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G. Giappichelli Editore

Il ruolo dell'autonomia contrattuale nel contesto della filiera agricola e alimentare: la vendita sottocosto (di Giovanni Galasso, Ricercatore di Diritto civile – Università degli Studi di Palermo)


Il saggio si concentra sul ruolo svolto dall'autonomia contrattuale nel riequilibrare i rapporti di forza all'interno della filiera al fine di contrastare le pratiche sleali. L’indagine analizza l'impatto della Direttiva (UE) 2019/633 sulle pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare e la sua trasposizione nell'ordinamento italiano tramite il Decreto Legislativo n. 198/2021. Partendo dalla normativa eurounitaria, che introduce misure volte a promuovere trasparenza e prevenire comportamenti opportunistici, con particolare attenzione alla tutela dei produttori e alla distribuzione equa del valore, l’Autore mette in luce come da questi interventi legislativi emerga una chiara tendenza, fondata sulla dimensione contrattuale e su una dialettica tra le parti. Questa dialettica converge nell'intento di contrastare le pratiche sleali e di regolare meglio il mercato nelle fasi di cessione e immissione del prodotto, in linea con le nuove finalità della politica agricola comune. Inoltre, viene evidenziata l'importanza di una regolamentazione flessibile e dell'adozione di buone pratiche contrattuali, considerate strumenti essenziali per realizzare tali obiettivi, promuovendo così un mercato più equo, competitivo e sostenibile.

The role of contractual autonomy in the context of the agri-food supply chain: below-cost selling

The essay focuses on the role played by contractual autonomy in rebalancing the power dynamics within the supply chain to counteract unfair practices. The study analyzes the impact of Directive (EU) 2019/633 on unfair trading practices in the agri-food sector and its transposition into Italian law through Legislative Decree No. 198/2021. Starting from EU legislation, which introduces measures aimed at promoting transparency and preventing opportunistic behavior, with particular attention to protecting producers and ensuring fair value distribution, the author highlights how these legislative interventions reveal a clear trend based on the contractual dimension and a dialogue between the parties. This dialogue converges on the goal of countering unfair practices and better regulating the market during the stages of product transfer and placement, in line with the new objectives of the Common Agricultural Policy. Moreover, the importance of flexible regulation and the adoption of good contractual practices is emphasized as essential tools to achieve these goals, promoting a fairer, more competitive, and sustainable market.

COMMENTO

Sommario:

1. Premessa - 2. Le clausole di ripartizione del valore nella filiera agroalimentare - 3. La funzione dell’equità dell’accordo nel contrasto alle pratiche sleali nella filiera agroalimentare - 4. Criteri di regolazione e il ricorso alle buone pratiche - 5. La vendita sottocosto nella filiera agroalimentare per un pricing responsabile. - 6. Una lettura in chiave rimediale delle pratiche sleali - 7. Riflessioni finali - NOTE


1. Premessa

L’impatto sempre maggiore che la disciplina dei rapporti B2B determina nella filiera agricola e alimentare mette in risalto, da una parte, il tema della autonomia contrattuale all’interno del processo organizzativo del mercato [1]; dall’altra, l’esigenza di un’azione regolatoria conforme ed efficace, sia a livello nazionale che europeo, affinché il potere negoziale del privato sia esercitato in modo da garantire il buon funzionamento del mercato agricolo, sempre più aperto alla logica del libero scambio [2]. È questa una tendenza chiara nella evoluzione legislativa in materia agricola, allorché, come chiarisce il Considerando 6 della Direttiva 2019/633 “in un contesto di politica agricola decisamente più orientato al mercato rispetto al passato, proteggersi dalle pratiche commerciali sleali è ora più importante per gli operatori presenti nella filiera agricola e alimentare [3]. Questa prospettiva, eminentemente funzionale, fa emergere con maggiore evidenza come il rapporto contrattuale B2B, ed in generale le modalità attraverso le quali si crea e si sviluppa la relazione tra gli operatori economici all’interno della filiera from farm to fork [4], si configuri sempre di più come un intricato connubio di discipline autonome ma interconnesse. In questo scenario sorgono diverse sfide che richiedono un approccio olistico e flessibile da parte del legislatore e degli interpreti [5]. Tale approccio mira a definire un quadro normativo chiaro e adattabile che favorisca un funzionamento efficace e trasparente del mercato agricolo e alimentare, garantendo al contempo la protezione dei soggetti più deboli e promuovendo una concorrenza equa e sostenibile [6]. Non si vuole con questo enfatizzare una dimensione, quella della complessità, tipica anche di altri ambiti. Tuttavia, nel contesto specifico della filiera agroalimentare, dove tale complessità è particolarmente evidente a causa della sua natura multifattoriale, spicca la necessità di interventi correttivi che trovano nell’autonomia negoziale un luogo privilegiato, consentendo alle parti di individuare un punto di equilibrio nelle loro relazioni commerciali [7]. L’eterogeneità dei fini nella regolazione della filiera agricola e alimentare (funzionamento efficiente del mercato agricolo e alimentare, salvaguardia delle parti debole, sicurezza alimentare, promozione di un mercato concorrenziale equo e solidale), infatti, richiede un approccio normativo che consenta alle parti di trovare un punto di equilibrio capace di promuovere la formazione di un rapporto negoziale equo, sostenibile e basato sulla considerazione delle diverse prospettive e interessi delle parti coinvolte [8].

Sotto tale angolazione, una regolazione che si fonda su di una profonda consapevolezza delle dinamiche in atto nella filiera agricola e alimentare impone ai regolatori e agli attori coinvolti nel settore un’azione (collettiva ed individuale) che si conformi e si renda compatibile alle peculiarità e ai cambiamenti che si verificano all’interno della filiera stessa [9].

Ciò implica interventi che tengano in giusta considerazione le evoluzioni di mercato, i processi produttivi, le esigenze dei consumatori e le sfide che il settore agroalimentare è chiamato ad affrontare; in altri termini implica una governance capace di promuovere una gestione equilibrata della filiera agroalimentare e di favorire una produzione agricola sostenibile [10].

Una prima emersione di tale linea di policy risale già al 2009 allorché, in seguito alla crisi dei prezzi nella filiera alimentare verificatasi tra il 2007 e il 2008, la Commissione Europea è intervenuta con la “Comunicazione sul miglior funzionamento della filiera agroalimentare”, sottolineando la necessità di adottare misure efficaci per tutelare i consumatori e garantire una distribuzione equa del valore aggiunto lungo l’intera catena, nonché individuando azioni di miglioramento volte a promuovere l’integrazione e la competitività nel settore, con l’obiettivo di sviluppare una governance capace di gestire in modo equilibrato la filiera agroalimentare, favorendo la sostenibilità della produzione agricola e assicurando una distribuzione equa dei benefici lungo l’intera catena [11].

Obiettivi quest’ultimi che la Commissione reputa conseguibili aumentando la trasparenza delle informazioni lungo la filiera stessa, giacché chiarezza ed equità rappresentano elementi chiave per stimolare la concorrenza e migliorare la capacità di risposta alle fluttuazioni dei prezzi.

La trasparenza garantisce ai produttori agricoli una migliore comprensione dei prezzi di mercato e delle esigenze dei consumatori, consentendogli di prendere decisioni più informate nella gestione delle loro attività. I trasformatori e i distributori possono avere, d’altra parte, accesso alle informazioni sulla disponibilità di materie prime, programmando la produzione per adeguarsi alle esigenze del mercato. I consumatori, infine, possono conoscere l’origine e le caratteristiche dei prodotti, ed anche le pratiche aziendali utilizzate, elementi che agevolano la loro capacità di assumere scelte consapevoli.

In sintesi, quando gli attori della filiera hanno accesso alle stesse informazioni, le aziende possono competere in base alla qualità, all’innovazione e alla sostenibilità [12]. Ciò promuove un ambiente di mercato più equo, in cui le aziende sono incentivate a migliorare le proprie pratiche e a offrire prodotti di qualità e rende chiare le ragioni di un approccio, da parte dei regolatori, volto ad affrontare le questioni specifiche della filiera agroalimentare in modo mirato ed efficace, per garantire il benessere dei produttori, la sicurezza alimentare dei consumatori e la sostenibilità ambientale [13].

Ora, in un contesto siffatto, la mediazione per via contrattuale, ovvero il ruolo di un’autonomia negoziale libera in quanto non perturbata da abusi unilaterali di impari rapporti di forza, può costituire uno strumento di promozione del dinamismo di mercato, specialmente quando si considera il settore agroalimentare, noto per la sua notevole eterogeneità. In questa chiave deve leggersi la crescente attenzione di questi ultimi anni giusto verso i rapporti contrattuali della filiera agroalimentare, culminata con la Direttiva 2019/633 [14] espressione della acquisita consapevolezza delle esigenze e delle sfide proprie di questo segmento di mercato e strumento di introduzione di misure ad hoc, idonee a garantire un ambiente di scambio più equilibrato [15]. Vero è, come osservato, che un’impostazione del genere non si presenta esente da rischi, giacché “lasciare all’autonomia privata, la concreta possibilità di adottare clausole in grado di incidere proprio sul complessivo equilibrio economico del rapporto” vale quanto dire del non tenere conto che quelli in esame sono rapporti “strutturalmente precari per via della debolezza dei produttori agricoli [16].

Tuttavia, l’espansione del ruolo dell’autonomia contrattuale procede, nel contesto che ci occupa, a misura del progressivo diradarsi degli interventi pubblici e ad esso è difficile disconoscere un tratto di ineluttabilità. In proposito, la dottrina ha rilevato che l’ampia valorizzazione del ruolo e dei contenuti del contratto nella filiera agroalimentare e l’opera di mediazione svolta attraverso lo strumento negoziale sono accresciute in modo inversamente proporzionale al progressivo rallentamento degli interventi correttivi di sostegno di carattere pubblico [17].


2. Le clausole di ripartizione del valore nella filiera agroalimentare

Come si è detto, è solo con la progressiva erosione del sistema di intervento pubblico che l’attività di produzione primaria e l’immissione del bene nel mercato subiscono un radicale cambiamento rispetto alle condizioni di circolazione del prodotto agricolo, inevitabilmente esposto alle fluttuazioni della domanda e alle alterazioni del mercato connesse ai pur contrastanti e ciclici fenomeni di mutamento della catena di approvvigionamento [18].

A questo mutamento si è accompagnata la crescente volontà di dare importanza ed impulso ai diversi segmenti della filiera in cui si svolgono le transazioni economiche. Centrale è il tema della ripartizione del valore generato lungo la catena, cioè della giusta distribuzione dei profitti tra gli attori coinvolti, considerando fattori come i costi di produzione, i rischi assunti e il surplus di valore prodotto. La loro corretta definizione e applicazione, oltre a costituire la premessa per una tutela effettiva della parte economicamente più debole della relazione, contribuisce a promuovere una maggiore equità e sostenibilità economica nella filiera [19].

Sul versante normativo particolarmente significativo è l’art. 172-bis del Regolamento 2021/2115 rubricato ripartizione del valore, che nell’offrire una specifica indicazione in ordine ai meccanismi di distribuzione sottolinea la rilevanza dell’autonomia negoziale nel processo di attribuzione (e creazione) del valore [20].

In realtà il regolatore, come ha correttamente evidenziato la dottrina, si preoccupa, qui, di garantire una soluzione capace di mettere in sicurezza l’operazione economica in sé, mantenendola in una posizione di equilibrio economico a fronte delle eventuali perturbazioni dei mercati [21]. Ma è possibile anche, senza eccessive forzature, prospettare una diversa e più estesa lettura dell’art. 172-bis sopra citato.

Sulla scia delle indicazioni che provengono dal legislatore e dalla dottrina, la questione del valore del bene agricolo come esito di un processo di mercato e di produzione, si sostanzia, infatti, di numerosi elementi che la differenziano in maniera qualificante dalle dinamiche degli altri prodotti.

Il valore di un prodotto agricolo è influenzato non solo dalla sua qualità intrinseca, ma anche da una serie di fattori peculiari, quali ad esempio l’origine geografica, le pratiche di coltivazione impiegate, le condizioni ambientali, la esistenza di più varietà e altre caratteristiche che conferiscono al bene una qualità distintiva. Nell’impostazione tradizionale, che fa perno in generale sulla catena di valore, ed esige perciò una traduzione ed un riconoscimento formale, sembra mancare la precisa consapevolezza della rilevanza del rapporto produttore-venditore, che rischia di restare limitato il più delle volte al solo pericolo (esterno e di mercato) legato alle fluttuazioni dei prezzi [22].

Ora, lo strumento contrattuale come “regolatore” degli effetti del processo di distribuzione del valore nella filiera agroalimentare si inserisce dentro un contesto normativo certamente più ampio, in sintonia con i nuovi obiettivi delle politica agricola comune (PAC) [23], venendo ad assumere un ruolo rilevante di governo e promozione della distribuzione, orientandola in una prospettiva di maggiore equità, consentendo alle imprese agricole, in un contesto di filiera, di poter negoziare in modo indipendente le condizioni contrattuali [24].

Il Regolamento n. 1308/2013 in materia di organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli [25], che fornisce la cornice alla Direttiva 2019/633 [26], ha inserito, a seguito della modifica operata dal Regolamento n. 2393/2017, una specifica previsione (art. 157, lett. c, n. xv) che attribuisce alla Organizzazioni interprofessionali il compito di stabilire clausole standard di ripartizione del valore. Da questa previsione, che espressamente rinvia all’art. 172-bis del Regolamento sopra richiamato – evocandosi un’esigenza di protezione del valore economico complessivo dell’operazione di scambio – è possibile trarre un utile indice di valutazione di quelle regole di attribuzione e ripartizione del valore che pongono al centro l’esigenza del riconoscimento del surplus di valore a favore di chi effettivamente contribuisce a crearlo. In questo scenario, le Organizzazioni Interprofessionali avranno la possibilità di fissare, già a monte dell’accordo di cessione, le modalità e i termini dei benefici derivanti dall’operazione di scambio.

Le clausole di ripartizione del valore possono, infatti, costituire strumenti di rilievo nel contesto delle pratiche commerciali, in grado di incentivare comportamenti responsabili e sostenibili all’interno della catena di approvvigionamento. In particolare, queste clausole possono adempiere ad una funzione di premialità, riconoscendo un valore aggiuntivo agli agricoltori che adottano pratiche agricole rispettose dell’ambiente e che si distinguono per la produzione di prodotti di alta qualità. La premialità può manifestarsi attraverso l’istituzione di un prezzo equo per tali prodotti, fornendo un incentivo concreto affinché gli agricoltori si impegnino nella produzione sostenibile. Esempi concreti di tali clausole possono essere riscontrati nell’ambito dei contratti di cessione di prodotti agroalimentari, ove le parti hanno inserito disposizioni atte a riconoscere un valore economico superiore alla produzione di grano duro caratterizzato da specifiche qualità legate al territorio e all’utilizzo di tecniche di produzione particolari. Questi casi fanno emergere come le clausole di ripartizione del valore possano offrire un contributo significativo alla promozione di pratiche agricole sostenibili, valorizzando e incentivando gli agricoltori che si dedicano alla salvaguardia ambientale e alla creazione di prodotti di elevata qualità.

L’approccio al problema sul versante privatistico, senza trascurare certamente la natura multifattoriale, è stato quello di muoversi in una logica di partecipazione e condivisione verso una progettualità di filiera, che attraverso la previsione per via contrattuale di clausole specifiche garantisca agli allevatori ed olivicoltori per un certo periodo una remunerazione adeguata e utile per superare i momenti di crisi economica [27].

Già queste considerazioni mostrano come occorra valutare e misurare lo sforzo compiuto dal legislatore nella ricerca del giusto equilibrio nella regolamentazione delle misure volte al buon funzionamento del mercato agroalimentare. Uno sforzo sempre più orientato a ridefinire i termini del ciclo negoziale nell’im­missione del bene agricolo nel mercato esaltando l’area dell’autonomia contrattuale nel suo aspetto dinamico, mettendo in giusto risalto “l’elemento propulsore dell’attività che i soggetti dispiegano nell’intero ciclo negoziale [28] e dischiudendo gli spazi che le dinamiche di mercato e di integrazione di filiera mirano a comprimere.

In questo contesto, il legislatore è chiamato a svolgere un compito fondamentale nella individuazione delle misure più efficaci per favorire il buon funzionamento del mercato agroalimentare. Ed in questa prospettiva l’ampliamento e il consolidamento dell’autonomia contrattuale, volti a chiarire le indicazioni/limitazioni di fondo provenienti dal nostro impianto codicistico nella formazione e determinazione del contenuto contrattuale (buona fede e correttezza), sembrano rappresentare la via maestra in quanto possono favorire l’innovazione e la flessibilità, consentendo alle parti di adattarsi alle mutevoli condizioni di mercato. Nel contempo, la tutela (e la tenuta) dei soggetti deboli, primi fra tutti i produttori agricoli, diventa essenziale in modo particolare nel settore agroalimentare che si caratterizza (negativamente) per la presenza di una maggiore concentrazione di potere economico dei trasformatori (industriali) e dei distributori, con possibili effetti negativi sulla concorrenza e sull’accesso al mercato dei produttori più piccoli [29].


3. La funzione dell’equità dell’accordo nel contrasto alle pratiche sleali nella filiera agroalimentare

La Direttiva 2019/633 nel Considerando 16 avverte che: “Nel decidere se una particolare pratica commerciale è da considerarsi sleale è importante ridurre il rischio che il ricorso ad accordi equi tra le parti, volti a creare efficienza, venga limitato [30]. Si delinea così chiaramente l’equazione equità dell’accordo-efficienza del mercato di cui sono corollario regole intese a presidiare un’adeguata correzione delle asimmetrie informative nonché più in generale volte a garantire chiarezza e trasparenza dell’operazione economica-commerciale.

La disciplina italiana di recepimento dà a ciò ampio riscontro. Sembra chiaro, infatti, che il legislatore in questa occasione abbia ben colto la policy della Direttiva, la quale muovendosi verso il rafforzamento generale del potere di autoregolazione dispone l’adozione di un approccio basato su un intervento di armonizzazione minima. Ciò, da un lato, consente ai legislatori interni di avere ampi margini di manovra nell’imple­mentazione dell’elenco delle pratiche sleali, dall’altro lato, offre un chiaro e definito criterio guida contro i rischi di un irrigidimento eccessivo delle relazioni contrattuali. Imponendo un sistema di “gradualità” (black e grey list) nella valutazione del carattere di slealtà della pratica commerciale, si è aperta la via della sterilizzazione delle pratiche sleali attraverso un accordo di programmazione chiaro e “voluto”.

In questa chiave, il sistema di gradualità, basato sulla categorizzazione delle pratiche commerciali in black list (pratiche decisamente sleali e vietate) e grey list (pratiche potenzialmente sleali che richiedono ulteriori valutazioni), consente una gestione più sfumata e adattabile delle pratiche commerciali. Questo approccio normativo riconosce chiaramente che non tutte le situazioni di slealtà sono equivalenti e che alcune possono essere mitigate o corrette attraverso interventi specifici e mirati, capaci di considerare attentamente la variabilità delle pratiche commerciali e delle dinamiche di mercato che mutano significativamente da un contesto all’altro.

Nel segno della cifra di armonizzazione minima della Direttiva (art. 3, comma 2) la disciplina in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, contenuta nel d.lgs. 8 novembre 2021, n. 198, riproduce, infatti, nelle sue linee essenziali l’impianto delineato dalla medesima Direttiva 2019/633. Ciò vale sicuramente in relazione alle fattispecie vietate – alla loro graduazione in base all’appartenenza alla black o alla grey list – sebbene in ordine al loro trattamento il legislatore eurounitario rimandi all’autonomia dei singoli ordinamenti municipali [31]. Giusto le previsioni di carattere per così dire sostanziale fanno risaltare il nucleo teleologicamente più qualificante di direttive e disciplina interna di recepimento, costituito appunto da misure intese a salvaguardare accordi equi e – compiutamente – ad ostacolare pratiche sleali, quali manipolazione dei prezzi, pubblicità ingannevole, trattamento discriminatorio dei concorrenti, con l’obiettivo di creare un ambiente di mercato equo e trasparente in cui le imprese possano competere in modo leale e i consumatori possano prendere decisioni informate [32].

