un breve lasso di tempo - 2.2. I trattamenti di supporto all’espletamento di funzioni vitali, la cui sospensione comporta la morte del paziente anche in tempi non rapidi - 2.3. I trattamenti di natura assistenziale non causalmente collegati alla sopravvivenza del paziente - 3. La posizione ambivalente assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza del 18 luglio 2024, n. 135. Profili di criticità - 3.1. I rischi connessi ad un ulteriore ampliamento della portata delle condizioni richieste per accedere alla procedura di suicidio medicalmente assistito e l’esigenza di assicurare una tutela minima del bene vita - 4. L’irragionevolezza della necessaria sussistenza della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale per ottenere un aiuto medico a morire - 4.1. La fattispecie costitutiva del diritto del malato a congedarsi dalla vita per liberarsi dal dolore, alla luce del principio di dignità che ne veicola e conforma l’autodeterminazione - NOTE


1. Le scelte di fine vita nell’attuale assetto ordinamentale e le questioni rimaste ancora aperte dopo l’intervento del legislatore e le pronunce della Corte costituzionale

La materia delle scelte di fine vita risulta oggi, nell’ambito del nostro ordinamento, dalla disciplina di cui alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, che ha riconosciuto il diritto al rifiuto o alla revoca dei trattamenti sanitari finanche di sostegno vitale da parte del paziente capace di agire, nonché dagli interventi della Corte costituzionale di cui all’ordinanza del 16 novembre 2018, n. 207 [1], prima e alla sentenza del 22 novembre 2019, n. 242 [2], poi, che hanno inciso, anche dichiarandone la parziale illegittimità, sull’interpretazione della previsione normativa di cui all’art. 580 c.p., che persegue qualsiasi forma di agevolazione al suicidio.

L’unico intervento legislativo in materia, operato con la legge n. 219/2017, mostra il chiaro intendimento del legislatore di voler tenere distinte le condotte, ritenute lecite, che si concretizzano nel lasciar morire il paziente affetto da una patologia irreversibile e tenuto in vita mediante trattamenti di sostegno vitale, da quelle che consistono nell’agevolarne o determinarne la morte, le quali, invece, si ritengono sussumibili nell’ambito di fattispecie di reato [3]. E ciò in quanto, mentre le prime si intendono coerenti con l’impianto assiologico dell’ordinamento, posto che l’esito letale si ritiene causalmente collegato al decorso non contrastato della malattia, le seconde, considerato che è il comportamento tenuto da un soggetto terzo, seppur con il consenso del paziente, ad agevolarne o a provocarne il decesso, si assumono caratterizzate, almeno nella comune percezione indotta anche da valutazioni di ordine etico e morale, da una maggiore carica offensiva [4].

Pertanto, sulla base di questa normativa, se, per un verso, si richiede al medico di adoperarsi per rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza mediante il distacco o lo spegnimento del macchinario che lo tiene in vita e con il supporto della sedazione profonda continua nonché di un’appropriata terapia del dolore (art. 1, comma 6) [5], per altro verso, non gli è concesso mettere a disposizione o somministrare farmaci che siano diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Così, in giurisprudenza si è da tempo consolidato l’orientamento secondo cui l’apporto del terzo all’esecuzione di una decisione di siffatta portata configuri un delitto contro la persona e, specificamente, contro la vita e l’incolumità individuale, cui segue l’applicazione di un’elevata sanzione penale.

Pertanto, prima che intervenisse la Corte costituzionale, considerato che tutte le condotte agevolatrici di tipo attivo venivano sussunte in fattispecie criminose, nell’ottica di asseverarne l’antigiuridicità e garantirne così la punibilità, emergeva una chiara tendenza dell’ordinamento a trascurare le peculiarità delle varie ipotesi attraverso le quali l’individuo poteva realizzare il proposito di porre fine alla propria vita [6]. Ricorreva, in altre parole, una parossistica resistenza ad accedere ad una visione complessa delle scelte di fine vita, soprattutto se poste in essere mediante l’aiuto altrui, nonché delle vicende esistenziali da cui esse avevano tratto origine.

Tuttavia, in presenza di situazioni in passato inimmaginabili in quanto frutto dell’avvento delle moderne tecnologie mediche, si è posta l’esigenza di apprestare tutela all’interesse del soggetto, il cui corpo sia irrimediabilmente malato, a sottrarsi ad una vita in condizioni per lui inaccettabili. E ciò, in particolare, in ipotesi nelle quali tanto il rifiuto di attivare un trattamento medico quanto la richiesta di interruzione dello stesso, seppur corredati da sedazione profonda continua, avrebbero comportato “un pregiudizio personale intollerabile per durata, sofferenza, implicazioni emotive e identitarie” [7].

In proposito è paradigmatica la vicenda di Fabiano Antoniani, il quale, affetto da una patologia irreversibile che gli procurava sofferenze intollerabili, non era disposto a lasciarsi morire nelle forme e secondo le modalità previste dalla legge e, per poter adottare la scelta di fine vita che riteneva più degna, necessitava dell’assistenza altrui. L’Antoniani, in particolare, respirava per alcuni tratti e a costo di grandi sofferenze in modo indipendente dal respiratore, tale per cui, qualora avesse deciso di lasciarsi morire a mezzo della richiesta di interruzione del trattamento in atto, sarebbe stato di fatto costretto a subire un processo che non lo avrebbe condotto alla morte rapidamente, dovendo restare in vita senza coscienza per un tempo non predeterminabile, carico di sofferenze anche per i suoi cari. Cosicché, decideva ponderatamente di porre in essere all’estero, mediante l’ausilio di un terzo, una scelta di fine vita che è tuttora illecita nel nostro ordinamento nell’ambito del quale è stigmatizzata come suicidio assistito, ma che, in realtà, nulla ha a che fare con il suicidio, tipicamente inteso quale atto commesso autonomamente, con modalità più o meno cruente e in un contesto isolato. Invero, nei casi come quello di Fabiano Antoniani, la morte non è cercata, ma semplicemente tollerata, nel senso che rappresenta l’esito inevitabile di una malattia il cui naturale decorso costringe il soggetto a protrarre la sua mera esistenza biologica [8].

E proprio con riferimento alla qualificazione della condotta del soggetto che ha fornito all’Antoniani un supporto utile ai fini della realizzazione della sua scelta, è intervenuta la Corte costituzionale [9], la quale, nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 580 c.p., ha escluso la punibilità di chi, mediante le modalità di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 219/2017, agevoli l’esecuzione di un proposito di fine vita, autonomamente e liberamente formatosi. Così, in mancanza di un intervento del legislatore, pur sollecitato affinché provvedesse all’adozione di una disciplina diretta a rimuovere il vulnus di tutela riscontrato, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242/2019 [10], il cui contenuto era stato in massima parte anticipato con l’ordinanza n. 207/2018 [11], ha individuato un’area di non punibilità del reato di aiuto al suicidio, circoscritta sulla base della sussistenza di quattro requisiti, relativi alla condizione in cui deve trovarsi la persona che intende essere aiutata nel morire. In particolare, si richiede che tale soggetto sia affetto da una malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che avverte come intollerabili, che sia dipendente da un trattamento sanitario di sostegno vitale e che, infine, goda della capacità di assumere decisioni libere e consapevoli. A tali requisiti di natura sostanziale, se ne aggiungono altri di carattere procedurale, consistenti nella verifica ad opera di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale della sussistenza dei presupposti richiesti e nel previo parere favorevole del comitato etico territorialmente competente.

Cosicché, ad oggi, sono contemplate due modalità per congedarsi dalla vita in presenza dei requisiti fissati, nell’un caso, dalla legge n. 219/2017 e, nell’altro, dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale [12]. Laddove il paziente sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale, potrà, quindi, scegliere tra i percorsi di fine vita consentiti, quello che coincide con la sua personale visione in ordine alla dignità del morire; nel caso in cui, invece, non si trovi in tale situazione di dipendenza, non potrà né lasciarsi morire ex art. 1, comma 5, legge n. 219/17, né accedere al suicidio medicalmente assistito.

Con specifico riferimento a tale profilo è nuovamente intervenuta, con la sentenza del 18 luglio 2024, n. 135 [13], la Corte costituzionale, adita dal G.i.p. del Tribunale di Firenze, la quale ha rigettato un’ulteriore questione di legittimità dell’art. 580 c.p., come da ultimo modificato dalla sentenza n. 242/2019, “nella parte in cui si richiede che la non punibilità di chi agevola l’aiuto al suicidio sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”.

La Corte, in questo suo ultimo arresto, pur prevedendo un limitato ampliamento in ordine alla portata interpretativa del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, pare trincerarsi dietro l’interpretazione già adottata in precedenza, dichiarando di voler integralmente confermare le conclusioni cui era pervenuta nell’ordinanza del 2018 e nella sentenza del 2019. E, quindi, ribadisce l’intenzione di voler eliminare l’irragionevole preclusione all’accesso al suicidio assistito solo ed esclusivamente per i pazienti che, essendo affetti da una malattia irreversibile fonte di sofferenze intollerabili e mantenendo inalterate le proprie capacità decisionali, già godessero del diritto, loro riconosciuto dalla legge n. 219/2017, di lasciarsi morire a mezzo del rifiuto o della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.

Questo limite, tuttavia, si scontra con l’esistenza di una formulazione testuale del parametro normativo di riferimento, ossia l’art. 1, comma 5, legge n. 219/2017, estremamente scarna. Al riguardo, giova ricordare che la maggior parte delle condizioni richieste dalla Corte costituzionale per accedere al suicidio assistito non è prevista espressamente da alcun dato normativo e, quindi, la necessità che essi sussistano è evinta (rectius elaborata) sul piano interpretativo. Invero, l’art. 1 si preoccupa esclusivamente di riconoscere ad “ogni persona capace di agire” – e in alcun altro modo ulteriormente identificata – il diritto di rifiutare o revocare “qualsiasi” trattamento sanitario, ivi compresi la nutrizione e l’idratazione artificiali, esercitabile mediante la prevista procedura medicalizzata.

Tali incertezze a livello interpretativo hanno inevitabilmente comportato lo smarrimento degli operatori sanitari, chiamati a verificare, al fine di autorizzare la procedura di suicidio medicalmente assistito, la sussistenza dei requisiti sostanziali, la cui esatta portata la Corte costituzionale non ha ritenuto di specificare [14]. E ciò riguarda l’accertamento non solo di quelle condizioni del tutto ignorate dalla previsione normativa ma previste dalla Corte, quali la “patologia irreversibile” da cui il paziente deve essere affetto, nonché le “sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili”, ma anche di quelle contemplate dalla legge ed interpretate dalla Corte, quali la “capacità di agire”, qualificata con un diverso e più pregnante significato in termini di “capacità di prendere decisioni libere e consapevoli” [15], nonché il “rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, comunemente indicati come “trattamenti di sostegno vitale”.

Cosicché, mentre non sembra ci siano dubbi con riferimento al fatto che anche sofferenze psicologiche, e non solo fisiche, possano rilevare e che l’intollerabilità delle stesse debba essere valutata sul piano della percezione soggettiva del paziente [16], ci si potrebbe, ad esempio, chiedere in quali casi una malattia grave possa ritenersi irreversibile [17]. E, in particolare, sono da considerarsi tali solo le patologie neurodegenerative, quali la sclerosi multipla e la sclerosi laterale amiotrofica, come nei casi tristemente noti in cui si è consentito l’accesso alla procedura medicalizzata di suicidio assistito o si è ritenuta non punibile la condotta di chi lo abbia agevolato all’estero, o anche quelle oncologiche che risultino non più trattabili né chirurgicamente né farmacologicamente, non residuando più alcuno spazio concreto di reversibilità?

È evidente che la portata di tale requisito debba essere colta in combinato con l’ulteriore condizione richiesta, relativa alla dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, che, come emerge dalle stesse parole dei giudici costituzionali, “svolge, in assenza di un intervento legislativo, un ruolo cardine nella logica della soluzione adottata con l’ordinanza n. 207 del 2018, poi ripresa nella sentenza n. 242 del 2019” [18].

Conclusivamente, appare necessario un tentativo di riordino delle varie interpretazioni che sono state formulate specie in ordine alla portata da attribuire al concetto di trattamento di sostegno vitale, al fine di inquadrare quali procedure rientrino in tale categoria e quali, invece, ne restino fuori e delinearne con sufficiente approssimazione l’attuale ambito applicativo.

A ciò si aggiunga l’esigenza di valutare l’utilità di tale requisito in un’ottica di ragionevolezza della tutela dei soggetti che hanno interesse ad avvalersi della procedura di suicidio medicalmente assistito. Invero, laddove la richiesta di aiuto nel morire provenga da un soggetto che, pur non dipendendo da trattamenti di sostegno vitale, soffre di patologie tali da percepire il proseguimento della sua vita come una condanna e ogni rimedio esperito non abbia dato alcun esito nella prospettiva di migliorarne le condizioni o attenuarne la sofferenza, è lecito chiedersi se sia “giusto che questa persona non possa avere aiuto a staccarsi dalla croce” [19].


2. La problematica delimitazione della portata del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e l’utilizzo, ai fini della valutazione della rilevanza dell’interesse ad ottenere assistenza al suicidio, del criterio prognostico temporale

Il contrasto interpretativo sorto con riferimento alla necessità che il paziente, per poter ottenere assistenza a morire, si trovi in una condizione di dipendenza da trattamenti sanitari di sostegno vitale ha comportato una serie di difficoltà applicative. Invero, la mancanza di indicazioni esaustive in ordine alla delimitazione concettuale di questi trattamenti non consente di ricondurre nell’alveo applicativo della scriminante tutte quelle vicende nelle quali il paziente che intenda ottenere assistenza al suicidio, pur versando in condizioni analoghe a quelle prese in considerazione nell’ordinanza e nella sentenza della Corte costituzionale, non sia però tenuto in vita mediante macchinari funzionali a sostituire specificamente una o più delle attività ivi elencate, né di farvi rientrare quelle che si siano già consumate all’estero, come nel caso da cui ha tratto origine il recente incidente di costituzionalità.

Ora, il concetto di trattamento di sostegno vitale non risulta definibile in termini rigorosi né in ambito medico né a fortiori in quello giuridico. Peraltro, è evidente che il problema non possa essere affrontato esclusivamente sul piano scientifico, trasponendo poi la definizione su un piano diverso e non affine, quale quello giuridico, né sarebbe sensato il procedimento contrario, ricostruendo cioè il concetto su un piano avulso da quello scientifico suo proprio.

Nella letteratura scientifica non pare potersi rinvenire una definizione univoca e condivisa di “trattamento di sostegno vitale”, come emerge dal parere reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica in risposta al quesito posto dal Comitato territoriale della Regione Umbria, in ordine proprio all’individuazione dei criteri da utilizzare per distinguerli dai trattamenti sanitari ordinari. E ciò, in primo luogo, in quanto le fonti scientifiche di consueto se ne occupano esclusivamente in una prospettiva funzionale al miglioramento dell’assistenza; pertanto, non si preoccupano di definirne il significato, ma si concentrano sul profilo dell’efficacia del trattamento da porre in essere per perseguire l’obiettivo consistente nel tenere in vita il paziente e, quindi, a seconda dei casi, sulla necessità di rimodularlo o sull’esigenza di ridurre o sospendere terapie che siano divenute sproporzionate riguardo al fine o intollerabili per il paziente quanto al mezzo [20].

Inoltre, non va trascurata la complessità della moderna prassi clinico-assistenziale, il cui approccio integrato alla cura della malattia implica spesso l’utilizzo anche simultaneo di apparecchi dotati di diversa funzione nonché l’adozione di varie terapie farmacologiche, da modularsi secondo la situazione concreta in cui si trova il paziente [21]. Da qui, pertanto, la natura eminentemente soggettiva e, quindi, variabile, della decisione clinica in ordine ai trattamenti cui sottoporre il paziente da parte del sanitario, il quale, seppur tenuto a conoscere le linee guida o le raccomandazioni elaborate dalle associazioni mediche o dalle società scientifiche, può comunque legittimamente disattenderle, essendo pur sempre chiamato in primis ad utilizzare la sua specifica competenza, adattando il suo operato al caso concreto [22].

