Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Polifunzionalità della responsabilità civile e scostamenti dal danno effettivo: un primo bilancio a tre anni dalle Sezioni Unite sui cc.dd. danni punitivi (di Stefano Gatti)


Questo contributo si propone di offrire un primo bilancio dell’impatto che la pronuncia delle Sezioni Unite del 2017 sui punitive damages (Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601) ha avuto sulla riflessione relativa ad alcune questioni di primario rilievo nella disciplina interna della responsabilità civile. Vengono prese in esame, segnatamente, l’importante risistemazione giurisprudenziale che la regola della compensatio lucri cum damno ha conosciuto nel 2018 (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n. 2; Cass., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12564-12567) e l’evoluzione del dibattito intorno alla risarcibilità del c.d. danno in re ipsa, con riguardo, in particolare, all’occupazione sine titulo di un bene immobile (Cass., 25 maggio 2018, n. 13071). Questi esempi dimostrano che, nonostante la sentenza delle Sezioni Unite del 2017 non abbia un contenuto propriamente innovativo con riguardo al diritto interno della responsabilità civile, essa ha contribuito in misura rilevante all’evoluzione di questo ambito del diritto privato. L’influenza della riaffermata polifunzionalità dell’istituto sulla soluzione di questioni aperte, nella misura in cui ha reso più consapevoli gli interpreti delle potenzialità e dei limiti dello strumento risarcitorio, è peraltro apprezzabile anche in alcune recenti pronunce, che pure non fanno cenno, nella loro motivazione, a Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601.

Multi-functionality of civil liability and deviations from actual damage: a first evaluation three years after the Sezioni Unite ruling on punitive damages

This paper aims to give a first evaluation of the impact which the 2017 Sezioni Unite ruling on punitive damages (Cass., Sez. Un., 5.07.2017, No. 16601) has had on the discussion concerning some crucial issues on civil liability in domestic law. Two exemplary fields will be considered: a) the compensatio lucri cum damno rule, whose functioning has been significantly revisited by Italian Courts (Cons. Stato, Ad. Plen., 23.02.2018, No. 2; Cass., Sez. Un., 22.05.2018, No. 12564-12567) and b) the recoverability of the so-called in re ipsa damage, especially with regard to illegal occupation of an immovable property (Cass., 25.05.2018, No. 13071). These examples show that, although the 2017 Sezioni Unite ruling lacks innovation regarding domestic civil liability, it has contributed significantly to the evolution of this field of private law. The influence of the restated multi-functionality of civil liability on the solution of open questions, insofar as it has made interpreters more aware of the potentialities and limits of damages assessment, is moreover appreciable also in some recent cases, even if they do not directly mention the 2017 Sezioni Unite precedent in their reasoning

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Stefano Gatti - Polifunzionalità della responsabilità civile e scostamenti dal danno effettivo: un primo bilancio a tre anni dalle Sezioni Unite sui cc.dd. danni punitivi

SOMMARIO:

1. Premessa. - 2. L’influenza della ribadita polifunzionalità della responsabilità civile sulla regola della compensatio lucri cum damno. - 3. L’impatto della intermediazione legislativa, quale presupposto della sovracompensazione, sulla teoria del danno in re ipsa. - 4. Osservazioni conclusive: l’influenza sotterranea della polifunzionalità e il confine normativo.


1. Premessa.

A tre anni dalla pubblicazione della nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sui cc.dd. danni punitivi[1], è possibile tracciare un primo bilancio dell’impatto di questa pronuncia sulla responsabilità civile italiana.

Lo scopo non è certamente quello di mettere in discussione la vocazione genuinamente internazionalprivatistica di questo arresto[2], chiamato a dirimere la questione della riconoscibilità nell’ordinamento italiano di sentenze straniere che contemplino condanne a punitive damages, quanto piuttosto quello di verificare se le affermazioni contenute nella motivazione della decisione abbiano avuto una qualche influenza sul modo di ragionare dei giudici nei rapporti meramente interni.