Il diritto comune dei contratti, in particolare, l’autonomia negoziale assurge così a posizione centrale nel processo di regolazione del mercato seppure a valle di un’opera di conformazione legislativa [33]. Interessante è notare, a tale riguardo, come già la legge delega n. 53/2001 contenesse, all’art. 7, lett. b, una disposizione volta ad orientare [34] il legislatore delegato a mantenere, e ulteriormente definire, i principi generali di buone pratiche commerciali. Questi principi includono trasparenza, buona fede, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni cui gli acquirenti di prodotti agricoli e alimentari debbano attenersi prima, durante e dopo l’instaurazione della relazione commerciale.

Uno spunto in tale direzione parrebbe, del resto, provenire dal nostro legislatore a proposito dell’intro­duzione del parametro dei costi medi di produzione nel giudizio di valutazione della buona fede. Inizialmente, il Regolamento attuativo dell’art. 62 aveva adottato esplicitamente questo criterio, affermando che prezzi notevolmente al di sotto dei costi medi di produzione dei prodotti agricoli costituivano un comportamento contrario alla buona fede e alla correttezza nelle relazioni commerciali.

Successivamente, il legislatore ha modificato questa disposizione in modo più incisivo. L’art. 10-quater, nei commi 2, 3 e 4, d.l. 29 marzo 2019, n. 27, convertito in legge n. 44 del 21 maggio 2019, dopo aver affidato all’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (ISMEA) il compito di determinare mensilmente i costi medi di produzione agricoli (comma 2), ha stabilito che qualsiasi prezzo contrattuale inferiore a questa soglia costituisse una pratica commerciale sleale (comma 3), sanzionabile dall’AGCM (comma 4).

Una simile prospettiva che pone al centro dello scrutinio della abusività il criterio dei costi di produzione e investe in pieno il fronte delle tecniche di attuazione delle regole e divieti posti dal diritto della concorrenza, ha perso importanza, soprattutto ad opera del d.lgs. n. 198/2021 che abrogando le disposizioni dei commi 1, 3, 4 e 5 dell’art. 10 quater ha essenzialmente ridimensionato questo parametro, considerandolo ora solo come un possibile indicatore di prestazioni eccessivamente onerose (comma 2).

Questa evoluzione, non priva di oscillazioni, mostra una scelta più matura da parte del legislatore italiano – certamente più coerente e preferibile nell’attuale contesto eurounitario – data la limitata oggettività del parametro e i rischi di distorsioni economiche in un sistema competitivo. La rilevanza di tale questione non è sfuggita alla dottrina che ha sottolineato, fin dall’entrata in vigore dell’abrogato art. 62, i limiti di una regola così rigida in un sistema agroalimentare orientato al libero mercato, avvertendo che l’intervento regolatorio sui costi medi di produzione potrebbe alterare il funzionamento naturale del mercato e la libera formazione dei prezzi. [35]

Un ulteriore segnale di chiarezza su questo aspetto da parte del legislatore attuale si può cogliere nel medesimo art. 5, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 198/2021. Qui i costi medi di produzione rilevati dall’ISMEA assurgono ad elementi utili per valutare il carattere “eccessivamente” gravoso della prestazione del venditore, mentre il Regolamento attuativo previgente, come detto, si riferiva a questo parametro come indicativo di una prestazione “ingiustificatamente” gravosa. Ora, il carattere della prestazione (in)giustificata sembra essere considerato più correttamente un attributo delle prestazioni accessorie, separando la prestazione principale di cessione del prodotto agricolo e alimentare dal carattere strumentale delle prestazioni accessorie. [36]

Da ultimo, il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 4 del d.l. 15 maggio 2024, n. 63, introducendo definizioni più chiare di “costo medio di produzione” e “costo di produzione”. Quest’ultimo intervento sembra riproporre una visione rigida e cristallizzata della relazione contrattuale nella filiera agroalimentare. Le modifiche apportate agli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 198/2021 dal citato decreto legge influenzerebbero significativamente la determinazione dei prezzi e la gestione delle relazioni contrattuali tra le parti coinvolte.

Tale intervento legislativo, pur con l’intento di apportare maggiore chiarezza e precisione normativa, rischia di mancare l’obiettivo. In particolare, la rigidità introdotta dalla fissazione di parametri specifici come il “costo medio di produzione” e il “costo di produzione” può produrre l’effetto controproducente di irrigidire le dinamiche contrattuali e alterare il naturale funzionamento del mercato. Questo può risultare dannoso sia per i produttori agricoli, che si trovano vincolati da criteri che non riflettono le loro effettive condizioni operative, sia per i consumatori, che potrebbero dover affrontare prezzi meno competitivi e una minore varietà di prodotti disponibili.

La preoccupazione principale è che la determinazione amministrativa di tali costi nonché l’obbligatorietà di indicare i costi di produzione possa limitare la libera contrattazione tra le parti, imponendo vincoli che potrebbero risultare inadeguati rispetto alle specificità e alle variabili del mercato agroalimentare. L’introdu­zione di questi parametri potrebbe infatti influenzare negativamente la capacità delle imprese di negoziare prezzi in modo flessibile, rispondendo alle reali condizioni di mercato e alla competitività [37].

Inoltre, la rigidità normativa può portare a conseguenze indesiderate, quali l’eterodeterminazione del prezzo, mettendo in ombra le variabili di mercato e delle specificità delle diverse filiere agroalimentari. Questo significa che il prezzo contrattuale potrebbe essere determinato più dai parametri amministrativi che dalle effettive dinamiche di domanda e offerta, alterando la concorrenza e la libera formazione dei prezzi. A ciò si aggiunga la considerazione che l’intreccio di interessi che il nostro legislatore intende proteggere attraverso l’uso dello strumento dei costi medi rischia di compromettere proprio gli interessi dei soggetti più vulnerabili, ovvero quelli maggiormente esposti ai rischi di prevaricazione. In particolare, la letteratura economica ha ampiamente dimostrato come l’aumento della pressione sui prezzi finisca per gravare sui piccoli produttori e fornitori. Ciò accade perché la determinazione del valore medio di produzione tende a riflettere le condizioni delle aziende più grandi e più efficienti, capaci di sfruttare le economie di scala. Questo fenomeno rischia di oscurare le limitate economie di scala e le minori capacità di investimento che caratterizzano i piccoli produttori agricoli [38].

Se a ciò si aggiunge la discrepanza tra la normativa nazionale e l’approccio adottato a livello europeo, che non include il parametro dei costi di produzione come possibile indicatore di abusività del comportamento, il rischio di distorsione del mercato appare ulteriormente amplificato. Questa divergenza di governance solleva preoccupazioni concrete riguardo agli effetti negativi che potrebbero ricadere sulle realtà più vulnerabili, nonostante le intenzioni di protezione previste dalle normative.

Ebbene, all’interno di tale scenario, o meglio, entro il perimetro delineato dal legislatore nazionale, è possibile intravedere nello strumento protettivo dei costi medi un’interpretazione che eviti letture suscettibili di compromettere la competitività delle imprese e il corretto funzionamento del mercato, calibrandosi sulle indicazioni provenienti dalle fonti normative eurounitarie. Il parametro dei costi di produzione (medi e non) dovrebbe essere utilizzato come un riferimento indicativo volto a mettere in chiaro termini e modalità di attuazione del contratto piuttosto che come un limite fisso e invalicabile. Con la fondamentale differenza però che, pur fornendo una base per valutare la congruità dei prezzi praticati, esso non dovrebbe automaticamente costituire una condotta prevaricatoria, a meno che non vi siano altri chiari elementi di abuso o scorrettezza, come l’unilateralità della determinazione delle condizioni economiche del contratto [39].


4. Criteri di regolazione e il ricorso alle buone pratiche

È però con l’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 198/2021, in modo specifico, che vengono forniti i criteri di valutazione che comprendono la correttezza e la trasparenza delle informazioni durante le fasi precontrattuali, l’assunzione, ad opera di tutte le parti della filiera, dei propri rischi imprenditoriali, la giustificabilità delle richieste e la conformità dell’esecuzione alle condizioni precedentemente concordate.

L’impiego dello strumento negoziale costituito dagli accordi e dai contratti quadro previsti nel comma 1 dello stesso art. 6, e soprattutto la presenza delle organizzazioni di categoria quali garanzie e nuclei centrali per la formazione di un contenuto negoziale equo, conferma e corrobora la considerazione del richiamo del legislatore al necessario ricorso ad una chiara e ben definita individuazione delle regole, sia nel momento perfezionativo del contratto quadro che nella fase esecutiva rappresentata dall’accordo di cessione [40]. Ne risulta in tal modo valorizzata l’autonomia, strutturale e funzionale, dei canoni di conformità, stabiliti in termini di reciprocità e condivisione (dei rischi e dei costi), tanto più se si considerano la loro emersione e rilevanza nella dimensione dinamica e progressiva (dell’operazione di cessione del bene) rispetto al momento statico della formazione dell’accordo. In questa cornice appare dunque giustificata la rimeditazione dell’im­posizione di limiti generali a talune pratiche ritenute astrattamente ed in sé vietate, che ha condotto il legislatore a prospettare in modo più persuasivo una valutazione caso per caso, più attenta all’utilità pratica e alle intenzioni delle parti. Il riferimento è in generale alle pratiche contenute nella grey list dove appare in tutta evidenza l’effetto paralizzante e di immunizzazione, di cui parla la dottrina, dell’accordo rispetto all’abu­sività della pratica [41]. Ma di maggior evidenza in questa prospettiva è la curvatura, in chiave espansiva, dell’attività negoziale all’interno della disciplina della vendita del sottocosto e della clausola c.d. di reso. Tali ultime pratiche commerciali hanno attirato la maggiore attenzione dei regolatori, non solo per la loro ampia diffusione ma anche per le difficoltà di riconoscere limiti e benefici di efficienza nel loro utilizzo [42].

Con l’art. 6 del d.lgs. n. 198/2021, in particolare, ancor più si rinsalda il modello delle buone pratiche e l’attribuzione del carattere di “slealtà” dal loro discostarsene. La disposizione, come si è detto, dopo aver precisato (e ribadito) che si considerano “attuativi dei principi di trasparenza, buona fede e correttezza” gli accordi ed i contratti di filiera della durata minima di tre anni e i contratti di cessione (con il contenuto fissato dall’art. 3) conformi alle condizioni contrattuali definite nell’ambito degli accordi quadro ovvero che siano conclusi con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale rappresentate in almeno cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, ovvero nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, anche per il tramite delle loro articolazioni territoriali e di categoria, aggiunge “che i contratti di cessione si considerano conformi ai principi di buona fede, correttezza e trasparenza quando sono retti, sia nella loro negoziazione che nella successiva esecuzione, dai seguenti criteri: conformità dell’esecuzione a quanto concordato; correttezza e trasparenza delle informazioni fornite in sede precontrattuale; assunzione ad opera di tutte le parti della filiera dei propri rischi imprenditoriali; giustificabilità delle richieste”.

Qui ad assumere maggiore valenza è la dimensione di rapporto, colto dall’art. 6 del d.lgs. n. 198/2021 nella sua unità, dal momento della sua formazione fino alla sua esecuzione; il discostamento dei criteri indicati nell’art. 6 è insito nella determinazione unilaterale o attraverso patti non univoci nell’assetto negoziale, che tradiscono quanto concordato inizialmente e gli esiti attesi dalle parti.

Altri momenti di emersione di tale tendenza legislativa possono essere colti, sia pure in termini negativi, nell’art. 3, comma 2, che ha introdotto la c.d. grey list, e nelle altre previsioni volte a ricondurre l’abusività della condotta alla mancata negoziazione della clausola. La sterilizzazione dell’abusività della clausola o della condotta tramite l’accordo, inteso come regolamento autodeterminato da entrambi i contraenti, mette in luce l’esatta collocazione del ruolo dell’autonomia privata e della sua funzione di autointegrazione rispetto al principio di equità e proporzionalità dello scambio in chiave oggettiva o di “voluto” dal mercato [43].

Certo, questa nuova prospettiva non appare idonea a riequilibrare una relazione connotata da asimmetria. Ma è sicuramente utile perché rappresenta in termini generali una prima risposta allo stesso ordine di problemi ai quali si è chiamati a dare una soluzione, non appena si ponga in rilievo che non tutte le pratiche sleali sono da mettere sullo stesso piano rispetto all’assetto negoziale definitivo e complessivo [44].

Parte della dottrina d’altro canto non ha mancato di evidenziare l’esigenza di non “mortificare” l’auto­nomia delle parti con interventi esterni che finiscono con il “fare il contratto per loro”, ma, al contrario, di favorire interventi sulla disciplina contrattuale che “possano indurre a ricercare regole ulteriori” ed interne al contratto per “adeguare la disciplina alle mutate esigenze, in coerenza con l’assetto negoziale stabilito nel contratto [45].

Volendo restringere l’attenzione intorno alle due fattispecie delle buone pratiche e del sottocosto deve osservarsi che entrambe le discipline che il legislatore ha voluto esplicitamente varare fissano il loro baricentro giusto nella necessità di arginare un esercizio abusivo della libertà negoziale proprio attraverso l’esaltazione della autonomia contrattuale e del potere di autoregolazione riconosciuto ai privati.

Una lettura più attenta delle norme in esame fa emergere come lo scrutinio del legislatore sulle modalità di esercizio dell’autonomia contrattuale è, in queste due occasioni, focalizzato verso le condotte corrette dei paciscenti piuttosto che verso i termini (normativi ed economici) equi dello scambio [46]. Occorre avvertire che il richiamo alla buona fede posto dall’art. 6 a fulcro del controllo della buona pratica – sia nel comma 1, a proposito degli accordi e dei contrati di filiera (che, come si è detto, sono considerati “attuativi” della clausola generale); sia nel comma 2, in riferimento alla “conformità” dei contratti di cessione, – non ripropone elementi e valori esterni all’accordo e al mercato reale entro cui lo scambio si realizza. Questo dato è senz’altro più evidente in relazione all’esplicito appuntarsi della disposizione in esame all’adozione di un contenuto contrattuale ispirato alle buone prassi e ad una negoziazione assistita, laddove “la trasparenza, la buona fede e la correttezza nelle relazioni commerciali” assumono rilievo solo se ed in quanto non associati ad un contratto quadro o ad un accordo assistito, di cui fungano da cartina di tornasole.

Vero è che tale disposizione omette di definire in cosa consista una buona pratica commerciale mentre si preoccupa solo di fissare i contenuti distintivi di tale prassi contrattuale, cioè che l’accordo sia connotato da una durata minima di tre anni e che contenga gli elementi essenziali di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 198/2021. Vero è pure che la medesima norma ha ristretto l’ambito delle organizzazioni poste a tutela delle parti a quelle maggiormente rappresentative [47]. Tuttavia, non pare che possa dubitarsi del fatto che viene comunque evocato un giudizio di contrarietà al canone della correttezza in assenza di una partecipazione effettiva alla definizione del contenuto contrattuale. L’interprete dovrà in altri termini necessariamente ricostruire una regola d’azione calibrata sulle indicazioni provenienti dagli accordi a monte, ed esclusivamente su questa base, seppure avvalendosi di indici rilevatori, scrutinare l’agire di quella tra le parti che detenga la maggiore forza contrattuale [48]. Analoga considerazione può sostanzialmente valere in relazione alla disciplina della vendita sottocosto, a partire da quanto è dato desumere dall’art. 7 ove si dichiara che la vendita sottocosto è consentita, nel rispetto del d.lgs. n. 114/1998 e del d.P.R. 6 aprile 2001, n. 218, “solo nel caso di prodotto invenduto a rischio di deperibilità o nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate”.

Invero, la “lettura” del sottocosto in termini di (libera) strategia di marketing o manifestazione di determinazione del prezzo subordinata all’onere partecipativo della controparte ben può inquadrarsi all’interno di un fenomeno complesso, che registra risposte diverse in ordine alla portata che si intende riconoscere all’eser­cizio del potere di pressione dell’acquirente sul fornitore (ridimensionandolo o meno) [49]. Attraverso un uso corretto di questa pratica commerciale si è, infatti, in grado di dar vita a vantaggi competitivi e a benefici in termini di contenimento dei costi e di migliori condizioni di accesso al bene da parte del consumatore. L’am­missibilità del “sottocosto” può senza dubbio essere (ri)considerata come un elemento fondamentale per il controllo dell’efficienza di un meccanismo di formazione del prezzo basato sulla competizione tra imprese. L’AGCM non ha mancato di sottolineare come questa pratica possa costituire un potente strumento concorrenziale nel contesto del settore del commercio al dettaglio [50]. Tale attività, quando valutata nella sua giusta prospettiva, riveste un ruolo cruciale nel garantire una vigilanza costante e rigorosa sull’efficacia del processo di determinazione dei prezzi, nel quale la sana competizione costituisce l’elemento cardine (v. infra § 7) [51].

Gli interventi normativi sin qui richiamati delineano, dunque, un chiaro ordine di considerazioni che fa riferimento ad un modello di governance flessibile, diverso, se non addirittura antitetico, rispetto a quello delineato dalle disposizioni di cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 198/2021. Quest’ultimo si fonda esclusivamente sull’imperatività ed inderogabilità delle norme, incarnando una tendenza all’eteronormazione del rapporto contrattuale che pone dei limiti all’autonomia non lasciando margini di discrezionalità alle parti per potere adattare il regolamento contrattuale alle specifiche esigenze della relazione individuale [52].

Il legislatore, in un contesto di regolazione del mercato agricolo, con l’obiettivo di promuovere l’equità nelle dinamiche negoziali caratterizzate da asimmetrie di potere contrattuale ed economico, come si è detto, pone un’enfasi significativa sul ruolo cruciale dell’autonomia privata e delle sue modalità di esercizio [53].

Questo approccio, centrato sulla valorizzazione della relazione individuale che si sviluppa all’interno del mercato regolamentato, si focalizza sul riconoscimento degli interessi reali dei soggetti coinvolti, sulla fiducia reciproca e sulla capacità di comprensione dei bisogni delle parti interessate. Il suo obiettivo è ridurre le disuguaglianze e favorire una maggiore equità nelle transazioni commerciali, mediante una regolamentazione capace di bilanciare le dinamiche di potere negoziale tra le parti. Questa regolamentazione non mira a limitare o soffocare le parti, ma piuttosto a promuovere la loro autonomia e capacità di autoregolamentarsi, aprendo spazi per negoziazioni più efficaci e orientate al perseguimento di obiettivi specifici e condivisi, come la creazione di valore a lungo termine. Operando, per così dire, all’interno del rapporto contrattuale, essa si fonda sugli interessi concreti dei contraenti e sulla relazione particolare che li unisce. In questo modo, viene istituita, o meglio promossa, una continuità tra le innovazioni più rilevanti e apparentemente dirompenti del diritto contrattuale europeo.

Si assiste, in tal modo, ad una torsione degli strumenti privatistici e dell’autonomia privata in termini di efficienza della struttura del settore agricolo e alimentare e dell’immissione nel mercato del prodotto [54].