Invero, le difficoltà in ordine alla definizione di ciò che debba intendersi per trattamento di sostegno vitale si riscontrano anche in ambito prettamente giuridico. Infatti, la legge n. 219/2017, che riconosce ad ogni persona capace di agire, ex art. 1, comma 5, il diritto di rifiutare o revocare “qualsiasi trattamento sanitario”, ivi compresi la nutrizione e l’idratazione artificiali, prevede unicamente la condotta che il medico è chiamato a tenere nel caso in cui il paziente rifiuti o revochi dei “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”, senza soffermarsi in alcun modo sul significato e sulla portata da attribuire a questi ultimi.

E anche la Corte costituzionale, né nel 2018 né nel 2019, ha fornito alcuna definizione analitica e sistematica della nozione di trattamento sanitario di sostegno vitale, limitandosi a specificare, in via meramente esemplificativa, che tali devono certamente essere considerati trattamenti “quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali” [23].

Cosicché, in ordine alla delimitazione concettuale dei “trattamenti di sostegno vitale”, si può rilevare come risultino diverse interpretazioni, di portata più o meno ampia. In particolare, è dato distinguere un orientamento restrittivo, che considera tali solo quelli sostitutivi di funzioni vitali, da un orientamento estensivo, che comprende anche trattamenti di natura assistenziale, peraltro variamente intesi, e cioè, sulla base di una prima impostazione, quali procedure di supporto all’espletamento di funzioni vitali e, in altra prospettiva, quali trattamenti non strettamente collegati alla sopravvivenza del paziente.

È, dunque, necessario, considerata soprattutto l’ormai acquisita rilevanza normativa di tale concetto metagiuridico ai fini della possibilità di ricondurre o meno il caso concreto nel perimetro di non punibilità delineato dalla Consulta, avviare un’indagine casistica, considerando le varie letture che ne sono state date nell’ambito del dibattito dottrinale e dell’elaborazione giurisprudenziale [24], in modo da poter successivamente tentare di individuare l’interpretazione che, in una logica conforme al principio di ragionevolezza, appaia maggiormente in linea con l’impianto assiologico su cui si regge il nostro ordinamento.


2.1. I trattamenti sostitutivi di funzioni vitali, la cui sospensione comporta la morte del paziente in un breve lasso di tempo

Secondo l’orientamento interpretativo tradizionale, condiviso peraltro dalla maggioranza dei componenti del Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere reso in risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria [25], il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale dovrebbe formare oggetto di una lettura restrittiva, soprattutto nell’ottica di evitare il rischio del potenziale ampliamento del novero dei soggetti legittimati ad ottenere assistenza al suicidio. In particolare, tale requisito avrebbe il ruolo di circoscrivere l’area di non punibilità delle condotte di agevolazione al suicidio, al fine di evitare possibili abusi nella pratica dell’assistenza ad una scelta di fine vita.

In altre parole, l’idea è quella di attribuire alle condizioni legittimanti prescritte dalla Corte costituzionale una portata interpretativa ed applicativa estremamente limitata, in quanto un eventuale ampliamento dell’area di non punibilità si porrebbe in contrasto “con la necessità etica di tutelare la vita e la salute dei soggetti più deboli e vulnerabili, in coerenza con i principi di dignità umana e solidarietà”. E ciò rileverebbe soprattutto con riferimento a determinate categorie di persone vulnerabili, ossia, ad esempio, a quelle che versino in condizioni irreversibili di disabilità o in situazioni di grande fragilità fisica nel tempo cronicizzatasi o psicologica, vivendo in estrema solitudine o reputando la propria malattia fonte di sofferenze intollerabili, le quali, in mancanza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, presenterebbero le condizioni sufficienti per giustificare richieste di suicidio medicalmente assistito.

Si ritiene, dunque, che le condizioni legittimanti debbano essere lette in una chiave interpretativa rigorosa, che consentirebbe l’applicazione della scriminante codificata solo alle vicende (non affini bensì) identiche a quella di Fabiano Antoniani, sul presupposto che la Corte costituzionale nel 2019 abbia inteso aprire una breccia rispetto al divieto assoluto di agevolazione al suicidio solo e unicamente con riferimento all’ipotesi specifica su cui la sentenza è stata modellata, lasciando fuori dall’ambito di liceità dell’aiuto medico a morire tutti gli altri casi egualmente gravi ma privi del suddetto requisito.

Ora, seguendo l’iter logico adottato dalla maggioranza dei componenti del Comitato Nazionale per la Bioetica, per distinguere da un punto di vista clinico i trattamenti di sostegno vitale da quelli ordinari dovrebbe essere utilizzato un criterio interpretativo diretto alla verifica della finalità, dell’intensità e delle conseguenze della sospensione del trattamento. Cosicché, in particolare, ci si troverebbe dinanzi a un trattamento funzionale a consentire la sopravvivenza del paziente laddove esso: sia indirizzato ad affrontare condizioni che mettono a rischio la sua vita in un arco di tempo breve o brevissimo; si caratterizzi per il fatto di impiegare spesso tecnologie avanzate e procedure specialistiche connotate da una forte invasività e continuità nel tempo e la cui sospensione comporti conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione al tipo di trattamento e alle condizioni cliniche del paziente [26].

Ne conseguirebbe, quindi, l’inevitabile limitazione del concetto di trattamenti di sostegno vitale ai soli trattamenti effettivamente sostitutivi di funzioni vitali, la cui sospensione comporterebbe la morte del paziente in tempi brevi. In altri termini, tale requisito assume una rilevanza decisiva ai fini della delimitazione dell’ambito di non punibilità del suicidio medicalmente assistito solo e unicamente entro il perimetro di situazioni patologiche temporalmente ben definite, nella quali ciò che pare rilevare è la prossimità alla morte del paziente in assenza del trattamento sostitutivo.

E proprio da questo angolo visuale, tale impostazione pare evocare quell’approccio interpretativo tradizionale che ammetteva il rifiuto ab origine ma non la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del paziente già in atto, sulla base della perdurante necessità di distinguere tra lasciar morire e provocare la morte del paziente. E ciò in quanto si ritenevano eticamente accettabili solo le condotte omissive, intese quali forme di mera desistenza rispetto al naturale decorso della malattia, e non anche quelle attive, percepite come connotate da una più intensa carica di disvalore e, quindi, maggiormente offensive [27].


2.2. I trattamenti di supporto all’espletamento di funzioni vitali, la cui sospensione comporta la morte del paziente anche in tempi non rapidi

Il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale ha formato oggetto anche di un’in­terpretazione estensiva o addirittura analogica, elaborata dalla giurisprudenza di merito e fondata sull’idea secondo cui dovrebbero essere considerati tali quei trattamenti funzionali a fornire al soggetto malato un “sostegno” in ordine all’espletamento di una delle sue funzioni vitali e non necessariamente diretti ad una loro totale sostituzione, la cui sospensione comporterebbe la morte del paziente in tempi anche non rapidi.

Cosicché, si dovrebbe procedere ad attribuire efficacia vitale non solo alla nutrizione, all’idratazione e alla ventilazione, ma anche a funzioni per le quali il supporto che si rende necessario non sempre implica l’utilizzo di tecnologie avanzate o di apparecchi sofisticati, ma può coinvolgere, nell’ambito di un piano di assistenza complesso, soggetti anche non dotati di qualifiche o competenze specialistiche. Rientrerebbero, quindi, nella categoria tutti quei trattamenti di sostegno alle funzioni respiratoria e cardiaca, renale e biochimica-metabolica assicurata dal sistema gastrointestinale e di depurazione [28].

Ne consegue che l’ambito applicativo della regula iuris introdotta dalla Corte costituzionale nel 2019 non comprenderebbe esclusivamente i casi che presentino caratteristiche identiche a quello all’epoca sottoposto al suo vaglio, ma sarebbe invece destinato ad assumere una più ampia portata.

Tale approccio interpretativo trae spunto da una vicenda in cui si è esclusa la punibilità della condotta di coloro i quali, pur senza rafforzarne il proposito, hanno materialmente agevolato il suicidio di Davide Trentini, avvenuto nell’aprile del 2017 in una clinica svizzera, per autosomministrazione di una sostanza letale.

La Corte d’Assise di Massa ha proceduto all’applicazione retroattiva della scriminante configurata dalla Corte costituzionale sulla base della c.d. clausola di equivalenza, che ne ha consentito l’estensione ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza – e, in questo caso, anche all’entrata in vigore della legge n. 219/17 – laddove “l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti” [29].

Nello specifico è stata verificata in concreto la sussistenza dei seguenti requisiti sostanziali: la malattia irreversibile, in quanto il Trentini era affetto da sclerosi multipla secondariamente progressiva ossia da una “malattia demielizzante del sistema nervoso centrale a decorso cronico progressivo”; la sofferenza fisica, considerato che il soggetto, pur assumendo antidolorifici sempre più forti e a dosaggi sempre più alti, pativa dolori intollerabili e la volontà dell’interessato, manifestata in modo chiaro e univoco, di porre fine alla propria vita. Inoltre, nella sentenza si dà conto del rispetto da parte dei sanitari della clinica svizzera di una procedura medicalizzata di assistenza al suicidio affine a quella prevista dall’art. 1 della legge n. 219/2017 per il caso della rinuncia e del rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza, consistente in una fase informativa, in cui il paziente viene messo al corrente delle sue effettive condizioni, nonché delle alternative terapeutiche cui potrebbe essere sottoposto, compresa la possibilità di accedere ad un percorso di cure palliative, e in una fase di accertamento, mediante l’espletamento di colloqui con i medici, della sussistenza in capo al soggetto della capacità di prendere decisioni libere e consapevoli [30].

Quanto al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, anch’esso viene, grazie ad una lettura estensiva, ritenuto sussistente, in quanto si constata come il Trentini, nonostante non dipendesse da alcun macchinario, si trovava comunque in una condizione di estrema e totale dipendenza da altri trattamenti sanitari, nello specifico di tipo farmacologico ed assistenziale, che, in quanto tali, avrebbero potuto essere rifiutati sulla base di quanto previsto dalla legge n. 219/2017 e la cui sospensione avrebbe comunque comportato, esattamente come nel caso di Fabiano Antoniani, “un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte” [31]. Se, quindi, il Trentini, come ribadito dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova, aveva il diritto di interrompere tali trattamenti, allora non c’era alcun valido motivo per negargli “il diritto di rinunciare a vivere ancor prima di affrontare la brutale agonia che la sua gravissima malattia gli avrebbe imposto” [32].

Peraltro, al medesimo esito interpretativo la Corte d’Assise di Massa perviene seguendo anche un altro iter argomentativo, sulla base del quale si constata una chiara ed evidente similitudine tra il caso concreto su cui la Corte costituzionale ha forgiato la scriminante e la situazione in cui versano i pazienti, che, come il Trentini, si trovano “in una condizione di oggettiva ed assoluta dipendenza da un’altra persona” per l’espletamento di funzioni e bisogni vitali. Così, nel caso di specie, vengono ritenuti sussistenti tutti i requisiti che sono in grado di rendere lecita la prestazione della condotta agevolativa del suicidio, compreso quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, rispetto al quale il dubbio circa la sua effettiva sussistenza viene risolto pro reo. In particolare, si procede ad un’applicazione analogica in bonam partem della scriminante ad una condotta agevolativa del suicidio di un soggetto che versava in una condizione simile a quella in cui si trova chi dipende da un macchinario che ne consente la sopravvivenza.

All’orientamento elaborato dalla giurisprudenza di merito si sono successivamente conformate alcune Aziende sanitarie locali, chiamate in prima battuta a verificare la sussistenza dei requisiti necessari ai fini dell’accesso alla procedura medicalizzata di suicidio assistito. Così è avvenuto, ad esempio, nel primo caso gestito dal Servizio sanitario nazionale e conclusosi nel novembre 2023, con l’autosomministrazione di un farmaco letale da parte della paziente. In particolare, la Commissione medica multidisciplinare, nominata dall’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) di Trieste [33] ha ritenuto, in aderenza all’interpretazione adottata nel caso Trentini, che la paziente, sebbene non dipendente da macchinari o trattamenti tali per cui la sospensione degli stessi ne avrebbe determinato il decesso a breve termine, fosse comunque da intendersi sottoposta a trattamenti di sostegno vitale, dovendosi riconoscere, nel caso di specie, la dipendenza da una terapia farmacologica [34], nonché meccanica da un supporto ventilatorio nelle ore di sonno notturno [35] ed assistenziale continua per l’espletamento dei propri bisogni vitali [36] da parte di soggetti terzi [37].


2.3. I trattamenti di natura assistenziale non causalmente collegati alla sopravvivenza del paziente

Nell’ambito del dibattito relativo al significato da attribuire al requisito della dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale si è, poi, posto il problema di includervi anche trattamenti diretti a fornire al malato un aiuto per lo svolgimento di attività quotidiane, seppur non causalmente connessi alla sua sopravvivenza.

La possibilità di un ulteriore ampliamento della portata di tale requisito è stata valutata nella vicenda giudiziaria che ha riguardato il suicidio assistito di Massimiliano Scalas, avvenuto presso una clinica svizzera nel 2022, mediante autosomministrazione di un farmaco letale. In particolare, nel caso di specie, era emersa la sussistenza di quasi tutte le condizioni sostanziali e procedurali richieste ai fini dell’applicazione della scriminante, posto che il soggetto: era affetto da sclerosi multipla, ossia da una malattia ritenuta irreversibile allo stato delle attuali conoscenze scientifiche; pativa sofferenze da lui percepite come intollerabili; aveva concepito, maturato e mantenuto la decisione di darsi la morte in modo libero e consapevole e aveva di fatto realizzato il suo proposito seguendo una procedura medicalizzata particolarmente articolata e in grado, quindi, di offrire garanzie equivalenti a quelle previste dalla legge n. 219/2017 ai fini della formazione di un’autentica volontà di morire [38].

Tuttavia, quanto al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, si era rilevato come il soggetto non fosse sottoposto a terapie farmacologhe salvavita né fruisse di alcun tipo di assistenza indispensabile ai fini della sua sopravvivenza. Cosicché, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze, prima di decidere di adire la Corte costituzionale, si è chiesto se fosse possibile fornire una lettura alternativa di tale requisito, che ne consentisse, adottando un’interpretazione costituzionalmente orientata, di estenderlo anche a trattamenti di natura assistenziale privi di efficacia vitale, considerato che il soggetto, pur conservando integre molte delle sue funzionalità corporee, richiedeva con sempre maggiore frequenza, a causa della progressiva immobilizzazione degli arti, l’aiuto di soggetti terzi per lo svolgimento delle attività fisiologiche quotidiane [39].

Si è, quindi, tentato di accostare analogicamente, seguendo l’iter metodologico avviato dalla giurisprudenza di merito nel caso Trentini, due diverse situazioni che sembravano presentare “un’affinità di sostanza e di ratio”, ossia quella in cui si richiedono trattamenti sanitari di natura meccanica, farmacologica o assistenziale indispensabili per l’espletamento di una qualche funzione vitale e quella in cui, invece, il trattamento di sostegno di cui si fruisce non sia dotato di alcuna efficacia vitale, nel senso che la sua sospensione non determinerebbe la morte del soggetto “secondo un giudizio condizionalistico controfattuale declinato in concreto”. In questa prospettiva, il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale avrebbe dovuto essere interpretato in modo da includervi tutte le ipotesi in cui “la sopravvivenza del malato dipende direttamente da altri … siano essi cose o persone” [40].

Ora, un tale ampliamento del perimetro concettuale del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, seppur teorizzato, viene ritenuto non condivisibile dal G.i.p. di Firenze, il quale, chiamato a valutare se la condotta posta in essere dagli indagati avesse o meno influito causalmente sulla realizzazione dell’atto suicidiario, ha concluso di non poter applicare la scriminante configurata dalla Corte costituzionale alla fattispecie sottoposta al suo vaglio, non ritenendo sussistente il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, e di non poter, quindi, assecondare la tesi di cui alla richiesta di archiviazione. E ciò in quanto si può dubitare della stessa possibilità di ricondurre alla categoria dei trattamenti sanitari prestazioni, seppur continuative, di natura meramente assistenziale. In particolare, si è rilevato come l’assistenza prestata genericamente da soggetti terzi, soprattutto se non dotati di competenze specialistiche, non sia facilmente inquadrabile già nel perimetro di significato attribuibile alla nozione di “trattamento”, che di per sé non sembra evocare un qualsiasi mero intervento esterno, seppur funzionale all’espletamento di una funzione vitale, ma “una più pregnante e qualificata ingerenza sul corpo e sulla salute del paziente”.