Ai fini di questa indagine, sono di particolare interesse tre passaggi del ragionamento, sviluppato nel diritto civile italiano, da cui le Sezioni Unite hanno preso le mosse per verificare la compatibilità con l’ordine pubblico dei punitive damages:

  1. i) la responsabilità civile non ha unicamente una funzione compensativa, ma persegue anche altri scopi, tra i quali spiccano quello deterrente e, in determinati casi, quello sanzionatorio-punitivo;
  2. ii) la c.d. polifunzionalità della responsabilità civile trova conferma in una serie di ipotesi previste dalla legge, in virtù delle quali, in conseguenza del fatto illecito, viene riconosciuto al danneggiato il diritto ad un risarcimento ultracompensativo;

iii) ciò, tuttavia, non implica che l’istituto «abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati».

Da queste affermazioni, per un verso, può trarre sostegno l’idea della valicabilità dei confini posti dal principio del danno effettivo nella determinazione del risarcimento[3], alla luce di istanze diverse dalla pura compensazione; per altro verso, emerge altresì chiaramente che un simile sforamento impone una precisa scelta da parte del legislatore, in mancanza della quale rimane precluso ai giudici accordare risarcimenti che eccedano la compensazione integrale[4].

Ad avviso della S.C., la necessità di una “intermediazione legislativa” trova il proprio fondamento nel «principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario».

Non rientra nelle finalità di questo scritto esaminare criticamente il percorso logico-giuridico seguito dalle Sezioni Unite per giungere alle affermazioni sopra riassunte. Appare utile piuttosto chiedersi, sul lato pratico, in quale misura esse costituiscano altrettante novità rispetto al panorama conosciuto.

In proposito, non può dirsi certamente “nuovo” il superamento della prospettiva monofunzionale della responsabilità civile, perlomeno a favore di una concorrente funzione deterrente, che si affiancherebbe a quella compensativa[5]: un’estensione, questa, che è riconosciuta peraltro anche da coloro che rinvengono nel limite compensativo una condizione di esistenza del risarcimento del danno[6]. Diversamente, l’idea che la prestazione “risarcitoria” possa caricarsi di una funzione autenticamente “punitiva” – e ciò anche al di là dei confini del danno effettivo – può assumere un certo peso nel mai sopito dibattito sulla natura dell’ampio novero delle prestazioni ultracompensative previste dalla legge[7]. In ogni caso, l’eventuale portata innovativa che si voglia cogliere sul piano dell’individuazione e della quantificazione del danno risarcibile è pur sempre condizionata alla sussistenza di una “intermediazione legislativa”[8], in assenza della quale i termini del discorso rimangono sostanzialmente immutati.

Sulla scorta di questo ragionamento, la conclusione cui si può giungere è che, in relazione alle obbligazioni nascenti da fattispecie di responsabilità aquiliana o contrattuale regolate dalle norme generali, la pronuncia delle Sezioni Unite non sembra avere prodotto, almeno direttamente, alcuna variazione rispetto al quadro preesistente[9].

Eppure, l’autorevole e recente riaffermazione dei cardini, da un lato, della polifunzionalità della responsabilità civile e, dall’altro lato, del necessario avallo legislativo perché il “risarcimento” (al netto delle questioni interpretative che si pongono) possa eccedere l’integrale compensazione del pregiudizio ha avuto un’influenza tangibile nella revisione degli orientamenti giurisprudenziali in merito ad alcune dibattute questioni di ordine generale in tema di responsabilità civile.

Due casi emblematici, di cui i paragrafi successivi propongono una breve analisi, sono quelli della compensatio lucri cum damno e del c.d. danno in re ipsa.

Ed è proprio rispetto a questi casi, più che in ampi termini generali, che sembra possibile apprezzare l’effettiva influenza della pronuncia delle Sezioni Unite del 2017 sul sistema della responsabilità civile, per così dire, interno.

 

[1] Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, ex multis in Giur. it., 2017, p. 1787, con nota di A. Di Majo, Principio di legalità e proporzionalità nel risarcimento con funzione punitiva.

[2] Lo ricorda, tra gli altri, G. Ponzanelli, Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato, in Danno resp., 2017, p. 436 s.

