Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Verifica del merito creditizio e tutele del consumatore (di Alberto Azara)


Il saggio prende in esame la sentenza C-679/18 della Corte di giustizia UE, la quale ha ad oggetto l’interpretazione degli artt. 8 e 23 della Direttiva 2008/48/CE sui contratti di credito ai consumatori e sull’obbligo di valutazione del merito creditizio del consumatore. Secondo la Corte, gli articoli 8 e 23 della direttiva 2008/48/CE devono essere interpretati nel senso che impongono al giudice nazionale di esaminare d’ufficio l’esistenza di una violazione dell’obbligo precontrattuale del creditore di valutare il merito creditizio del consumatore, previsto dall’articolo 8 di tale direttiva, e di trarre le conseguenze che, secondo il diritto nazionale, discendono da una violazione di tale obbligo, a condizione che le sanzioni soddisfino i requisiti dell’articolo 23. Il diritto italiano nulla dice in ordine alle conseguenze civili derivanti dalla violazione dell’obbligo di valutazione del merito creditizio del consumatore. La compatibilità del nostro ordinamento con la disciplina europea può essere argomentata immaginando una norma a “struttura aperta”, che affidi al giudice la scelta del rimedio più giusto.

Verification of creditworthiness and consumer protection

The essay examines the judgment C-679/18 of the EU Court of Justice, which concerns the interpretation of arts. 8 and 23 of Directive 2008/48/EC on credit agreements for consumers and the obligation to assess the creditworthiness of the consumer. According to the Court, Articles 8 and 23 of Directive 2008/48/EC must be interpreted as requiring the national court to examine, of its own motion, whether there has been a failure to comply with the creditor’s pre-contractual obligation to assess the consumer’s creditworthiness, provided for in Article 8 of that directive, and to draw the consequences arising under national law of a failure to comply with that obligation, on condition that they satisfy the requirements of Article 23. Italian law says nothing with regard to the civil consequences deriving from the violation of the obligation to assess the creditworthiness of the consumer. The compatibility of our body of laws with the European discipline can be argued by imagining a rule with an “open structure”, which entrusts the choice of the most just remedy to the judge.

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Alberto Azara - Verifica del merito creditizio e tutele del consumatore

SOMMARIO:

1. Le due questioni pregiudiziali (sentenza C-679/18). - 2. La soluzione della Corte di Giustizia sulla prima questione pregiudiziale: l’obbligo di applicare d’ufficio la sanzione della nullità. - 3. Verifica del merito creditizio e tutele del consumatore nel diritto italiano. Il rimedio risarcitorio. - 4. Segue. Norma “a struttura aperta” e nullità del contratto di credito al consumo. - 5. Segue. La nullità del contratto di credito al consumo per contrarietà all’art. 1418, comma 1, c.c. - 6. Sulla seconda questione pregiudiziale: l’eccessiva difficoltà nell’esercizio del diritto.


1. Le due questioni pregiudiziali (sentenza C-679/18).

La sentenza C-679/18 della Corte di Giustizia dell’UE, emessa a seguito del rinvio pregiudiziale di un Tribunale della Repubblica Ceca, prende in esame l’interpretazione degli articoli 8 e 23 della Direttiva 2008/48/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativa ai contratti di credito ai consumatori.

Muoviamo dal testo delle due disposizioni.

L’art. 8 della Direttiva 2008/48/CE, rubricato «[o]bbligo di verifica del merito creditizio del consumatore», stabilisce che «[g]li Stati membri provvedono affinché, prima della conclusione del contratto di credito, il creditore valuti il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando la banca dati pertinente». L’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE, rubricato «[s]anzioni», così dispone: «[g]li Stati membri stabiliscono le norme relative alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione. Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive».

La Direttiva 2008/48/CE è stata recepita dal legislatore della Repubblica Ceca, il quale ha previsto che la violazione dell’obbligo di valutare il merito creditizio implica la nullità del contratto (art. 87 della legge n. 257/2016). L’art. 87, paragrafo 1, della legge n. 257/2016 così delinea lo statuto giuridico della nullità: «Il consumatore può eccepire la nullità entro un termine di prescrizione triennale decorrente dalla data di conclusione del contratto. Il consumatore è tenuto a rimborsare il capitale del credito al consumo concesso entro un termine ragionevole commisurato alle proprie possibilità».

Il giudice del rinvio precisa che, secondo una consolidata giurisprudenza, al giudice nazionale è fatto divieto di applicare d’ufficio la sanzione della nullità relativa derivante dall’articolo 87, paragrafo 1, della legge n. 257/2016.

Vengono così poste due questioni pregiudiziali: (i) se l’articolo 8, in combinato disposto con l’articolo 23 della Direttiva 2008/48/CE, stabilisca l’obbligo, per il giudice nazionale, di applicare d’ufficio la sanzione della nullità nel caso di violazione, da parte del creditore, dell’obbligo di valutare il merito creditizio del consumatore; (ii) se il termine triennale di prescrizione della eccezione di nullità sia compatibile con il diritto europeo.


2. La soluzione della Corte di Giustizia sulla prima questione pregiudiziale: l’obbligo di applicare d’ufficio la sanzione della nullità.

La posizione della Corte di Giustizia sul primo tema è molto chiara: per realizzare una tutela effettiva del consumatore (parte debole del rapporto, in situazione di inferiorità rispetto al professionista) è necessario che il giudice nazionale esamini d’ufficio il rispetto dell’obbligo di verifica del merito creditizio gravante sul creditore. Codesto obbligo – afferma la Corte – «mira a tutelare i consumatori contro i rischi di sovraindebitamento e di insolvenza», sicché esso «riveste, per il consumatore, un’importanza fondamentale».

Muovendo da questa premessa viene fissato il seguente principio: «la tutela effettiva del consumatore richiede che, in una situazione in cui il creditore esercita un’azione fondata sul contratto di credito nei confronti del consumatore, il giudice nazionale esamini d’ufficio il rispetto, da parte del creditore, dell’obbligo di cui all’articolo 8 della direttiva 2008/48 e, se constata una violazione di tale obbligo, ne tragga le conseguenze previste dal diritto nazionale, senza attendere che il consumatore presenti una domanda a tal fine, fatto salvo il rispetto del principio del contraddittorio».