A ciò si aggiunga che nella logica del percorso argomentativo sviluppato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza del 2018 e poi nella sentenza del 2019 ricorre il riferimento espresso a vicende di fine vita ritenute ragionevolmente affini alle ipotesi di rifiuto o revoca dei trattamenti necessari alla propria sopravvivenza di cui all’art. 1, comma 5, legge n. 219/2017. Ora, se tra i trattamenti sanitari la norma comprende la nutrizione e l’idratazione artificiali, allora, da questo angolo visuale, si potrebbe sostenere, sulla base di un’interpretazione letterale oltre che considerando l’esito cui è pervenuto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che siano tali solo quelli che presentino determinate caratteristiche e quindi che, ad esempio, abbiano formato oggetto di una previa valutazione e prescrizione medica o che implichino il ricorso a dispositivi medici o la cui esecuzione debba avvenire sotto monitoraggio di un sanitario.

In questa prospettiva, pertanto, non ogni “aiuto a vivere” sembrerebbe in grado di giustificare la non punibilità delle condotte di “aiuto a morire” [41].


3. La posizione ambivalente assunta dalla Corte costituzionale con la sentenza del 18 luglio 2024, n. 135. Profili di criticità

Sulla questione è da ultimo intervenuta la Corte costituzionale con sentenza n. 135/2024, assumendo però una posizione ambivalente, che se, da un lato, lascia trasparire una certa apertura, dall’altro, nel rigettare tutte le censure di incostituzionalità, si rivela ancora estremamente prudente e misurata [42].

Invero, alcune delle perplessità paventate dal G.i.p. di Firenze in ordine alla delimitazione concettuale dei trattamenti di sostegno vitale vengono superate dalla Corte, mediante l’adozione di un approccio interpretativo tendenzialmente conforme alla ratio delle precedenti decisioni del 2018 e del 2019, ma al tempo stesso dotato di una portata moderatamente estensiva. Così, si ritiene che siano qualificabili in termini di trattamenti sanitari tutte le procedure praticate sul corpo del paziente, indipendentemente dal fatto che comportino una particolare ingerenza o che siano connotate da un certo grado di complessità tecnica e di invasività, ivi incluse quelle che, seppur generalmente compiute da personale sanitario specializzato, possano essere apprese ed eseguite da familiari o caregivers. Queste procedure, tuttavia, per assurgere al rango di trattamenti di sostegno vitale devono in concreto rivelarsi necessarie per assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, nel senso che la loro omissione o interruzione ne comporterebbe la morte in un breve lasso di tempo.

Si accede, quindi, a quell’orientamento interpretativo avallato dalla giurisprudenza di merito nel caso Trentini, attribuendo al trattamento di sostegno vitale anche una funzione assistenziale, seppur sempre collegata alla sopravvivenza del paziente; vi rientrerebbero, pertanto, tutti quei trattamenti che, pur non essendo sostitutivi di funzioni vitali, consistano in un’attività di supporto che ne permetta comunque l’espletamento.

La Corte condivide, poi, l’indirizzo maggioritario espresso in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica, quanto all’utilizzo del criterio prognostico temporale, secondo cui la sospensione del trattamento di sostegno vitale dovrebbe comportare la morte del paziente in un breve lasso di tempo. Ritiene, tuttavia, in parte discostandosi dal parere reso dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che non sia necessario, affinché sussista un trattamento di sostegno vitale, che ricorrano procedure specialistiche connotate da una forte invasività e continuità e che implichino l’impiego di tecnologie avanzate.

Così, constatato che il paziente, laddove sia dipendente da un tale trattamento assistenziale, si trovi nella medesima situazione delineata dall’ordinanza del 2018 prima e dalla sentenza del 2019 poi, potendo legittimamente scegliere di rifiutare anche tali procedure ed esercitare in tal modo il diritto a lasciarsi morire che l’art. 1 della legge n. 219/2017 gli conferisce, risulta, all’esito della valutazione della Corte, “irragionevole che il divieto penalmente sanzionato di assistenza al suicidio nei suoi confronti possa continuare ad operare”.

Ora, come si evince da questo recente cambiamento di latitudine della sua portata, il concetto di trattamento di sostegno vitale ha formato oggetto di un intervento interpretativo solo moderatamente estensivo, nel senso che restano fuori dal relativo perimetro applicativo tutte quelle procedure di supporto al paziente che, pur essendo di fondamentale importanza per lo svolgimento di attività quotidiane, non siano causalmente collegate alla sua sopravvivenza. E ciò in quanto, in questo caso, il paziente, anche laddove decida di non volersi sottoporre a tali procedure, anche di carattere lato sensu sanitario, non si troverebbe nella medesima situazione di colui il quale, invece, scelga di lasciarsi morire esercitando il diritto a rifiutare o a revocare un trattamento necessario ad assicurare la sua sopravvivenza, previsto dalla legge n. 219/2017. Cosicché, pur constatandone l’affinità in ordine all’intensa sofferenza e prostrazione, nonché alla stringente necessità di assistenza altrui anche per il soddisfacimento delle più semplici esigenze della quotidianità, è dalla diversità tra le suddette ipotesi che si trae – ad avviso della Corte costituzionale – l’argomento decisivo per non accogliere la censura di irragionevole disparità di trattamento tra situazioni analoghe, formulata dal G.i.p. di Firenze con riferimento al presunto contrasto con l’art. 3 Cost. [43] nonché con l’art. 14 CEDU, quale parametro interposto di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost. [44].

La Corte costituzionale non ha, inoltre, ritenuto condivisibile neanche la tesi secondo cui la dipendenza da un trattamento di sostegno vitale implicherebbe una illegittima compressione dell’autodeterminazione del paziente.

Ora, con riferimento al punto relativo alla presunta violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., tra loro in combinato disposto, l’iter argomentativo proposto non appare del tutto convincente sotto vari profili. In particolare, la Corte se, da un lato, ammette che la decisione sulla fine della propria vita rientri tra quelle più significative nell’esistenza dell’individuo, dall’altro, sembra ritenere che un ulteriore estensione della libertà di scelta del malato in ordine alle terapie finalizzate a liberarlo dalle sofferenze comporti l’accoglimento di una nozione diversa ed eccessivamente ampia di autodeterminazione terapeutica [45]. Si tratterebbe, pertanto, di mantenere distinto il diritto del paziente di rifiutare i trattamenti sanitari, finanche se necessari a garantire la sua sopravvivenza, dalla situazione soggettiva, strutturalmente differente, delineata dall’ordinanza del 2018. Così, mentre il primo, che trae appunto fondamento dal combinato disposto delle tre norme costituzionali, si caratterizzerebbe primariamente come “libertà negativa” del paziente “a non subire interventi indesiderati sul corpo e nel corpo, anche laddove tali interventi abbiano lo scopo di tutelare la sua salute o la sua stessa vita”, assumendo un contenuto sovrapponibile a quello del diritto all’integrità fisica, intimamente legato alla tutela della dimensione corporea della persona contro ogni ingerenza esterna non previamente consentita [46], la seconda, invece, dovrebbe intendersi funzionale alla protezione della “sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona” [47].

L’idea di fissare un argine alla libertà di autodeterminarsi del soggetto è, peraltro, ribadita nel rigettare un’ulteriore censura di incostituzionalità per il presunto contrasto dell’art. 580 c.p., come interpretato a seguito della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, con il principio di dignità. Sul punto il G.i.p. di Firenze ha rilevato come anche il quadro legislativo vigente si esponga a dubbi di illegittimità costituzionale, imponendo al paziente affetto da una malattia irreversibile che sia fonte di sofferenze intollerabili – esattamente come la normativa precedente che si è ritenuto violasse il principio di dignità nel prevedere “un’unica modalità per congedarsi dalla vita” – l’estenuante attesa, peraltro di non predeterminabile durata, di un peggioramento delle sue condizioni che renda necessaria l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale.

Sul punto, in realtà, la Corte sceglie di non rispondere, trincerandosi prima dietro la nozione oggettiva di dignità, che, in quanto immanente nel nostro ordinamento, non consentirebbe di affermare che il divieto penalmente sanzionato di cui all’art. 580 c.p. “costringa il paziente a vivere una vita, oggettivamente, “non degna” di essere vissuta” [48]. Laddove, poi, si tratta di valutare se sussista o meno un contrasto con la nozione soggettiva di dignità, evocata dall’ordinanza di rimessione e già assunta quale parametro di riferimento del ragionamento giuridico dalla Corte nell’ordinanza del 2018 [49], si ritiene che essa, da intendersi connessa non solo alla “concezione che il paziente ha della propria persona” ma anche al suo “interesse a lasciare una certa immagine di sé”, non sia destinata ad acquisire un’autonoma rilevanza, finendo per coincidere con il concetto di autodeterminazione.

Ora, in primo luogo, la scelta di invocare la nozione oggettiva di dignità sembra del tutto inconferente, in quanto assumere che ogni vita sia portatrice di “un’inalienabile dignità” [50], quasi a voler richiamare un approccio epistemologico di matrice religiosa, è quantomai inaccettabile in un contesto, quale è quello di specie, in cui il discorso giuridico involge l’esigenza di apprestare tutela all’interesse di un soggetto, prigioniero di un corpo irrimediabilmente malato, di porre fine alle proprie estenuanti sofferenze.

In questo particolare ambito, il richiamo al principio di dignità avrebbe avuto senso solo ed esclusivamente all’opposto fine di ritenere non degna per l’uomo una vita fatta solo di dolore. In questa prospettiva, scevra da condizionamenti ideologici, costringere qualcuno a vivere in una condizione di estrema sofferenza, non può che apparire disumano e, quindi, indegno [51].

Risulta, inoltre, non condivisibile anche il passaggio che riguarda la presunta sovrapponibilità tra la nozione soggettiva di dignità e quella di autodeterminazione, in quanto entrambe evocherebbero l’idea secondo cui ciascun individuo dovrebbe poter compiere da sé le scelte fondamentali che riguardano la sua esistenza, ivi incluse quelle che attengono alla propria morte.

Al contrario, a ben guardare, la dignità, soggettivamente intesa, assume la chiara funzione di specificare la scelta di fine vita adottata in virtù dell’esercizio dell’autodeterminazione, orientandola verso la tutela di un bene che attiene specificamente all’esperienza della fine di una sofferenza insostenibile [52]. Cosicché, il divieto di agevolazione del suicidio è destinato a ledere il principio di dignità non solo nella misura in cui non consente al soggetto di compiere la scelta di fine vita che ritiene più in linea con le sue convinzioni, ma anche e soprattutto in quanto lo priva della possibilità di congedarsi anzitempo dalla vita per liberarsi di un dolore che avverte come insopportabile.

Quanto, poi, all’idea che la nozione soggettiva di dignità abbia a che fare con la volontà del paziente di “lasciare una certa immagine di sé”, la Corte in quest’occasione sembra contraddire sé stessa, tralasciando di considerare ciò che, invece, nell’ordinanza e nella sentenza precedenti era emerso con forza dirompente, ossia il collegamento tra la dignità del soggetto gravemente malato e la sofferenza delle persone a lui più vicine [53]. È, in particolare, da quest’angolo visuale che si erano ritenuti sussistenti gli estremi di un conflitto con il principio di dignità, rilevando come la previsione di “un’unica modalità per congedarsi dalla vita” avrebbe costretto il paziente “a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità del morire”, anche nella prospettiva delle sofferenze cui potevano essere esposte “le persone che gli sono care” [54].


3.1. I rischi connessi ad un ulteriore ampliamento della portata delle condizioni richieste per accedere alla procedura di suicidio medicalmente assistito e l’esigenza di assicurare una tutela minima del bene vita

La scelta della Corte costituzionale di adottare una linea interpretativa moderatamente estensiva del concetto di trattamento di sostegno vitale pare, in realtà, mal conciliarsi con l’asserita mancanza di profili di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. Invero, le due parti della sentenza, l’una diretta a contestare le censure di presunta illegittimità, e l’altra rivolta, invece, verso un seppur modesto ampliamento delle condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito, certamente appaiono tra loro non ben coordinate. In questa prospettiva, sarebbe stato maggiormente coerente con l’impianto logico di questa nonché delle decisioni precedenti accogliere almeno una delle questioni sollevate nell’ordinanza di rimessione – quale, in particolare, quella relativa all’irragionevole disparità di trattamento – dichiarando la parziale illegittimità costituzionale della disposizione normativa, laddove, in presenza degli ulteriori requisiti richiesti, considera punibile la condotta agevolativa del suicidio di un soggetto che dipenda da trattamenti di natura assistenziale, anche praticati da personale non specializzato, che consentano l’espletamento di funzioni vitali [55].

Peraltro, la Corte costituzionale, non solo mostra di avere perfetta contezza delle decisioni di segno opposto adottate da una serie di giudici stranieri anche costituzionali, che hanno tratto dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità, nonché dal principio di dignità umana, l’esistenza di un diritto fondamentale a disporre della propria vita anche mediante l’aiuto di terzi [56], ma, laddove si tratta di valutare il presunto contrasto con l’art. 8 CEDU, quale parametro interposto di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost., non esita a riferirsi ad alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo nelle quali si afferma espressamente che il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà rappresenti una delle articolazioni del più ampio diritto al rispetto della propria vita privata [57].

Tuttavia, sempre richiamando la giurisprudenza della Corte Edu, secondo cui, in mancanza di un esteso consenso tra i vari ordinamenti dei Paesi del Consiglio d’Europa, è legittimo che ciascuno di essi mantenga un considerevole margine di apprezzamento in ordine al bilanciamento tra i diritti in gioco [58], si ritiene di pervenire ad una diversa conclusione, affermando che non sussistano profili di incostituzionalità della disposizione censurata e dichiarando, quindi, non fondata la relativa questione di illegittimità. E ciò nell’ottica di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana, il duplice ordine di rischi che un ulteriore ampliamento dello spazio riconosciuto all’autonomia della persona, nel contesto del suo fine vita, comporterebbe.

  1. a) In primo luogo, l’introduzione di una legislazione permissiva, che estenda la portata della decriminalizzazione delle condotte agevolative del suicidio, potrebbe creare, in assenza di adeguate garanzie sostanziali e procedurali, una “pressione sociale indiretta”, spingendo alcune categorie di persone, tendenzialmente fragili, a volersi dare la morte anzitempo[59]. E, seguendo l’iter argomentativo sviluppato dalla Corte costituzionale, l’ordinamento non potrebbe permettersi di correre tale rischio[60], stante il dovere di tutelare il bene vita non solo perseguendo le condotte abusive poste in essere da soggetti terzi a danno della persona che compia la scelta di fine vita ma anche evitando il prodursi di quello che la Supreme Court of United Kingdom e il Bundesverfassungsgericht tedesco hanno definito “un fenomeno di normalizzazione del suicidio” [61], che abbia l’effetto di far percepire come comprensibile e, quindi, assecondabile la determinazione volitiva di chi, perché ad esempio malato o solo o depresso, si sia convinto di essere ormai divenuto un peso per i propri familiari e per l’intera società.

È, quindi, apparso opportuno procedere frapponendo il limite della tutela della vita umana, nell’ottica di arginare una più ampia decriminalizzazione, ad un ulteriore ampliamento della portata del diritto della persona di porre fine alla propria esistenza mediante l’aiuto altrui [62]. In particolare, si richiama il principio della tutela minima della vita umana, ribadendo come il compito del giudice costituzionale non sia quello di sostituirsi al legislatore nell’individuazione del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulle questioni che attengono alla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita, bensì, soltanto, quello di “fissare il limite minimo, costituzionalmente imposto alla luce del quadro legislativo oggetto di scrutinio, della tutela di ciascuno di questi principi”, restando poi ferma la possibilità per il legislatore di individuare soluzioni che assicurino all’uno o all’altro un diverso livello di protezione, anche più intenso [63].