[3] Alla luce del quale, come è noto, il risarcimento deve limitarsi a rimuovere le conseguenze negative dell’inadempimento o dell’illecito: v. C.M. Bianca, Diritto civile, 5 La responsabilità, Milano, 2012, 2° ed., p. 140. Secondo diverse voci in dottrina, nell’espressione “risarcimento punitivo” si anniderebbe una insanabile contraddizione: v. C. Castronovo, Il risarcimento punitivo che risarcimento non è, in P. Cerami, M. Serio (a cura di), Scritti di comparazione e storia giuridica. Atti dei seminari del Dottorato di Diritto Comparato dell’Università di Palermo, Torino, 2011, p. 102, per il quale (ivi, p. 108) l’obbligazione “risarcitoria” non trova giustificazione oltre al limite dell’integrale compensazione, tramutandosi, nella misura in cui lo ecceda, in un indebito arricchimento del danneggiato; A. Montanari, Del risarcimento punitivo ovvero dell’ossimoro, in Europa e dir. priv., 2019, p. 377 ss.

[4] La valutazione equitativa di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. (equità integrativa: v., per tutti, E. Grasso, voce «Equità (giudizio)», in Dig. disc. priv. Sez. civ., VII, Torino, 1991, p. 477) rimane allora focalizzata sull’accertamento del pregiudizio effettivo e concreto. Invero, in dottrina, non mancano opinioni diverse. Secondo P.G. Monateri, Le fonti delle obbligazioni, 3, La Responsabilità civile, in Trattato di Diritto Civile diretto da R. Sacco, Torino, 1998, p. 333 ss., in virtù del «doppio rimando all’equità» di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. (in particolare, sul ruolo dell’«apprezzamento delle circostanze del caso» cui fa riferimento quest’ultimo articolo, il quale assumerebbe un significato ulteriore rispetto alla valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ., v. Id., La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle Sezioni Unite, in Danno resp., 2016, p. 835), sarebbe consentito al giudice tenere conto, nella quantificazione del risarcimento, di elementi della fattispecie diversi dal danno concreto, quali l’intensità del dolo o il grado della colpa, la gravità dell’offesa e l’arricchimento illegittimamente ottenuto dal danneggiante. Se questa tesi è rimasta sostanzialmente isolata, maggiore seguito ha avuto invece l’idea della valenza afflittiva del danno non patrimoniale, con ciò che ne deriva sul piano della quantificazione del relativo risarcimento, il quale diverrebbe sensibile alla riprovevolezza della condotta del danneggiante oltre che all’entità delle conseguenze effettivamente prodotte dall’offesa. Un’impostazione rinviene nell’art. 2059 cod. civ. una norma di sistema parallela all’art. 2043 cod. civ., la quale, a differenza di quella contenuta in quest’ultimo articolo, non mirerebbe a ristorare i pregiudizi concreti sulla base di un giudizio di riferibilità soggettiva minima della condotta, ma punterebbe a sanzionare la violazione di un diritto inviolabile della persona in prospettiva punitiva e deterrente: v. F. Quarta, da ultimo in Effettività dei diritti fondamentali e funzione deterrente della responsabilità civile, in Danno resp., 2019, p. 93 ss.; per l’idea di una «autentica ratio di “sanzione afflittiva”» dell’art. 2059 cod. civ., v. altresì F.D. Busnelli, Tanto tuonò, che… non piovve. Le Sezioni Unite sigillano il “sistema”, in Corr. giur., 2015, p. 1211 ss. e specie p. 1214, che evidenzia «l’intima diversità dei danni non patrimoniali specificamente riconducibili» a tale sanzione «rispetto ai danni, patrimoniali o non patrimoniali, risarcibili ai sensi della regola generale dell’art. 2043». Alla luce della chiusura delle Sezioni Unite ai risarcimenti ultracompensativi che non trovino copertura legislativa, ci si può chiedere se possano fungere come tale proprio le norme appena citate: di questa opinione sono, quanto all’art. 2056 cod. civ., P.G. Monateri, Le Sezioni Unite e le funzioni della responsabilità civile, in Danno resp., 2017, p. 438 e, quanto all’art. 2059 cod. civ. («nel suo combinato con gli articoli 2056 e 1226»), A.M. Benedetti, Funzione sanzionatoria e compensazione. Troppe pagine per un falso problema, in C. Cicero (a cura di), I danni punitivi, Napoli, 2019, p. 34 s., il quale evidenzia (ivi, p. 29 ss.) la latitudine già acquisita dal risarcimento del danno non patrimoniale ultracompensativo nella realtà giurisprudenziale. Secondo M. Sesta, Risarcimenti punitivi e legalità costituzionale, in Riv. dir. civ., 2018, p. 310, se è vero che nell’art. 2059 cod. civ. è effettivamente riscontrabile la traccia di una funzione punitiva della responsabilità civile, la disposizione in parola si limita però a ribadire (senza integrarla) la riserva di legge in relazione a presupposti e conseguenze della sanzione punitiva. In proposito, si è fatta strada altresì l’idea che il necessario «ancoraggio normativo» postulato dai principi costituzionali richiederebbe, più che una esplicita previsione legislativa, il «richiamo a criteri e/o linee – guida, presenti nello stesso armamentario della responsabilità civile e che consentano di orientare la misura risarcitoria con valenza punitiva»: così A. Di Majo, op. cit., p. 1794 s. Con le parole di C. Scognamiglio, Le Sezioni Unite e i danni punitivi: tra legge e giudizio, in Resp. civ. prev., 2017, p. 1122, «non si tratta, certo, di dare spazio ad un soggettivismo giudiziario incontrollato (…); si tratta invece, di consentire al giudice – in presenza di un dato normativo, qual è l’art. 2059 c.c., che, tipicamente, e pure in presenza di un pregiudizio irriducibile ad una valutazione pecuniaria, prevede la possibilità di adottare una pronuncia di condanna del responsabile al pagamento di una somma di danaro – di modulare la condanna stessa facendo sì che essa sia davvero effettiva, sia pure sulla base di un rigoroso percorso motivazionale che renda la sua decisione, certo non calcolabile, ma comunque ragionevolmente prevedibile».