La prospettiva adottata dal legislatore (nazionale o europeo) al fine di garantire una corretta distribuzione tra le parti di diritti, obblighi e rischi economici derivanti dal contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari in un contesto di concorrenza, implica la valorizzazione delle regole del diritto privato e della trasparenza contrattuale [55]. Questo approccio normativo, basato su una logica di flessibilità, favorisce, tra l’altro, il raggiungimento degli obiettivi di politica agricola e ambientale, meglio adeguandosi alle esigenze contingenti del settore [56].

Un’attenta e approfondita analisi delle modalità di esercizio dell’autonomia contrattuale si rivela per il legislatore cruciale per rispondere adeguatamente alle specificità e alle molteplici sfide intrinsecamente associate al segmento del mercato agroalimentare. Tale scrutinio non si esaurisce in un giudizio di conformità del contratto di cessione del prodotto alle esigenze economico-sociali in linea con gli obiettivi di politica agricola e ambientale.

Attraverso un’opportuna applicazione e riformulazione delle norme negoziali, si possono incentivare pratiche agricole sostenibili, promuovere la salvaguardia ambientale e migliorare le condizioni lavorative all’in­terno della filiera agroalimentare. Tale approccio normativo, oltre a favorire una maggiore equità nelle transazioni commerciali, costituisce un potente strumento per integrare obiettivi di sostenibilità e responsabilità sociale nel tessuto contrattuale, orientando il settore verso modelli operativi più etici e duraturi. Di conseguenza, le relazioni contrattuali si configurano non solo come strumenti per la regolamentazione degli scambi economici, ma anche come veicoli preferenziali per l’implementazione di strategie volte alla sostenibilità e alla giustizia sociale [57].

La trasparenza contrattuale diventa uno strumento chiave per garantire una corretta dinamica concorrenziale e un equilibrio tra le parti coinvolte nella filiera agroalimentare. Essa permette di migliorare la comprensione delle condizioni contrattuali da parte dei contraenti e promuove una maggiore attenzione non solo riguardo alla fase esecutiva, ma anche una rivalutazione degli impegni assunti nelle fasi che precedono il contratto di cessione, inscindibilmente connessi all’operazione contrattuale complessiva posta in essere prima, dopo e durante la vicenda negoziale.

Questa curvatura privatistica ad opera del legislatore (nazionale ed europeo) volta da un lato a promuovere un controllo sulla corretta dinamica concorrenziale anche nel comparto agricolo e alimentare, esaltando il ruolo dei poteri privati sotto il profilo della costruzione e dell’esecuzione del programma contrattuale ed in particolare valorizzando la trasparenza contrattuale, deve muoversi anche lungo una medesima direttrice che intende, perseguendo una logica a geometrie variabili, connotare la disciplina delle relazioni contrattuali nel­l’ambito della filiera agroalimentare di ampi margini di flessibilità funzionali al conseguimento di obiettivi (contingenti) di politica agricola e ambientale [58]. Da questo punto di vista la filiera agroalimentare costituisce un utile banco di prova per la sua vocazione a racchiudere in sé una seria di regole giuridiche legali e convenzionali che appaiono peculiari di certe fattispecie, come la vulnerabilità degli agricoltori o le caratteristiche del bene ceduto, per citare soltanto le più significative. Il miglioramento e il rafforzamento del potere negoziale della parte debole e l’adozione di valide misure di contrasto alle pratiche commerciali sleali, sono, infatti, aspetti intimamente connessi al potenziamento e all’ottimizzazione del sistema di distribuzione del prodotto agroalimentare [59]. La consapevolezza dell’importanza di questa stretta relazione, ma anche dell’esi­genza di reagire ai fallimenti e alle crisi del settore attraverso un approccio articolato capace di mettere in giusto risalto la naturale compenetrazione di regole di organizzazione del mercato e regole di protezione della parte debole, fa da sfondo agli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 198/2021.

Il contrasto alle pratiche commerciali sleali tra imprese, in questa dimensione, mette a fuoco l’esigenza di non svalutare o circoscrivere le manifestazioni di libertà di iniziativa economica ma, al contrario, di migliorare le modalità di regolazione e di attuazione dello scambio avente ad oggetto il prodotto agricolo o alimentare [60].

Più che muoversi dentro una logica strettamente sanzionatoria, le due disposizioni da ultimo richiamate, offrono spunti di notevole rilievo in ordine alla necessità di individuare regole di proporzionalità, correttezza ed equità dello scambio ispirate ad una dimensione dialogica e collaborativa tra i soggetti protagonisti (e antagonisti) della filiera agroalimentare [61].

In questo contesto, la disciplina delle pratiche sleali resta sempre più ancorata al funzionamento e all’or­ganizzazione del mercato agricolo e al tema dei rapporti di fornitura [62].

In tal modo il legislatore, europeo e municipale di recepimento, consegna la salvaguardia della libertà e della formazione del consenso – naturalmente tutelata dal diritto civile – ad una disciplina di regolazione del mercato agricolo, sebbene orientata al raggiungimento degli obiettivi indicati nell’art. 39 TFUE, tra i quali rientra, è bene qui evidenziarlo, il sostegno del reddito degli agricoltori e la tutela del loro benessere [63]. Tuttavia, oggi, malgrado affiorino di tanto in tanto tentativi di segno opposto, difficilmente si può negare il naturale innesto delle regole della concorrenza nell’ambito della politica agricola [64], benché in questo senso sembra più palesarsi una funzione “servente” della disciplina antitrust rispetto agli obiettivi della Politica Agricola Comune, in un’ottica volta ed esaltare i momenti unitari e sistematici [65]. A ciò si aggiunga l’ulteriore consapevolezza del legislatore e della dottrina che il mercato agricolo e alimentare non è declinabile nei soli termini di produzione e di efficienza, al solo scopo di migliorare ed innovare l’attività di immissione e messa in circolazione del prodotto agricolo, ma deve combinarsi e completarsi con gli altri obiettivi della PAC [66].

Una conferma in tal senso si trae dall’art. 210-bis del Regolamento n. 1308/2013, introdotto ad opera del Regolamento 2021/2117 del Parlamento europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2021, che mette in rilievo, nelle relazioni di filiera agroalimentari, l’obiettivo della sostenibilità ambientale [67]. Si delinea quindi una prospettiva più ampia e funzionale, che necessita di un approccio elastico e dinamico, in grado di adattarsi ai cambiamenti e alle diverse funzioni richieste [68]. Questa prospettiva, peraltro, è pure più sensibile nel valutare i processi di cambiamento nelle politiche agricole [69].

Oggi, il tema della sostenibilità fa emergere il bisogno di incentivare il ricorso ai codici di condotta e allo stesso tempo l’esigenza di interventi normativi più efficaci volti a introdurre regole di organizzazione e funzionamento del mercato che possano incidere direttamente sulle modalità di svolgimento dell’attività di impresa nella dimensione sia distributiva che produttiva, con l’intento di incentivare accordi interprofessionali volti a declinare in termini di sostenibilità lo scambio dei prodotti agricoli e alimentari [70].

In questo variegato contesto il legislatore europeo, attraverso il Regolamento n. 1308/2013, pone in rilievo l’importanza della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e in generale dei profili di formazione e contenuto del contratto, che si riferiscono all’equità (economica) del rapporto negoziale in un mercato concorrenziale. Il riferimento è al Considerando 138 del Regolamento da ultimo richiamato dove si sottolinea come: L’uso di contratti scritti formalizzati… può anche contribuire a evitare determinate pratiche commerciali sleali. In mancanza di una normativa dell’Unione relativa a tali contratti, gli Stati membri possono, secondo il diritto contrattuale nazionale, decidere di rendere obbligatorio l’uso di contratti di questo tipo, purché sia rispettato il diritto dell’Unione e, in particolare, sia rispettato il corretto funzionamento del mercato interno e dell’organizzazione comune dei mercati”. Questa indicazione riferita alla scelta di imporre l’uso della forma scritta ed un contenuto minimo essenziale al contratto di cessione, già nel 2013 metteva in luce un importante angolo prospettico della relazione negoziale che conferma – senza offrire una soluzione o delle misure specifiche – una lettura del contratto in chiave funzionale al raggiungimento di una molteplicità di obiettivi [71].

In questo ordine di idee si muovono i più recenti interventi della giurisprudenza europea, che non hanno mancato di sottolineare come la disciplina delle pratiche scorrette nella filiera agroalimentare – il cui luogo elettivo deve essere il rapporto contrattuale/individuale – costituisca un imprescindibile tassello della governance, che deve fare da completamento al sistema di organizzazione e funzionamento del mercato agricolo improntato ad un modello concorrenziale [72].

L’impostazione che si è sintetizzata nei termini essenziali va incentrata sul sistema di contrasto alle pratiche sleali attraverso un’analisi delle disposizioni del d.lgs. n. 198/2021 capace di mettere in risalto i nessi che affidano all’autonomia privata l’attuazione di un nuovo schema di comportamento degli attuali protagonisti della filiera agroalimentare, a partire dalla ipotesi regolata dall’art. 6 del medesimo decreto legislativo.

Quest’ultimo, come si è detto, dopo gli artt. 4 e 5 che contengono gli elenchi delle pratiche sleali, graduandole a seconda della maggiore o minore gravità (black e grey list), inserisce una specifica disposizione epigrafata buone pratiche commerciali (art. 6) [73]. Tuttavia, non fornisce, come ci si potrebbe attendere, un elenco di ciò che costituisce appunto una buona pratica, ma la sua determinazione viene affidata al regolamento contrattuale, stabilendosi, al comma 1 che si considerano attuativi dei principi di trasparenza, buona fede e correttezza nelle relazioni commerciali tra acquirenti e fornitori di prodotti agricoli ed alimentari gli accordi ed i contratti di filiera che abbiano durata di almeno tre anni nonché i contratti di cui all’art. 3 conformi alle condizioni contrattuali definite nell’ambito degli accordi quadro. Il legislatore aggiunge inoltre la fattispecie dei contratti di cessione, individuandola come modello contrattuale idoneo a far veicolare buone prassi a condizione che contenga i seguenti elementi essenziali, ai fini dello scrutinio di correttezza: “conformità dell’esecuzione a quanto concordato; correttezza e trasparenza delle informazioni fornite in sede precontrattuale; assunzione ad opera di tutte le parti della filiera dei propri rischi imprenditoriali e giustificabilità delle richieste [74].

La scelta normativa è stata in sostanza di affidare alle parti e quindi al regolamento contrattuale il potere di integrare e completare il quadro normativo di riferimento in merito alle buone pratiche. Fissata la cornice con gli artt. 3, 4, 5 e 7, il legislatore rimette dunque al programma negoziale e al suo contenuto, il compito di trovare il giusto equilibrio e perequare l’asimmetria, considerando l’accordo idoneo a superare le carenze di informazione e di potere contrattuale ed economico delle parti.

In questa occasione l’art. 6 del d.lgs. n. 198/2021 sembrerebbe riferirsi ad un generico fenomeno e ad una certa tendenza di economia del mercato che esalta il consenso e la libertà dei privati, piuttosto che introdurre/imporre misure comportamentali specifiche [75]. È certo, invece, che proprio il richiamo agli accordi, ai contratti di filiera, ai contratti quadro e di cessione, serve a costruire una serie di regole rigorose ma al tempo stesso coerenti con un modello dinamico di rilevanza della parte economicamente e contrattualmente debole che pone al centro il reale assetto dei bisogni e degli interessi economici delle parti. Da un’analisi più attenta (e da una lettura più ampia che riguarda anche altri aspetti relativi al buon funzionamento del mercato agroalimentare) la scelta sembra andare oltre la semplice sollecitazione o espressione di favore, verso l’intro­duzione per via contrattuale di buone prassi economiche.

Ed in questa direzione, il legislatore delegato non ha mancato di accogliere le segnalazioni espresse dal legislatore europeo e del nostro Parlamento in sede di delega. Il riferimento è al citato Considerando n. 16 della Direttiva 2019/633, che riferendosi alla necessità di una graduazione rispetto all’illiceità delle clausole abusive suggerisce, agli Stati membri, l’introduzione di una grey list, spingendo nella direzione di dare maggiore rilevanza agli accordi funzionali a riequilibrare il rapporto e avvertendo i legislatori degli Stati membri che “nel decidere se una particolare pratica commerciale è da considerarsi sleale è importante ridurre il rischio che il ricorso ad accordi equi tra le parti, volti a creare efficienza, venga limitato. È quindi opportuno operare una distinzione tra le pratiche che sono previste in termini chiari ed univoci negli accordi di fornitura o in accordi successivi fra le parti e pratiche messe in atto dopo l’inizio dell’operazione, senza essere state preventivamente concordate, in modo tale da vietare unicamente le modifiche unilaterali e retroattive apportate alle condizioni chiare ed univoche pertinenti dell’accordo di fornitura. Alcune pratiche commerciali sono però considerate sleali per loro stessa natura e non dovrebbero essere soggette alla libertà contrattuale delle parti”.

La delega legislativa, dal canto suo, sul punto è ancora più chiara vincolando esplicitamente il governo a “mantenere e ulteriormente definire i princìpi generali di buone pratiche commerciali di trasparenza, buona fede, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni a cui gli acquirenti di prodotti agricoli e alimentari debbano attenersi prima, durante e dopo l’instaurazione della relazione commerciale” (art. 7, comma 1, lett. b).

L’art. 6 del d.lgs. n. 198 /2021 si (ri)volge, dunque, all’autonomia negoziale in due distinti momenti, ma preoccupandosi allo stesso tempo di circoscrivere il perimetro della relazione contrattuale, incardinando l’intera operazione economica dentro un modello negoziale specifico, da utilizzare per la cessione del prodotto agricolo e alimentare. L’art. 6, comma 1, fa riferimento agli accordi e ai contratti di filiera, nonché ai contratti quadro di fornitura. Per quanto riguarda i contratti di cessione, il medesimo comma distingue tra i contratti di cessione che si possono definire esecutivi del contratto quadro e i contratti individuali di cessione stipulati in assenza di contratti quadro, ma conclusi con l’assistenza delle rispettive organizzazioni professionali maggiormente rappresentative a livello nazionale. L’art. 6, comma 2, contempla anche la possibilità di stipulare contratti di cessione individuali in modo autonomo, fuori cioè dalla sequenza accordo-quadro/con­tratto di cessione. In questa ipotesi non vi è una presunzione o una forma di automatismo come nel comma 1, che si ricava dalla locuzione “si considerano attuativi”, ma si utilizza la diversa espressione “si considerano conformi” alle buone pratiche, i contratti di cessione che rispettino i quattro criteri specifici definiti dalla medesima disposizione.

Si tratta in buona sostanza di affidarsi ad una contrattazione che vincola le parti alla ricerca di un punto di reale equilibrio normativo ed economico, un modello che da questo punto di vista si contrappone anzi si pone in aperto contrasto con la modalità di predisposizione unilaterale del contratto e delle condizioni generali di contratto di cui agli artt. 1341 e 1342 cod. civ.

La ratio legis consiste nel conformare il comportamento dei protagonisti ed in particolare di instaurare comportamenti virtuosi e responsabili. Lo sforzo del legislatore (europeo e di riflesso nazionale) è volto, infatti, in prima battuta a mettere in chiaro i termini rilevanti delle operazioni economiche poste in essere dalle imprese in un contesto di filiera; cui fa seguito l’individuazione degli strumenti ritenuti più efficaci per correggere le condotte potenzialmente pregiudizievoli per le parti, per i terzi e per la collettività. La regolamentazione, in questa ottica, si inserisce a pieno titolo dentro la disciplina del contratto quadro e delle intese di filiera di cui al d.lgs. n. 102/2005, atto quest’ultimo – richiamato, non a caso, dall’art. 2 del d.lgs. n. 198/2021 – volto a migliorare l’efficienza del mercato agricolo e alimentare [76].

L’intervento normativo spinge verso un cambiamento di paradigma che consiste nell’individuare in un contesto complesso ed articolato, come quello della filiera agricola e alimentare, in modo chiaro le buone pratiche commerciali che possono incidere favorevolmente ed efficacemente verso una relazione più equa, solidale e sostenibile [77]. Gli obiettivi di sostenibilità, in questo scenario mirano, quindi, alla conformazione dell’azione dei soggetti economici privati al soddisfacimento dei loro interessi, senza pregiudicare le possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri [78].

Proseguendo lungo questo tracciato, nel mese di luglio del 2021 è stato pubblicato il Codice di condotta dell’Unione Europea sulle pratiche commerciali e di marketing responsabili nella filiera agroalimentare. Si tratta di un lavoro che è stato portato a termine attraverso il dialogo e il contributo di numerose imprese e organizzazioni rappresentative delle filiere agroalimentari con l’obiettivo di incoraggiare gli operatori del settore ad adottare pratiche commerciali sostenibili nell’interesse comune [79]. Un’iniziativa che si inserisce dentro il solco tracciato dalla strategia Farm to Fork e più in generale nell’ambito del c.d. Green Deal europeo. Il nuovo modello mira alla creazione di filiere agroalimentari sostenibili dal momento della produzione fino all’immissione del prodotto nel mercato [80].


5. La vendita sottocosto nella filiera agroalimentare per un pricing responsabile.

Da questo punto di vista, la pratica del sottocosto rappresenta un punto focale particolarmente significativo poiché evidenzia il bilanciamento tra il controllo normativo e la promozione della libertà contrattuale. In molti contesti, il sottocosto si è rivelato un problema persistente, con effetti negativi su agricoltori e operatori della filiera agroalimentare. Tuttavia, il passaggio dalla proibizione a una disciplina del sottocosto, come si dirà a breve, indica in modo univoco come la soluzione a questo problema non è necessariamente rappresentata da misure sanzionatorie o demolitorie volte a impedirne l’uso. Ma, al contrario, dalla presa d’atto che tali forme di tutela determinerebbero un effetto di overdeterrence, scoraggiando gli attori della filiera agroalimentare dall’agire in modo autonomo e dalla ricerca di soluzioni innovative per affrontare le sfide del settore. Diversamente, prende corpo l’idea di affrontare la questione in modo più equo ed equilibrato, affidandosi alla forza dell’autonomia contrattuale e alla capacità delle parti coinvolte di autoregolarsi, ponendo le condizioni affinché esse possano raggiungere accordi vantaggiosi e sostenibili nel contesto di un mercato competitivo. Il potere di autoregolazione delle parti, in questo caso, se sottoposto ad uno scrutinio attento alle finalità perseguite e agli interessi tutelati dalla norma, consentirebbe agli attori della filiera di negoziare condizioni che riflettano meglio le loro esigenze e le loro realtà. Questa prospettiva favorirebbe la formazione di prezzi equi per gli agricoltori per la cessione dei loro prodotti e ai consumatori l’accesso ad alimenti sicuri e di non scarsa qualità, senza tuttavia soffocare la flessibilità necessaria per adattarsi alle sfide di un settore in continua evoluzione, mantenendo la capacità degli operatori economici di rispondere in modo flessibile alle dinamiche del mercato.

Tutto ciò è evidenziato dal chiaro proposito del nostro legislatore, il quale ha voluto inserire una specifica indicazione sulla modalità di svolgimento della pratica commerciale del sottocosto. Il riferimento è all’art. 7, comma 1, lett. h, legge n. 53/2021 (legge di delegazione europea 2019-2020), che vincola il Governo ad introdurre una modifica alla disciplina generale delle vendite sottocosto, di cui al d.P.R. 6 aprile 2001, n. 218, “definendo in modo puntuale condizioni e ambiti di applicazione” (art. 7).

In attuazione alla disposizione citata, l’art. 7 del d.lgs. n. 198/2021 sulla disciplina della vendita sottocosto già dall’epigrafe della disposizione indica in modo inequivocabile il superamento della logica astratta e meramente sanzionatoria [81]. Qui, infatti, come già visto, il legislatore, al comma 1, ha previsto che la vendita sottocosto è consentita – all’interno della cornice normativa generale fissata dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 e dal d.P.R. 6 aprile 2001, n. 218, – nel caso di “prodotto invenduto a rischio di deperibilità” ovvero nel caso di “operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta”. Così, il giudizio di meritevolezza si concentra sia sotto l’aspetto della convenienza e dell’efficacia dello scambio, che sotto il profilo delle modalità attraverso le quali la vendita sottocosto viene realizzata nel concreto regolamento predisposto dalle parti.