In questo specifico ambito, sembra, pertanto, che la previsione normativa di cui all’art. 580 c.p., come interpretata alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale da ultimo con la sentenza del 2024, sia da intendersi una regolamentazione a contenuto costituzionalmente vincolato, nel senso che accorda, cioè, quel “minimo di tutela” che risulta imposto in relazione a determinate situazioni. Da qui l’attribuzione di un significativo spazio di discrezionalità al legislatore, “al quale spetta primariamente il compito di offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di estrema sofferenza”, fermo restando il dovere di assicurare loro sia tutte le terapie appropriate, incluse quelle necessarie a ridurre le sofferenze determinate dalle patologie da cui sono affetti “a proporzioni tollerabili” sia ogni sostegno di natura assistenziale, economica, sociale e psicologica di cui necessitino [64].

  1. b) In secondo luogo, per giustificare la scelta di non estendere la non punibilità anche a chi assista un soggetto che soddisfi tutti i caratteri del potenziale fruitore del suicidio assistito tranne quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, la Corte mostra di condividere la preoccupazione, espressa dalla Corte Edu da ultimo nella sentenza resa sul caso Karsai v. Hungary, in ordine ad un ulteriore rischio, connesso alle difficoltà di accertamento dell’autenticità della richiesta[65]. In particolare, sarebbe estremamente complesso, se non addirittura impossibile nelle situazioni più gravi in cui il paziente perde la capacità di comunicare, verificare la sussistenza di una decisione autonoma e realmente libera da influenze esterne.

Ora, entrambi i rischi, l’uno connesso al teorizzato indebolimento della tutela del bene vita, l’altro relativo invece alle concrete difficoltà di accertamento di una volontà autentica di accedere alla procedura di suicidio medicalmente assistito, sembrano in realtà potersi sovrapporre e dovrebbero quindi essere letti come un unico rischio, posto che il primo non può che intendersi assorbito dal secondo.

Invero, l’affermazione secondo cui l’ordinamento avrebbe il dovere di tutelare la vita degli stessi soggetti che intendono porvi fine di fronte a condotte altrui, consistenti (non solo in un’istigazione ma anche) in un’agevola­zione del suicidio, si rivela quantomai apodittica se riferita a chi chiede liberamente e consapevolmente di essere aiutato a morire [66], in quanto, se ormai può dirsi scardinato il dogma dell’assoluta indisponibilità della vita, ciò che dovrebbe rilevare su un piano strettamente giuridico è l’accertamento dell’autenticità della scelta. In questa logica, la perseguibilità del reato deve intendersi non volta a proteggere la vita in sé come bene indisponibile ma diretta a garantire che la condotta agevolativa “non sia assunta quale effetto di una volontà viziata e immatura, ovvero manifestata in circostanze che non consentono adeguate opportunità di ripensamento” [67].

Pertanto, in una prospettiva laica, il vero e unico rischio sotteso a quella che è ormai diventata una questione politica, di esclusiva competenza del legislatore, riguarda l’accertamento della volontarietà della scelta di fine vita e, quindi, attiene alla necessità di individuare i criteri in base ai quali ritenerla pienamente libera e autonoma [68], considerato che, trattandosi della condotta autolesiva per eccellenza, lo standard di volontarietà richiesto nonché le garanzie procedurali previste per il relativo accertamento dovranno essere di livello particolarmente elevato [69].


4. L’irragionevolezza della necessaria sussistenza della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale per ottenere un aiuto medico a morire

La necessaria sussistenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, in uno con le altre condizioni di natura sostanziale e procedurale richieste dalla sentenza n. 242/2019 ai fini dell’accesso alla procedura di suicidio medicalmente assistito, è stata ribadita nel suo ultimo arresto dalla Corte costituzionale, la quale, pur ampliandone la portata applicativa, ne ha comunque confermato l’indispensabilità [70].

Cosicché, ad oggi, al di là delle ipotesi in cui sia consentito adottare una lettura estensiva di questo requisito, non è possibile riscontrarlo nei casi in cui i soggetti interessati non beneficino di alcun supporto meccanico per l’espletamento delle loro funzioni vitali né siano sottoposti a terapie farmacologiche salvavita o a trattamenti di natura assistenziale la cui sospensione ne comporterebbe il decesso.

Pertanto, tale requisito ha ormai assunto una portata generale, travalicando i confini della situazione peculiare su cui è stato ritagliato, nonché una funzione qualificante rispetto a quello della malattia irreversibile, nel senso che non ogni patologia ritenuta non più trattabile chirurgicamente o farmacologicamente e, quindi, priva di qualsiasi prospettiva di guarigione può, di per sé sola, consentire al malato, che lo scelga in libertà e consapevolezza, di ottenere un aiuto per liberarsi dalle sofferenze intollerabili che è costretto a patire.

Ora, a ben guardare, l’opzione interpretativa prescelta dalla Corte costituzionale, sin dall’ordinanza del 2018 che per prima ha individuato la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale quale condizione necessaria per accedere alla procedura, rivela la chiara intenzione di “oggettivizzare” quanto più possibile i requisiti richiesti al fine di attribuire rilevanza all’interesse ad ottenere un aiuto a morire in presenza di una malattia irreversibile e di una sofferenza intollerabile. Tuttavia, come emerge dalla prassi e come rilevato da autorevole dottrina, questo stato di dipendenza, di dubbia definizione già sul piano scientifico prima ancora che su quello giuridico [71], ha rappresentato e continua a rappresentare “un argine precario” [72], contribuendo a ledere la già frustrata effettività della tutela che la Corte costituzionale ha più volte affermato di voler garantire in ordine alla concreta accessibilità alla procedura di suicidio medicalmente assistito [73]. Non può, dunque, che ritenersi vana, in questo particolare contesto, la ricerca di uno standard rispetto al quale parametrare la situazione di fine vita, con riferimento sia alla gravità della malattia, già ritenuta irreversibile, sia all’intolle­rabilità delle sofferenze, che risulta evidentemente da una percezione soggettiva.

E, in questa prospettiva, si intende il motivo per il quale il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale rappresenti, come rilevato dalla stessa Corte, un unicum nel panorama legislativo e giurisprudenziale comparato dei vari ordinamenti che disciplinano la materia.

Per tutte queste ragioni, sembra auspicabile, come peraltro afferma la stessa Corte, un intervento normativo, che potrebbe anche prevedere, nel solco della linea interpretativa tracciata dalla Corte, il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale quale condizione necessaria per accedere alla procedura [74].

Così, lo scenario che si prospetta per il prossimo futuro è molto aperto: da un lato, non si può certamente escludere che la Corte costituzionale possa essere nuovamente interpellata; dall’altro, potrebbe finalmente raggiungersi un’intesa parlamentare che conduca all’approvazione di un testo condiviso che disciplini la materia [75]; in ultimo, resta sempre la possibilità che si continui ad indugiare nell’attuale impasse, senza riuscire ad offrire agli interessi emergenti in questo particolare ambito una tutela adeguata.

Nel primo caso, la Corte costituzionale, dovendo fare i conti con l’interpretazione di un concetto, quale quello dei trattamenti di sostegno vitale, dal carattere strutturalmente aperto e, quindi, estremamente duttile sul piano interpretativo, “potrà far espandere ovvero contrarre a fisarmonica la formula dei trattamenti in parola, con esiti al momento del tutto inimmaginabili” [76], con ciò continuando ad alimentare il clima di incertezza che connota l’odierna regolamentazione della procedura di suicidio medicalmente assistito.

Nel secondo caso, invece, il legislatore, al cui ruolo è certamente assegnata centralità, come di consueto accade laddove si tratti di affrontare complesse questioni attinenti ai diritti della persona [77], potrebbe, avvalendosi del margine di discrezionalità connaturato alla sua funzione, intervenire nella ricerca “del punto di equilibrio in astratto più appropriato tra il diritto all’autodeterminazione di ciascun individuo sulla propria esistenza e le contrapposte istanze di tutela della vita umana”, anche individuando “soluzioni che assicurino all’uno o all’altro una tutela più intensa” [78].

Così, a differenza della giurisprudenza costituzionale, la quale resta “vincolata nei suoi sviluppi dal materiale normativo già ospitato nell’ordinamento”, “non potendo aggiungere “pezzi” che in esso non si “incastrino” (quasi) alla perfezione”, il legislatore, non dovendo sottostare a tale limite, potrebbe, pur rispettando i principi fissati dalla Corte [79], introdurre un testo che, nel disciplinare l’aiuto medico a morire, sia in grado di andare oltre quanto già previsto dalla legge n. 219/2017 [80] e reinterpretato dall’ordinanza n. 207/2018 e dalla sentenza n. 242/2019, alla luce delle precisazioni da ultimo apportate con la sentenza n. 135/2024 [81].

Con riferimento ad una possibile riforma della materia, ci si deve però chiedere se è ragionevole che lo stesso criterio del sostegno vitale venga contemplato in un eventuale intervento normativo, quale condizione necessaria per accedere alla procedura di aiuto medico a morire [82]. E, inoltre, la sussistenza della dipendenza da tali trattamenti è effettivamente rilevante ai fini della tutela degli interessi e dei valori coinvolti? E, laddove si risponda negativamente ad entrambi i quesiti, sulla base di quale principio il legislatore potrebbe andare oltre l’esistente, ridefinendo la portata sostanziale della tutela da attribuire agli interessi emergenti in questo particolare contesto?

Ora, la Corte ha inteso tracciare una netta linea di demarcazione tra le vicende che riguardano i soggetti dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, nell’accezione moderatamente ampliata adottata con il suo ultimo arresto, e quelle, invece, che afferiscono a coloro i quali, pur essendo affetti da una malattia irreversibile che procura loro sofferenze intollerabili, non versino in una situazione di dipendenza da tali trattamenti. Cosicché, posta l’eterogeneità di queste situazioni, non ricorrerebbero gli estremi per ritenere irragionevole precludere, in assenza di tale requisito, la possibilità di accesso alla procedura di aiuto a morire e, pertanto, non sussisterebbe alcuna disparità di trattamento.

E ciò in quanto, stante il riconoscimento dell’esistenza di un nesso inscindibile tra la disciplina dell’aiuto al suicidio e quella di cui alla legge n. 219/2017 quale punto di riferimento nella definizione di ciò che il paziente può decidere di rifiutare o sospendere, le uniche condotte ammesse sarebbero quelle consistenti nell’agevolazione del suicidio di un soggetto che, ai sensi dell’art. 1, comma 5, potrebbe già avvalersi del diritto alla rinuncia o al rifiuto di “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza”.

Se così è, l’unico ostacolo per poter accostare le due situazioni, connotate in realtà dalla medesima gravità per quanto attiene al soggetto richiedente e da un’identica carica offensiva per quanto riguarda la posizione del terzo agevolatore [83], risiederebbe nell’impossibilità per la Corte costituzionale di fornire un apporto interpretativo distonico e contrastante rispetto alla regolamentazione normativa esistente. Ne deriva che, laddove intervenisse, il legislatore potrebbe, invece, avvedendosi delle ingiustificate disparità di trattamento tra le suddette situazioni, optare per l’eliminazione del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, quale condizione di accesso alla procedura di aiuto medico a morire [84].

Invero, la previsione di una diversa disciplina tra chi è dipendente da tali trattamenti e chi non lo è non appare giustificata, in quanto l’avverarsi di questa condizione, come aveva condivisibilmente rilevato il G.i.p. di Firenze, scaturisce da circostanze del tutto accidentali, legate alle peculiarità dei casi concreti, essendo strettamente connesse allo stato clinico generale della persona interessata, al modo di manifestarsi della malattia, alla natura delle terapie disponibili in un certo tempo e in un dato luogo, nonché ad un eventuale rifiuto opposto ab origine dal paziente [85]. Pertanto, non porre tali situazioni sul medesimo piano in punto di trattamento giuridico appare del tutto irragionevole e, quindi, foriero di ingiuste disparità [86], in quanto la sussistenza o meno di questo requisito non incide in alcun modo né sull’irreversibilità della malattia né sull’intollerabile sofferenza che ne deriva, che “costituiscono aspetti slegati da un dato – … del tutto casuale – quale il tipo di trattamento che il paziente riceve in un dato momento” [87].

Inoltre, la sussistenza o meno del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale appare del tutto irrilevante ai fini della tutela dei diritti e dei valori di cui la Corte assume necessario il bilanciamento in tali vicende di fine vita. In particolare, come peraltro affermato in più occasioni dalla stessa Corte [88], se la ratio della regolamentazione della fattispecie di suicidio medicalmente assistito risiede nella necessità, costituzionalmente imposta, di tutelare non solo le persone più fragili ma qualunque soggetto da condotte autolesive che possano essere, per le ragioni più varie, non sufficientemente ponderate, risulta evidente che il ricorrere di una situazione di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non rappresenti una condizione utile e necessaria ai fini del perseguimento di tale obiettivo di tutela. Invero, la presenza di questo requisito non è certamente indice di assenza di una condizione di vulnerabilità né è in grado di apportare alcunché in ordine all’autenticità della determinazione volitiva del soggetto richiedente l’aiuto [89].

Peraltro, sarebbe opportuno non confondere un’interpretazione etica con un approccio di stampo tendenzialmente paternalistico, sulla base del quale, in mancanza di interferenze esterne, un soggetto malato, in quanto fragile, viene sostanzialmente considerato incapace di assumere una scelta di siffatta portata, quasi a voler creare una categoria intermedia tra capacità e incapacità [90].

Cosicché, se è vero, come la Corte costituzionale ha già avuto modo in passato di affermare, che il divieto penalmente sanzionato di aiuto a morire “assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” [91], è anche vero che, laddove non sussista alcun condizionamento, non può ad oggi ritenersi ragionevole privare un soggetto affetto da una malattia irreversibile e perfettamente capace di autodeterminarsi della possibilità di congedarsi dalla vita per liberarsi delle sofferenze intollerabili che patisce, sol perché non sia (ancora) dipendente da trattamenti di sostegno vitale [92].


4.1. La fattispecie costitutiva del diritto del malato a congedarsi dalla vita per liberarsi dal dolore, alla luce del principio di dignità che ne veicola e conforma l’autodeterminazione

Con riferimento all’elaborazione di una disciplina su un tema così controverso, con forti implicazioni etiche, è inevitabile rilevare come allo stato il dibattito continui a risentire di una tendenza alla polarizzazione, che condiziona e vizia i termini del bilanciamento tra i beni costituzionalmente tutelati ritenuti in conflitto, ossia l’autodeterminazione e la dignità, da un lato, e la vita, dall’altro.

In realtà, però, si dovrebbe tentare di guardare il problema non attraverso una lente rigida, ma adottando quanto più possibile un approccio attento alla sostanza degli interessi emergenti, che sia in grado di identificare il reale [93] ed individuare i valori coinvolti in tali vicende di fine vita, valorizzandone la dimensione intersoggettiva [94]. Così, di fronte ai progressi della scienza e della tecnica che consentono oggi, da un lato, di procrastinare il termine dell’esistenza e, dall’altro, di anticiparlo, mediante la somministrazione o l’autosom­ministrazione di una sostanza letale, l’ordinamento è chiamato a verificare se, in questo contesto, sia possibile riscontrare l’esistenza di uno o più valori giuridici, che siano realmente espressivi degli interessi dei consociati e che possano intendersi da essi condivisi.

Ed è da questo angolo di osservazione che si rileva come, talvolta, in situazioni patologiche gravi, connotate da insostenibili sofferenze, si verifichi un processo di oggettivazione del corpo, che inizia ad essere percepito come qualcosa di estraneo da sé, di cui volersi liberare [95]. In altre parole, il corpo diviene un oggetto non più impregnato di quelle connotazioni di carattere soggettivo che lo rendevano “un luogo dell’io” né più contaminato da elementi affettivi ed identitari; da qui il venir meno dell’identificazione tra il sé e il corpo dell’individuo, cosicché il primo non si riconosce più nel secondo, tanto da non volerne più subire le sorti [96].

In questi casi, il soggetto, laddove sia costretto a vivere nel suo corpo in presenza di una patologia che lo affligge gravemente, può sperimentare una condizione di disidentificazione, destinata a permanere fintantoché non trovi realizzazione la sua personale determinazione volitiva, che, incidendo sulla sua sfera fisica, gli consente di liberarsi dalle sofferenze e riappropriarsi della sua dignità, realizzando istanze afferenti alla sua sfera spirituale [97]; ed è proprio in questo momento che trova nuovamente composizione la dissociazione tra la sua realtà corporea e il suo sé.