[5] Lo rileva tra gli altri A.M. Benedetti, op. cit., p. 21.

[6] Nella prospettiva più fedele al principio del danno effettivo, C.M. Bianca, Qualche necessaria parola di commento all’ultima sentenza in tema di danni punitivi, in Giustiziacivile.com, editoriale del 31 gennaio 2018, rammenta che il risarcimento, comportando un impoverimento del soggetto responsabile, ha certamente un effetto deterrente. La responsabilità civile potrebbe altresì assolvere ad una funzione lato sensu sanzionatoria, innescando una conseguenza negativa in reazione ad un fatto antigiuridico, ma le sarebbe certamente estranea una funzione punitiva, la quale, peraltro, appare all’Autore in contraddizione con il percorso evolutivo dell’istituto sino all’età contemporanea, dove lo sviluppo dell’attività di impresa e la massificazione dei danni hanno piuttosto indotto la proliferazione di fattispecie di responsabilità oggettiva.

[7] Così la motivazione di Cass., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, cit.: «Non è qui il caso di esaminare le singole ipotesi per dirimere il contrasto tra chi vuol sottrarre ad ogni abbraccio con la responsabilità civile e chi ne trae, come le Sezioni Unite ritengono, il complessivo segno della molteplicità di funzioni che contraddistinguono il problematico istituto». Il tema è complesso e non può essere qui neppure accennato, poiché non può evidentemente prescindere da un esame specifico di ciascuna prestazione ultracompensativa. Al solo fine di dare un’indicazione di massima al lettore, si osserva che autorevole dottrina ha ribadito che, nella misura in cui ecceda la riparazione integrale, la prestazione non può dirsi “risarcitoria”, ma semmai oggetto di una “sanzione civile”: così C.M. Bianca, Qualche necessaria parola di commento, cit. Peraltro, come osserva M. Tescaro, Le variazioni qualitative e quantitative del danno risarcibile, in Danno resp., 2018, p. 542 s., in sostanziale adesione a M. Franzoni, Danno punitivo e ordine pubblico, in Riv. dir. civ., 2018, p. 294 e 297 s., anche volendo mantenere l’etichetta risarcitoria, la fattispecie rimarrebbe comunque da confinarsi nell’eccezionalità. Sul tema, v. ora l’ampio studio di C. De Menech, Le prestazioni pecuniarie sanzionatorie. Studio per una teoria dei «danni punitivi», Milano, 2019.