Pur dovendosi riconoscere l’ammissibilità delle pratiche di vendita sottocosto, in quanto, tra l’altro, espressione della libera negoziazione del prezzo, bisogna tener conto delle condizioni imposte dall’art. 7. La disposizione, nell’attribuire alle parti la facoltà di concludere contratti di vendita sottocosto, prevede che tale accordo, da un lato, realizzi interessi “esterni” meritevoli di tutela (consumatore e mercato), dall’altro lato, non comporti uno squilibrio economico per la parte fornitrice.

Non v’è dubbio che dalla formulazione della disposizione in esame, sebbene non snella e di non immediata interpretazione, il legislatore individui un diverso punto di equilibrio tra le diverse esigenze dei contraenti, non più basato sulla illiceità evidente di tale pratica. In altre parole, anziché semplicemente vietare o considerare come illegale la modalità di vendita del sottocosto, il legislatore si sforza di individuare un equo bilanciamento che tenga conto di diverse esigenze e interessi. Per certi versi appare più̀ vantaggiosa per l’acquirente-distributore, giacché non gli viene impedito in determinate circostanze di offrire prezzi di acquisto allettanti e fuori mercato. Per altri, risulta più garantita la posizione del fornitore, il quale vede immediatamente privata di efficacia la clausola del sottocosto che eventualmente non rispettasse i requisiti dell’invenduto e della reperibilità oltre le altre circostanze previste dalla disciplina generale. Ma vi è un ulteriore elemento da evidenziare ai fini del nostro discorso, volto ad analizzare i momenti di una disciplina ispirata ad un approccio di governance. Il riferimento è alla circostanza che la scelta del sottocosto non sia frutto di un atto unilaterale, cioè di una libera determinazione dell’acquirente, ma di un’operazione di marketing programmata e concordata con il fornitore in forma scritta.

Ora, posto che non tutte le vendite sottocosto possono ritenersi a priori abusive o dannose e che questo carattere, viceversa, va determinato con riguardo all’interesse del fornitore, se ne deduce che la connotazione di “slealtà” della pratica qui esaminata si deve estrinsecare in una condotta di scorrettezza valutata in base all’interesse concreto e non in astratto. Tanto più che l’ordinamento non mostra in alcun modo di considerare abusiva la vendita sottocosto, anzi la considera positiva riguardo all’interesse del consumatore.

Si tratta di una novità nel panorama della filiera agroalimentare. Quello che la prassi e la teoria hanno messo in evidenza nella vicenda della integrazione per via contrattuale della filiera è l’ingerenza del grande distributore e/o trasformatore industriale rispetto alle modalità di svolgimento dell’attività imprenditoriale del produttore. È il caso del disciplinare di produzione che fissa standard specifici riguardo alla coltivazione ed all’allevamento (uso di specifiche semenze, sostanze diserbanti e pesticidi, numero di controlli veterinari, ecc.), che naturalmente ha un’immediata ricaduta sulle condizioni economiche e in particolare sugli oneri di produzione [82].

Nel caso, invece, dell’attività di marketing programmata di cui si è detto, si assiste ad un’ingerenza da parte del fornitore sulle scelte di marketing dell’acquirente-distributore. Le scelte e le strategie volte all’im­missione nel mercato del prodotto agricolo compiute a valle da parte dell’acquirente devono essere condivise e quindi trovare l’assenso a monte da parte del fornitore/produttore [83]. Risulta evidente che tale misura sarà tanto più efficace quanto maggiore sarà la forza contrattuale del fornitore, e dunque essenziale il ruolo svolto dall’organizzazione dei produttori. In questo caso, è quanto mai necessario che le organizzazioni dei produttori possano emanciparsi dall’ormai riduttivo compito di regolazione-aggregazione dell’offerta, sviluppando vere e proprie strategie di marketing per quanto necessariamente condivise con la controparte [84].

A proposito del percorso normativo della pratica del sottocosto, la dottrina recentemente ha parlato di una sorta di immunità [85]. Un’immunità che in un contesto di asimmetria può apparire pericolosa e da guardare con sospetto, ma che alla luce delle considerazioni svolte – a proposito dell’esigenza di una tutela della parte debole dentro un quadro di compatibilità con le regole di organizzazione e dunque in un’ottica di corretta dinamica concorrenziale – può invece restituire quella coerenza alla regola, ma anche efficacia in termini di protezione degli interessi individuali (della parte debole, compreso il consumatore).

La questione – come è facile intuire – non sta tanto nell’applicazione, o meno, di misure restrittive (generalizzate) all’uso della pratica del sottocosto dei prodotti agricoli o alimentari, quanto nel ragionamento su come questa operazione deve essere effettuata e, soprattutto, nella funzione che al suo interno all’“accordo equo” viene ora esplicitamente assegnata.

Non mancano del resto chiari segnali normativi provenienti dall’Ue che riguardano l’intera disciplina delle pratiche sleali in questa materia. In questo senso è la stessa Direttiva che offre un solido appiglio alla scelta del nostro legislatore che si traduce in una sorta di declassamento della vendita sottocosto dalla black alla grey list. La Direttiva 2019/633 mira, come sottolinea acutamente la dottrina, ad assicurare che determinate operazioni commerciali attuate discrezionalmente dall’impresa in fase di distribuzione o di vendita finale al consumatore non producano effetti negativi diretti o indiretti per il fornitore. Il focus è l’impatto negativo che in concreto può verificarsi a seguito dell’adozione di una specifica operazione a valle compiuta unilateralmente dal distributore-parte forte. Così impostati i termini della questione, il legislatore si affida alla capacità della regola (negoziale) di individuare all’interno del contenuto contrattuale la soluzione ottimale che, usando le parole della nostra dottrina più sensibile, è il migliore strumento per trasformare le scelte di politica commerciale “in una variabile consegnata ad un accordo che ne fissa le condizioni [86]. A questo punto, potrebbe sorgere il problema se la scelta di praticare una vendita sottocosto possa essere consentita quando non incida sulla corretta remunerazione del fornitore. La risposta, dentro una cornice normativa europea e domestica che mette a fuoco gli scopi di protezione del fornitore, dovrebbe essere senz’altro positiva, salvo ovviamente che il prezzo sottocosto non produca dei riflessi negativi a danno di altri soggetti o leda altri interessi sovraindividuali ritenuti rilevanti per l’ordinamento. Ma in questi ultimi casi lo scrutinio spetterebbe all’autorità garante della concorrenza e del mercato, che dovrà valutare l’eventuale presenza di una strategia predatoria e in generale l’assenza di perturbazioni dell’assetto libero concorrenziale del mercato [87].

Nella disciplina delle pratiche sleali nella filiera agricola e alimentare (europea e domestica), essendo l’atto unilaterale a costituire la dissonanza, ciò che si intende impedire è l’uso della pratica del sottocosto ed il suo inserimento all’interno di un’attività di promozione non concertata e basata su di una strategia imprenditoriale (su base individuale) che rischia di ripercuotersi negativamente sulla relazione con il produttore. Fuori da tale ipotesi, lo scrutinio infatti si sposta sui vantaggi e sulle efficienze della prassi del sottocosto e si riespande la forza propulsiva dell’autonomia privata, sub specie di accordo leale ed equo [88]. In questo caso, il compito di partecipazione del fornitore, al cui assolvimento è subordinata la liceità della pratica del sottocosto, restituisce alla manifestazione di volontà negoziale la risposta più adatta ed efficiente permettendo alle parti di adattarsi meglio alle condizioni di mercato e di migliorare la propria efficienza economica [89]. Da questo punto di vista anche per la filiera agroalimentare sembra valere l’orientamento positivo che fin dall’inizio della regolamentazione del sottocosto ha espresso l’autorità garante della concorrenza e del mercato a proposito di tale pratica:“(…) le vendite sottocosto sono un potente strumento concorrenziale soprattutto tra gli esercizi della grande distribuzione organizzata: si consente in tal modo al consumatore di acquistare a basso prezzo prodotti di largo consumo scegliendo tra le diverse promozioni offerte da operatori tra loro in concorrenza [90].

Al medesimo risultato è giunta in fine anche la nostra giurisprudenza. Ricorda, infatti, l’ordinanza della Cassazione 7 febbraio 2020, n. 2980, come “la scelta di un imprenditore in ordine alla politica dei prezzi sia in via di principio lecita, trattandosi di un comportamento strettamente legato alle valutazioni di rischio, che solo a lui competono, nel rispetto, naturalmente, delle regole sulla disciplina del commercio. Mentre l’‘uti­lità sociale’, dalla medesima disposizione costituzionale prevista a limite della libertà d’impresa, va intesa pur sempre con riguardo al c.d. interesse del mercato, ossia a quello che nuoce o giova al buon funzionamento del medesimo, e, quindi alla generalità dei consumatori: e non al mero interesse di un altro concorrente a non essere messo in difficoltà (…) Donde la conclusione secondo cui la vendita sottocosto (o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi) è contraria ai doveri di correttezza ex art. 2598 cod. civ., comma 1, n. 3, solo se si connota come illecito antitrust, in quanto posto in essere da una impresa in posizione dominante e praticata con finalità predatorie. La vendita sottocosto è favorevole ai consumatori ed al mercato, sino a quando non giunga alla soppressione della concorrenza, e, perciò, si traduca in un danno per gli stessi consumatori ed il mercato, onde solo in tale ultima situazione si realizza l’illecito concorrenziale da dumping interno.”.

Alcune pronunce della Corte di giustizia confortano tale orientamento, laddove censurano, a norma della Direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali, il divieto generale di vendita sottocosto [91].


6. Una lettura in chiave rimediale delle pratiche sleali

Lo scrutinio di abusività nel nostro ordinamento, in merito all’esercizio del potere o della libertà di determinazione del prezzo nei contratti di cessione dei prodotti agricoli, non segue un criterio uniforme. In alcuni casi, il controllo sull’abusività delle condotte prescinde dal carattere impositivo o unilaterale della decisione. È questo il caso del divieto di utilizzo delle gare e delle aste elettroniche a doppio ribasso (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 198/2021). In altre situazioni, invece, la valutazione della slealtà della condotta è meno rigida, tenendo conto di quanto concordato dalle parti e del contesto specifico in cui si inserisce l’accordo, come avviene per le vendite sottocosto (art. 7, d.lgs. n. 198/2021).

La prima indicazione particolarmente rilevante, nel primo caso, emerge dal I comma dell’art. 5 del d.lgs. sopra richiamato, e consiste nella posizione di netto disfavore espressa dal nostro legislatore verso tale prassi, che viene vietata indipendentemente dalle intenzioni delle parti o delle dinamiche della scelta dei fornitori di partecipazione alla gara. In questa fattispecie, sembra delinearsi una presunzione assoluta di slealtà, che prescinde sia dall’esistenza di alternative adeguate, sia dal comportamento del soggetto leso, configurando così un’ipotesi di abuso in re ipsa, comminata da una sanzione amministrativa particolarmente elevata in considerazione della gravità del fatto e della sua reiterazione fino a stabilire la sospensione dell’attività. Al contrario, nulla prevede la medesima disposizione in ordine alla sua ricaduta sul piano privatistico – al netto della previsione generale del 4 comma dell’art. 1 che riconosce natura imperativa agli artt. 3, 4, 5 e 7 e la nullità delle clausole e dei patti contrari che si discostano dagli elementi contrattuali in essi indicati – lasciando all’in­terprete il compito di individuare le conseguenze che si riflettono sul contratto a seguito del comportamento vietato [92]. Dal punto di vista del diritto dei contratti la regola violata non può che essere ricondotta ad una fase interna al rapporto negoziale che attiene al momento formativo del contratto e che va riferita alla volontà delle parti di utilizzare il mezzo delle gare e delle aste elettroniche a doppio ribasso per l’acquisto dei prodotti agricoli e alimentari [93]. Nel contesto della filiera agroalimentare e della cessione del prodotto agricolo e alimentare, il buyer power viene esercitato, a giudizio del nostro legislatore, comprimendo eccessivamente verso il basso il prezzo di vendita, compromettendo la sostenibilità economica del venditore, individuato come parte contrattuale debole. Dunque, una regolamentazione di per sé lacunosa sul versante del private enforcement ma, soprattutto, fortemente punitiva sull’opposto versante del public enforcement, che finisce per operare una netta frattura tra i due piani rimediali.

Invero, l’ordito della disciplina di per sé molto equivoco e soprattutto fortemente carente sul piano dei rimedi contrattuali, disegna un sistema misto di enforcement, nel quale affidare alle Autorità amministrative di contrasto (ICQRF e AGCM) un ruolo attivo nella prevenzione e repressione delle condotte sleali.

Vi è da rilevare che sul piano dei rimedi contrattuali – proprio in ragione della lacuna legislativa che, comunque la si voglia considerare, non può ritenersi una semplice svista, soprattutto in considerazione dell’at­tenzione che il nostro legislatore ha voluto riservare alla fattispecie e alla risposta data in chiave sanzionatoria-amministrativa – in dottrina si è interpretata la scelta del legislatore intravedendo in essa l’esigenza di garantire stabilità e certezza all’operazione economica oggetto dell’accordo negoziale; da cui far conseguire l’esclusione di una reazione esprimibile in termini invalidanti ma anche risarcitori e proponendo una lettura “articolata e coordinata di rimedi” [94]. Si tratta di un’interpretazione densa di conseguenze sul piano teorico. Non è certamente possibile, in questa sede, ripercorrere analiticamente un dibattito così articolato e complesso. Tuttavia, si può affermare con certezza che l’elaborazione dottrinale si è pacificamente orientata sempre più decisamente verso un’indagine sui possibili interventi correttivi facendo discendere vieppiù un’obbliga­zione di risarcimento in capo alla parte forte del contratto [95].

Tuttavia, sia che si faccia ricorso al rimedio risarcitorio, sia che si opti per il meccanismo invalidante, emerge con costanza la necessità di valorizzare appieno la portata imperativa dei divieti contro le pratiche sleali messe in atto dalla parte forte del rapporto contrattuale, portata che non appare del tutto riconducibile alla sola disciplina risarcitoria, richiedendo un approccio più incisivo per garantire una tutela adeguata.

Questa esigenza trova un riscontro sistematico nell’art. 1440 cod. civ., disposizione legislativa che rileva una serie di concordanze il cui interesse è immediatamente percepibile [96]. Il vantaggio offerto da quest’ultimo dispositivo codicistico risiede nella sua natura per così dire ibrida, a cavallo tra rimedio risarcitorio e rimedio invalidante. Sebbene, infatti, si inserisca nell’alveo della responsabilità esibisce anche delle patologie genetiche contrattuali che si intendono tuttavia immunizzare in ragione di un’esigenza superiore che mira al raggiungimento del risultato contrattuale finendo con lo svolgere in tal modo un’operazione di sintesi tra i due differenti rimedi [97].

È altrettanto vero che una soluzione applicativa affine è contenuta nello stesso d.lgs. n. 198/2021, dove il risultato che il legislatore intende raggiungere viene garantito da un congegno normativo simile. Il riferimento è all’art. 7, che prevede un rimedio di salvaguardia dell’operazione specifico per le vendite sottocosto che non rispettano le condizioni fissate dalla normativa. In questa circostanza, la norma impone un meccanismo correttivo di sostituzione automatica, ossia un’integrazione coattiva ex art. 1339 cod. civ. L’effetto, in tal caso, si sostanzia nel garantire che il risultato prodotto rimanga il più possibile fedele all’assetto negoziale fissato dalle parti. Il raggio di azione della norma è, infatti, ben delimitato riferendosi al disallineamento del prezzo peggiorativo per il venditore rispetto a quanto indicato nella fattura d’acquisto, preoccupandosi cioè di rimare coerenti alla pianificazione pattizia. Solo in assenza di questo specifico ancoraggio negoziale (fattura di acquisto) sarà consentito all’interprete di muoversi fuori dai confini del patto, integrando il contenuto della clausola sul prezzo attraverso i criteri oggettivi stabiliti dalla legge (costi medi di produzione rilevati dall’ISMEA ovvero prezzo medio praticato per prodotti similari nel mercato di riferimento).

Ebbene, nonostante gli artt. 1440 e 1339 cod. civ. operino su piani e con modalità diverse, entrambi perseguono un obiettivo comune: garantire la salvaguardia dell’assetto contrattuale desiderato dalle parti. Questi rimedi correggono gli squilibri presenti nel contratto senza alterare il programma negoziale, assicurando così che il contratto venga eseguito in conformità con l’intenzione originaria delle parti.

Per altro verso, la portata di questi indici normativi del più volte richiamato decreto legislativo, conduce a ritiene che l’art. 1440 cod. civ. costituisca una misura di protezione più specifica e mirata rispetto alla disposizione di cui all’art. 1337 cod. civ. per due ordini di ragione. In primo luogo, la presenza del divieto espressamente previsto ne rimarca il maggior disvalore attribuito alla fattispecie in esame e dunque la sua collocazione a ridosso dell’invalidità e del vizio del consenso, che a giudizio del nostro legislatore si atteggerebbe come una ipotesi di consenso “estorto”. In secondo luogo, perché l’area di incidenza del danno di cui all’art. 1440 cod. civ., viene perimetrata sulla base dell’apprezzamento della reale entità del pregiudizio subito dal fornitore, cioè ai termini sperequati del contenuto contrattuale e alla sconvenienza del contratto concluso, facendovi giuridicamente rientrare la solo porzione del danno riferita all’effettivo sacrifico patito. Dunque, l’obiettivo perseguito per il tramite dell’art. 1440 cod. civ. è quello di risarcire la porzione di danno derivante dalla differenza tra il minor prezzo ottenuto dalla gara a doppio ribasso e quello maggiore che si sarebbe ottenuto in base al ricorso ad un corretto e lecito negoziato sul prezzo, lasciando sullo sfondo e inalterato il restante contenuto contrattuale. Certamente si tratta di una ridefinizione della funzione risarcitoria consegnata all’art. 1440 cod. civ. e alla figura del dolo incidente forzando i limiti della capacità espansiva del suo contenuto [98].

Quanto fin qui esposto mette in chiaro che questa prospettiva rimediale, basata su una reinterpretazione degli artt. 1440 e 1339 cod. civ., spinta dalla necessità di individuare regole più efficienti e orientate al corretto funzionamento del mercato e di una sua diversa organizzazione – basato sulla valorizzazione della libertà d’iniziativa economica – non intacca l’applicazione dell’art. 1337 cod. civ. Anzi, essa restituisce a tale disposizione una coerenza maggiore e una migliore corrispondenza al suo ambito di operatività, riconoscendole la funzione di criterio elastico e aperto. In questa chiave, l’art. 1337 cod. civ. è inteso a coprire tutte le condotte scorrette non espressamente contemplate dal contratto o dalla legge, ma che comunque incidono negativamente sull’equilibrio dei costi e dei benefici nel contratto di cessione, alterandone la corretta esecuzione [99].

Sul piano generale è ormai acquisito che il principio di buona fede e di correttezza sono chiamati a svolgere una funzione di equità e giustizia in ogni settore dei rapporti privati e in questi termini i numerosi richiami contenuti nel d.lgs. n. 191/2021 appaiono particolarmente appropriati proprio in considerazione del delicato contesto economico e sociale del settore agroalimentare.