Constatata, dunque, la sussistenza di questa esigenza reale [98], non si tratta più di capire quale delle due visioni, autonoma o eteronoma, debba prevalere, bensì di adeguare le regole alle situazioni di interesse che appaiono giuridicamente rilevanti se colte mediante un approccio complesso [99], funzionale alla valorizzazione della dimensione sociale [100] e, quindi, intersoggettiva di quel valore su cui converge una molteplicità di punti di vista diversi che si pongono tra loro in una relazione di reciproca comprensione, ossia della dignità umana [101], volta al perseguimento del “bene integrale” della persona [102]. In altre parole, è assumendo la dignità come criterio non bilanciabile, ma semmai dirimente nell’operazione di bilanciamento di altri valori [103], che il legislatore può rilevare le analogie tra situazioni egualmente gravi e dolorose nonché i limiti a tali analogie.

Si tratta, però, a ben guardare, di un concetto di dignità che non solo non si può declinare in senso strettamente oggettivo, come se pertenesse a tutti gli uomini in egual misura e a tutte le vite umane che ne sono portatrici, ma non è neanche da intendersi in senso esclusivamente soggettivo, ossia afferente alla percezione personale che ogni soggetto ha del proprio vivere e del proprio morire [104]. Ora, è evidente che, nell’indi­viduazione di ciò che deve essere considerato “degno” per il paziente, non si possa prescindere dal suo personale convincimento nonché dalla sua consapevole determinazione volitiva; cosicché, ciò che da uno può essere percepito come degno, per un altro può apparire indegno [105]. Tuttavia, non si può dubitare del fatto che dalla sofferenza patita a causa di malattie gravi e irreversibili, quindi intesa nella sua oggettività di realtà tangibile e condivisa, derivino interessi meritevoli di protezione giuridica e ciò indipendentemente dalla percezione soggettiva che il singolo ne può avere.

In questa prospettiva, la dignità, lungi dal sovrapporsi con l’autodeterminazione [106], come invece sostenuto dalla Corte nel suo ultimo arresto, pare invece in grado di veicolarla e conformarla, indirizzandola, sul modello del diritto di autodeterminarsi alla morte, di ben più ampia portata, elaborato dal Bundesverfassungsgericht tedesco [107], verso la tutela dell’interesse a godere di una vita degna [108], mediante il riconoscimento al malato, in presenza di adeguate garanzie di carattere sostanziale e procedurale [109], del diritto ad essere aiutato a morire per liberarsi dalle sofferenze. Cosicché, la fattispecie costituiva di tale diritto risulterebbe da tre sole componenti essenziali, ossia la capacità di autodeterminarsi, la malattia irreversibile e la sofferenza fisica o psichica intollerabile, senza che rilevi in alcun modo il trattamento che tale malattia o tale sofferenza ricevano.

Verrebbe, dunque, in rilievo una situazione soggettiva autonoma, che deriva dalla combinazione del principio dell’intangibilità della dignità umana e del diritto di autodeterminazione, cui, in ambito convenzionale, ci si riferisce, ai sensi dell’art. 8 CEDU, con la pregnante espressione di “diritto al libero sviluppo della propria personalità” [110]. Un diritto, certamente “infelice” [111], ma prima di tutto “umano” [112].


NOTE

[1] V. Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, in dejure.it. Sul tema, tra gli altri, v. E. Bilotti, Ai confini dell’autodeterminazione terapeutica. Il dialogo tra il legislatore e il giudice delle leggi sulla legittimità dell’assistenza medica al suicidio, in Corr. giur., 2019, 457 ss.; P. Veronesi, Per una legge sull’aiuto al suicidio (e l’eutanasia volontaria) dopo l’ord. cost. n. 207 del 2018: una possibile mappa, in Studium iuris, 2019, 561 ss.; Id., Un’incostituzionalità (solo) “di fatto” del reato di aiuto al suicidio: in attesa del seguito del “caso Cappato”, in Studium iuris, 2019, 277 ss.; C. Tripodina, Non possedere più le chiavi della propria prigione. Aiuto al suicidio e Costituzione tra libertà, diritti e doveri, 2019, consultabile su biodiritto.org; S. Canestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la richiesta di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, in Dir. pen. cont., 2019, 1 ss.; ed ampiamente in F.S. Marini-C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207/2018, Esi, Napoli, 2019.

[2] V. Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, in dejure.it. Sul tema, tra gli altri, v. S. Seminara, Morte assistita, suicidio ed eutanasia (tra Corte costituzionale, quesito referendario e Parlamento), in Dir. pen. proc., 2022, 935 ss.; A. Apostoli, Principi costituzionali e scelte di fine vita, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2021, 239 ss.; M. Azzalini, Prigionieri del noto? La Consulta chiude il caso Cappato ma rischia di perdersi nel “labirinto” del fine vita, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 357 ss.; A. Gorgoni, L’aiuto al suicidio tra vita, autodeterminazione, integrità e dignità del malato, in Giur. it., 2020, 1053 ss.; P. Veronesi, “Ogni promessa è debito”: la sentenza costituzionale sul “caso Cappato” tra dubbi e certezze, in Studium iuris, 2020, 131 ss.; E. Bilotti, La Corte costituzionale ripristina il confine dell’autodeterminazione terapeutica, ma… lascia solo ai medici il compito di presidiarlo, in Corr. giur., 2020, 485 ss.; M. Dogliotti, Il suicidio assistito e il difficile rapporto tra i poteri dello Stato, in Fam. dir., 2020, 232 ss.; A. Morrone, Il caso e la sua legge. Note sulla vicenda Cappato/Dj Fabo, in Fam. dir., 2020, 244 ss.; P. Pittaro, Il dibattuto tema del suicidio assistito: quando la Corte Costituzionale supplisce il legislatore, in Fam. dir., 2020, 257 ss.; A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242/2019), in Giustizia insieme, 2019, consultabile su giustiziainsieme.it; C. Tripodina, La “circoscritta area” di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata, in Corti supreme e salute, 2019, 1 ss.

[3] Se ne trae conferma anche dalle riflessioni maturate in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica e contenute nel parere in tema di “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente – medico”, del 24 ottobre 2008, 12 s., consultabile su bioetica.governo.it. Sul punto v. A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Corti supreme e salute, 2019, 203 s., secondo il quale il presupposto etico – giuridico su cui si fonda l’equilibrio della legge n. 219/2017 risiede nella “distinzione tra uccidere sic et simpliciter, che è sempre un atto artificiale, e lasciar morire accompagnando la persona nel suo fine vita”, laddove sia già in atto una patologia irreversibile di per sé sufficiente a determinare la morte. In particolare, “lasciar morire accompagnando la persona nel suo fine vita significa accogliere l’idea che, quando la persona si trovi in condizioni tali per cui il trattamento non fornisce ragionevoli speranze di un miglioramento delle condizioni di salute, ma soltanto prolunga il tempo della morte e delle sofferenze rispetto a quello che sarebbe l’esito naturale, il c.d. «distacco della spina» è solo una forma di desistenza da un tentativo terapeutico, per lasciar riprendere il processo del morire. Invece, uccidere significa agire direttamente per dare la morte senza nulla a che vedere col processo naturale di quest’ultima”. Sembra condividere tale posizione D. Paris, Dal diritto al rifiuto delle cure al diritto al suicidio assistito (e oltre). Brevi osservazioni all’ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, in Corti supreme e salute, 2018, 493 ss., secondo il quale la legge n. 219/2017 “recepisce nella sostanza l’importante distinzione fra rifiuto delle cure ed eutanasia, garantendo pienamente il primo e rifiutando chiaramente la seconda. Si tratta di una distinzione che, pur se non priva di zone grigie, non difetta certo di ragionevolezza nel suo impianto fondamentale”.

[4] V. parere del Comitato nazionale per la bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, cit., 12 s.

[5] Nonostante la mancanza di un’apposita previsione normativa che consenta al medico di sottrarsi all’attuazione della volontà del paziente qualora essa sia in contrasto con la propria morale, parte della dottrina ritiene, utilizzando l’ultimo inciso del comma 6 dell’art. 1, che il medico possa comunque esercitare un’obiezione di coscienza, non avendo alcun obbligo professionale di assecondare richieste aventi ad oggetto “trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico – assistenziali” (v. M.N. Bugetti, La disciplina del consenso informato nella legge 219/2017, in Riv. dir. civ., 2019, 118). La norma, in particolare, andrebbe coordinata con l’art. 22 del codice deontologico che, tranne nel caso in cui il rifiuto di cure non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, stabilisce che il medico possa “rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico – scientifici”. In tal modo, si è assunta l’esistenza di uno spazio, all’interno della disciplina di cui alla legge n. 219/2017, per l’obiezione di coscienza da parte del singolo medico, rimettendo alla struttura sanitaria, ai sensi del comma 9 dell’art. 1, il compito di individuare soluzioni che consentano di non inficiare l’effettività della tutela.

Tuttavia, per evitare un uso strumentale della previsione normativa di cui all’art. 1, comma 6, al fine di sottrarsi al compimento di atti necessari a dare attuazione alla volontà del paziente, pregiudicando così la ratio stessa dell’intero provvedimento, parrebbe più opportuno riferire tale previsione, che sconta probabilmente un’impropria collocazione nell’ambito del provvedimento, all’ipotesi dell’ostinazione del paziente, ossia alla richiesta di trattamenti sproporzionati o inattendibili, in quanto non scientificamente validi (in questo senso, v., tra gli altri, D. Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 295; R. Calvo, La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento, in Studium Iuris, 2018, 691; P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 250).

Quanto, poi, alla sostanza del problema, l’unico eventuale spazio applicativo per un’obiezione di coscienza sarebbe quello relativo all’ipotesi della revoca di trattamenti già avviati, considerato che consentire ad un medico di non assecondare la volontà del paziente di rifiutare preventivamente le cure vitali si tradurrebbe in un inaccettabile trattamento coatto. A tal proposito, è certamente comprensibile che alcuni medici possano attribuire un significato del tutto diverso alle condotte di astensione rispetto a quelle di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, facendone un problema di coscienza. Tuttavia, può ritenersi che la revoca sia funzionalmente omogenea al rifiuto delle cure di sostegno vitale, in quanto appare chiaro che il significato e la portata della condotta non siano destinati a mutare a seconda che si lasci morire il paziente o ci si adoperi al fine di accelerarne la morte (v. M. Azzalini, Il diritto alla rinuncia e al rifiuto di cure necessarie alla propria sopravvivenza nella l. n. 219/2017: questioni aperte e nuove prospettive di tutela dell’integrità della persona, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 113). Cosicché, è ben possibile che la mancata previsione dell’obiezione di coscienza risponda ad una logica precisa di garanzia di effettività della tutela, al fine di evitare l’uso distorto che, in altri ambiti, quale ad esempio quello dell’interruzione di gravidanza, si è fatto e si continua a fare di tale strumento.

[6] In particolare, se l’atto causativo della morte è posto in essere dal paziente, seppur agevolato dal terzo, la condotta di quest’ultimo si ritiene inquadrabile in termini di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. e, se il suicidio avviene, è punita con la reclusione da cinque a dodici anni; qualora, invece, sia intervenuto un terzo, adottando, su richiesta del paziente, un comportamento attivo che ne abbia causalmente determinato la morte, si afferma la ricorrenza di una pratica eutanasica, punita più severamente, in quanto assimilata alla fattispecie criminosa di cui all’art. 579 c.p., ossia all’omicidio del consenziente, per il quale è prevista la pena della reclusione da sei a quindici anni.

[7] M. Azzalini, Prigionieri del noto? La Consulta chiude il caso Cappato ma rischia di perdersi nel “labirinto” del fine vita, cit., 358.

[8] V. M. Azzalini, Prigionieri del noto? La Consulta chiude il caso Cappato ma rischia di perdersi nel “labirinto” del fine vita, cit., 362 s., secondo il quale “chi opta per l’aiuto nel morire sceglie la rinuncia ad un breve segmento di permanenza sfigurata nel mondo non per tedium vitae o per desiderio di rinuncia alla vita in sé, ma per intollerabilità di un’esistenza che la malattia ha ridotto irreversibilmente ad un menzognero e tragico simulacro”. Cosicché, ciò che rileva, in questo caso, non è un’intenzione propriamente suicidiaria, in quanto il soggetto non ambisce alla morte come fine principale, ma “finisce per tollerarla quale effetto collaterale” di un percorso che rappresenta l’unica opzione tollerabile rispetto ad una vicenda di malattia che ha sfigurato il proprio sé.

[9] Con riferimento a quello che è comunemente noto come “caso Cappato”, la Corte d’Assise di Milano aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., con particolare riferimento a quella parte della disposizione in cui si incriminano, oltre alle condotte di istigazione al suicidio, quelle di aiuto o agevolazione, a prescindere dal rispettivo apporto alla determinazione o al rafforzamento del proposito del soggetto di porre fine alla propria esistenza.

[10] V. il dibattito tra A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2019, 256, il quale, con riferimento ad alcune sentenze della Corte costituzionale e, tra queste, a quella resa sul caso Cappato, afferma che “supremazia della costituzione e legittimazione del giudice costituzionale sono continuamente coinvolti. Tutelare l’una rafforza l’altra; e la seconda, alimentandosi della prima, consente al custode di coniare nuovi moduli (di giudizio e di decisione), superando le regole processuali esistenti, riscrivendo norme sostanziali, modificando l’equilibrio dei poteri” (corsivi dell’A.) e R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale, Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 2019, 757 ss., secondo il quale tale sentenza riassume in sé due profili: “la frustrazione di un giudice che vede i suoi “moniti” sistematicamente ignorati dal legislatore, il quale sui temi “eticamente sensibili” segna sempre l’impasse” e la “frustrazione del giudice a cui il legislatore non è capace di fornire strumenti duttili che gli consentano di operare fuori della logica tutto/niente che presiede alle alternative segnate dalla legge 87/1953”. Si tratterebbe, in altre parole, di “una decisione sorprendente e per molti versi contestabile, frutto forse di un uso incauto del diritto comparato: ma certo non si può dire rappresenti una decisione “sovranista”. Né, nel caso specifico, si può dire che sia una sentenza che rappresenta «una forma di denegata giustizia»: provocando il rinvio del giudizio penale contro Cappato … si protrae lo spettacolo politico innescato dalla sua auto-denuncia, ma non si lede certo la tutela dei diritti dell’imputato”.

[11] Critici rispetto alla tecnica adottata dalla Corte, tra gli altri, M. Dogliotti, Il suicidio assistito e il difficile rapporto tra i poteri dello Stato, cit., 242; A. Morrone, Il caso e la sua legge. Note sulla vicenda Cappato/Dj Fabo, cit., 247 ss.

[12] Si tenga presente che una scelta di fine vita può essere adottata anche in chiave prospettica, ossia mediante disposizioni anticipate di trattamento (d.a.t.), unicamente da soggetti capaci, i quali, prima di perdere coscienza, possono, con le modalità di cui all’art. 4 della legge n. 219/2017, rifiutare o rinunciare ai trattamenti sanitari, anche se necessari alla loro sopravvivenza; peraltro, non sembra sussistere alcun valido motivo per non consentire loro di ottenere, in presenza dei requisiti richiesti dalla Corte costituzionale, un aiuto medico a morire.

[13] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, in dejure.it. Sul tema v., tra gli altri, A. Ruggeri, La Consulta equilibrista sul filo del fine-vita (a prima lettura di Corte cost. n. 135 del 2024), in Consulta online, 2024, 931 ss., consultabile su giurcost.org; P. Veronesi, A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il “fine vita” in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2024, 1 ss.; M. R. Donnarumma, La tutela del diritto alla vita e il suicidio medicalmente assistito nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. pen., 2024, 1 ss., consultabile su giurisprudenzapenale.com; F. Vivaldelli, «Questa Corte intende qui integralmente confermare». Note a margine di Corte costituzionale n. 135/2024 in tema di trattamenti di sostegno vitale e aiuto al suicidio, in Corti supreme e salute, 2024, 1 ss.; B. Liberali, Ancora sul fine della vita. Commento a Corte Costituzionale n. 135/2024. Legislatore, giudici comuni e Corte costituzionale fra libertà di lasciarsi morire, diritto a non vivere in determinate condizioni e diritto all’aiuto al suicidio, in giustiziainsieme.it, 2024.