Né sarebbe sufficiente – soggiungono i giudici di Lussemburgo – prevedere una sanzione amministrativa, poiché le sanzioni amministrative «non sono di per sé idonee a garantire in modo sufficientemente effettivo la tutela dei consumatori contro i rischi di sovraindebitamento e di insolvibilità perseguita dalla direttiva 2008/48», poiché codeste sanzioni «non incidono sulla situazione di un consumatore al quale sarebbe stato erogato un contratto di credito in violazione dell’articolo 8 di tale direttiva».

In precedenti pronunce la Corte di Giustizia si era occupata dell’obbligo di verifica del merito creditizio, prendendo posizione sulla conformità della sanzione stabilita dal legislatore nazionale in relazione ai criteri enunciati dall’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE.

In un caso è stata reputata in contrasto con l’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE una norma nazionale (francese) che prevedeva l’applicazione degli interessi legali, anziché convenzionali, al finanziamento concesso in violazione dell’obbligo precontrattuale di verificare il merito creditizio del consumatore consultando una banca dati pertinente[1]. In particolare, la Corte ha qualificato questa sanzione priva di una reale efficacia dissuasiva, ove il giudice del rinvio accerti che gli importi riscuotibili dal creditore in seguito all’applicazione della sanzione della decadenza dagli interessi non sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare se avesse ottemperato al suo obbligo di verifica della solvibilità del debitore.

In un altro caso, ha reputato che, ove il consumatore non sia in grado di rimborsare il credito conformemente al contratto, l’obbligo per la banca di astenersi dal concludere il contratto di credito non è idoneo a pregiudicare l’obiettivo dell’articolo 8, paragrafo 1, della Direttiva 2008/48, né a rimettere in discussione «la responsabilità di principio del consumatore di vigilare sui propri interessi»[2].

La pronuncia C-679/18 si rivela innovativa perché, sino ad ora, i giudici europei non erano mai giunti a configurare un vero e proprio potere-dovere del giudice nazionale di esaminare d’ufficio il rispetto, da parte del creditore, dell’obbligo di verifica del merito creditizio[3].

 

[1] CGUE 27 marzo 2014, causa C‑565/12, LCL Le Crédit Lyonnais SA contro Fesih Kalhan.

[2] CGUE 6 giugno 2019, causa C-58/18, Michel Schyns contro Belfius Banque SA.

[3] Con la pronuncia CGUE 21 aprile 2016, causa C-377/14, Ernst Georg Radlinger e Helena Radlingerová contro Finway a.s. la Corte non si era espressa sull’obbligo di verifica del merito creditizio, bensì sugli obblighi informativi stabiliti dall’art. 10, paragrafo 2, della Direttiva 2008/48. In particolare, i giudici avevano chiarito che l’art. 10, paragrafo 2, della Direttiva 2008/48 deve essere interpretato nel senso che impone a un giudice nazionale, investito di una controversia relativa a crediti derivanti da un contratto di credito ai sensi di tale direttiva, di esaminare d’ufficio il rispetto dell’obbligo di informazione previsto da tale disposizione e di trarre tutte le conseguenze che, secondo il diritto nazionale, derivano dalla violazione di tale obbligo. Questa conclusione è argomentata osservando che «la situazione di disuguaglianza del consumatore rispetto al professionista può essere riequilibrata solo mediante un intervento positivo, esterno al rapporto contrattuale, del giudice nazionale investito di tali controversie».


3. Verifica del merito creditizio e tutele del consumatore nel diritto italiano. Il rimedio risarcitorio.

Volgendo lo sguardo al nostro ordinamento, la sentenza della Corte di Giustizia suscita alcuni interrogativi[1].

Quali sono i rimedi offerti al debitore per far valere la violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio? Si tratta di rimedi efficaci, proporzionati e dissuasivi?

Viene sùbito in rilievo l’art. 124 bis T.U.B., il quale prevede che «prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore valuta il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente»[2]. Il finanziatore deve, inoltre, aggiornare le informazioni finanziarie di cui dispone riguardo al consumatore e valutare il merito creditizio del medesimo prima di procedere ad un aumento significativo dell’importo totale del credito.

La legge nulla dice in ordine alle conseguenze civilistiche derivanti dalla violazione dell’obbligo di verifica[3].

Com’è noto, nella celebre sentenza del 2007[4], la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che la violazione dei doveri d’informazione del cliente gravanti sui soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni. In assenza di una espressa previsione normativa, la violazione dei doveri di comportamento non implicherebbe la nullità del contratto d’intermediazione ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.

Sotto questa luce, l’unico rimedio per il consumatore sembrerebbe - almeno prima facie -l’azione risarcitoria fondata sull’artt. 1337 c.c., letto congiuntamente all’art. 124 bis T.U.B.: il soggetto finanziato ha l’onere di proporre la domanda risarcitoria (eventualmente in via riconvenzionale) e di dimostrare il danno subìto a seguito dell’omessa o erronea verifica del merito creditizio[5].

Si tratta di una soluzione difficilmente compatibile con la disciplina europea, così come interpretata dalla Corte di Giustizia, e con gli scopi della Direttiva 2008/48/CE.

Il rimedio risarcitorio non permette al giudice nazionale di esaminare d’ufficio la violazione dell’obbligo precontrattuale stabilito dall’articolo 8 della Direttiva 2008/48/CE, e di trarre le conseguenze che, secondo il diritto nazionale, derivano dalla stessa.

In assenza di una specifica domanda, il giudice italiano certamente non potrebbe ex officio rilevare l’inadempimento del finanziatore e accordare al finanziato il risarcimento del danno, né potrebbe acquisire, senza una attività della parte, le prove necessarie per dimostrare il pregiudizio sofferto dal consumatore. L’iniziativa rimessa in via esclusiva al finanziato profila l’esistenza di un rimedio poco efficace e privo di un carattere realmente dissuasivo al pari della nullità rilevabile (nel diritto ceco) soltanto su istanza del consumatore.