Ma se la disciplina del risarcimento ex art. 1337 cod. civ., cioè per violazione della clausola generale della buona fede, è in grado di riprodurre questo risultato non si può tuttavia ignorare che la prospettiva da essa delineata non esibisce con la medesima nettezza i contorni e la precisione dei profili offerti dai criteri di cui agli artt. 1440 e 1339 cod. civ.

L’art. 1339, com’è noto, rinvia alla previsione di singole disposizione – può discutersi piuttosto se la legge cui la norma rinvia sia solo quella consacrata in un atto cha ha valore formale di legge – laddove il contenuto del principio di buona fede e di correttezza non è certo consacrato in altre disposizioni e tende ad orientarsi a valori diversi ed esterni al regolamento contrattuale, essendo chiamata ad assolvere una diversa funzione che integra ed amplia il piano dell’obbligazione prevista dalla fattispecie contrattuale rimettendo in assetto l’operazione contrattuale verso uno scambio compatibile con regole del mercato concorrenziale e, nel settore agroalimentare, orientandolo verso il raggiungimento degli obiettivi di cui all’art. 39 TFUE, assumendo una veste conformatrice.

In altri termini il richiamo alla buona fede ed il suo concretizzarsi in un’obbligazione altra rispetto a quella contrattuale è indispensabile per colmare ed integrare il contenuto del regolamento trovando la sua operatività in assenza di una specifica previsione a garanzia del corretto esplicarsi di relazioni competitive all’in­terno della filiera agroalimentare consentendo di orientare e riallineare i benefici e rischi dell’operazione contrattuale e impedendone che siano intercettati e catturati da altri soggetti, con il pericolo di costituire una nuova posta di speculazione o di accaparramento meramente speculativo [100].

È da osservare che, sul profilo degli effetti, il piano rimediale deve presentare uno schema che possa definirsi stabile, pur rimanendo articolato e flessibile. Per garantire un assetto contrattuale “equilibrato”, è necessaria una combinazione di effetti: da un lato, l’effetto invalidante, che mira a rimuovere il contenuto considerato vessatorio, colmandolo in relazione al contenuto del programma negoziale (ad es. per il divieto della vendita sottocosto il prezzo previsto nella fattura di acquisto); dall’altro, l’effetto risarcitorio-indennitario, che ripristina in modo adeguato gli svantaggi e i benefici derivanti dall’operazione economica di cessione del bene.

Si è infatti evidenziato, guardando sia alla disciplina eurounitaria che a quella municipale di recepimento, come l’impressione che tutto resti affidato esclusivamente a termini puntualmente e positivamente definiti venga attenuata proprio alla luce del nuovo modo di intendere l’intervento dello Stato nella regolazione del mercato, ben espresso dal divieto di cui al richiamato Considerando 6 della Direttiva 2019/633 di porre in essere interventi che limitano l’uso di accordi negoziali volti a creare efficienza. L’intervento normativo, sempre meno orientato verso un’eteronormazione del contratto volta a modificare e integrare il contenuto negoziale, si configura come un’opera conformativa fondata sul presupposto dell’asimmetria di potere contrattuale, mirando a una correzione e bilanciamento a garanzia del corretto esercizio dell’autonomia contrattuale. In realtà, come ben evidenziato dalla dottrina, si tratta di una nuova “tipologia di norma imperativa”, che si pone come strumento per gestire il delicato equilibrio tra la libertà dell’impresa di scegliere i mezzi di promozione delle proprie vendite e la libertà di scelta del consumatore [101].

È la risultante degli effetti invalidanti e risarcitori che determina il risultato economico perseguito dai contratti, influenzandone la stipula e l’esecuzione. Tuttavia, il meccanismo sanzionatorio, volto a dissuadere dalla adozione di pratiche scorrette ad opera dell’acquirente-soggetto forte, rimane in ombra sul versante privatistico, poiché è affidato alle Autorità di contrasto sul piano amministrativo, mentre l’aspetto correttivo viene esercitato attraverso l’intervento normativo sull’autonomia contrattuale, con misure di bilanciamento e controllo sul contenuto contrattuale senza invalidare lo scambio ma garantendone la sua stabilità.


7. Riflessioni finali

Da quanto sin qui detto è possibile cogliere in questi interventi legislativi una chiara tendenza, costituita dalla dimensione contrattuale e da una dialettica tra le parti che si alimenta di condotte, impegni, propositi, manifestazioni di volontà destinate a convergere nell’intento di contrastare il manifestarsi di pratiche sleali e di regolare al meglio il mercato nella fase della cessione e immissione del prodotto agroalimentare, nella direzione delle nuove finalità della politica agricola comune. L’obiettivo è di mettere al sicuro l’ope­razione negoziale da possibili comportamenti opportunistici che si riflettono negativamente sulla parte debole attraverso la previsione in positivo di buone pratiche.

In questo contesto, emerge in maniera evidente una serie di aspetti rilevanti che impongono un diverso ordine di valutazioni in merito alla disciplina dei rapporti contrattuali nella filiera agricola e alimentare.

La dimensione contrattuale si basa su un dialogo costante tra le parti coinvolte, questo confronto è alimentato da una serie di fattori, quali canoni di condotta, vincolatività degli impegni assunti, propositi dichiarati e manifestazioni di volontà espresse dai paciscenti. L’obiettivo primario della dialettica negoziale è contrastare le pratiche sleali e garantire una regolamentazione più efficace dell’organizzazione del mercato agricolo, in linea con le nuove finalità stabilite dalla politica agricola comune.

La dottrina più attenta ha messo in evidenza l’importanza di impostare in maniera precisa e accurata i termini della questione. Non si tratta più semplicemente di determinare il prezzo delle transazioni, ma di considerare attentamente il comportamento delle parti coinvolte e il suo potenziale impatto negativo sull’equilibrio complessivo dell’operazione economica [102].

Di conseguenza, si assiste ad un progressivo spostamento dall’asse centrale della determinazione del prezzo verso un’enfasi delle condotte contrattuali e della promozione di pratiche corrette, al fine di preservare gli interessi della parte più vulnerabile e di ridurre i rischi associati ai fallimenti del mercato. Tale evoluzione normativa testimonia l’importanza di considerare, nel contesto del mercato agricolo, non solo gli aspetti economici, ma anche quelli sociali e ambientali. In tal senso, emerge l’urgenza di adottare strumenti più efficaci e indicatori di valutazione che riflettano in modo accurato il processo di formazione del valore lungo l’intera filiera, assicurando una remunerazione equa a coloro che contribuiscono effettivamente alla creazione del valore stesso, come i produttori delle materie prime.

In un panorama economico sempre più complesso e interconnesso questa necessità è ancor più evidente nel settore agricolo, dove la catena del valore coinvolge diversi attori, dalle imprese agricole ai trasformatori, dai distributori ai consumatori finali e dove la condivisione del valore, come è stato ben messo in chiaro alla dottrina, diventata un tema centrale nell’ambito delle relazioni contrattuali tra i diversi attori della filiera [103]. Ciò implica una valutazione più accurata e inclusiva dei fattori che influenzano la generazione del valore, andando oltre i tradizionali indicatori economici e considerando anche elementi sociali, ambientali e di sostenibilità.

In questo contesto, le linee guida emanate dalla Commissione Europea e le raccomandazioni promosse dall’American Farm Bureau Federation, riflettono la rilevanza crescente dei dati agricoli e della loro gestione nella moderna agricoltura. Esse mettono in luce la necessità di riconoscere agli agricoltori il possesso delle informazioni generate dalle loro operazioni agricole e la responsabilità di concordarne l’uso e la condivisione con gli altri attori della filiera. La trasparenza e la tracciabilità dei dati diventano elementi chiave per garantire una distribuzione equa del valore lungo la catena produttiva [104].

Nel perseguire un equilibrio nella contrattazione sui dati agricoli, le organizzazioni dei produttori e interprofessionali giocano un ruolo fondamentale. Queste organizzazioni possono fungere da ponte tra gli agricoltori e gli altri attori della filiera, promuovendo una migliore comprensione delle dinamiche del mercato e dei fattori che contribuiscono alla creazione del valore. Attraverso la negoziazione di accordi contrattuali basati sulla condivisione del valore possono garantire che gli agricoltori ottengano una remunerazione adeguata al loro contributo, incoraggiando nel contempo la sostenibilità, l’innovazione e la qualità dei prodotti agricoli.

È importante sottolineare che la condivisione del valore non riguarda solo la fase esecutiva delle transazioni commerciali, ma richiede una rivalutazione costante degli impegni contrattuali lungo l’intero processo negoziale. Ciò significa, ancora una volta, che gli accordi contrattuali devono essere flessibili e adattabili alle dinamiche del mercato e alle esigenze dei diversi attori della filiera. Solo attraverso un approccio collaborativo e una maggiore attenzione alla condivisione del valore, l’impresa agricola può veramente beneficiare della sua collocazione all’interno di un sistema produttivo di filiera, ottenendo vantaggi economici, sociali e ambientali duraturi.

Questo approccio legislativo rappresenta un passo importante nella ricerca di un equilibrio sostenibile tra autonomia contrattuale e tutela delle parti vulnerabili all’interno del mercato agricolo, nonché nella promozione di una gestione responsabile delle risorse e nella realizzazione degli obiettivi della PAC.

Sebbene sia importante valorizzare l’autonomia contrattuale e consentire una maggiore flessibilità, non è possibile trascurare i potenziali rischi derivanti da una curvatura della disciplina di contrasto alle pratiche commerciali scorrette che riconosce ampi margini di autoregolazione. Questi rischi possono essere collegati sia ad una dimensione di mercato concorrenziale altamente competitivo, che ad una delega di potere normativo alle parti coinvolte nei contratti, in un contesto di asimmetria di potere degli acquirenti rispetto ai fornitori in termini di risorse finanziarie, capacità di negoziazione e accesso al mercato.

La complessità di queste questioni e i riflessi che ne derivano, anche a livello pratico, sono facilmente intuibili. La necessità di trovare soluzioni appropriate per affrontare le problematiche specifiche che emergono richiede un nuovo approccio e una prospettiva diversa rispetto a quanto previsto in precedenza. In questa direzione si inseriscono gli interventi legislativi volti a risolvere la disputa relativa alla pratica commerciale diffusa del sottocosto tradizionalmente considerata abusiva. Come si è visto, attraverso una revisione attenta e approfondita, questa pratica ha trovato una collocazione autonoma all’interno dell’art. 7 del d.lgs. n. 198/2021, che ne definisce i criteri di liceità.

Il quadro sopra delineato mette in luce come l’adozione di strumenti rigidi, sanzionatori o derogatori rispetto alle regole della concorrenza, non sempre rappresenta la soluzione ideale, specialmente se si considerano le istanze sociali e ambientali emergenti che influenzano il sistema di produzione e distribuzione dei prodotti agricoli e alimentari.

Un prezzo che tenga conto dei profili di sostenibilità, infatti, non può essere determinato in base a criteri fissi e prestabiliti, come ad esempio la soglia “non inferiore ai costi di produzione medi”. È necessario adottare un approccio più sofisticato, che preveda l’utilizzo di indicatori e strumenti in grado di rendere trasparente il processo di formazione del valore all’interno della filiera [105], in questo modo, sarà possibile garantire una giusta remunerazione a chi contribuisce effettivamente all’aumento del valore, in primo luogo i produttori delle materie prime.

Questa prospettiva, ampiamente accettata, sta assumendo sempre più rilievo, come è stato ben messo in luce dal Report della Commissione “Strategic Dialogue on the Future of EU Agriculture” del 2024 [106]. La Commissione sottolinea come il futuro dei sistemi agroalimentari europei dipenda da un equilibrio tra sicurezza alimentare, sostenibilità ambientale e responsabilità sociale. Entro il 2035/2040, l’obiettivo è creare un sistema che premi chi contribuisce alla protezione degli ecosistemi, garantendo allo stesso tempo redditi equi agli agricoltori. Per conseguire questo equilibrio, il rapporto evidenzia l’importanza di rendere il processo di creazione del valore più trasparente, attraverso etichettature chiare, politiche commerciali coerenti e un coinvolgimento attivo dei consumatori verso scelte più sostenibili. In questo contesto, è fondamentale notare che lo sforzo di mantenere sana la filiera produttiva agroalimentare deve concentrarsi sulle condotte di quanti direttamente vi partecipano. Ciò implica che i soggetti di mercato che traggono vantaggio dal dinamico svolgersi del processo competitivo, agiscano in un’ottica di reciprocità e responsabilità sociale. Questo comporta una dimensione di equità dell’accordo basato sul dovere di ciascuna parte di assicurare l’utilità dell’altra. Diviene essenziale, quindi, che le parti coinvolte operino con la consapevolezza che il benessere collettivo contribuisce a un mercato più giusto e sostenibile.


NOTE

[1] La legislazione riguardante i contratti di fornitura di prodotti agricoli e agroalimentari in Italia è stata oggetto di diversi interventi nel corso degli anni. Oltre all’art. 62, comma 2, d.l. n. 1/2012, ora abrogato dall’art. 12 del d.lgs. n. 198/2021, che disciplinava i contratti di cessione dei prodotti agroalimentari, vanno menzionati altri rilevanti atti normativi.

La legge n. 88/1988, che trattava degli accordi interprofessionali e dei contratti di coltivazione e vendita, è stata successivamente sostituita dal d.lgs. n. 102/2005. Quest’ultimo ha avuto l’obiettivo di regolamentare i rapporti contrattuali tra i vari attori della filiera agroalimentare, inclusi produttori, trasformatori e distributori.

A livello europeo, il Regolamento n. 1308/2013, più volte modificato e integrato, contiene le regole della organizzazione comune del mercato agricolo. Questo regolamento ha stabilito norme specifiche per i contratti di fornitura di prodotti agricoli e agroalimentari all’interno dell’Unione Europea, con l’obiettivo di promuovere la trasparenza e l’equità nelle transazioni commerciali lungo l’intera catena di approvvigionamento alimentare.

Un aspetto di sicuro rilievo nell’ambito dei contratti di cessione dei prodotti agroalimentari è rappresentato dalla relazione e combinazione tra regole di concorrenza e di funzionamento del mercato agricolo. Negli ultimi anni, il dibattito economico-giuridico si è focalizzato sull’ampliamento, o meno, dell’area del diritto concorrenza nei rapporti di filiera che riguardano i prodotti agricoli e alimentari. Per un’accurata disamina delle implicazioni e dell’evoluzione legislativa sia in Italia che all’estero riguardo ai rapporti contrattuali aventi ad oggetto prodotti agricoli e alimentari, cfr. A. Jannarelli, Profili del sistema agro-alimentare e agro-indu­striale. I rapporti contrattuali nella filiera agro-alimentare, Cacucci, Bari, 2018. Per i rapporti tra regole di concorrenza e disciplina della dipendenza economica nei rapporti di cessione dei prodotti agroalimentari, cfr. I. Canfora, Raggiungere un equilibrio nella filiera agroalimentare. Strumenti di governo del mercato e regole contrattuali, in Cibo e diritto. Una prospettiva comparata, AA.VV., a cura di L. Scaffidi, V. Zeno-Zencovich, Roma, 2020, 237-250; L. Russo, Le clausole contrattuali “ingiustificatamente gravose” nei contratti della filiera Agroalimentare, in Rivista di diritto Agrario, 1/2020, 220-253.

[2] Ad avviso di Canfora, è “con la PAC 2014-20, (che) per la prima volta il diritto europeo interviene direttamente sulla conformazione del contratto di cessione dei prodotti agroalimentari, in un quadro normativo transitato da un modello fondato sul governo pubblicistico del mercato, a un progressivo rafforzamento del ruolo dei privati nel governo della filiera”, op. ult. cit., 240. In generale, sulla funzione del diritto privato per il raggiungimento di obiettivi di regolazione e tutela del mercato, ed in particolare sulla la scelta e i rischi di affidare agli istituti del diritto privato una funzione regolatoria del mercato cfr. M. Maugeri-A. Zoppini, Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, 2009.

[3] Sull’importanza dell’incidenza della Direttiva 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali sulla catena di approvvigionamento agricolo, v. V. Daskalova, Regulating Unfair Trading Practices in the EU Food Supply Chain: Between Market Making and Market Correcting. In Global Food Value Chains and Competition Law, a cura di I. Lianos-A. Ivanov-D. Davis, Cambridge University Press, Cambridge, 2022, 373-396. Analoghi rilievi sulla Direttiva sono stati mossi dalla dottrina tedesca: in particolare, sul processo attuativo in Germania, cfr. L. Glöker, Richtlinien- und wettbewerbskonforme Auslegung bestimmter Verbote unlauterer Handelspraktiken im Agrarorganisationen-und-Lieferketten- Gesetz, in Zeitschrift für Wettbewerbsrecht, vol. 20, 4/2022, 377-417.

[4] L’espressione from farm to fork costituisce una fortunata formula di sintesi attraverso la quale si è sviluppato il dibattito non solo giuridico che mette in risalto gli aspetti e le molteplici implicazioni (giuridiche, sociali, economiche ed ambientali) legate alla produzione ed immissione nel mercato dell’alimento. La regolamentazione più recente ha evidenziato una tendenza ad ampliare l’area di intervento coinvolgendo anche altri settori considerati di grande rilevanza economica. È il caso ad esempio dei prodotti florovivaistici. L’evoluzione del processo legislativo ha, infatti, esteso la disciplina delle pratiche sleali nell’ambito della filiera agroalimentari, accogliendo una definizione di prodotto agroalimentare “allargata”, cioè attraendo dentro l’orbita del prodotto vegetale destinato all’alimentazione tutti i prodotti vegetali ricompresi nell’Allegato I del TFUE. In un primo tempo, la legislazione nazionale ha adottato misure di contrasto alle pratiche sleali legate alla deperibilità del solo prodotto agricolo destinato all’alimentazione (carattere di deperibilità che l’art. 62, comma 4, d.l. n. 1/2012, riferiva solamente ai prodotti alimentari), per poi passare su impulso del legislatore europeo ad occuparsi in modo più incisivo anche della produzione agricola non alimentare (v. adesso la definizione di prodotti agricoli e alimentari deperibili, contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. m, d.lgs. n. 198/2021). Questo allargamento ha consentito, ad esempio, di estendere le regole sul rispetto dei termini di pagamento per i prodotti deperibili anche ai fiori e alle piante, precedentemente esclusi.

[5] Sulla pluralità di ambiti che sono coinvolti dalla disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare, ed in particolare sull’intrecciarsi dei profili di regulation e antitrust, v. N. Lucifero, Le pratiche commerciali sleali nel sistema delle relazioni contrattuali tra imprese nella filiera agroalimentare, 2017.

[6] La dottrina non ha mancato di cogliere come uno degli obiettivi fondamentali del legislatore in questa materia, vale a dire la giusta remunerazione della parte debole nella filiera agroalimentare, venga perseguito dal legislatore europeo sia attraverso la fissazione delle regole (competitive) del gioco, che riguardano il funzionamento del mercato – è il caso delle norme che prevedono un regime derogatorio del settore agricolo alla disciplina antitrust – sia per il tramite delle regole, per così dire dirette, cioè che incidono sulla singola relazione individuale e che attengono al contratto, intervenendo sul contenuto, sulla forma e sulle condotte. Il riferimento è a G. D’Amico, La giustizia contrattuale nelle filiere agro-alimentari, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2/2022. In particolare, sottolinea l’A. come l’obiettivo di garantire la “giusta” remunerazione degli operatori agricoli “è suscettibile di essere affrontato sia a livello (di regolamentazione) del mercato, sia attraverso regole che riguardano (direttamente) i rapporti contrattuali che si instaurano tra gli attori economici che vengono in rilievo, cit., 416. Sull’argomento cfr. anche, S. Pagliantini, Dal B2C al B2B: una prima lettura della dir. (UE) 2019/633 tra diritto vigente ed in fieri, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1/2020.