[14] Sottolinea il carattere generico di tali condizioni R. Balduzzi, L’alleanza terapeutica può includere l’aiuto a morire?, in Corti Supreme e Salute, 2019, 182.

[15] V. F. Giardina-P. Malacarne, L’art. 580 cod. pen. è ancora incostituzionale? Aiuto a morire e dipendenza da «trattamenti di sostegno vitale», in Nuova giur. civ. comm., 2024, 357, in cui si definisce pregevole lo sforzo del G.i.p. di Firenze di attribuire alla capacità di prendere decisioni libere e consapevoli un significato più pregnante rispetto sia alla mera capacità di intendere e di volere, sia al dato negativo dell’assenza di condizionamenti esterni. In questa logica, il significato della condizione richiesta dalla Corte costituzionale può rendersi in termini di riferibilità della scelta di morire a un «processo di costruzione della volontà», dunque non ad una puntiforme manifestazione di consenso. In tal modo la volontà del paziente viene intesa non come punto di partenza, ma come punto di arrivo. In altre parole, si evoca l’identità della persona come imprescindibile ed essenziale riferimento”.

[16] V. Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit., passim, laddove si utilizza la congiunzione disgiuntiva per indicare le sofferenze derivanti dalla patologia irreversibile (sofferenze fisiche “o” psicologiche), che rilevano in quanto la persona le “reputa intollerabili”.

[17] Dal clima di incertezza sono, peraltro, sorti dubbi paradossali circa la possibilità, apparentemente incontestabile, di considerare irreversibile la sclerosi multipla a decorso cronico progressivo, quale era quella da cui era affetto Davide Trentini (sulla cui vicenda si rinvia al par. 2.1), considerato che “per quanto fonte di grandi sofferenze … non conduce a morte sicura” (il passaggio, tratto dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Genova del 28 aprile 2021, consultabile su giurisprudenzapenale.com, riproduce l’obiezione formulata dall’Ufficio dell’Accusa appellante e pronunciata dalla Corte d’Assise di Massa, in data 27 luglio 2020, consultabile su biodiritto.org).

[18] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., par. 7.1 del Considerato in diritto.

[19] P. Zatti, L’incompiuta e il diritto alla propria morte. In margine al Commento all’ord. GIP Firenze di Francesca Giardina e Paolo Malacarne, in Nuova giur. civ. comm., 2024, 429.

[20] V. Comitato Nazionale per la Bioetica, Risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023, 20 giugno 2024, 7, consultabile su bioetica.governo.it.

[21] L. Romano, Riflessioni bioetiche sui trattamenti di sostegno vitale: la sentenza n. 135/2024 della Corte costituzionale, in Corti Supreme e salute, 2024, 858.

[22] V. F. Giardina-P. Malacarne, cit., 359, in cui emerge come il punto di vista tecnico rivesta certamente notevole importanza nella discussione sulla portata da assegnare al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, nonché sulla sua stessa utilità. L’approccio del medico è, infatti, prezioso proprio per mettere in luce le criticità insite nella verifica della sussistenza di un tale trattamento nella pratica clinica. Così, se, da un lato, si rileva come la sospensione dei trattamenti sanitari di tipo meccanico, farmacologico o assistenziale possano condurre alla morte del paziente in un periodo non coincidente né sovrapponibile, che va da pochi minuti (ad es. la sospensione della ventilazione meccanica) ad alcune settimane (come nel caso, ad es., della sospensione di alcune terapie farmacologiche), dall’altro lato, si mette in luce come la variabilità nel giudizio clinico possa anche portare ad indicazioni diverse ma egualmente valide da parte dei medici, in ordine ai trattamenti sanitari cui sottoporre la medesima persona malata.

[23] V. Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., par. 8 del Considerato in diritto.

[24] Sul punto si vedano, in particolare, le interessanti affermazioni contenute nella dichiarazione di non partecipazione al voto del Prof. Stefano Canestrari, in relazione al quesito posto dal Comitato Etico Territoriale della Regione Umbria al Comitato Nazionale per la Bioetica (v. Comitato Nazionale per la Bioetica, Risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023, cit., 11 ss.), il quale, ai fini della definizione del contenuto della nozione di trattamento di sostegno vitale, ritiene indispensabile “un dibattito tra discipline scientifiche, un dibattito pubblico, un confronto (interno alle e) tra le forze politiche, una discussione parlamentare in grado di valorizzare le tante competenze specialistiche che devono essere coinvolte”.

[25] V. Comitato Nazionale per la Bioetica, Risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023, cit., 9 s.

[26] V. Comitato Nazionale per la Bioetica, Risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023, cit., 7 s.

[27] V. parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, cit., 13, in cui alcuni componenti rilevano come il comportamento consistente nel lasciar morire il paziente, dando seguito alla sua volontà di rinunciare ai trattamenti di sostegno vitale, pur non coincidendo con una condotta eutanasica, sia in alcune circostanze eticamente problematico, anche se giuridicamente accettabile, sussistendo il dovere morale del medico di prestare le cure, oltre che una responsabilità individuale e sociale del paziente di salvaguardare la propria vita.

[28] V., in particolare, la posizione di minoranza assunta dai componenti del Comitato Nazionale per la Bioetica, Risposta al quesito del Comitato territoriale della Regione Umbria del 3 novembre 2023, cit., 11.

[29] V. Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit., par. 7 del Considerato in diritto.

[30] V. Corte d’Assise di Massa, 27 luglio 2020, cit., con nota di F. Lazzeri, A che punto è la notte? La liceità dell’aiuto al suicidio, oltre DjFabo: la nozione di “trattamenti di sostegno vitale” nella sentenza sul caso Trentini, in Sistema penale, 14 settembre 2020, consultabile su sistemapenale.it.

[31] V. Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., par. 8 del Considerato in diritto.

[32] V. Corte d’Assise d’Appello di Genova, 28 aprile 2021, cit.

[33] V. parere della Commissione medica multidisciplinare del 3 agosto 2023, istituita a seguito della decisione del Tribunale di Trieste su ricorso d’urgenza presentato da una paziente che intendeva fruire della procedura ma la cui richiesta, presentata in data 4 novembre 2022, non aveva ottenuto alcuna risposta, con cui è stata accertata la sussistenza dei requisiti previsti dalla sentenza n. 242/2019 (consultabile su associazionelucacoscioni.it).

[34] La sospensione di tale terapia avrebbe comportato un irrigidimento della muscolatura della gabbia toracica e a una condizione di insufficienza respiratoria tale da determinarne la morte anche in maniera non rapida.

[35] Si trattava, in particolare, di un ausilio respiratorio la cui sospensione avrebbe potuto comportare una condizione di ipercapnia ed insufficienza respiratoria tale da determinare la morte della paziente anche in maniera non rapida. Peraltro, trattandosi di un soggetto che già utilizzava la muscolatura respiratoria accessoria, non si poteva escludere che la progressione della malattia e/o eventuali patologie intercorrenti potessero rendere successivamente indispensabile l’utilizzo costante del supporto ventilatorio.

[36] La paziente, nello specifico, necessitava di assistenza sia per l’esecuzione di clisteri evacuativi giornalieri per l’espletamento dell’alvo, senza i quali sarebbe andata incontro a occlusione intestinale e al rischio di perforazione del viscere tali da determinarne la morte anche in maniera non rapida, sia per l’espletamento dei propri bisogni vitali (igiene personale, gestione della continenza, vestirsi, alimentarsi in modo autosufficiente, idratarsi, possibilità di passare da una posizione all’altra e di camminare in modo indipendente).

[37] Tale impostazione viene, peraltro, successivamente avallata dal Nucleo etico per la pratica clinica istituito in seno all’ASUGI, il quale, seguendo l’iter procedurale delineato dalla Corte costituzionale, prende atto dell’avvenuto accertamento della sussistenza dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito e delle individuate modalità di esecuzione dello stesso e adotta un parere favorevole, ritenendo che “il percorso metodologico sia stato condotto nel rispetto della tutela dei diritti, della dignità e dei valori della persona e che la condizione di vulnerabilità sia stata ampiamente supportata dagli organi tecnici competenti” (consultabile su associazionelucacoscioni.it).

[38] È evidente che la realizzazione del suicidio assistito presso una clinica estera è incompatibile con alcuni passaggi procedurali richiesti, quali la riserva di prestazione a carico del sistema sanitario nazionale e il parere del comitato etico, applicabili solo a procedure gestite e a prestazioni erogate all’interno del territorio nazionale.

[39] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, consultabile su biodiritto.org. Sul tema v., tra gli altri, F. Giardina-P. Malacarne, L’art. 580 cod. pen. è ancora incostituzionale? Aiuto a morire e dipendenza da «trattamenti di sostegno vitale», cit., 356 ss.; P. Zatti, L’incompiuta e il diritto alla propria morte. In margine al Commento all’ord. GIP Firenze di Francesca Giardina e Paolo Malacarne, cit., 428 s.; F. Piergentili-A. Ruggeri-F. Vari, Verso una “liberalizzazione” del suicidio assistito? Note critiche ad una questione di costituzionalità sollevata dal Gip di Firenze, in dirittifondamentali.it, 2024, 219 ss.; M. Esposito, “Morte a credito”: riflessioni critiche sul c.d. diritto al suicidio assistito, in federalismi.it, 2024, 76 ss.; C.D. Leotta, L’aiuto al suicidio del malato tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale: l’art. 580 c.p. torna davanti alla Corte costituzionale, in Consulta on line, 2024, 693 ss., consultabile su giurcost.org.

[40] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 2.2.3.

[41] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 2.2.3.

Nella medesima prospettiva si sono poste alcune strutture sanitarie chiamate in via preliminare ad accertare la sussistenza delle condizioni necessarie ai fini dell’accesso alla procedura. Un caso recente ha riguardato la richiesta formulata da Martina Oppelli all’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) per accedere alla procedura di suicidio assistito, fondata sulla sussistenza, oltre che degli altri requisiti sostanziali richiesti, di una dipendenza totale e continuativa, stante la sua completa impossibilità di movimento, dall’assistenza di soggetti terzi, senza la quale non sarebbe stata in grado di provvedere ai suoi bisogni primari. La Oppelli ha ottenuto un diniego da parte della commissione aziendale di valutazione, in prima battuta nell’ottobre 2023 e, successivamente, nell’agosto 2024, in ottemperanza all’ordinanza del Tribunale di Trieste che ha accolto il ricorso d’urgenza con cui si chiedeva la rivalutazione della sussistenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale. Nel caso di specie, si è ritenuto che non sussistesse il suddetto requisito, accogliendo un’accezione di assistenza legata causalmente alla sopravvivenza della persona, alla quale, quindi, non è stato consentito di accedere alla procedura in quanto la sospensione del trattamento assistenziale a cui era sottoposta non ne avrebbe comportato la morte. Il diniego e la relazione finale della commissione aziendale di valutazione dell’Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (ASUGI) sono consultabili sul sito associazionelucacoscioni.it.

[42] Invero, la Corte costituzionale, scegliendo di non ampliare il novero dei soggetti legittimati ad accedere al suicidio medicalmente assistito e di eliminare tale requisito, ha continuato a non assumersi la responsabilità di “superare il tabù dell’entrare nella morte ad occhi aperti”. Questo era il dubbio paventato, a seguito dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, da L. Risicato, L’incostituzionalità “differita” dell’aiuto al suicidio nell’era della laicità bipolare. Riflessioni a margine del caso Cappato, in F.S. Marini-C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207/2018, cit., 306.

[43] Nell’ordinanza di rimessione si è ravvisata, invece, un’irragionevole disparità di trattamento, partendo proprio dal presupposto secondo cui si sarebbe trattato di situazioni identiche. In particolare, si è ritenuto che la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale non fosse un criterio regolatorio idoneo e proporzionato rispetto all’obiettivo di tutela prefissato, in grado di operare una selezione razionale tra situazioni caratterizzate dalla medesima gravità (v. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.1).

[44] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.4, secondo cui, considerato che la normativa statale riconosce la libertà di essere aiutati a morire per i malati irreversibili e sofferenti, allora il godimento di tale libertà deve essere assicurato, ai sensi dell’art. 14 CEDU, senza alcuna discriminazione, in base non solo ai criteri “consueti”, quali ad esempio la razza, il sesso, le opinioni, ma anche a “ogni altra condizione personale”, tra cui rientrerebbe la condizione, il cui avverarsi dipende da circostanze del tutto accidentali, della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale.

[45] Secondo la Corte, peraltro, non coglierebbe nel segno l’assunto del giudice a quo secondo cui pretendere, al fine di consentire un lecito aiuto a morire da parte di terzi, che il malato sofferente sia tenuto in vita mediante trattamenti di sostegno vitale “non solo limita la libertà del paziente, restringendone le possibilità di manifestazione, ma ne condiziona l’esercizio in modo perverso, trasformando l’autodeterminazione nel suo contrario”, in quanto questo requisito potrebbe indurre la persona ad acconsentire ad essere sottoposta a tali trattamenti, pur volendoli rifiutare o interrompere, con l’unico fine di poter accedere alla procedura di suicidio medicalmente assistito (v. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.2). Da par suo, la Corte rileva che, essendo garantito dall’art. 1, comma 5, legge n. 219/2017 il diritto, scaturente dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost., sia di interrompere sia di rifiutare ab origine i trattamenti anche se necessari alla propria sopravvivenza, si deve ritenere, ai fini dell’applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 242/2019, che non vi possa essere alcuna differenza tra la situazione di chi sia già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale e quella di colui il quale, per sopravvivere, necessiti, sulla base di una valutazione medica, dell’attivazione degli stessi (v. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2).

[46] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto.

[47] V. Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., punto 7 del Considerato in diritto.

[48] In questo senso, in dottrina, v. A. Nicolussi, op. cit., 213 s., il quale, nel rilevare come nella sentenza n. 242/2019 non siano stati riprodotti, rispetto all’ordinanza n. 207/2018, i riferimenti relativi alla dignità soggettivizzata e all’idea di vivere in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza, valuta tale ripensamento “importante e apprezzabile”, nella misura in cui “il principio universalistico della dignità umana non tollera limitazioni. Esso costituisce il fondamento dei diritti umani tra i quali, forse, prima di ogni altro, la libertà e l’autonomia delle persone che esso promuove, ma ciò non può di certo includere la possibilità che tali diritti siano concepiti in rivolta contro il loro stesso fondamento. La dignità assorbita dall’autodeterminazione è una dignità che di fatto è destituita di valore”.

[49] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto, che richiama Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., punti 8 e 9 del Considerato in diritto.

[50] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.3 del Considerato in diritto.

[51] Sul tema sono certamente illuminanti le considerazioni di P. Zatti, L’incompiuta e il diritto alla propria morte. In margine al Commento all’ord. GIP Firenze di Francesca Giardina e Paolo Malacarne, cit., 429, secondo il quale la vita è la persona vivente; pertanto, laddove vivere implichi una mera sopravvivenza in uno stato di sofferenza intollerabile, “è umano, ed è cura aiutare chi chiede di essere aiutato a morire”.

[52] V. V. Scalisi, L’ermeneutica della dignità, Giuffrè, Milano, 2018, 98, secondo il quale il dover essere della dignità è veicolato dal principio di autodeterminazione.

[53] Sul punto v. A. Nicolussi, op. cit., 214, secondo il quale l’idea che una morte più veloce sia anche nell’interesse delle persone care sarebbe inaccettabile in quanto “il coinvolgimento dei familiari in queste situazioni è indiscutibile, ma è discutibile che la sorte di una persona possa dipendere o essere condizionata da un interesse, di qualunque genere e anche di carattere emotivo, di altre persone”.

[54] V. Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., punto 9 del Considerato in diritto.

[55] M. Dogliotti, Il faticoso e difficile cammino della Corte costituzionale verso l’affermazione di un dignitoso fine vita, in Fam. dir., 2014, 1083.