Né sembrerebbe possibile sostenere che i poteri riconosciuti alle Authority configurino un sistema rimediale efficace, proporzionato e dissuasivo ai sensi dell’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE[6]. Nella regolamentazione di settore, gli organi di vigilanza non possono, infatti, accordare tutela ai “diritti individuali”, né risultano dotati di strumenti idonei a garantire un risultato analogo a quello conseguibile dinanzi all’autorità giudiziaria[7].

Anche la tesi dell’annullabilità del contratto emersa in dottrina si espone a rilievi critici nella prospettiva della Corte di Giustizia[8].

 L’omessa verifica della solvibilità del consumatore determinerebbe un vizio del consenso, poiché il consumatore sarebbe indotto ad assumere obbligazioni che non avrebbe mai assunto ove avesse conosciuto la propria condizione di “immeritevolezza finanziaria”.

Senonché la disciplina dell’azione di annullamento solleva nuovamente il problema della effettiva tutela offerta al consumatore, siccome l’art. 1441 c.c. dispone che «[l]’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge». L’inesistenza di un potere ex officio del giudice risulta incompatibile con l’esigenza di tutelare il consumatore, il quale si trova in una situazione d’inferiorità rispetto al professionista.

 

[1] Sull’obbligo di verifica del merito creditizio, v. ex multis, M. Mazzeo, La verifica del merito di credito, in Obbl. contr., 2010, 861 ss.; A. Simionato, Prime note in tema di valutazione del merito creditizio del consumatore nella direttiva 2008/48/CE, in De Cristofaro (a cura di), La nuova disciplina europea del credito al consumo, Torino, 2009, 183 s.; G. Falcone, L’indebitamento delle famiglie e le soluzioni normative: tra misure di sostegno e liberazione dai debiti, in G. Falcone e S. Bonfatti, La ristrutturazione dei debiti civili e commerciali, Milano, 2011, 191 ss.; E. Caterini, Controllo del credito, tutela del risparmio e adeguatezza nel finanziamento « finalizzato », in V. Rizzo, E. Caterini, L. Di Nella, L. Mezzasoma (a cura di), La tutela del consumatore nelle posizioni di debito e credito, Napoli, 2010, 49 ss.; E. Minervini, Il sovraindebitamento del consumatore e la direttiva 2008/48/CE, ivi, 65 ss.; S. La Rocca, L’obbligo di verifica del merito creditizio, ivi, 233 ss.; L. Modica, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, 2012, 233 ss.; Id., Concessione « abusiva » di credito ai consumatori, in Contr. impr., 2012, 492 ss.; R. Natoli, Il contratto « adeguato ». La protezione del cliente nei servizi di credito, di investimento e di assicurazione, Milano, 2012, 141 ss.; G. Piepoli, Sovraindebitamento e credito responsabile, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 38 ss.; E. Pellecchia, Obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore: spunti di riflessione per un nuovo modo di guardare alla “contrattazione con l’insolvente”, in Nuove leggi civ., 2014, 1088 ss.; C. Iurilli, Merito creditizio, causa in concreto e nullità del contratto di mutuo: profili di responsabilità civile, in Studium iuris, 2014, 419 ss. e 546 ss.; G. Falcone , “Prestito responsabile” e valutazione del merito creditizio, in Giur. comm., 2017, 1, 147; F. Salerno, La violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio: effetti (anche) civilistici, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 10, 1423 ss.; G. Liberati Buccianti, Merito creditizio e obbligo di non concludere il contratto, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 1, 89.

[2] Sulla valutazione del merito creditizio intesa unicamente come valutazione della capacità di rimborso individuale del consumatore v. G. Falcone, “Prestito responsabile” e valutazione del merito creditizio, cit., 147 ss.

[3] Gli artt. 125 bis e 125 ter del T.U.B. prevedono un sistema di rimedi, ma non disciplinano le conseguenze derivanti dalla violazione, da parte del finanziatore, delle regole fissate dall’art. 124 bis T.U.B. Torna così a riproporsi – come segnala L. Modica, Concessione "abusiva" di credito ai consumatori, cit., 508 – il c.d. «ambaradan dei rimedi» che ormai costantemente accompagna le riflessioni sui doveri di informazione. Sul problema sono ineludibili le pagine di V. Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond e Tango bond), in Contratto impr., 2005, 1225). Sul tema dei rimedi esperibili dal consumatore nell’àmbito dei contratti di credito al consumo v. M.R. Maugeri, Omissione di informazioni e rimedi nel credito al consumo. La decisione della CGE 42/15 e la proporzionalità dell’apparato rimediale italiano, in Banca borsa, 2018, 134 ss.

[4] Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Contratti, 2008, 221 ss., in Contratti, 2008, 221 ss., con nota di V. Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità; in Corr. giur., 2008, 223 ss., con nota di V. Mariconda, L’insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità; in Danno e resp., 2008, 525 ss., con note di V. Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf e F. Bonaccorsi, Le sezioni unite e la responsabilità degli intermediari finanziari; in Foro it., 2008, I, 785, con nota di E. Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite; in Europa dir. priv., 2008, 599, con nota di C. Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi e i rimedi; in Obbl. contr., 2008, 104, con nota di G. Vettori,  Regole di validità e di responsabilità di fronte alle Sezioni Unite. La buona fede come rimedio risarcitorio.

[5] In questo senso sono orientati A. Principe, Tassi di interessi e usura: una realtà ancora in fermento?, in Contratto impr., 2015, 4-5, 928 ss. e G. Falcone , “Prestito responsabile” e valutazione del merito creditizio, cit., 147 ss.

[6] Le medesime considerazioni potrebbero svolgersi con riferimento all’art. 69, comma 2, del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: il creditore che ha colpevolmente determinato la situazione di indebitamento o il suo aggravamento o che ha violato i principi di cui all’art. 124 bis del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, non può presentare opposizione o reclamo in sede di omologa, anche se dissenziente, né far valere cause di inammissibilità che non derivino da comportamenti dolosi del debitore. La norma tolta in esame riguarda una specifica ipotesi, sicché restano fuori dal suo campo di applicazione le ipotesi in cui il danno subìto in conseguenza di una erogazione disinvolta di credito non attinge le soglie del sovraindebitamento. Sul tema v. L. Modica, La ristrutturazione dei debiti del consumatore nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, in questa Rivista, 2020, 3, 595 ss., nonché Id., Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, 2012, 228.