[7] Il c.d. eccezionalismo agricolo nell’ambito della produzione di filiera è stato analizzato dalla dottrina straniere e italiana. Recentemente ed in riferimento all’aspetto della sostenibilità v. I. Canfora, La normativa speciale dell’impresa agricola nel quadro di un sistema agroalimentare sostenibile in Europa, in Przegląd Prawa Rolnego, fasc. 1 (30) (2022): 45-55. Il tema della peculiarità dell’agricoltura nella progettazione e nella gestione delle filiere agroalimentari è oggetto di un’approfondita disamina da parte di A. Jannarelli, Profili del sistema, cit. Secondo l’A., l’eccezionalità agricola si manifesta per una serie di fattori distintivi che caratterizzano il settore agricolo rispetto ad altri settori produttivi. Questi fattori includono la dipendenza dalle risorse naturali, la stagionalità delle attività agricole, la variabilità delle condizioni meteorologiche, i rischi legati alla produzione e alla commercializzazione dei prodotti agricoli, nonché la presenza di normative specifiche che regolano l’agricoltura. Da ciò, evidenzia l’A., nasce l’esigenza di un approccio differenziato nella gestione delle filiere agroalimentari. Questo include la promozione di politiche e strumenti specifici per il settore c.d. dell’agribusiness, l’adattamento delle normative e delle regolamentazioni al contesto agricolo e la considerazione dei principi di equità e giustizia nella progettazione dei contratti e delle relazioni commerciali all’interno delle filiere.

In conclusione, l’eccezionalità agricola, evidenziata dalla dottrina e dall’A. richiama l’attenzione sulla necessità di considerare le specificità dell’agricoltura nella gestione delle filiere agroalimentari. Questo aspetto è fondamentale per garantire un sistema agricolo e alimentare equo, sostenibile e in grado di rispondere alle sfide del settore agricolo.

[8] Sul tema dell’impatto della Direttiva 2019/633 nel contesto regolatorio generale della filiera agroalimentare, v. I. Canfora, Le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, in Diritto Agroalimentare, n. 1/2023.

[9] Un’attenta valutazione della collocazione dell’impresa agricola nella filiera produttiva è compiuta da M. Imbrenda, Profili contrattuali della filiera agroalimentare, in Annuario del Contratto 2022, a cura di A. D’Angelo-V. Roppo, Giappichelli, Torino, 50-79.

[10] La produzione sostenibile costituisce la nuova frontiera dell’agribusiness. Ciò comporta la promozione di pratiche agricole sostenibili, l’adozione di politiche che favoriscano la riduzione degli sprechi alimentari, la promozione di sistemi di produzione e distribuzione alimentare a basso impatto ambientale e la valorizzazione dei prodotti locali e tradizionali.

In sintesi, l’approccio basato sulla sensibile comprensione delle dinamiche della filiera agroalimentare deve includere la sostenibilità come elemento chiave, affrontando le sfide attuali e future del settore in modo equilibrato e responsabile. Sul punto, v. G. Guzzardi, Formalismo negoziale e tutele nei contratti della filiera agroalimentare, in I Contratti, n. 5, 2022, 56. Da ultimo, C. Sartoris, Doveri di informazione delle imprese sostenibili e consumo responsabile nel settore agroalimentare, in Persona e mercato, 2/2024.

[11] Cfr. L. Costantino, Il Ruolo dell’autorità garante della concorrenza e del mercato nel settore Agroalimentare, in Trattato di diritto agrario, a cura di L. Costato-A. Germanò-E. Rook Basile, vol. 3, Utet, Torino, 2011, 230-247.

[12] La trasparenza e la tracciabilità dei dati diventano elementi chiave per garantire una distribuzione equa del valore lungo la catena produttiva. Cfr. M. Imbrenda, op. cit., 69.

[13] Sull’importanza della comunicazione, della trasparenza e dell’informazione nel mercato alimentare, ed in particolare sull’analisi della rilevanza della posizione del consumatore e delle ricadute della regolamentazione dei mercati cc.dd finali all’interno della filiera agroalimentare, v. N. Lucifero, La comunicazione simbolica nel mercato alimentare: marchi e segni del territorio, in Trattato di diritto agrario, vol. III, 322-421.

[14] In senso critico, riguardo alla possibilità di migliorare il funzionamento delle relazioni di mercato nelle filiere agroalimentari attraverso misure di contrasto alle pratiche commerciali sleali “ad ampio spettro”, trascurando “le oggettive diversità che presentano le stesse relazioni contrattuali tra i soli operatori agricoli ed i loro interlocutori in relazione peraltro alle specificità dei prodotti agricoli volta a volta coinvolti”, si è espresso A. Jannarelli, Profili del sistema agro-alimentare, cit., 262. L’A. ritornando sull’argo­mento, La “giustizia contrattuale” nella filiera agro-alimentare: considerazioni in limine all’attuazione della direttiva n. 633 del 2019 a proposito della Direttiva 633, in Giust. civ., 2021, sembra mettere in luce le difficoltà e le incertezze di “interventi disciplinari volti a contrastare, al livello delle singole relazioni, le sole ipotesi di abuso di dipendenza economica”, in quanto: “a) sono destinati ad incidere in misura decisamente marginale sul complessivo sistema. Esse, infatti, non sono chiamate a far fronte al fisiologico malfunzionamento strutturale del mercato competitivo, ma solo a fronteggiare specifici fenomeni patologici e discriminatori, la cui presenza può solo aggravare, a livello microeconomico, un già persistente squilibrio sistemico; b) meno che mai possono, dunque, valere come alternativi o in funzione di supplenza, rispetto a ben altri interventi che contribuiscano a combattere i limiti operativi che presentano i mercati agricoli e che richiedono l’applicazione di uno strumentario che operi a livello macroeconomico e di sistema”, v. in particolare p. 222.

[15] Il tema è ampiamente trattato nella letteratura giuridica. Tra le ultime opere di riferimento, M. Imbrenda, op. cit. Un’analisi completa ed approfondita è stata condotta da A. Jannarelli, nei due volumi, Profili del sistema agro-alimentare: i rapporti contrattuali nella filiera agro-alimentare, cit., e Profili del sistema agro-alimentare: soggetti e concorrenza, II ed., Cacucci, Bari, 2018. Sulla dipendenza dalla parte agro-industriale, v. L. Costantino, L’integrazione verticale per contratto nel settore agro-alimentare: fattispecie giuridica e disciplina applicabile, in Contr. impr., 6, 2013, 1448; sia consentito richiamare anche G. Galasso, Governance della filiera tra intervento pubblico e autonomia privata, 2020.

[16] Così A. Jannarelli, cit., in Giust. civ., 225.

[17] Da ultimo I. Canfora, Le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE., in Diritto Agroalimentare, 1/2023, 43-68. L’A. così sintetizza il fenomeno che prende avvio dal Regolamento n. 1308/2013: “Il profondo ripensamento della struttura della politica agricola, attuato con i regolamenti del 2013, per effetto della liberalizzazione dei mercati, com’è noto, ha fortemente ridimensionato le misure di intervento, con l’abbandono degli strumenti di contingentamento e dei meccanismi dirigistici di mercato e nel contempo ha ridefinito l’ambito di regolazione entro cui può muoversi l’autonomia privata”, 45. In termini analoghi si è espressa la dottrina tedesca, L. Glöckner, op. cit., 389.

[18] A. Jannarelli, Profili del sistema agro-alimentare e agro-industriale: i rapporti contrattuali, cit., 2018.

[19] Le clausole di ripartizione del valore possono costituire, tra l’altro, strumenti potenti per incentivare pratiche sostenibili e responsabili lungo la catena, ad esempio premiando gli agricoltori che adottano pratiche agricole rispettose dell’ambiente o garantendo un prezzo equo per l’alta qualità dei prodotti. In questa direzione si sono orientati alcuni trasformatori industriali che hanno inserito nel contenuto contrattuale di cessione dei prodotti agroalimentari clausole volte a riconoscere un maggior valore economico alla produzione di grano duro avente determinate caratteristiche legate al territorio e all’uso di determinate tecniche di produzione. Cfr. https://www.barillagroup.com.

[20] Quest’ultima norma dispone che “le associazioni di agricoltori, possono convenire con gli operatori posti a valle della filiera clausole di ripartizione del valore, comprendenti utili e perdite di mercato, determinando le modalità di ripartizione tra di loro di eventuali evoluzioni dei relativi prezzi del mercato per i prodotti interessati o di altri mercati di materie prime”. Le clausole di ripartizione del valore sono uno meccanismo utile a mantenere in equilibrio il rapporto in presenza di fattore esterni che incidono sul contenuto della prestazione. La dottrina ha sottolineato come la maggiore utilità economica della clausola si ricava sul profilo della stabilità complessiva e sulla tenuta della relazione contrattuale, piuttosto che sulla tutela della parte più vulnerabile e più esposta alle fluttuazioni del prezzo. I. Canfora, Le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE, in Diritto Agroalimentare, n. 1, 2023.

[21] É ancora Canfora, op. ult. cit. che in termini critici osserva come in questa circostanza l’ambito di tutela non è rappresentato, come si potrebbe pensare, dalla protezione del surplus di valore creato dal produttore soggetto debole della relazione di filiera, ma dal valore complessivo dell’operazione, mettendola in sicurezza dall’eventuali fluttuazioni negative del prezzo e dei costi.

[22] All’impostazione tradizionale sembra anche adattarsi lo stesso art. 172-bis del Regolamento 2021/2115 nel momento in cui richiama criteri di ripartizione legati alla evoluzione dei prezzi e alle condizioni del canale di distribuzione. Il valore dei prodotti agricoli e alimentari viene solitamente valutato in base ai prezzi di mercato, tenendo conto della domanda e dell’offerta, delle condizioni economiche e delle fluttuazioni dei prezzi e la qualità del prodotto avviene generalmente in relazione al suo impatto sul valore di mercato.

Questa prospettiva tende a focalizzarsi sulla valutazione economica e sul rendimento finanziario nella catena del valore, senza necessariamente approfondire le dinamiche relazionali tra i produttori e i venditori o considerare aspetti qualitativi, come l’impatto ambientale o la sostenibilità.

Negli ultimi anni, sono tuttavia emerse nuove prospettive, come l’approccio basato sui sistemi alimentari sostenibili, che cercano di integrare considerazioni sociali, ambientali ed economiche nella valutazione del valore dei prodotti agricoli e alimentari.

[23] Si tratta della PAC 2023-2027.

[24] Il rilievo che assume l’aspetto del riconoscimento dell’attributo della qualità del prodotto agricolo e l’esigenza di cogliere sul piano della differenziazione (giuridica) la sua sfumatura e il suo diverso atteggiarsi rispetto ai prodotti non agricoli è particolarmente evidenziato dalla dottrina più attenta e sensibile. Rook-Basile, nel sottolineare ancor di più l’autonomo significato della qualità del prodotto alimentare che racchiude una serie di elementi estrinseci al prodotto, afferma come si tratta di “gusto del cibo che contiene un gusto per le cose cui non si vuole più rinunciare perché essenziali alla vita; un cibo che ci nutre, ma che ci assicura anche che gli alberi rimarranno la dove sono, gli uccelli non moriranno, i pesci ri riprodurranno nei mari e il cielo tornerà ad essere azzurro, in una sintesi si qualità che oltrepassa le caratteristiche organolettiche per coinvolgere un modello di vita”, E. Rook Basile, La mano invisibile del rischio, in AA.VV., I Diritti della Terra e del Mercato Agroalimentare, Utet, Torino, 2016, 1090.

[25] Questo Regolamento che riguarda l’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli nell’Unione Europea ed è noto anche con la sigla “OMC” o “Common Market Organization” (CMO), costituisce un importante pilastro della politica agricola comune (PAC) dell’Unione Europea, adottato per regolare e stabilire le norme relative all’organizzazione comune dei mercati agricoli all’interno dell’Unione Europea.

[26] Di funzione complementare della Direttiva rispetto al Regolamento n. 1308/2013 e che ne fa da completamento, parla I. Canfora, Le pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE., in Diritto Agroalimentare, 1/2023, 56 e 57.

[27] Cfr. Il Sole24ore, Agricoltura, tensioni anche per l’olio d’oliva, 14 febbraio 2019, 11.

[28] G. Vettori, Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese: diritto dei contratti e regole di concorrenza. Pubblicazioni della Facoltà di giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1983, 95.

[29] V., G. D’Amico. La giustizia contrattuale nelle filiere agro-alimentari, cit.

[30] La disposizione prosegue chiarendo che è importante stabilire una distinzione tra le pratiche che sono chiare e univoche nei contratti di fornitura o in accordi successivi tra le parti e quelle pratiche che vengono introdotte dopo l’inizio dell’operazione senza previo accordo. In particolare, la norma suggerisce che le modifiche unilaterali e retroattive apportate alle condizioni chiare e univoche dell’accordo di fornitura dovrebbero essere vietate.

Tuttavia, il Considerando sottolinea che alcune pratiche commerciali possono essere reputate sleali per la loro natura intrinseca, indipendentemente dalla volontà negoziale. L’obiettivo della norma è garantire che le pratiche commerciali siano trasparenti, chiare e concordate tra le parti, ma allo stesso tempo proteggere da pratiche (sleali) che potrebbero arrecare un pregiudizio in seno al contesto entro il quale è destinato a operare il contratto di fornitura, cioè il mercato di riferimento.

[31] Il punto è chiaramente evidenziato da G. D’Amico, op. cit.

[32] V. anche G. Guzzardi, op. cit.

[33] La conferma di ciò emerge chiaramente anche sul piano legislativo, in quanto la Relazione ha più volte sottolineato l’esigenza di una solida struttura contrattuale e di un comportamento corretto delle parti. Il contratto viene così riconosciuto come uno strumento fondamentale per garantire un mercato equilibrato e giusto. Su tale profilo V. G. Vettori, Verso una società sostenibile, in Persona e mercato, 3/2021.

[34] Sulla duplicità dell’intervento normativo, da una parte rivolto allo specifico ambito della regolazione del mercato e dall’altro alla disciplina contrattuale, si sofferma G. D’Amico, op. cit. Con specifico riguardo all’art. 9 della legge n. 192/1998 che rappresenta insieme al previgente art. 62 della legge, la norma di riferimento in materia di slealtà contrattuale nei rapporti B2B, è stato evidenziato dalla dottrina che i principi e le regole che devono fare da cornice e combinarsi necessariamente con la disposizione che sanziona la condotta abusiva “si riverranno nel diritto antitrust e della concorrenza in generale”, P. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Giuffrè, Milano, 2006, 36.

[35] È stato infatti affermato da Jannarelli come la fissazione in sede amministrativa di un costo medio di produzione come parametro al di sotto del quale non si dovrebbe definire contrattualmente il prezzo altera il funzionamento del mercato e la libera formazione dei prezzi, in termini non diversi da quanto si verificherebbe se l’Autorità fissasse direttamente il prezzo “politico” del bene: in entrambi i casi si è in presenza di interventi regolatori del mercato. A. Jannarelli, Prezzi dei prodotti agricoli nei rapporti di filiera, in Rivista di diritto agrario, 2019, 566.

[36] Riguardo all’uso dell’espressione “ingiustificatamente gravosa” contenuta nell’art. 62 del d.l. n. 1/2012, ora abrogato, in relazione all’art. 9 della legge n. 192/1998 sull’abuso di dipendenza economica e delle possibili interrelazioni tra le due disposizioni, anche in merito all’imposizione di prezzi di acquisto, si veda L. Russo, Le clausole contrattuali “ingiustificatamente gravose” nei contratti della filiera agroalimentare, in Rivista di diritto agrario, 1/2020, 220-253.

[37] V. le penetranti critiche mosse da Federalimentari, durante l’iter parlamentare, all’introduzione di forme di disclosure dei costi produzione nonché l’utilizzo del concetto di costo medio di produzione, che evidenziano ulteriori problematiche legate alla trasparenza e alla competitività del mercato. Le perplessità della Federazione che riunisce le maggiori associazioni nazionali di categoria dell’Industria degli alimenti e delle bevande, sono rilevanti e riguardano la natura sostanziale e il merito di un approccio legislativo che incide sulle dinamiche commerciali, imponendo la divulgazione di dati commerciali sensibili, quali quelli relativi ai costi di produzione. La definizione dei costi e il loro richiamo all’art. 3 del d.lgs. n. 198/2021 favorirebbe la diffusione di informazioni normalmente riservate, con il rischio di incentivare pratiche di allineamento dei prezzi. Tale scenario finirebbe con l’irrigidire il mercato, scoraggiando l’ottimizzazione dei processi e delle imprese più efficienti, con il paradossale effetto di incentivare l’approvvi­giona­mento di materie prime da fornitori esteri, https://www.senato.it.

Inoltre, rimangono irrisolti i dubbi già sollevati dalla letteratura economica-giuridica circa le difficoltà in ordine all’indivi­dua­zione e alla verifica dei criteri di determinazione dei costi di produzione e sugli oneri che ne deriverebbero per gli operatori economici, prevalentemente costituiti da PMI. Tali difficoltà risultano particolarmente onerose in presenza di numerose operazioni di acquisto e/o di un elevato numero di fornitori.

[38] Su un possibile “recupero” di valenza del riferimento del parametro dei costi medi di produzione nel giudizio di liceità della vendita sottocosto, anche alla luce delle indicazioni normative eurounitarie, si sofferma G. Versaci, Gli abusi “complementari” nei contratti della filiera agroalimentare. Note a margine dell’art. 5, d.lgs. n. 198/21, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 3/2022, 710. L’autore sottolinea che l’elemento di maggior rilievo è l’introduzione dell’unilateralità dell’operazione come momento determinante/scriminante, presupponendo ai fini dell’accertamento dell’illiceità della pratica commerciale che il prezzo sottocosto sia stato imposto dall’acquirente.

[39] A. Jannarelli, Prezzi dei prodotti agricoli nei rapporti di filiera, in Rivista di diritto agrario, 2019, 566.

Un ulteriore segnale di chiarezza su questo aspetto da parte del legislatore attuale è possibile coglierlo nel medesimo art. 5, comma 1, lett. b. I costi medi di produzione rilevati dall’ISMEA, infatti, posso fornire elementi utili al fine di valutare il carattere “eccessivamente” gravoso della prestazione del venditore, dove diversamente il Regolamento attuativo si riferiva ad esso come elemento sintomatico di una prestazione “ingiustificatamente” gravosa. Il carattere della (in)giustificata prestazione sembra adesso invece, in modo più corretto, essere considerato un attributo della prestazione accessoria, meglio ad un giudizio che tende a scindere la prestazione principale costituita dalla cessione del prodotto agricolo e alimentare dal carattere strumentale delle prestazioni accessorie.

Sull’uso dell’espressione “ingiustificatamente gravosa” contenuta all’art. 62 del d.l. n. 1/2012, ora abrogato, in relazione all’art. 9 della legge n. 192/1998 in materia di abuso di dipendenza economica e delle possibili interrelazioni tra le due disposizioni in relazione anche all’imposizione di prezzi di acquisto, v. L. Russo, Le clausole contrattuali “ingiustificatamente gravose” nei contratti della filiera agroalimentare, in Rivista di diritto agrario, 1/2020, 220-253.

Su un possibile “recupero” del riferimento alla media dei costi medi ad opera del medesimo decreto legislativo “quale parametro di illiceità della vendita sottocosto, si esprime G. Versaci, Gli abusi “complementari” nei contratti della filiera agroalimentare. Note a margine dell’art. 5, d.lgs. n. 198/21”, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 3/2022, 710. L’A. sembra comunque sottolineare che l’elemento di maggior rilevo è costituito dall’aver introdotto e posto come momento determinante/scriminante l’unilateralità dell’operazione, che presuppone ai fini dell’accertamento dell’illiceità della pratica commerciale che il prezzo sottocosto sia stato frutto di un’imposizione da parte dell’acquirente.