[8] Cfr. già G. Ponzanelli, Novità sui danni esemplari?, in Contr. impresa, 2015, p. 1204: «è sul legislatore, quindi, che ricade il compito di introdurre misure risarcitorie le quali, più o meno decisamente, si distacchino dal modulo riparatorio».

[9] A questa conclusione giunge M. Tescaro, op. cit., p. 538 ss. In effetti, la dottrina che, seguendo i diversi percorsi sopra accennati (v. supra, nota 4), aveva già ritenuto ammissibile, in alcuni casi, un risarcimento ultracompensativo ha visto nella pronuncia delle Sezioni Unite il consolidamento di un punto fermo piuttosto che l’affermazione di un principio rivoluzionario.


2. L’influenza della ribadita polifunzionalità della responsabilità civile sulla regola della compensatio lucri cum damno.

Poco meno di un anno dopo la pronuncia sui danni punitivi, le Sezioni Unite hanno impresso una significativa evoluzione nell’applicazione della c.d. compensatio lucri cum damno, la quale, agli scopi di questa indagine, appare particolarmente interessante: è noto, infatti, che il principio che questa “regola” di quantificazione del danno esprime – il danneggiato non può arricchirsi per effetto del risarcimento – è diretta emanazione del principio del danno effettivo[1]. Le quattro pronunce succedutesi in questa materia nello stesso giorno (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12564-12567)[2], si sono sì specificamente occupate, ciascuna, della fattispecie di volta in volta al vaglio nel singolo procedimento, in tal modo rinunciando a fornire una risposta unitaria all’ampio quesito teorico formulato dalle ordinanze di rimessione[3]; nondimeno, con tutta evidenza esse hanno seguito, per giungere alla soluzione nel singolo caso, un sentiero logico comune, che si pone in ideale continuità con il ragionamento sviluppato, solo qualche mese prima, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n. 2[4]). Tale sentiero, allora, finisce inevitabilmente per costituire il tracciato grazie al quale verificare se il vantaggio conseguito dal danneggiato “in conseguenza” del fatto illecito debba o meno essere scomputato dal risarcimento[5].

Per brevità, i termini essenziali del dibattito sul quale sono intervenute le menzionate pronunce possono essere così sintetizzati: per la tesi tradizionale, perché il vantaggio venga diffalcato dal risarcimento, occorre che esso discenda “in maniera immediata e diretta” dall’illecito[6], con la conseguenza che non si potrebbe tenere conto di quei benefici che abbiano un titolo diverso ed indipendente da quest’ultimo[7]. Ad una posizione così rigida, che, come si può intuire, ridimensiona notevolmente lo spazio di operatività pratica della compensatio lucri cum damno[8], si contrappone la profonda rivisitazione proposta da alcune pronunce della terza sezione della Suprema Corte negli anni 2014-2016[9]. Il punto su cui insiste il più recente orientamento è che non si tratta di definire i presupposti di un istituto dotato di una propria autonomia, ma, semplicemente, di applicare correttamente l’art. 1223 cod. civ. nella quantificazione del danno. Questa norma, che, come è noto, delimita i confini del danno risarcibile sulla scorta della c.d. causalità giuridica, non si riferirebbe esclusivamente ai pregiudizi ma riguarderebbe anche i vantaggi che abbiano, in concreto, l’effetto di mitigarli. Conseguentemente, quando si valuti se il nesso tra vantaggio ed evento dannoso giustifichi lo scomputo del primo dal risarcimento del danno, occorre ragionare secondo lo stesso parametro causale che si adopera per accertare che il pregiudizio lamentato sia “conseguenza” dell’illecito[10].