[7] Cfr. Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7036, ord., con nota di R. Conti, Pubblicità ingannevole, inibitoria collettiva e G.O., in Danno e Resp., 2006, 3, 737; CdS, Sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, in Foro it., 2002, III, 428; CdS, Sez. VI, 12 febbraio 2001, n. 652, in Cons. Stato, 2001, I, 258.

[8] G. Azadi, Valutazione del merito creditizio, adeguatezza delle sanzioni e tutela microeconomica dei consumatori, in Giur. it., 2015, 2, 285; F. Salerno, La violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio: effetti (anche) civilistici, cit., 1428 ss.


4. Segue. Norma “a struttura aperta” e nullità del contratto di credito al consumo.

I problemi suscitati dall’azione risarcitoria suggeriscono di muovere in una diversa direzione.

Proponiamo due percorsi argomentativi.

Il giurista che ripudia la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento sarà incline a scegliere il rimedio giusto (o, se si preferisce, ragionevole) in relazione agli interessi implicati e al modo in cui l’illiceità della condotta precontrattuale è penetrata nel precetto negoziale[1]. E allora si potrà dire che la nullità, almeno in alcuni casi, è il rimedio più efficace e adeguato avendo riguardo ai molteplici interessi protetti dalla norma.

L’obbligo di verifica del merito creditizio è stato, infatti, contemplato per tutelare: (i) il finanziatore (creditore), poiché l’erronea verifica accresce il rischio di non recuperare il credito; (ii) il finanziato (debitore), poiché l’assunzione di una obbligazione onerosa condiziona il suo tenore di vita futuro; (iii) la sostenibilità del mercato bancario (profilo macro-economico), poiché finanziamenti eccessivi implicano un rischio di default non solo per la singola banca, ma addirittura per l’intero sistema bancario[2]; (iv) i creditori diversi dal finanziatore (profilo rilevante nelle procedure concorsuali), poiché l’ultimo finanziamento concesso determina l’insostenibilità  del  complesso dei debiti gravanti sul consumatore[3].

Nella prospettiva del consumatore, il rimedio demolitorio potrebbe rivelarsi il più adeguato, giacché determina in via automatica l’obbligo di restituire soltanto il capitale senza imporre allo stesso l’onere di dimostrare il danno. L’obbligo restitutorio del capitale non potrebbe risultare gravoso, ove si reputasse applicabile (in via diretta o analogica) l’art. 125 bis, comma 9, T.U.B., secondo cui, «[i]n caso di nullità del contratto, il consumatore non può essere tenuto a restituire più delle somme utilizzate e ha facoltà di pagare quanto dovuto a rate, con la stessa periodicità prevista nel contratto o, in mancanza, in trentasei rate mensili»[4].

Nella prospettiva della banca, la nullità è la sanzione più dissuasiva, poiché essa prescinde dall’esistenza di un danno e assegna al finanziatore il diritto al rimborso del solo capitale «con la stessa periodicità prevista nel contratto» (art. 125 bis, comma 9, T.U.B.). Il finanziatore che viola l’obbligo di verifica del merito creditizio non potrà fare affidamento su un guadagno: concludere un contratto di finanziamento in violazione dell’art. 124 bis T.U.B. equivale a concludere un contratto di finanziamento a titolo gratuito.

In definitiva, la scelta della soluzione rimediale, in costanza di norme senza sanzione (come l’art. 124 bis T.U.B.), dipende dal criterio di ragionevolezza e dalla valutazione degli interessi lesi nel caso concreto[5].

In questo ragionamento non possiamo trascurare la critica rivolta alla teoria rimediale; critica che viene riassunta nella potente formula «crisi dell’effetto», intesa come aspetto della più ampia «crisi della prigione semantica»[6]. Non sarebbe possibile immaginare un interprete libero di scegliere l’effetto più adeguato, poiché verrebbero meno due canoni vincolanti: in primo luogo, la legge linguistica, che impone al giudice interprete di tenersi ai significati espressi dalle fonti materiali vigenti; in secondo luogo, la legge causale, che impone all’interprete di applicare gli effetti previsti semanticamente dalle disposizioni vigenti[7].

Nel caso in esame questi rilievi non appaiono pertinenti.

Occorre considerare che l’interpretazione delle disposizioni racchiuse negli artt. 124 bis TUB e 23 della Direttiva 2008/48/CE restituisce una norma che potremmo definire “a struttura aperta”: il legislatore italo-europeo si limita soltanto a precisare che l’effetto (ossia la sanzione) deve essere efficace, proporzionato e dissuasivo. La c.d. «prigione semantica» risulta molto estesa, sicché all’autorità giudiziaria è affidata un’ampia sfera discrezionale: qui il mutamento della classica logica giuridica discende dal radicale mutamento della tecnica legislativa.

In termini analitici la norma suona così: se il creditore ha violato l’obbligo di verifica del merito creditizio, il giudice ha il dovere di scegliere la sanzione più efficace, proporzionata e dissuasiva (ai sensi dell’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE). Non si ha una «libertà soggettiva dell’interprete» che si colloca «fuori dal sistema»[8], bensì una discrezionalità dell’interprete che è prevista e disciplinata dal sistema. L’effetto è la costituzione in capo all’organo giudicante del dovere di scegliere e applicare il rimedio più coerente con i criteri enunciati dall’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE[9]. L’ordinamento non individua il tipo di rimedio, ma si limita a descrivere tre caratteristiche che la conseguenza giuridica (scelta dal giudice) deve possedere.

Si potrebbe replicare affermando che, in realtà, la conseguenza derivante dalla violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio è prevista dall’ordinamento, il quale, alla violazione della regola di comportamento nella fase precontrattuale, ricollega soltanto l’obbligo di risarcire il danno (art. 1337 c.c.).

Questa replica non coglie nel segno, perché irrigidisce il sistema e lo rende non conforme al diritto comunitario.

La conformità con la disciplina europea si consegue soltanto immaginando una norma “a struttura aperta”, che affida al giudice la scelta del rimedio più giusto in base alle circostanze concrete.