[56] Il riferimento espresso, di cui al par. 7.2 del Considerato in diritto della sentenza n. 135/2024, è, in particolare, a: Tribunal constitucional, 22 marzo 2023, consultabile su biodiritto.org, 73 ss., in relazione al combinato disposto degli artt. 10 e 15 della Constitución española; Verfassungsgerichtshof, 11 dicembre 2020, in biodiritto.org, parr. 73 s., sulla base dell’art. 8 della CEDU; Bundesverfassungsgericht, 26 febbraio 2020, il cui testo è consultabile su biodiritto.org sia in lingua originale sia in versione tradotta a cura dell’Avv. dello Stato R. de Felice, parr. 208 – 213, sulla base degli artt. 1 e 2 del Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland.

[57] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, 20 gennaio 2011, Hass c. Svizzera, il cui testo è consultabile su biodiritto.org, par. 51, in cui si afferma che: “… the Court considers that an individual’s right to decide by what means and at what point his or her life will end, provided he or she is capable of freely reaching a decision on this question and acting in consequence, is one of the aspects of the right to respect for private life within the meaning of Article 8 of the Convention”; 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, par. 67, il cui testo è consultabile su biodiritto.org, in cui si afferma che: “The applicant in this case is prevented by law from exercising her choice to avoid what she considers will be an undignified and distressing end to her life. The Court is not prepared to exclude that this constitutes an interference with her right to respect for private life as guaranteed under Article 8 § 1 of the Convention”. Nello stesso senso, più di recente, v. Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 2024, Dániel Karsai v. Hungary, par. 135, il cui testo è consultabile su hudoc.echr.coe.int, in cui si legge che: “The Court observes that anyone who provides assistance to suicide in Hungary, or to a Hungarian national abroad, can be punished under Hungarian criminal law ... Given the applicant’s physical condition and the fact that he is in Hungary, this is effectively equivalent to denying him the possibility to end his life on his own terms, at home or abroad, thereby interfering with his right to respect for his private life”.

[58] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, 20 gennaio 2011, Hass c. Svizzera, cit., par. 55, in cui si afferma che: “the research conducted by the Court enables it to conclude that the member States of the Council of Europe are far from having reached a consensus with regard to an individual’s right to decide how and when his or her life should end…It follows that the States enjoy a considerable margin of appreciation in this area”;13 giugno 2024, Dániel Karsai v. Hungary, cit., par. 144, in cui si legge che: “In view of the foregoing and noting that this subject continues to be one that raises extremely sensitive moral and ethical questions, and one on which opinions in democratic countries often profoundly differ …, the States must be granted a considerable margin of appreciation ... From the perspective of Article 8 this margin extends both to their decision to intervene in this area and, once they have intervened, to the detailed rules laid down in order to achieve a balance between the competing interests … Having said that, the Court would reiterate the long‑established principle that even when the margin of appreciation is considerable it is not unlimited and is ultimately subject to the Court’s scrutiny”.

[59] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto.

[60] In argomento rileva la metafora del c.d. pendio scivoloso, che richiama l’attenzione sul rischio che la portata di una legislazione, in un primo momento, permissiva in ordine all’aiuto medico al suicidio in circostanze particolari e ben delimitate, venga, successivamente, ampliata considerevolmente (in questo senso v. il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, 17 ss., consultabile su bioetica.governo.it).

[61] V. Supreme Court of the United Kingdom, 25 giugno 2014, Nicklinson and another v. Ministry of Justice, par. 228, il cui testo è consultabile su biodiritto.org, in cui si afferma che: “… The legalisation of assisted suicide would be followed by its progressive normalisation, at any rate among the very old or very ill. In a world where suicide was regarded as just another optional end-of-life choice, the pressures which I have described are likely to become more powerful”.

Sul punto v. Bundesverfassungsgericht, 26 febbraio 2020, cit., con cui è stato dichiarato illegittimo il § 217 del Strafgesetzbuch, che nel 2015 aveva introdotto il reato di agevolazione commerciale del suicidio. Tale disposizione si inseriva in un contesto in cui convivevano la punibilità dell’omicidio del consenziente e la generale liceità dell’aiuto al suicidio, a prescindere dalla natura egoistica o altruistica dei motivi dell’agente. Tuttavia, la preoccupazione per il diffuso sfruttamento delle richieste di aiuto al suicidio da parte dei privati, i quali agivano a scopo di lucro e nell’ambito di un’attività professionalmente organizzata e continuativa, aveva condotto il legislatore ad introdurre una norma, il § 217 del codice penale per l’appunto, nell’ottica di reprimere questo fenomeno (v. F. Lazzeri, La Corte costituzionale tedesca dichiara illegittimo il divieto penale di aiuto al suicidio prestato in forma “commerciale”, in Sistema penale, 2020, 1 ss., consultabile su sistemapenale.it). In particolare, come si apprende da tale pronuncia, secondo la valutazione del legislatore sussisteva il rischio che, attraverso offerte di aiuto al suicidio in forma professionale, si diffondesse l’idea di “una normalità ovvero addirittura della disponibilità sociale dell’aiuto al suicidio”, generando “una sorta di pressante aspettativa” soprattutto su soggetti anziani e malati, i quali avrebbero percepito “una normalizzazione sociale del suicidio assistito” (v. traduzione a cura dell’Avv. dello Stato R. de Felice della sentenza del Bundesverfassungsgericht del 26 febbraio 2020, cit., par. 229). Tuttavia, nel 2020 è intervenuto il BVerfG, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il § 217 StGB, ritenendo che limitasse indebitamente il diritto di decidere come morire, che include anche la possibilità di porre fine alla propria vita mediante l’aiuto di terzi e non solo nel contesto di malattia incurabili. In questa prospettiva, dunque, il suicidio diventa “manifestazione, seppur estrema, del diritto di autodeterminazione responsabile” (v. L. Risicato, Suicidio assistito e dipendenza da trattamenti di sostegno vitale di nuovo all’attenzione della Consulta, in Il QG, 5 aprile 2024, consultabile su altalex.com).

[62] Peraltro, negli arresti precedenti della Corte, si è ritenuto che l’ampliamento della portata del diritto di porre fine alla propria vita mediante l’aiuto altrui dovesse, a sua volta, limitare una criminalizzazione tout court delle condotte agevolative del suicidio. Li definisce “controlimiti al diritto di morire” F. Viganò, Diritti fondamentali e diritto penale al congedo della vita: esperienze italiane e straniere a confronto, in Sistema penale, 2023, 30 s.

[63] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto.

[64] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 10 del Considerato in diritto, in cui al di là dell’auspicio che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano prontamente per assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dai precedenti arresti e precisati dalla presente decisione, si conferma lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242/2019 (v. punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge 15 marzo 2010, n. 38. Peraltro, come sottolineato dalla Corte sin dall’ordinanza n. 207/2018 (v. punto 10 del Considerato in diritto), si ribadisce la necessità di evitare che “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza”.

[65] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 2024, Dániel Karsai v. Hungary, cit., par. 151, in cui si afferma che: “the Court notes that both of the experts heard by the Court referred to the challenges in ensuring that a patient’s decision to use PAD is genuine, free from any external influence and is not underpinned by concerns which should be effectively addressed by other means … the Court notes that both of the experts heard by the Court referred to the challenges in ensuring that a patient’s decision to use PAD is genuine, free from any external influence and is not underpinned by concerns which should be effectively addressed by other means … Ensuring the ongoing validity of the request can be particularly difficult in the case of medical conditions, such as ALS, where patients might ultimately lose the ability to communicate ... In any case, the Court understands ... which both experts considered to be a necessary precondition for considering recourse to PAD”.

[66] M. Dogliotti, Il faticoso e difficile cammino della Corte costituzionale verso l’affermazione di un dignitoso fine vita, cit., 1082.

[67] G. Fiandaca, Il diritto di morire tra paternalismo e liberalismo penale, in Foro it., 2009, 230.

[68] V. S. Canestrari, op. cit., 11.

[69] Sul punto v. le ampie riflessioni di L. Risicato, Dal «diritto di vivere» al «diritto di morire», Giappichelli, Torino, 2008, 53 ss., la quale vede nella “tutela della «morte con dignità»” “il banco di prova di un (denegato) diritto penale «laico»”.

[70] V. L. D’Avack, Suicidio assistito. Vi spiego perché il requisito del “sostegno vitale” è irragionevole, in Il Dubbio, 17 giugno 2024, consultabile su ristretti.org, il quale ritiene che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale al più avrebbe dovuto essere considerato aggiuntivo, posto che qualificarlo come necessario “crea una discriminazione irragionevole e incostituzionale tra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti pure affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora”.

[71] V. F. Giardina-P. Malacarne, op. cit., 358.

[72] V. P. Zatti, L’incompiuta e il diritto alla propria morte. In margine al Commento all’ord. GIP Firenze di Francesca Giardina e Paolo Malacarne, cit., 429, secondo il quale la ricerca di un criterio che “oggettivizzi”, mediante uno standard, le condizioni che consentano ad un soggetto consapevole, che abbia scelto di smettere di convivere con una patologia insostenibile, di essere ascoltato “è come cercare la pentola d’oro dove cade l’arcobaleno”.

[73] Invero, non può non rilevarsi l’inadeguato impegno profuso dalle strutture del Servizio sanitario nazionale nell’attuazione delle previsioni di cui alla sentenza n. 242/2019 (sul punto, v. M. Dogliotti, Il faticoso e difficile cammino della Corte costituzionale verso l’affermazione di un dignitoso fine vita, cit., 1086, spec. nota 44).

Sul sito dell’associazione Luca Coscioni è possibile cogliere le estreme difficoltà che i pazienti determinati ad avvalersi del suicidio medicalmente assistito incontrano a causa di lungaggini amministrative ed incertezze procedurali (v. in associazionelucacoscioni.it). Paradigmatico il caso di “Anna”, affetta da sclerosi multipla progressiva, la quale nel novembre 2022 invia alla propria ASL di competenza, ossia all’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (ASUGI), la richiesta di verifica delle sue condizioni per accedere alla procedura. L’Azienda Sanitaria, però, non effettuava, per il tramite dei propri medici, alcun accertamento in ordine alla sussistenza delle condizioni previste dalla Corte costituzionale, ritenendo che il parere del Comitato etico fosse preliminare a tali verifiche. Veniva, quindi, interpellato il Comitato etico unico regionale che formulava un parere in cui indicava la procedura da seguire, confermando che la ASUGI avrebbe dovuto prima procedere alla verifica delle condizioni di “Anna” per poi richiedere al Comitato etico territorialmente competente il suo parere e, infine, emanare la relazione finale con indicazione del farmaco letale e delle metodiche della sua autosomministrazione. Nonostante ciò, la ASUGI continuava a non attivarsi, fornendo risposte incomplete e affermando che non sussistesse alcuna legge in tema di morte medicalmente assistita. L’iter segue con un ricorso d’urgenza ed un esposto al Presidente della Repubblica, fino al novembre 2023, quando, a seguito dell’ordinanza cautelare pronunciata dal Tribunale di Trieste che ha ordinato alla ASUGI di effettuare tutte le verifiche necessarie, “Anna” si è autosomministrata il farmaco letale a casa sua, circondata dalla sua famiglia. A commento della vicenda di “Anna”, v. i rilievi critici di G. Rocchi, Diritto al suicidio per tutti?, in centrostudilivatino.it, 4 settembre 2023.

Sul punto v. Corte cost. n. 135/2024, cit., punto 9 del Considerato in diritto, in cui si afferma che: “l’eventuale mancata autorizzazione alla procedura, da parte delle strutture del servizio sanitario pubblico, ben potrà essere impugnata di fronte al giudice competente, secondo le regole ordinarie”. V. P. Veronesi, A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il “fine vita” in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024, cit., 19, il quale rileva come, nell’eventualità in cui siano frapposti ostacoli amministrativi alle decisioni dei malati, “pressoché certi nelle realtà più intrise di furore ideologico”, il ricorso ai giudici sarà inevitabile.

Sul ruolo assunto dalla giurisprudenza in tale particolare contesto, v. L. D’Avack, Sospesi tra sentenze e (vuoti di) legge: quale diritto dovrà regolare il fine vita?, in Il Dubbio, 23 luglio 2024, consultabile su ristretti.com.

[74] Invero, è attualmente in discussione al Senato il d.d.l. n. 104/2022, che riproduce, con limitatissime correzioni formali, il testo approvato dalla Camera in prima lettura il 10 marzo 2022, in seguito divenuto il disegno di legge n. 2553, recante disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita, e disciplina la facoltà di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita, in presenza di specifici presupposti e condizioni. In particolare, l’art. 3, rubricato “Presupposti e condizioni”, stabiliva che: “1. Può fare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona che, al momento della richiesta, abbia raggiunto la maggiore età, sia capace di intendere e di volere e di prendere decisioni libere, attuali e consapevoli, adeguatamente informata, e che sia stata previamente coinvolta in un percorso di cure palliative al fine di alleviare il suo stato di sofferenza e le abbia esplicitamente rifiutate o le abbia volontariamente interrotte. 2. Tale persona deve altresì trovarsi nelle seguenti concomitanti condizioni: a) essere affetta da una patologia attestata dal medico curante o dal medico specialista che la ha in cura come irreversibile e con prognosi infausta, oppure essere portatrice di una condizione clinica irreversibile, che cagionino sofferenze fisiche e psicologiche che la persona stessa trova assolutamente intollerabili; b) essere tenuta in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente”.

[75] Condivisibilmente scettico rispetto alla possibilità che il legislatore, in presenza dell’attuale maggioranza parlamentare, scelga di intervenire è M. Dogliotti, Il faticoso e difficile cammino della Corte costituzionale verso l’affermazione di un dignitoso fine vita, cit., 1086.

[76] V. A. Ruggeri, La Consulta equilibrista sul filo del fine-vita (a prima lettura di Corte cost. n. 135 del 2024), cit., 931 s. e 934, secondo il quale, avendo la Corte scelto, pur senza dare luogo ad un generale ripensamento delle condizioni fissate nelle pronunce del 2018 e del 2019, di dilatare in misura sensibile la portata del requisito dei trattamenti di sostegno vitale, “è ormai chiaro che è su questo terreno che si giocherà d’ora innanzi la partita”, ossia sul piano dell’interpretazione di tale formula, definita “sibillina”, che certamente “agevola la messa in atto di una manovra adattabile ai peculiari connotati di ciascun caso”, “volta ad evocare in campo plurimi operatori dal cui concorso dipende l’esito del bilanciamento tra i principi coinvolti in alcune esperienze particolarmente dolorose di fine vita”.

[77] Tra i numerosi, si pensi al recente caso della disforia di genere, su cui v. Corte cost., 23 luglio 2024, n. 143, in dejure.it.

[78] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto.

[79] V. Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135, cit., punto 7.2 del Considerato in diritto.

[80] V. P. Zatti, L’incompiuta e il diritto alla propria morte. In margine al Commento all’ord. GIP Firenze di Francesca Giardina e Paolo Malacarne, cit., 428, il quale definisce la legge n. 219/2017 “una ben riuscita “incompiuta”” non solo dal punto di vista applicativo ma anche perché “come tale è stata concepita dal legislatore”. Si ritiene, in particolare, che alla libera decisione di non lottare più contro il male segua “un accompagnamento nel declivio che conduce alla soglia del morire, un “aiuto medico” per “lasciar accadere” una morte dignitosa e con la minor sofferenza possibile”. In questa prospettiva, tale legge, pertanto, non si occupa di aiuto al suicidio, anche se “fuor di dubbio è un aiuto attivo ad attuare la scelta di consegnarsi alla morte secondo dignità”, e su questa linea “si ferma e volutamente tace: la legge è passata, qualcuno ha detto, “per un miracolo”; se non avesse taciuto, non sarebbe passata” (corsivi dell’A.).

[81] In questo senso v. P. Veronesi, A primissima lettura: se cambia, come cambia e se può ulteriormente cambiare il “fine vita” in Italia dopo la sentenza n. 135 del 2024, cit., 11 s.

[82] Auspica un mutamento di paradigma dell’assetto giuridico in tema di scelte di fine vita T. Vitarelli, Verso la legalizzazione dell’aiuto (medico) a morire? Considerazioni “multilivello”, in Sistema penale, 2022, 36 ss., ritenendo, a tal fine, necessaria l’introduzione di una legge permissiva seppur condizionata, che, senza trasformare l’aiuto a morire in una normale modalità di soluzione dei problemi, lo sottoponga però a precise regole, di carattere sostanziale e procedurale. Si dovrebbe trattare, in altri termini, di condizioni non eccessivamente stringenti da legittimare l’aiuto a morire soltanto a favore dei soggetti affetti da patologie irreversibili, sottoposti a terapie o a tecniche artificiali di sopravvivenza, con sofferenze intollerabili o in fase terminale, in quanto, al di là di questi estremi, “esistono situazioni esistenziali e mentali parimenti dolorose e immutabili, in cui l’ultima speranza rimasta è morire”.