Da ultimo il nostro legislatore è nuovamente intervenuto, con l’art. 4 del d.l. 15 maggio 2024, n. 63, introducendo delle definizioni più chiare come “costo medio di produzione” e “costo di produzione”. Questo ulteriore e contingente provvedimento legislativo torna a prospettare una visione rigida e cristallizzata della relazione contrattuale all’interno della filiera agroalimentare. Le modifiche apportate in particolare agli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 198/2021, ad opera del citato decreto legge, finirebbero, infatti, con l’influenzare la determinazione dei prezzi e la gestione delle relazioni contrattuali tra le parti coinvolte.

[40] Sulla rilevanza dell’uso degli strumenti di autonomia collettiva e sulla predisposizione del contenuto contrattuale v. da ultimo M. Imbrenda, op. cit., 70 ss.

[41] È S. Paglianti, L’attuazione della Direttiva 2019/633/UE e la «toolbox» del civilista, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2/2022, 393-414, ad indicare come l’esimente dell’accordo rischi di costituire “un downgrade di tutela per il fornitore”, a meno che, avverte l’A. di “ritenere che la trattativa del d.lgs. n. 198/21 non sia quella che funziona da fatto impeditivo del sindacato di vessatorietà nell’area dei contratti b2c. Non dunque una negoziabilità bensì una negoziazione effettiva: altrimenti, se dovessimo dare credito a questa suggestione, non c’è un accordo che sia munito di una qualità redimente”. Aggiungendo in ogni caso “come la contrattualità del comma 4 ̊ (dell’art. 4 del d.lgs. n. 198/21) affranca od emancipa da un’illiceità che altrimenti si darebbe.” p. 399.

[42] L’iter legislativo che ha condotto all’approvazione definitiva del decreto legislativo in oggetto è stato caratterizzato da una serie di modifiche, integrazioni e ripensamenti che hanno segnato le fasi del dibattito parlamentare. La proposta di legge n. c. 1277 del 17 ottobre 2018, inizialmente presentata, introduceva un divieto di vendita sottocosto per i prodotti agricoli e agroalimentari, nonché il divieto di ricorso alle aste telematiche per la fornitura degli stessi prodotti. Tale proposta, tuttavia, fu successivamente ritirata.

In seguito, venne depositata la proposta di legge AC 1549, avente ad oggetto, tra l’altro, l’etichettatura e la tracciabilità dei prodotti agricoli e alimentari, il divieto di vendita sottocosto degli stessi e la delega al Governo per la regolamentazione e il sostegno delle filiere etiche di produzione. Questo testo, in particolare, invitava il Governo a modificare il regolamento disciplinante le vendite sottocosto (decreto del Presidente della Repubblica 6 aprile 2001, n. 218), prevedendo l’introduzione di un divieto specifico riguardante i prodotti alimentari freschi e deperibili.

Tuttavia, in sede di Commissione, la norma originaria è stata modificata, consentendo la vendita sottocosto entro i limiti e le modalità previste dall’art. 7 del d.lgs. n. 198/2021. La modifica introdotta riflette il tentativo di individuare un punto di equilibrio tra la necessità di tutelare gli operatori agricoli, particolarmente vulnerabili a dinamiche di mercato sleali, e l’obbligo di garantire una flessibilità regolamentare compatibile con le esigenze operative del mercato, soprattutto per i prodotti freschi e deperibili, che richiedono un trattamento normativo maggiormente adattabile in ragione della loro deperibilità e della volatilità della domanda.

[43] Di una prospettiva normativa volta ad accentuare la funzione autointegrativa della buona fede, parla E. Camilleri, Contratti a valle: rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, Giuffrè, Milano, 2008, 400.

[44] In termini negativi, riguardo alla scelta del legislatore europeo di “limitare la valutazione di abusività (…) alla sola ipotesi in cui manchi un accordo tra le parti”, si è espresso A. Iuliani, op. cit., 756.

[45] Ibidem.

[46] Tuttavia, è innegabile che il provvedimento a volte presenta delle discontinuità, se non delle contraddizioni, nel momento in cui si calibra il rimedio in funzione di rispristino automatico dei valori di scambio (è il caso dell’art. 6, comma 3).

[47] V. in senso critico A. Jannarelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agro-alimentare: criticità e prospettive, in Rivista di diritto alimentare, 2/2022, cit.

[48] Accordi e intese in senso lato riferiti alle linee guida stipulate in sede di confronto tra i rappresentanti delle organizzazioni professionali e di categoria.

[49] Una chiara indicazione in questo senso si trae adesso dalla regolamentazione specifica e concreta sulla vendita sottocosto dei prodotti agricoli contenuta nel d.lgs. n. 198/2021, dove all’art. 7 si stabilisce che: “la vendita sottocosto dei prodotti agricoli è consentita nel caso di prodotto invenduto a rischio di deperibilità oppure nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta” art. 7, d.lgs. n. 198/2021.

[50] V. infra nel testo a proposito della pratica del sottocosto e della disciplina contenuta nell’art. 7 del d.lgs. n. 198/2021.

[51] Tra i vantaggi maggiori di questa strategia commerciale si è soliti annoverare la capacità di attrazione dei consumatori, in quanto le vendite sottocosto attirano l’attenzione dei consumatori che sono alla ricerca di affari e di prezzi convenienti. Questo può portare a un aumento del traffico nei negozi o sulle piattaforme di e-commerce che promuovono queste offerte. I consumatori sono spinti a sfruttare l’opportunità di acquistare prodotti a un prezzo ridotto, che altrimenti potrebbero non essere in grado di ottenere.

Inoltre, le vendite sottocosto possono essere un modo efficace per attirare nuovi clienti. L’offerta di prezzi allettanti può fungere da incentivo per i consumatori che altrimenti potrebbero non essere interessati a visitare un determinato negozio o a fare acquisti presso un determinato rivenditore. Questo può condurre a un aumento della base clienti e a una maggiore visibilità del marchio.

Sebbene le vendite sottocosto comportino un margine di profitto ridotto o in alcuni casi addirittura una perdita, possono portare a un aumento delle vendite complessive. L’effetto di richiamo dei prezzi scontati può indurre i consumatori a fare acquisti più frequenti o a spendere di più nel tentativo di approfittare delle offerte limitate nel tempo.

Ancora, offrire vendite sottocosto può contribuire a creare una relazione di fiducia e fedeltà con i clienti. Se i consumatori fossero soddisfatti dell’esperienza di acquisto e del valore ottenuto dai prezzi scontati, potrebbero diventare clienti abituali e continuare a fare acquisti anche a prezzi pieni.

Da non trascurare il vantaggio competitivo che le vendite sottocosto possono dare agli operatori commerciali che sono in grado di offrire prezzi più bassi rispetto ai concorrenti. Questo può influenzare le scelte di acquisto dei consumatori e spostare la domanda verso il rivenditore che offre il prezzo più conveniente. Effetti positivi in una logica di mercato concorrenziale possono determinarsi anche nei confronti dei piccoli operatori economici. L’aumento di visibilità della parte più forte, generalmente della GDO o del trasformatore industriale, può comportare una maggiore consapevolezza del pubblico nei confronti dei prodotti e dei servizi offerti dai rivenditori più piccoli che, a loro volta, possono sfruttare l’aumento dell’interesse dei consumatori per le vendite sottocosto per diversificare la loro offerta. Ad esempio, possono selezionare prodotti complementari o alternativi a quelli offerti dai grandi rivenditori e offrirli a prezzi competitivi. Ciò può attrarre consumatori che desiderano una scelta più ampia e che potrebbero successivamente esplorare ulteriormente l’assortimento del rivenditore. Inoltre, i rivenditori più piccoli possono sfruttare la loro dimensione locale per promuovere i valori di vicinato, l’attenzione personalizzata e l’approccio più focalizzato al servizio clienti. Questi fattori possono essere un’alternativa attraente rispetto alle grandi catene di distribuzione, che potrebbero essere percepite come meno personalizzate o meno radicate nella comunità locale. Anche il processo di fidelizzazione dei clienti può essere condotto dai piccoli imprenditori se riescono a offrire un’esperienza d’acquisto positiva durante il periodo delle vendite sottocosto, possono sfruttare questa opportunità per creare una base di clienti fedeli. I rivenditori più piccoli, d’altra parte, godono della possibilità di formare connessioni locali basate sul senso di appartenenza alla comunità, collaborando con altri negozi locali, possono organizzare eventi o partecipare a iniziative comunitarie così aumentando la visibilità del negozio e creare un senso di solidarietà tra i consumatori locali.

[52] Sul quale, da ultimo, v. C. Angiolini, La lista nera e la lista grigia di pratiche commerciali sleali vietate nella filiera agricola e alimentare: l’art. 4 d.lgs. n. 198/2021 nel prisma dei rimedi privatistici, in Le nuove leggi Civili e Commentate, 3/2022, 681 ss.; G. Versaci, Gli abusi “complementari nei contratti della filiera agroalimentare. Note a margine dell’art. 5, d.lgs. n. 198/2021, in Le nuove leggi Civili e Commentate, 3/2022, 707 ss. Sul medesimo profilo, in relazione alle indicazioni provenienti del legislatore europeo, S. Pagliantini Dal B2C al B2B: una prima lettura della Dir. (UE) 2019/633 tra diritto vigente e in fieri, in Le nuove leggi Civili e Commentate, 1/2020, 220 ss.; sui tratti rimediali più qualificanti della normativa di recepimento della Direttiva 2019/633 v. dello stesso A. L’attuazione della Direttiva 2019/633/ue e la toolbox del civilista, in Le nuove leggi Civili e Commentate, 2/2022.

[53] Cfr. al riguardo, la riflessione critica di G. Salvi, Principi generali e durata minima nei contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari. Un private enforcement inefficace», in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 3/2022, 679, il quale, seppure rileva il tendenziale ricorso da parte del legislatore all’uso degli strumenti negoziali ad in particolare ad un sistema private enforcement per governare le asimmetrie contrattuali, non manca di osservare come le norme contenute nell’art. 3 del d.lgs. n. 198/2021 a proposito della durata del contratto di cessione: “integrano ancora un modello ‘debole’ e una soluzione di per se ́ inefficace rispetto all’esigenza che si vuole perseguire (i.e. la salvaguardia della parte agricola dei contratti di cessione), assumendo le forme di un private enforcement inadeguato e, comunque, carente sul piano della tecnica di salvaguardia degli interessi coinvolti”.

[54] Un’attenta analisi al tema della dialettica tra regole di mercato concorrenziale e regole del singolo rapporto individuale, in relazione alle forme rimediali che il diritto privato è in grado di esibire in funzione della salvaguardia di interessi generali, è offerta da E. Camilleri, Contratti a valle rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, cit. Su una lettura degli istituti di diritto privato in funzione di regolazione dei mercati, v. R. Natoli, Il diritto privato regolatorio, in Rivista della Regolazione dei mercati, 1, 2020, 134 ss. La giurisprudenza europea ha più volte sottolineato come la disciplina di contrasto alle pratiche contrattuali sleali rappresenti un fulcro del sistema di organizzazione del mercato agricolo. Il riferimento è alle sentt. CGUE C-2/2018, 13 novembre 2019.; C-333/14, 23 dicembre 2015, da ultimo C-400/19, 11 marzo 2021.

[55] Si veda in proposito A. Albanese, I contratti della filiera agroalimentare tra efficienza del mercato e giustizia dello scambio, annuario del contratto 2015, a cura di A. D’Angelo, V. Roppo, Giappichelli, Torino, 8, 1.

[56] In argomento cfr. A. Nicita, Deterrenza, sanzioni e mercato. Una riflessione economica, in Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, cit.

[57] Cfr. I. Canfora, La normativa speciale dell’impresa agricola nel quadro di un sistema agroalimentare sostenibile in Europa, cit.

[58] In questa direzione va letto, tra l’altro, l’art. 210-bis del Regolamento (UE) n. 1308/2013, introdotto dal Regolamento (UE) n. 2021/2021 per facilitare gli accordi di sostenibilità tra gli operatori della filiera agroalimentare, rendendoli compatibili con le regole della concorrenza dell’Unione Europea. Questa misura è stata adottata dalla Commissione con l’obiettivo di incentivare tali accordi, in quanto considerati essenziali per promuovere una transizione verso un sistema alimentare più sostenibile e per rafforzare la posizione dei produttori agricoli. La Commissione ha sottolineato questa necessità con la Comunicazione C/2023/14446, nella quale vengono fornite indicazioni operative per l’applicazione dell’articolo 210 bis. Questa Comunicazione mira a chiarire le modalità con cui gli operatori della filiera agroalimentare possono stipulare accordi di sostenibilità senza incorrere in violazioni delle norme sulla concorrenza. In particolare, si delineano i criteri e le condizioni che tali accordi devono rispettare per essere considerati leciti e conformi al quadro normativo europeo.

[59] Sull’uso della disciplina del contratto come momento di regolazione del mercato agricolo, v. R. Alessi, Tecniche di regolazione del mercato agro-industriale e diritto comune, in Rivista di diritto alimentare, 2018, 111 ss.

[60] Da questo punto di vista sembra lampante la distanza con il precedente intervento legislativo in materia. Il riferimento è all’art. 62 del d.l. n. 1/2012, adesso abrogata dal decreto legislativo. Quest’ultima disposizione che conteneva una trama spessa di divieti non è stata in grado in realtà di incidere in modo determinate sullo squilibrio delle relazioni commerciali nell’ambito della cessione dei prodotti agricoli. Si noti al riguardo la critica pressoché unanime mossa dalla dottrina. Con viva lucentezza, R. Pardolesi, I contratti funzionali alla circolazione e alla gestione di beni e servizi, in G. Gitti-M. Maugeri-M. Notari (a cura di), I contratti per l’impresa, I, il Mulino, Bologna, 2012, 120). L’A. nel sottolineare l’eccessiva ed ingiustificata limitazione all’esercizio della libertà contrattuale sottolinea come il legislatore abbia fissato “principi ostativi come mai prima d’ora all’esercizio dell’autonomia privata”. In questo senso, A. Jannarelli, La strutturazione giuridica dei mercati nel sistema agro- alimentare e l’art. 62 della legge 24 marzo 2012, n. 27: un pasticcio italiano in salsa francese, in Rivista di diritto agrario, 2012., S. Paglianti, Il “pasticcio” dell’art. 62 l. 221/2012: integrazione equitativa di un contratto parzialmente nullo ovvero responsabilità precontrattuale da contratto sconveniente?, in Persona e Mercato, 1/2014, 46.

[61] Il legislatore italiano, pur non ripudiando le misure (e le regole) sanzionatorie da applicare alle pratiche sleali inserite negli art. 4 e 5 del d.lgs. n. 198/2021 propone un diverso profilo al quale guardare al fenomeno delle pratiche commerciali, distinguendo in esso due diversi ambiti di intervento, cui far corrispondere due blocchi di discipline: ad una parte gli artt. 4 e 5, dall’altra parte gli art. 6 e 7.

[62] Questa prospettiva emerge con maggiore evidenza negli interventi della Commissione e nell’iter che ha portato all’emanazione della direttiva 2019/633, di cui il d.lgs. n. 198/2021 costituisce, com’è noto, strumento di recepimento. Come ribadisce la Direttiva, cons. 3, la problematica delle pratiche sleali nella filiera agroalimentare è stata posta al centro dell’attenzione del Forum di alto livello per un migliore funzionamento della filiera alimentare, svoltosi nel 2011. Il Forum di alto livello, voluto e guidato dalla Commissione, ha elaborato una serie di principi di buone prassi nelle relazioni verticali nella filiera alimentare. Tali principi e regole di comportamento sono stati sostanzialmente trasposti nell’attuale d.lgs. n. 198/2021. Tale tendenza legislativa viene rilevata anche in dottrina, in questo senso, S. Paglianti, L’attuazione della Direttiva 2019/633/ue e la toolbox del civilista, cit., 393.

[63] Sulle difficoltà di una chiara messa a fuoco della base giuridica della Direttiva 2019/633 ed in particolare sulla circostanza che l’obiettivo del miglioramento del reddito dei produttori agricoli viene meglio perseguito ed attuato sulla base di altre misure specifiche, quali ad esempio il sistema dei pagamenti diretti, v. H. Schebesta, Unfair trading practices in the food supply chain: regulating right?, in European Journal of Risk Regulation, 2018, 690-700. La nostra dottrina, d’altro canto, non ha mancato di sottolineare come il Regolamento n. 1308/2013 sull’organizzazione del mercato agricolo, rappresenti la prima scaturigine di tutela contrattuale dei produttori agricoli in relazione alle forme di abuso del distributore e trasformatore industriale, v. A. Jannarelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agro-alimentare, cit.

[64] Sul difficile rapporto tra politica agricola e politica della concorrenza nella disciplina delle relazioni agroindustriali, Cfr. A. Jannarelli, Dal caso «indivia» al regolamento omnibus n. 2393 del 13 dicembre 2017: le istituzioni europee à la guerre tra la PAC e la concorrenza diritto agroalimentare, in Diritto agroalimentare, 3/2018, 109 ss.

[65] La CGUE, C_675/2015, 14/11/2017 ha affermato che l’art. 42 del TFUE prevale sugli obiettivi del trattato in materia di concorrenza e riconosce altresì il potere del legislatore dell’UE di decidere in quale misura le norme sulla concorrenza debbano essere applicate nel settore agricolo (…) “Così, nel perseguire gli obiettivi di instaurazione di una politica agricola comune e di creazione di un regime di concorrenza non falsata, l’articolo 42 TFUE riconosce la preminenza della politica agricola comune rispetto agli obiettivi del Trattato nel settore della concorrenza e il potere del legislatore dell’Unione di decidere in quale misura le regole di concorrenza trovano applicazione nel settore agricolo (v. in tal senso, sentenze del 5 ottobre 1994, Germania/Consiglio, C-280/93, EU:C:1994:367, punto 61, e del 12 dicembre 2002, Francia/Commissione, C-456/00, EU:C:2002:753, punto 33)”. Per un approfondimento della sentenza e sui profili di maggiore criticità della decisione v. A. Jannarelli, Dal caso «indivia», cit., 109 ss.

[66] In tal senso M. Imbrenda, op. cit. In particolare, l’A. afferma come “la capacità di ‘saper vendere’ nel modo più conveniente i propri prodotti – non è fine a sé stesso quanto piuttosto proteso alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica e, più in generale, alle strategie di Green Deal europeo”, 56.

[67] La sostenibilità coniuga l’aspetto dello sviluppo economico con l’esigenza di tutela del contesto nel quale si svolge l’attività di produzione e di immissione del bene nel mercato. In questo senso, l’art. 210-bis del Regolamento n. 1308/2013, introdotto con Regolamento 2021/2117 del Parlamento europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2021, specifica che le politiche agricole sono volte all’uso sostenibile e alla protezione del paesaggio, delle acque e dei suoli; alla transizione verso un’economia circolare, alla riduzione degli sprechi alimentari; alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento; alla protezione e al ripristino della biodiversità e degli ecosistemi; alla produzione di prodotti agricoli con modalità che riducano l’uso di pesticidi e ne gestiscano i rischi derivanti da tale uso, o che riducano il pericolo di resistenza antimicrobica nella produzione agricola e al rispetto della salute e del benessere degli animali.

[68] Su tale aspetto si è soffermata la Commissione nel Report “Strategic Dialogue on the Future of EU Agriculture” del 2024 affermando come solo attraverso un approccio integrativo e olistico sarà possibile affrontare le complesse sfide del sistema agroalimentare, garantendo la sostenibilità, l’efficienza e l’equità, in linea con gli obiettivi della Politica Agricola Comune (PAC) e le esigenze della società contemporanea: “The political and institutional structures governing the agri-food system must enable this coherence through an integrative and holistic approach and design, breaking away from silo thinking among stakeholders and within institutions.” https://agriculture.ec.europa.eu, 77.