Sotto questa luce, la parziale attuazione della direttiva si risolve e converte nella creazione di una norma vaga, la quale – soltanto mercé il medium del giudice – potrà trovare una adeguata specificazione. La discrezionalità riconosciuta all’organo giudicante offre la garanzia di soluzioni armoniche con il diritto comunitario ed esclude che lo Stato italiano possa reputarsi inadempiente per non aver correttamente recepito la direttiva comunitaria. Il legislatore – si potrebbe dire – ha deciso di non pre-determinare il rimedio, sicché non sembra possibile indicare una soluzione valida per tutte le ipotesi in cui il contratto di credito al consumo sia stato concluso in carenza di un “reale” merito creditizio.

La tesi della nullità del contratto è la soluzione che, nel maggior numero dei casi, sembrerebbe più congrua e adeguata al soddisfacimento degli interessi coinvolti e protetti, nonché quella più coerente con il carattere dissuasivo della sanzione richiesto dall’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE[10]; e, tuttavia, non è escluso che la valutazione delle circostanze concrete possa indurre l’interprete a scegliere un diverso rimedio[11].

L’art. 1418, comma 1, c.c. non preclude questo esito, poiché, se il contratto è contrario a una norma imperativa, è prevista la nullità, «salvo che la legge», e quindi il sistema vigente, «disponga diversamente». Qui l’ordinamento italo-europeo dispone diversamente nella parte in cui serba il silenzio sul tipo di conseguenza (civilistica) derivante dalla violazione dell’obbligo e, dunque, assegna al giudice il potere-dovere di scegliere la «sanzione» più conforme ai criteri enunciati dall’art. 23 della Direttiva 2008/48/CE.

 

[1] G. Perlingieri, Regole e comportamenti nella formazione del contratto. Una rilettura dell’art. 1337 codice civile, Napoli, 2003, passim.

[2] Mette in luce la tutela dell’interesse individuale e del corretto funzionamento del mercato R. Di Raimo, Ufficio di diritto privato e carattere delle parti professionali quali criteri ordinanti delle negoziazioni bancaria e finanziaria (e assicurativa), in Giust. civ., 2020, 322 ss., il quale riconduce l’obbligo di valutazione del merito creditizio allo schema dell’ufficio di diritto privato.

[3] In V. Sangiovanni, Contratti di credito ai consumatori ed errata verifica del merito creditizio, in Contratti, 2019, 686, osserva che concedere troppo credito costituisce un rischio non solo per la banca che eroga il credito, ma anche per gli altri creditori. L’A. sostiene la tesi con il seguente esempio: «se il debitore dispone di un reddito netto di euro 1.500, può pagare senza problemi una rata mensile di mutuo immobiliare di euro 500. Tuttavia, se contrae un altro finanziamento che gli impone un’ulteriore rata mensile di euro 500, il suo onere finanziario mensile diventa di euro 1.000 e verosimilmente non sarà in grado di pagare il suo debito complessivo. Il secondo finanziatore ha cagionato un danno non solo a sé stesso, ma anche al primo finanziatore».

[4] A. Mirone, Sistema e sottosistema nella nuova disciplina della trasparenza bancaria, in Banca borsa e tit. cred., 2014, I, 390; contra M. Semeraro – A. Tucci, Il credito ai consumatori, in E. Capobianco (a cura di), Contratti bancari, Milano, 2021, 1853, i quali, infatti, affermano che la nullità non andrebbe a vantaggio del cliente, esponendolo all’obbligo di restituire l’intero capitale e parte degli interessi.

[5] Contra F. Salerno, La violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio: effetti (anche) civilistici, cit., 2018, 10, 1428 ss., il quale osserva che la violazione delle norme di comportamento non incide sulla genesi dell’atto negoziale.

[6] Il riferimento è a M. Orlandi, Introduzione alla logica giuridica, Bologna, 2021, 211, ove si legge: «[è] necessario che alla fattispecie A segua la fattispecie B; non altra, liberamente associabile dall’interprete. Prescindendo dalla lingua delle leggi, all’interprete finisce per riconoscersi la valutazione di «adeguatezza», ossia il potere di destituire gli effetti testuali e sostituendoli con effetti metatestuali».

[7] M. Orlandi, Introduzione, cit., 210.

[8] M. Orlandi, Introduzione, cit., 211.

[9] La necessità di immaginare l’esistenza di una norma “a struttura aperta” emerge nitidamente dalla sentenza resa da CGUE 10 giugno 2021, causa C-303/20, Ultimo Portfolio Investment (Luxembourg) S.A. contro KM, ove si legge: «i giudici devono […] disporre di un potere discrezionale che consenta loro di scegliere, a seconda delle circostanze del caso di specie, la misura proporzionata alla gravità dell’inosservanza dell’obbligo accertato». Sotto questo profilo, un sistema rigido, che annette un unico effetto alla fattispecie della violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio, si pone in insanabile contrasto con la disciplina europea.

[10] Nella pronuncia CGUE 21 aprile 2016, causa C-377/14, cit., si legge che, «secondo l’articolo 23 della direttiva 2008/48, le sanzioni previste in caso di violazione delle disposizioni nazionale adottate a norma di tale direttiva devono essere dissuasive. Orbene, indubbiamente, l’esame d’ufficio da parte dei giudici nazionali del rispetto delle disposizioni derivanti dalla direttiva medesima possiede tale caratteristica». Sul potere-dovere del giudice nazionale di accertare d’ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale in applicazione artt. 6, paragrafo 1, e 7, paragrafo 1, della Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993 v., ex multis, CGUE 21 febbraio 2013, causa C-472/11, Banif Plus Bank Zrt contro Csaba Csipai e Viktória Csipai.

[11] G. Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013, 84 ss.


5. Segue. La nullità del contratto di credito al consumo per contrarietà all’art. 1418, comma 1, c.c.

Il secondo percorso argomentativo resta fedele alla classica distinzione tra regole di condotta e regole di validità.

Nella nota sentenza a Sezioni Unite del 2007, la Corte osserva che «[s]e il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni - se così può dirsi - ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo»[1].

Nel caso in esame, l’art. 124 bis T.U.B. nulla dice sul divieto di concludere il contratto nel caso in cui la verifica del merito creditizio non abbia dato un esito positivo.