[83] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.1, in cui si afferma l’irragio­nevolezza della differenziazione di disciplina tra tali situazioni, considerato che: “l’unico elemento che in ipotesi le distingue – la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale – non porta con sé, se presente, alcun elemento di segno positivo tale da giustificare una considerazione più benevola da parte dell’ordinamento, né esprime, se assente, maggiore meritevolezza o bisogno di pena dei terzi agevolatori”.

[84] In questa prospettiva, il d.d.l. C. 3101/2021 (c.d. d.d.l. Bazoli) rappresentava un progetto del tutto insoddisfacente, in quanto in esso si continuava a fare riferimento ai “trattamenti di sostegno vitale” (sul punto v. V. Durante, Quando continuare a vivere diventa intollerabile, in Nuova giur. civ. comm., 2023, 1368 s.).

[85] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.1.

[86] In questo senso, v., tra gli altri, F. Giardina-P. Malacarne, op. cit., 358, in cui, dopo aver ritenuto irragionevole differenziare le situazioni di chi dipenda o meno da trattamenti di sostegno vitale, si afferma che “la vita è cosa diversa dalla mera sopravvivenza e la malattia insopportabile è già, di per sé, un allontanamento dalla vita”, così “se la morte altro non è che il pedaggio da pagare alla vita, quando il processo del morire è intollerabilmente doloroso, il pedaggio diviene un prezzo esorbitante, poiché quello che conta davvero non è la morte in sé, ma l’agonia che la precede”.

[87] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.1.

[88] Come affermato nell’ordinanza n. 207/208 e nella sentenza n. 242/2019 e ribadito in Corte cost., 2 marzo 2022, n. 50, in dejure.it, punto 5.3 del Considerato in diritto, con cui è stata dichiarata l’inammissibilità del referendum abrogativo del reato consistente nell’omicidio del consenziente di cui all’art. 579 c.p. (su cui v., tra gli atri, M. Azzalini, La “scala Shepard” del fine vita. La Consulta e l’impervia road map dell’aiuto nel morire, tra tutela della vita e diritto al proprio sé, in Nuova giur. civ. comm., 2022, 421 ss.; A. Pugiotto, Eutanasia referendaria. Dall’ammissibilità del quesito all’inammissibilità degli effetti: metodo e merito della sentenza n. 50/2022, in Riv. AIC, 2022, 83 ss., consultabile su rivistaaic.it; S. Penasa, Una disposizione costituzionalmente necessaria ma un bilanciamento non costituzionalmente vincolato? Prime note alla sentenza n. 50 del 2022 della Corte costituzionale, in Diritti comparati. Comparare i diritti fondamentali in Europa, 2022, consultabile su diritticomparati.it).

[89] V. Trib. Firenze, sez. Giudice per le indagini preliminari, 17 gennaio 2024, cit., punto 3.1.

[90] V. M. Dogliotti, Il faticoso e difficile cammino della Corte costituzionale verso l’affermazione di un dignitoso fine vita, cit., 1085.

[91] Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, cit., punto 6 del Considerato in diritto; nello stesso senso, v. anche Corte cost., 2 marzo 2022, n. 50, cit., punto 5.3 del Considerato in diritto.

[92] In questa prospettiva v. M. Piccinni, Una legge “gentile” sull’aiuto medico a morire?, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2023, 172, la quale, avviando una discussione attorno ad una “prova di testo normativo” in materia di aiuto medico a morire, predisposta dal gruppo di lavoro “Per un Diritto Gentile” nell’ottica di offrire uno spunto di riflessione politico – giuridica sul tema, richiama i requisiti di accesso previsti, ex art. 2, tra i quali non figura il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, in quanto ritenuto irragionevole, ma solo quelli della patologia irreversibile, delle sofferenze fisiche o psichiche che ne derivino e della capacità del soggetto di prendere decisioni libere e consapevoli.

[93] V. A. Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto di diritto, Giuffrè, Milano, 1992, 269 ss.

[94] L. Romano, op. cit., 861.

[95] V. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 1987, ristampa del febbraio 2021, 257 s., secondo il quale “solo il corpo può parlare della morte, e ne parla col suo silenzio. Noi comprendiamo la morte quando evitiamo di interrogare un corpo per non udire il suo silenzio, quando teniamo lontano la nostra vita dalle regioni in cui potremmo incontrare questo silenzio, rivelativo di un corpo degradato a oggetto, ricaduto nella condizione di “cosa”, essendo la cosa ciò che riposa in un’assoluta ignoranza di sé e del mondo”.

[96] V. P. Zatti, Maschere del diritto volti della vita, Giuffrè, Milano, 2009, 70 ss., il quale definisce “disidentificazione” lo scollamento tra il proprio sé e il corpo “esperito qualche volta come prigione, qualche volta come qualcosa che si desidera lasciare o che è divenuto un “corpo estraneo””. Si verificano, in altri termini, quelle che sono state descritte come “le mutazioni di un uomo”, che non gli consentono più di identificarsi con il suo corpo (v. T. Terzani, La fine è il mio inizio, Longanesi, Milano, 2006, 376 s.).

[97] R. De Stefano, Il problema del diritto non naturale, Giuffrè, Milano, 1955, 219 ss., assume che la persona umana sia un’entità ontologicamente complessa costituita da più sfere vitali, ciascuna delle quali è assiologicamente caratterizzata da determinati tipi di esistenza (fisica, organica, animata, spirituale), disposti in ordine ascendente e in un senso inclusivo-crescente.

Si può, dunque, ritenere che la dignità interessi tutti i diversi stadi della vita e sia, pertanto, chiamata a proteggere l’intero percorso vitale della persona, a partire dal concepimento e fino alla fase terminale dell’esistenza, in cui il dover essere della dignità è inteso a garantire al paziente “non solo ogni umana solidarietà, ma soprattutto ogni più appropriata assistenza psico-fisica consentita dalle circostanze date (ivi comprese terapie palliative e antidolore: art. 2, l. 219/2017), nel rispetto della sua particolare integrità e identità” (v. V. Scalisi, op. cit., 95).

[98] Invero, se “raccontare il fatto è la necessaria premessa per trovare, capire, o formulare una norma”, “la narrazione dell’indegno può essere un punto d’appoggio per sottrarre il concetto giuridico di dignità ai rischi della vacuità” (P. Zatti, La dignità dell’uomo e l’esperienza dell’indegno, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 377).

[99] A. Falzea, Complessità giuridica, in Enc. dir. Annali, I, Giuffrè, Milano, 2007, 201 ss.

[100] V. M. Trimarchi, L’introduzione alle scienze giuridiche di Angelo Falzea, in questa Rivista, 2024, 6, il quale, richiamando il pensiero espresso da Angelo Falzea, rileva come il processo di adeguamento delle regole alle situazioni di interesse vada colto, con metodo complesso, in una dimensione sociale, ossia “nell’ambito della comunità come luogo dove le esigenze dei singoli e dei gruppi hanno origine, si sviluppano e si affermano”. Cosicché, sulla base del criterio della rilevanza giuridica, “un interesse e una condotta idonea a soddisfarlo integrano valori giuridici nella misura in cui sono conformi all’interesse fondamentale della società”.

[101] V. V. Scalisi, op. cit., 26, secondo il quale “il principio di dignità è indissociabile dal principio personalista, perché entrambi facce della stessa medaglia”; in quest’ottica, il primo non è “espressione di un singolo diritto (quello appunto alla dignità), bensì sintesi onnicomprensiva di tutti i possibili effetti giuridici, intesi a tradurre sul piano del dover-essere giuridico e delle corrispondenti modalità attuative l’essere (storico-reale) della persona quale identificato e definito dal principio personalista, al fine di assicurarne una reale effettività di tutela” (corsivi dell’A.).

[102] Sul punto v. L. Romano, op. cit., 861; E. Fazio, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: profili problematici, in Dir. succ. fam., 2019, 409, il quale, nel qualificare il principio di dignità umana quale criterio di controllo della legittimità delle determinazioni in tema di fine vita, afferma che “qualunque scelta legislativa sul fine vita non possa non confrontarsi con il principio di dignità, sia esso inteso quale principio oggettivabile oppure piuttosto come autorappresentazione di sé e del senso della vita e dunque priva di oggettività”.

[103] V. G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in associazionedeicostituzionalisti.it, 2008, secondo cui: “La supremitas della dignità la innalza a criterio di bilanciamento di valori, senza che essa stessa sia suscettibile di riduzioni per effetto di un bilanciamento. Essa non è effetto di un bilanciamento, ma è la bilancia medesima”.

[104] Un’interessante punto di vista, a tal riguardo, è quello di A. Gorgoni, L’aiuto al suicidio tra vita, autodeterminazione, integrità e dignità del malato, in Giur. it., 2020, 1057, il quale ritiene che la dignità debba essere intesa “non già secondo un’incongruente alternativa tra accezione soggettiva o oggettiva, ma più propriamente quale esito del concorso tra libertà e responsabilità della persona, da un lato, e dovere del soggetto (il medico) deputato ad apprestare le condizioni affinché questi due valori si inverino”. In questa logica, “la dignità del paziente si esprime nell’interazione tra il potere di decidere sul proprio corpo in coerenza con la propria identità e integrità e l’attività di supporto tecnico e professionale del medico”. Cosicché, laddove il paziente sia costretto a rimanere in vita “in spregio alla propria concezione del vivere”, ricorrerà “una lesione della sua dignità/identità”.

[105] V. S. Agosta, Bioetica e Costituzione, II, Le scelte esistenziali di fine vita, Giuffrè, Milano, 2012, 239, il quale sul tema ritiene preferibile che venga adottata “una normazione “leggera” e di garanzia – ad imitazione di quanto già accaduto, peraltro, dagli inizi degli anni ’70 con la legislazione sul divorzio, sull’aborto e sul diritto di famiglia in generale – che consenta a ciascun individuo, nel perimetro dei “paletti” fissati dal Parlamento, di agire nel rispetto della propria interpretazione di dignità umana” (corsivo dell’A.).

[106] V. P. Zatti, La dignità dell’uomo e l’esperienza dell’indegno, cit., 377, il quale rileva “un eccesso di malleabilità del concetto”, addirittura “una «vacuità» nascosta sotto un’apparente intensità di significato”, tanto che sul piano dell’applicazione casistica il fondamento stesso della dignità sembra annebbiarsi, “ma tutt’altro che vacua è l’esperienza della dignità; e tanto più l’esperienza dell’indegno”.

[107] V. Bundesverfassungsgericht, 26 febbraio 2020, cit., parr. 201 ss., in cui si afferma che il diritto di autodeterminarsi alla morte trovi fondamento nel più ampio “diritto generale della personalità”, che risulta da combinato disposto degli artt. 2, comma 1, e 1, comma 1, della Grundgesetz für die Bundesrepublik Deutschland, e, quindi, rispettivamente, dal diritto al libero sviluppo della propria personalità e dal principio dell’intangibilità della dignità umana. In questi casi, in altri termini, ricorre una decisione caratterizzata da un significato esistenziale, in quanto fondamentale espressione della capacità di autodeterminazione e di autoresponsabilità del soggetto, la cui portata non può essere limitata a particolari ipotesi nelle quali venga in rilievo una certa condizione di salute, ossia la sussistenza di malattie gravi o incurabili, o una certa fase della vita (v. par. 209). Invero, laddove l’esercizio di tale diritto venisse consentito solo in presenza di determinati presupposti, significherebbe che si è operata una valutazione delle motivazioni di colui che ha assunto la scelta di fine vita, che si porrebbe in contrasto con l’idea, su cui si basa il Grundgesetz, della dignità dell’uomo e del suo libero svolgimento in autonomia e autoresponsabilità (v. par. 210). In linea con i principi fissati dalla Corte costituzionale tedesca, si pone la sentenza della Corte costituzionale austriaca, la quale afferma che il diritto di decidere in ordine alla propria morte, in quanto aspetto inerente al principio del rispetto della propria vita privata previsto dall’art. 8 CEDU, non possa dipendere dalla sussistenza di patologie, condizioni personali o circostanze avverse della vita (v. Verfassungsgerichtshof, 11 dicembre 2020, cit., in G. Battistella, Il reato di aiuto al suicidio al vaglio della Corte costituzionale austriaca, in BioLaw JournalRivista di BioDiritto, 2021, 322; A. De Pretis, La Corte costituzionale austriaca cancella il divieto di assistenza al suicidio, in Nomos, 2020, 2).

[108] In questo senso v. V. Scalisi, op. cit., 26, il quale afferma che: “la persona è la sostanza mentre la dignità (quale complesso di diritti e doveri ad essa finalizzati) rappresenta la sua forma intrinseca di tutela” (corsivi dell’A.).

[109] Con riferimento a questo profilo v. La richiesta di aiuto medico a morire: raccomandazioni sul ruolo dei comitati etici e delle strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale, versione del 30 settembre 2024 che tiene conto della sopravvenuta sentenza n. 135/2024, consultabile su dirittogentile.it, predisposta dal gruppo di lavoro “Per un diritto gentile” sul tema dell’aiuto medico a morire. In particolare, le dieci raccomandazioni proposte si fondano sui seguenti principi: la centralità della persona che chiede l’accesso a una procedura di aiuto medico a morire; l’importanza di poter contare su procedure chiare e trasparenti che consentano di gestire le richieste di aiuto medico a morire; la necessità che le procedure siano il più possibile uniformi, a garanzia dell’esigenza della parità di trattamento dei cittadini su tutto il territorio nazionale e per evitare trattamenti diversi e contrastanti, che darebbero luogo a inevitabili discriminazioni; l’importanza di chiarire la distinzione tra il ruolo delle strutture sanitarie del servizio pubblico competenti a esaminare la richiesta della persona, anche avvalendosi di una commissione tecnica eventualmente istituita per la verifica dei requisiti richiesti dalla sentenza n. 242/2019, e quello dei comitati etici, legato alla tutela dei diritti e dei valori della persona con riguardo alla situazione di particolare vulnerabilità in cui si trovi la persona richiedente.

[110] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, Pretty c. Regno Unito, cit., par. 61, in cui si afferma che: “the concept of “private life” is a broad term not susceptible to exhaustive definition. It covers the physical and psychological integrity of a person… It can sometimes embrace aspects of an individual’s physical and social identity…Elements such as, for example, gender identification, name and sexual orientation and sexual life fall within the personal sphere protected by Article 8 … Article 8 also protects a right to personal development, and the right to establish and develop relationships with other human beings and the outside world”. Nello stesso senso v. Corte europea dei diritti dell’uomo, 20 gennaio 2011, Hass c. Svizzera, cit., par. 50 s., laddove si legge che: “In the light of this case-law, the Court considers that an individual’s right to decide by what means and at what point his or her life will end, provided he or she is capable of freely reaching a decision on this question and acting in consequence, is one of the aspects of the right to respect for private life within the meaning of Article 8 of the Convention”; 19 luglio 2012, Koch v. Germany, parr. 51 s.; 13 giugno 2024, Dániel Karsai v. Hungary, cit., par. 135, in cui si afferma che: “the Court considers that the applicant’s interest in having access to PAD relates to core aspects of his right to respect for his private life enshrined in Article 8 of the Convention. It concerns respect for his autonomy, physical and mental integrity and for human dignity, which is the very essence of the Convention”.

[111] L’espressione si deve a M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Dir. pen. cont., 2017, 1 ss.

[112] Così lo definisce G. Fornero, Il diritto di andarsene. Filosofia e diritto del fine vita tra presente e futuro, Utet, Torino, 2023, 59 ss., il quale, con il sintagma “diritto di morire” intende “la facoltà di fatto e di diritto, basata sul principio di autodeterminazione della persona, di rinunciare liberamente alla propria vita, ossia il diritto – di fronte a determinate circostanze e sofferenze che agli occhi di chi le esperisce appaiono “invivibili” e lesive della propria dignità – di congedarsi volontariamente dalla propria vita, sia per mano propria sia con l’intervento di altri”.