[69] Su questi profili e sull’esigenza di individuare nuovi approcci nelle politiche agricole e alimentari per affrontare le nuove sfide ambientali e garantire un futuro sostenibile, resiliente e competitivo per i sistemi agroalimentari in Europa, v. Ibidem, In ordine alla circostanza che le regole di organizzazione non si lasciano ricondurre a un’unica ratio regolatoria, potendo mirare al raggiungimento di più obiettivi in considerazione della natura degli interessi coinvolti e del tipo di mercato di riferimento, v. R. Natoli, op. cit., 142.

Il diritto privato regolatorio si avvale infatti di un ampio ventaglio di principi e strumenti, alcuni comuni a tutti i settori regolati e altri, invece, tipici di alcuni settori soltanto. Tali tecniche e strumenti – generali o particolari – risentono, ovviamente, delle finalità della regolazione e del tasso di maturità̀ concorrenziale raggiunto da ciascun mercato regolato.

[70] Ciò, come rileva G. Vettori, vale in particolare per il contratto che “è coinvolto in questo nuovo ordine ed è del tutto plausibile una nuova conformazione dettata da un interesse pubblico volto ad uno sviluppo sostenibile”, cit., 466.

[71] La circostanza che i vincoli di contenuto e di forma nella filiera agroalimentare “non assicurano affatto la congruità del corrispettivo” e che, soprattutto il secondo, sia idoneo a perseguire una pluralità di interessi particolari e generali in quanto capace di cristallizzare e rendere “immediatamente percepibile un elemento rilevante per l’operazione economica” è sostenuto, tra gli altri, da. Iuliani, A. cit., 760.

[72] Questa esigenza è avvertita in particolare dalla Corte di Giustizia nella causa CGUE C-2/18, 13 novembre 2019. Qui, la Corte ha avuto modo di precisare come le misure di contrasto alle pratiche scorrette devono inserirsi e coordinarsi con le regole di funzionamento del mercato agricolo disciplinato dal Regolamento n. 1308/2013. Nello stesso senso da ultimo, CGUE C-400/19 del 11 marzo 2021 a proposito degli interventi legislativi volti ad incidere sui margini di profitto. In questa occasione i giudici hanno ribadito come gli interventi legislativi degli Stati membri sui meccanismi di fissazione dei prezzi, incidendo sulla libera determinazione del prezzo di vendita, falsano il libero gioco della concorrenza che costituisce una componente essenziale del Regolamento n. 1308/2013 che è espressione del principio della libera circolazione delle merci in condizioni di concorrenza effettiva.

[73] Per un primo commento alla disposizione, v. L. Vizzoni, op. cit., 734 ss.

[74] Il legislatore in questa circostanza ha voluto porre il suggello ai criteri specifici contenuti nell’Allegato A del d.m n. 199/2012 attuativo dell’art. 62, d.l. n. 1/2012, che a sua volta ha avuto il merito di introdurre nel nostro ordinamento i principi elaborati in sede europea dal Forum di Alto livello costituito in seno alla Commissione

[75] Cfr. A. Jannarelli, La “giustizia contrattuale” nella filiera agro-alimentare: considerazioni in limine all’attuazione della direttiva n. 633 del 2019, in Giust. civ., 2/2021, 199.

[76] Occorre avvertire, al riguardo, che il raggio di azione del d.lgs. n. 198/2021, non può ritenersi del tutto coincidente con quello del d.lgs. n. 102/2005, almeno nella fattispecie in esame. Il d.lgs. n. 198/2021 si riferisce sotto il profilo della vulnerabilità soggettiva a tutti i fornitori che a diverso titolo operano all’interno della filiera e che si relazionano, direttamente e indirettamente, con l’acquirente. L’ambito del d.lgs. n. 102/2005 è tendenzialmente determinato, riconducendosi al primo livello della catena, cioè alla fornitura dei beni da parte del produttore agricolo. Una sovrapposizione del d.lgs. n. 198/2021 con il Regolamento n. 1308/2013, con riferimento ai fornitori agricoli viene individuata da A. Jannarelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agro-alimentare: criticità e prospettive, cit., 21.

[77] Cfr. al riguardo, G. Vettori, ult. op. cit. Analogamente M. Pennasilico, La “sostenibilità ambientale” nella dimensione civil-costituzionale: verso un diritto dello “sviluppo umano ed ecologico”, in Rivista quadrimestrale di Diritto dell’Ambiente, 2020.

[78] Com’è noto questa idea di sviluppo sostenibile risale all’elaborazione svolta dalle Nazioni Unite nel 1987 all’interno del Report of the World Commission on Environment and Development. Our Common Future, https://digitallibrary.un.org.

[79] Dal 2009 la Commissione ha intrapreso una serie di iniziative volte a stimolare una legislazione in grado di introdurre negli ordinamenti nazionali regole specifiche in materia di contrasto alle pratiche commerciali su base nazionale e volontaria, riguardanti le pratiche commerciali sleali attuate nella filiera alimentare.

[80] Cfr. G. Spoto, Le filiere agroalimentari e i divieti di pratiche commerciali sleali, in Europa e Diritto Privato, 1/2022, 185 ss.

[81] L’art. 7, d.lgs. n. 198/2021, recita: “Disciplina delle vendite sottocosto di prodotti agricoli ed alimentari”.

  1. Fermo restando quanto previsto dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 nonché dal decreto del Presidente della Repubblica 6 aprile 2001, n. 218, relativamente alle procedure e alle sanzioni ivi disciplinate, la vendita sottocosto dei prodotti agricoli e alimentari freschi e deperibili è consentita solo nel caso di prodotto invenduto a rischio di deperibilità oppure nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta.
  2. È, in ogni caso, vietato imporre al fornitore condizioni contrattuali tali da far ricadere sullo stesso le conseguenze economiche derivanti, in modo diretto o indiretto, dal deperimento o dalla perdita dei prodotti agricoli e alimentari venduti sottocosto non imputabili a negligenza del fornitore.
  3. In caso di violazione della disposizione di cui al comma 1, il prezzo stabilito dalle parti è sostituito di diritto, ai sensi dell’articolo 1339 del codice civile, dal prezzo risultante dalle fatture d’acquisto oppure, qualora non sia possibile il riscontro con le fatture d’acquisto, dal prezzo calcolato sulla base dei costi medi di produzione rilevati dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – ISMEA ovvero, in mancanza di quest’ultimo, dal prezzo medio praticato per prodotti similari nel mercato di riferimento.

La necessità di intervenire in modo drastico, introducendo un divieto generalizzato alla pratica del sottocosto dei prodotti agricoli e alimentari, era stata avvertita dal legislatore. Il riferimento è in particolare alle proposte di legge A.C. 1277 (ritirato) e A.C. 1549 (destinato ad essere assorbito nella proposta di legge delega), emblematico è, a tale riguardo, il titolo di quest’ultima proposta che segnala immediatamente l’intento perseguito dal legislatore di vietare la vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari (Disposizioni concernenti l’etichettatura, la tracciabilità e il divieto della vendita sottocosto dei prodotti agricoli e agroalimentari, nonché delega al Governo per la disciplina e il sostegno delle filiere etiche di produzione).

[82] Cfr. A. Jannarelli, Profili giuridici del sistema agro-alimentare e agro-industriale. I rapporti contrattuali, cit., 2018.

[83] Ciò, come detto, rappresenta una novità di assoluto rilievo in considerazione della posizione dell’operatore agricolo, in quanto si rovescerebbero i termini della relazione negoziale. Come evidenzia la dottrina, infatti, una delle più significative caratteristiche del c.d. contract farming è proprio la dimensione d’ingerenza da parte del trasformatore industriale nell’attività di produzione primaria. Il trasformatore industriale, che di solito è un’azienda di trasformazione o un acquirente finale, fornisce al produttore primario le specifiche dettagliate riguardanti la qualità, le quantità richieste e, talvolta, anche le pratiche agronomiche e le tecniche di coltivazione da seguire.

Il produttore primario si impegna a conformarsi a queste specifiche e ad adottare le modalità di produzione richieste per soddisfare le esigenze dell’acquirente. Ciò può includere l’uso di determinati metodi di coltivazione, l’applicazione di determinati input agricoli, l’adempimento di standard di qualità specifici, il rispetto di norme ambientali o altre direttive stabilite dal trasformatore industriale.

Questa dimensione d’ingerenza da parte del trasformatore industriale è vista come una delle peculiarità del contract farming. Mentre può offrire vantaggi come l’accesso a mercati sicuri, la garanzia di vendita e la trasferibilità del rischio, può anche sollevare questioni riguardanti la dipendenza economica dei produttori primari e la perdita di autonomia decisionale nella gestione delle proprie aziende.

L’obiettivo principale di questa ingerenza è garantire la coerenza e la conformità alla domanda del mercato da parte dei produttori primari, assicurando che i prodotti soddisfino le specifiche richieste dagli acquirenti. Tuttavia, è importante valutare attentamente i termini e le condizioni dei contratti di contract farming per garantire che siano equi e sostenibili per entrambe le parti coinvolte. Sul tema v. A. Jannarelli, I contratti nel sistema agroalimentare, in Trattato di diritto agrario, a cura di L. Costato-A. Germanò-E. Rook Basile, 2011, cit., 428 ss.

[84] Stenta ad emergere questa nuova prospettiva dai più recenti interventi normativi, che a proposito delle finalità e degli scopi dell’Organizzazione di produttori riconosciute ripropone la tralatizia formula della programmazione. Il riferimento è all’art. 17, comma 3, lett. b, n. 1, legge 9 marzo 2022, n. 23, Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico, che aggiunge tra gli obiettivi da inserire negli statuti delle OP quello di “programmare la produzione e l’adeguamento della stessa alla domanda, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo”.

[85] L’espressione è attinta da Pagliantini, il quale avverte dei rischi di un effetto immunizzante di una disciplina volta semplicemente ad assicurare il rispetto formale e chiaro del regolamento contrattuale. S. Pagliantini, Dal b2c al b2b: una prima lettura della dir. (ue) 2019/633 tra diritto vigente ed in fieri, cit., 236.

[86] Ivi, 245.

[87] Non risulta che finora ci siano stati interventi in questo senso nel settore agroalimentare. Un precedente di predatory price è invece costituito dalla decisione dell’AGCM del17 aprile 2002, che ha sanzionato il comportamento dell’impresa in posizione dominante la quale aveva adottato una strategia del sottocosto “idonea a ridurre il grado di concorrenza effettiva nel mercato, a scoraggiare l’ingresso di nuovi operatori efficienti e, conseguentemente, a favorire l’innalzamento dei prezzi nel lungo periodo” (punto 203, Provvedimento A 267 n. 10650): https://www.agcm.it.

[88] La dottrina tedesca a questo proposito non ha mancato di porre in evidenza come in determinate condizione è più efficiente che la scelta del prezzo sottocosto sia affidata ad una decisione del produttore, unico in grado di potere meglio valutare e gestire la convenienza dell’operazione commerciale. L’esempio più evidente è rappresentato dalle vendite dei panettoni durante il Natale e delle successive svendite legate alla fine del breve periodo per la festività. A questo proposito si fa notare come, il produttore di panettoni o uova di Pasqua possiede una conoscenza approfondita del costo unitario marginale dei propri prodotti e del loro prezzo unitario quando vengono venduti nei supermercati. Prima del 24 dicembre egli è in grado di calcolare con precisione il suo guadagno su ogni panettone e utilizzarlo per valutare l’equità della transazione.

Dal punto di vista economico, la situazione diventa critica solo quando il rischio di rivendita diventa ingestibile per il produttore e il fornitore. Ad esempio, ciò può accadere se il rivenditore si riserva il diritto di decidere quanti panettoni devono ancora essere consegnati prima di Natale. Tuttavia, fintanto che il fornitore mantiene il potere di prendere decisioni riguardo alla fornitura all’in­terno della gestione degli scaffali, un accordo equo può essere stabilito e dimostrarsi sufficientemente efficiente.

In questo contesto, è essenziale evitare decisioni unilaterali del rivenditore o l’applicazione di regole di divieto del sottocosto. L’accordo equo permette al produttore di valutare in modo accurato il proprio profitto e contribuisce a una gestione efficiente della catena di approvvigionamento. Mantenendo un potere decisionale condiviso nella gestione del “rifornimento” e nella “manutenzione degli scaffali”, si promuove un ambiente di cooperazione e si raggiunge un equilibrio che favorisce tutte le parti coinvolte. Cfr. L. Glöckner, Kartellrecht-Recht gegen Wettbewerbsbeschränkungen, Kohlhammer Verlag, Stuttgart, 2021, 400.

[89] A tacere del fatto che la stessa nozione di deperibilità non è affatto univoca e lascia ampi margini di discrezionalità al produttore che mantiene il potere decisionale e il controllo sul proprio prodotto.

La shelf life di un prodotto, ovvero il periodo di tempo in cui si ritiene che il prodotto sia sicuro da consumare o utilizzare, è stabilita dal produttore considerando diversi fattori come la natura del prodotto, le caratteristiche di conservazione e i requisiti normativi di sicurezza. Questo intervallo di tempo può variare considerevolmente tra diversi prodotti e dipende da fattori come la freschezza degli ingredienti utilizzati, il tipo di confezionamento e le modalità di conservazione consigliate.

È compito del produttore, sulla base delle sue conoscenze scientifiche e delle valutazioni di sicurezza, determinare il periodo di tempo in cui ritiene che il prodotto mantenga le sue caratteristiche organolettiche e rimanga sicuro per il consumo. Questa decisione può essere influenzata da diverse considerazioni, tra cui l’obiettivo di fornire ai consumatori prodotti di alta qualità e sicuri.

[90] AS207, del 21 dicembre 2000 “Schema di Regolamento per la disciplina delle vendite sottocosto”.

[91] V. fra le altre CGUE 19 ottobre 2017, n. 295/16.

[92] La nullità parziale contemplata al comma 4 dell’art. 1, non può che riferirsi ad una parte dell’art. 5, relativa alle singole clausole e/o accordi che si caratterizzano per il loro carattere impositivo a danno della parte debole che, tra l’altro, non sempre coincide con il soggetto fornitore.

[93] Le gare elettroniche a doppio ribasso sono state originariamente introdotte e utilizzate dalla Pubblica Amministrazione, il previgente d.lgs. n. 50/2016 individua in esse un valido strumento per ottimizzare la spesa pubblica, garantendo prezzi competitivi nei processi di approvvigionamento. L’obiettivo di queste gare era di stimolare la concorrenza tra i fornitori, riducendo così i costi per l’amministrazione pubblica. Tuttavia, la procedura è stata da ultimo modificata, l’art. 41, comma 14, del nuovo codice, in applicazione del criterio di delega di cui all’art. 1, comma 2, lett. t, legge n. 78/2022, stabilisce, infatti, che “I costi della manodopera e della sicurezza sono scorporati dall’importo assoggettato al ribasso”. Quest’ultima modifica legislativa mira a garantire che i fornitori non siano costretti dalla stazione appaltante a comprimere eccessivamente i costi associati alla sicurezza e alla qualità del lavoro, promuovendo così una maggiore equità e sostenibilità nelle gare pubbliche evitando allo stesso tempo il rischio di sottostimare le retribuzioni dei lavoratori impiegati nell’esecuzione delle commesse pubbliche.

[94] Il riferimento è a S. Pagliantini, Dal b2c al b2b: una prima lettura della dir. (ue) 2019/633 tra diritto vigente ed in fieri, cit., 240.

[95] In questo senso, G. D’amico, op. cit. Diversa invece l’opzione interpretativa di A. Albanese, che individua la funzione correttiva-adeguatrice e l’esigenza di protezione del contraente debole all’interno del rimedio invalidante che in questo contesto “legittima quindi un’interpretazione evolutiva e razionale della disciplina della nullità, che consente di conservare il contratto, depurato dei contenuti iniqui e integrato nelle parti invalide dalla disciplina dispositiva di legge”, cit., 28.

[96] A tale conclusione sembra pervenire la dottrina con riferimento a tutte le ipotesi di sovraprofitto vietato, S. Paglianti, Le regole del mercato agroalimentare tra sicurezza e concorrenza, a cura di S. Carmignani e N. Lucifero, cit., 80.

[97] Il cui testo recita, infatti, che “le previsioni di cui agli articoli 3, 4, 5 e 7 del presente decreto costituiscono norme imperative e prevalgono sulle eventuali discipline di settore con esse contrastanti, qualunque sia la legge applicabile al contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari. È nulla qualunque pattuizione o clausola contrattuale contraria alle predette disposizioni. La nullità della clausola non comporta la nullità del contratto”.

[98] V. in questo senso E. Camilleri, Contratti a valle rimedi civilistici e disciplina della concorrenza, cit., passim, ma spec. p 444

[99] La dottrina è unanime in tal senso. V. A. Albanese, op. cit.; S. Pagliantini, Dal B2c al B2b, cit.; G. D’amico, op. cit.; G. Guzzanti, op. cit.

[100] E. Camilleri, Pratiche commerciali scorrette, safety net e nuove vulnerabilità: prospettive e limiti, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 1/2024.

[101] Il riferimento è a A. Albanese, op. cit.

[102] Cfr. S. Paglianti, Dal B2C al B2B: una prima lettura della dir. (ue) 2019/633 tra diritto vigente ed in fieri, cit.; nonché A. Jannarelli, Profili giuridici del sistema agro-alimentare e agro-industriale. I rapporti contrattuali nella filiera agro-industriale, cit. Più di recente l’A., a proposito dello scrutinio di abusività delle clausole di cui al d.lgs. n. 198/2021, ha parlato di “una complessa valutazione giuridica destinata a coinvolgere l’intera operazione economica”, A. Jannarelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agro-alimentare: criticità e prospettive, cit., 22.

[103] Il riferimento è a M. Imbrenda, op. cit., 50 ss.

[104] La Comunicazione “Verso uno spazio comune europeo dei dati” (Com. 2018/232 final), mette in evidenza, tra l’altro, come: “al fine di assicurare mercati equi e concorrenziali per gli oggetti e per i prodotti e servizi che fanno affidamento su dati non personali generati da una macchina creati da tali oggetti, negli accordi contrattuali debbano essere rispettati i seguenti principi chiave:

a) Trasparenza: è opportuno che negli accordi contrattuali pertinenti siano identificate, in modo trasparente e comprensibile, i) le persone o le entità che avranno accesso ai dati generati dal prodotto o servizio, il tipo di tali dati e a quale livello di dettaglio; e ii) le finalità di utilizzo di tali dati.

b) Creazione di valore condiviso: è opportuno che negli accordi contrattuali pertinenti sia riconosciuto che, laddove i dati vengano generati da un sottoprodotto dell’utilizzo di un prodotto o servizio, diverse parti hanno contribuito alla loro creazione.

c) Rispetto degli interessi commerciali reciproci: è opportuno che negli accordi contrattuali pertinenti sia affrontata la necessità di tutelare gli interessi e i segreti commerciali dei titolari e degli utilizzatori dei dati.

[105] Un esempio virtuoso è possibile coglierlo da alcune iniziative volte alla promozione e messa in commercio dei prodotti di qualità. Il riferimento è ai contratti di coltivazione per il grano duro di qualità stipulato tra la Barilla e i coltivatori di alcune regioni italiane per la produzione della pasta Voiello e Svevo, volto a migliorare la redditività di tali produttori in base alle specificità del grano coltivato e alle sue caratteristiche qualitative: cfr. https://www.barillagroup.com.

[106] Report Commissione, cit., passim.