L’assenza di una disposizione esplicita non impedisce all’interprete di ricavare dal sistema il divieto di contrarre in capo alla banca[2].

Nel considerando n. 26 della Direttiva 2008/48/CE si osserva che «in un mercato creditizio in espansione, in particolare, è importante che i creditori non concedano prestiti in modo irresponsabile o non emettano crediti senza preliminare valutazione del merito creditizio»; e si precisa che «gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento e dovrebbero determinare i mezzi necessari per sanzionare i creditori qualora ciò si verificasse»[3].

La Corte di Giustizia afferma che i giudici nazionali sono tenuti a interpretare le disposizioni nazionali per quanto possibile alla luce del testo e della finalità della Direttiva 2008/48/CE, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 288, terzo comma, TFUE[4].

Il divieto di contrarre del (potenziale) finanziatore appare necessario proprio per perseguire gli scopi della Direttiva 2008/48/CE [5]. Ragionando diversamente, si dovrebbe immaginare in capo alla banca un mero obbligo di comunicare l’esito della valutazione; e, tuttavia, codesto obbligo di comunicazione non accompagnato da un divieto di contrarre deresponsabilizzerebbe la banca, non garantirebbe una effettiva protezione del consumatore e si porrebbe in aperto conflitto con i criteri di sana e prudente gestione dell’attività bancaria di matrice europea[6].

Si aggiunga che le esigenze di tutela nell’àmbito bancario e in quello finanziario sono diverse. In àmbito bancario, è la banca che eroga il credito e che si accolla dunque il rischio della mancata restituzione: in questo caso occorre responsabilizzare le banche ed evitare il sovraindebitamento dei consumatori. In àmbito finanziario, invece, è il risparmiatore che affida il proprio patrimonio all’intermediario e rischia di perdere il capitale conferito: la tutela si concentra esclusivamente sul consumatore. Orbene, quando presta un servizio di consulenza in materia di investimenti o gestione del portafoglio, un’impresa di investimento o un intermediario non raccomanda né decide di negoziare se nessuno dei servizi o degli strumenti è idoneo per il cliente (art. 54, paragrafo 10 del Regolamento (UE) 2017/565, richiamato dall’art. 40, comma 2, Regolamento Intermediari n. 20307 del 15 febbraio 2018 e ss. mm.).

Sarebbe allora illogico postulare un obbligo di astensione quando occorre proteggere solo il consumare (in ambito finanziario) e negare l’esistenza di quest’obbligo (in ambito bancario) quando l’esigenza di tutela riguarda entrambe le parti contraenti e, più in generale, l’intero sistema bancario.

Seguendo questa linea, il contratto concluso senza (o a seguito di una erronea) verifica del merito creditizio sarebbe nullo non già perché il suo contenuto è contrario ad una norma imperativa, ma per una ragione più radicale: l’esistenza del contratto si pone in conflitto con il divieto di contrarre gravante sulla banca.

La tesi della nullità potrebbe trovare ulteriore conferma ove l’adempimento dell’obbligo di verifica sia considerato un presupposto di validità del contratto concluso dall’intermediario.

«L’intervento dell’ordine pubblico - osserva la dottrina - può manifestarsi in duplice senso: o nell’esigere che gli elementi costitutivi del negozio (forma, contenuto, causa) siano conformati in una data maniera, o nel disporre che il negozio, pur corrispondendone la struttura interna al tipo prestabilito, non sorta il suo effetto, se ad esso non si accompagnino alcune circostanze»[7].

Tra queste circostanze estrinseche al negozio figurano i fatti e gli atti necessari affinché il soggetto possa reputarsi legittimato a concludere i contratti inerenti alla propria attività. Nel caso in esame, lo spazio giuridico autonomo dipende dall’adempimento dell’obbligo di verifica del merito creditizio, il quale parrebbe configurarsi come condizione di negoziabilità.

Emerge, per questa via, il concetto giuridico di legittimazione, il quale trova la propria origine nel campo del diritto processuale ove designa la possibilità per un soggetto di conseguire, mediante la proposizione della domanda, una decisione di merito.

Nel diritto sostanziale la legittimazione diviene presupposto soggettivo-oggettivo del negozio, poiché riguarda il particolare rapporto del soggetto con l’oggetto del negozio[8]. Posizione di competenza del soggetto nei confronti della materia che il negozio è destinato a regolare. Competenza - si precisa - ad ottenere o risentire gli effetti giuridici del regolamento d’interessi avuto di mira.

In questa prospettiva si chiarisce e precisa la sorte dei contratti stipulati tra finanziatore e finanziato. Rompendo il rapporto di competenza tra il soggetto e l’oggetto della fonte negoziale, l’inadempimento dell’obbligo di verifica del merito creditizio si traduce in assenza di un presupposto del negozio: donde la nullità dei contratti stipulati in violazione dell’art. 124-bis TUB.

Se la legge stabilisce che un determinato negozio può essere concluso solo previa verifica (positiva) del merito creditizio, non esiste un potere o una posizione fuori di quella legge. Ne discende - quale logico corollario - che l’inadempimento dell’obbligo di verifica toglie al soggetto la possibilità giuridica di stipulare dati negozi: esso - si potrebbe dire - non tanto lo obbliga a non compierli, quanto lo priva della legittimazione a compierli.

 

[1] Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26725, cit. Su questo passaggio della motivazione, v. in dottrina D. Imbruglia, Regola di adeguatezza e validità del contratto, in Europa dir. priv., 2016, 372, il quale osserva che nel caso di un servizio di risparmio gestito reso in contrasto con l’art. 39, co. VI, reg. CONSOB 16190/2007 («[q]uando gli intermediari che forniscono il servizio di consulenza in materia di investimenti o di gestione di portafogli non ottengono le informazioni di cui al presente articolo si astengono dal prestare i menzionati servizi») «la conseguenza non può che essere quella della nullità del contratto».

[2] In questo senso A.A. Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, 123 ss., il quale muove dal presupposto di un dovere generale di non immettere in circolazione, per l’integrità del mercato, dei prodotti dannosi o inadeguati; contra S. Pagliantini, Statuto dell’informazione e prestito responsabile nella direttiva 17/2014/UE (sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali), in Contr. e imp., 2014, 537 ss. e L. Modica, Concessione "abusiva" di credito ai consumatori, cit., 496 ss.

[3] Da ultimo la CGUE 10 giugno 2021, causa C-303/20, cit., ha chiarito che l’obbligo previsto dall’art. 8 della Direttiva 2008/48/CE «persegue […] l’obiettivo di responsabilizzare il creditore e di evitare che quest’ultimo eroghi un credito a consumatori insolvibili».

[4] CGUE 10 giugno 2021, causa C-303/20, cit..

[5] Non sembrerebbe, tuttavia, orientata in questo senso la CGUE 6 giugno 2019, causa C-58/18, cit., punto 42, ove si legge che la Direttiva 2008/48/CE «non contiene alcuna disposizione relativa al comportamento che il creditore deve adottare in caso di dubbi sul merito creditizio del consumatore» e che tale determinazione rimane perciò «nella competenza degli Stati membri», non rientrando quindi nell’ambito di applicazione di tale direttiva. In una diversa prospettiva si muove CGUE 18 dicembre 2014, n. 2464, causa C-449/13, CA Consumer Finance contro Ingrid Bakkaus e altri, punti 35 e 43.

Nega l’esistenza di un obbligo di astensione il Collegio Milano ABF 31 agosto 2015, n. 6429. I Collegi ABF hanno interpretato la citata norma nel senso che «la valutazione del merito creditizio e la conformità al principio di buona fede non possono essere estesi sino al punto di imporre all’intermediario di valutare, nell’interesse del cliente, la convenienza economica dell’operazione di finanziamento ed, eventualmente, di ammonire quest’ultimo circa l’insostenibilità degli impegni che lo stesso per propria volontà voglia assumere o abbia assunto» (Collegio di Milano, decisione n. 9786/16 del 3 novembre 2016) e hanno rilevato che una responsabilità del finanziatore per l’erogazione di credito irresponsabile può sussistere «soltanto in ipotesi di lapalissiana violazione del dovere di buona fede nella fase di formazione del contratto di finanziamento» (Collegio di Napoli, decisione n. 1067/18 del 16 gennaio 2018). Da ultimo il Collegio di Napoli ha precisato che «[n]el silenzio del legislatore […] l’unica conseguenza astrattamente applicabile alla concessione del credito ad un cliente non meritevole (per omessa o errata valutazione del merito creditizio) è il risarcimento del danno per violazione dei generali principi di correttezza e buona fede, non già l’annullamento del finanziamento concesso, sanzione non applicabile al di fuori dei casi tassativi ex lege» (Collegio di Napoli, decisione n. 9178 del 18 maggio 2020).

L’art. 18, par. 5, lett. a), della Direttiva 2014/17/UE (c.d. Mortgage Credit Directive), in materia di contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali, ha un tenore letterale più preciso. Secondo la norma richiamata gli Stati membri assicurano che «il creditore eroghi il credito al consumatore solo quando i risultati della valutazione del merito creditizio indicano che gli obblighi derivanti dal contratto di credito saranno verosimilmente adempiuti secondo le modalità prescritte dal contratto di credito». Tuttavia, il contratto che fosse comunque perfezionato in violazione dell’obbligo di verifica del merito creditizio non sarebbe – alla luce di quanto dispone l’art. 18, par. 4 della Direttiva 2014/17/UE – per ciò stesso risolvibile, sicché la norma sembrerebbe presupporre la validità del contratto.

[6] L. Albanese, La valutazione sul merito creditizio e l'inadempimento del consumatore nei contratti di credito immobiliare: profili di responsabilità e cortocircuiti normativi, in Resp. civ. e prev., 2019, 6, 2006 ss., mette in guardia dalla semplicistica equazione tra scelta informata e scelta consapevole, la quale rimanda a quel consumatore imprenditore di se stesso, che non collima con il soggetto particolarmente vulnerabile che si vorrebbe tutelare e che costantemente combatte contro il suo analfabetismo finanziario.

[7] E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, rist. 2° ed., Napoli, 2002, 209.

[8] E. Betti, Teoria generale, cit., 221. Non mancano in dottrina rilievi critici di indubbio peso sul concetto di legittimazione: v. F. Carresi, Il contratto, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, XXI, t. 1, Milano, 1987, 143; P. Rescigno, voce Legittimazione (diritto sostanziale), in Noviss. Dig. it., IX, Torino, 1963, 717 ss.; A. di Majo, Legittimazione negli atti giuridici, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 53. Dubita dell’utilità della categoria anche A.M. Palmieri, Transazione e rapporti eterodeterminati, Milano, 1999, 314, il quale segnala come la nozione di legittimazione non sia univoca. L’A. conclude affermando che le varie fattispecie legali rispetto alle quali la dottrina reputa poter trovare applicazione la categoria della legittimazione, si risolvono nella presenza di elementi giuridici o fattuali, positivi o negativi, cui l’ordinamento ricollega la produzione degli effetti. In altri termini, l’espressione legittimazione avrebbe un valore meramente descrittivo, costituendo una formula verbale allusiva destinata ad indicare, di volta in volta, singoli elementi di fattispecie complesse. Ed è proprio la varietà dei singoli presupposti legittimanti ad escludere che la così detta legittimazione possa utilmente offrirsi quale categoria generale ordinante.


6. Sulla seconda questione pregiudiziale: l’eccessiva difficoltà nell’esercizio del diritto.

In ordine alla seconda questione pregiudiziale la Corte di Giustizia rileva che «il principio di effettività osta alla condizione secondo cui la sanzione della nullità del contratto di credito, corredata dall’obbligo di restituzione del capitale, applicabile in caso di violazione, da parte del creditore, dell’obbligo di cui all’articolo 8 della direttiva 2008/48, deve essere sollevata dal consumatore entro un termine di prescrizione triennale».

Eletta e argomentata la tesi della nullità, questo principio non solleva particolari problemi nel nostro ordinamento, poiché l’azione dichiarativa di nullità non è soggetta a prescrizione.

Tuttavia, risulta interessante notare come la Corte di Giustizia pervenga all’enunciazione del principio dopo aver svolto alcune considerazioni di carattere più generale.

I giudici osservano che ogni Stato membro ha il potere di stabilire le modalità procedurali volte a garantire la tutela dei diritti riconosciuti ai singoli dal diritto dell’Unione. Questa sfera autonoma incontra un duplice limite, poiché le modalità procedurali (i) non devono essere «meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza)» e (ii) non devono rendere «in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)»[1].

Il giurista italiano sente l’eco di due norme contenute nel codice civile che ci governa: l’art. 2698 c.c., il quale dispone la nullità dei «patti con i quali è invertito ovvero è modificato l’onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto»[2]; l’art. 2965 c.c., il quale dispone che «[è] nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto».

Le norme in esame costruiscono uno spazio entro il quale le parti sono libere di configurare uno statuto giuridico autonomo dell’onere della prova o della decadenza su diritti disponibili, fino a che l’esercizio del diritto non risulti eccessivamente gravoso.

Questo limite posto all’autonomia negoziale dei privati è nello stesso tempo subìto dal legislatore italiano, il quale – in forza del principio comunitario di effettività – non può introdurre norme che rendano «impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione».

Affiora per questa via un problema di teoria generale: come si deve svolgere il giudizio sulla eccessiva difficoltà?

La difficoltà nell’esercizio del diritto esige una valutazione caso per caso, secondo le circostanze concrete[3]. Codesto soggettivo giudizio implica un’irripetibile e provvisoria concretezza e l’applicazione del prudente apprezzamento equitativo del giudice[4].

In àmbito contrattuale, torna alla memoria l’antica teoria della nullità sospesa, la quale viene spesso evocata per illustrare alcuni istituti giuridici del diritto civile classico (nullità della vendita di cosa futura che non venga ad esistenza; nullità del contratto rimesso all’arbitraria determinazione del terzo, che rimanga inerte)[5]. Tra la nullità sospesa e la nostra ipotesi esiste un elemento di innegabile analogia: un’originaria incertezza circa la validità dell’atto[6].

Riguardata come vincolo (non per i privati ma) per il legislatore, l’eccessiva difficoltà di esercizio del diritto pone un grave problema al giurista.

Il limite al potere normativo (al pari del limite al potere autonomo) sembrerebbe potersi precisare e definire soltanto ex post, mercé la valutazione delle irripetibili circostanze del caso concreto. Resta allora irrisolto il problema di come l’estrema concretezza del giudizio valutativo possa conciliarsi con la necessità, logica prim’ancora che giuridica, del legislatore di dettare norme generali e astratte. I predicati di astrattezza e generalità – osserva la dottrina – indicano «fatti senza nome e senza volto, cioè schemi tipici ripetibili in un numero indefinito di casi»[7]. Senonché la figura anonima descritta dalla norma si sottrae al giudizio sulla eccessiva difficoltà, il quale reclama fatti dal volto netto e collocati in un contesto definito. 

Ancora una volta l’uso di clausole generali e il conferimento al giudice di un ampio potere discrezionale nella selezione del rimedio più adeguato appaiono le uniche strade per uscire dall’impasse.

 

[1] Tra le numerose pronunce che hanno enunciato il principio di effettività v. CGUE 14 marzo 2013, causa C-415/11, Mohamed Aziz contro Caixa d’Estalvis de Catalunya, Tarragona i Manresa (Catalunyacaixa), punto 50 e altresì, analogamente, in CGUE 26 ottobre 2006, causa C-168/05, Elisa María Mostaza Claro contro Centro Móvil Milenium SL, in Foro it., 2007, IV, c. 373; CGUE 6 ottobre 2009, causa C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones SL contro Cristina Rodríguez Nogueira, ivi, 2009, IV, c. 489. Con specifico riferimento alla verifica del merito creditizio, nella causa C-449/13, cit., la CGUE ha precisato che l’osservanza del principio di effettività sarebbe compromessa se l’onere della prova dell’inadempimento degli obblighi di cui agli articoli 5 e 8 della Direttiva 2008/48/CE gravasse sul consumatore, soggiungendo che il finanziatore «deve essere consapevole della necessità di raccogliere e conservare prove dell’esecuzione degli obblighi di informazione e di spiegazione ad esso incombenti». In dottrina su tutti v. G. Vettori, Il diritto ad un rimedio effettivo nel diritto privato europeo, in Persona e mercato, 2017, 15 ss. Per un completo esame della giurisprudenza europea sul principio di effettività v. D. Imbruglia, Effettività della tutela: una casistica, in Persona e mercato, 2016, 87 ss. e Id., Effettività della tutela e ruolo del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 961 ss.

[2] S. Patti, Prove, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, sub artt. 2697-2739, Bologna-Roma, 2015, 280 e 295 ss., colloca l’art. 2698 c.c. nella categoria delle norme «tendenti a non far venire meno il senso di responsabilità di un contraente nei confronti dell’altro» e rileva che la formula dell’art. 2698 c.c., «applicata con sapienza ed equilibrio, può servire ad evitare l’abuso della parte più forte». Da ultimo sul tema v. R. Mazzariol, L’onere della prova nella garanzia per vizi della vendita: il problema irrisolto del riparto probatorio del momento genetico del vizio, in Riv. dir. civ., 2020, 460, il quale osserva come interpretazioni irragionevoli sull’allocazione della prova finiscano con il vanificare l’effettività dei diritti fondamentali di azione e di difesa.

[3] G. Azzariti – G. Scarpello, Della prescrizione e della decadenza, 2a ed., in Comm. c.c. Scialoja-Branca, sub artt. 2934-2969, Bologna-Roma, 1977, 353, affermano che la «determinazione di questo limite, posto all’autonomia contrattuale, non può farsi che caso per caso, avuto riguardo alle circostanze concrete e specialmente alla natura dell’atto da compiere».

[4] In M. Orlandi, Abuso del diritto e teoria della fonte, in V. Velluzzi (a cura di), L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, 2012, 118, si legge la distinzione tra nullità conformative e nullità valutative.

[5] Sulla categoria della nullità sospesa V. Roppo, Il contratto, in Tratt. Dir. Priv. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 749.

[6] M. Orlandi, Abuso del diritto e teoria della fonte, cit., 119.

[7] N. Irti, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, 2.

Fascicolo 6 - 2021