In base a questa impostazione, si supera dunque l’idea dell’irrilevanza, ai fini del calcolo del risarcimento, del beneficio percepito dal danneggiato che abbia un titolo formalmente autonomo (ad esempio l’assicurazione contro i danni). Proprio le ipotesi in cui il “lucro” consista in una prestazione effettuata dallo stesso danneggiante o da un terzo in adempimento di un obbligo (contrattuale o legale) diverso da quello risarcitorio hanno rappresentato il punto di maggiore tensione: le pronunce delle Sezioni Unite e dell’Adunanza plenaria riguardano infatti queste ipotesi. Le soluzioni offerte, pur superando la tradizionale lettura restrittiva basata sulla necessità di una “derivazione immediata e diretta” dall’illecito e accogliendo la proposta lettura “simmetrica” dell’art. 1223 cod. civ. per pregiudizi e vantaggi, non si riducono alla semplice applicazione di un test eziologico. Alla valutazione di riconducibilità “causale” del vantaggio all’illecito è affiancata l’indagine della specifica funzione che il beneficio in questione concretamente persegue. Vengono considerati rilevanti infatti solamente quei vantaggi che, al di là del titolo formale da cui discendono, hanno la finalità di compensare lo stesso pregiudizio oggetto della pretesa risarcitoria[11].

Se la prestazione è dovuta dallo stesso soggetto danneggiante e non si rinvengono indicazioni diverse dalla disciplina che regola il beneficio in questione – si tratta del caso esaminato dall’Adunanza plenaria –, non si pongono ulteriori questioni: essa andrà diffalcata dal risarcimento. Quando, però, debitore della prestazione nella quale consiste il beneficio sia un soggetto diverso – categoria nella quale rientrano le quattro fattispecie di cui si sono occupate specificamente le Sezioni Unite –, il vantaggio può essere scomputato solo qualora la legge abbia previsto un meccanismo (surroga, rivalsa o altro equivalente) che consenta al terzo che lo ha erogato di recuperarlo dal danneggiante[12].

Nell’elaborazione di questo schema, sia l’Adunanza Plenaria sia le Sezioni Unite hanno ragionato, pur da prospettive diverse, sulle funzioni della responsabilità civile, richiamando entrambe l’arresto n. 16601/2017.

 Nel caso esaminato dal giudice amministrativo, poiché l’indagine funzionale del beneficio ha consentito di concludere che l’indennità nella specie dovuta (ex art. 68 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ratione temporis vigente) ha natura sostanzialmente compensativa e che il bene giuridico da questa tutelato (nella specie l’integrità psico-fisica del lavoratore) coincide con quello per il quale il danneggiato aveva domandato allo stesso soggetto (nella specie, il Ministero della Giustizia) il risarcimento (ex art. 2087 cod. civ.), si è concluso che «il riconoscimento del cumulo implicherebbe l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva». Secondo l’Adunanza plenaria, infatti, attesa l’unitaria funzione delle due prestazioni, il loro cumulo assegnerebbe al risarcimento del danno una dimensione sovracompensativa in chiave sanzionatoria: tale risultato, però, non può essere tollerato in assenza di una espressa previsione legislativa che lo consenta.

Diversa è l’ottica con la quale le Sezioni Unite richiamano i principi (ri)affermati dalla sent. n. 16601/2017. Nei casi trattati dai giudici di legittimità, si innesta la problematica della differente struttura soggettiva dei rapporti rilevanti: il danneggiante, infatti, non coincide con l’obbligato alla prestazione ulteriore di cui il danneggiato diviene creditore “in conseguenza” dell’illecito. Come si è anticipato, l’operatività della regola della compensatio rispetto ad un emolumento “compensativo” del terzo è qui subordinata alla previsione di un meccanismo che permetta allo stesso di riavere dal danneggiante quanto versato al danneggiato. Seguendo il ragionamento della Suprema Corte, quando tale previsione difetti, potrà darsi il cumulo tra beneficio ed integrale risarcimento. Questo perché l’effetto collaterale della sovracompensazione del danneggiato è giudicato comunque preferibile rispetto all’alleggerimento di responsabilità di cui si gioverebbe il responsabile se la prestazione del terzo fosse scomputata e il risparmio di spesa così ottenuto rimanesse definitivamente nella sua disponibilità. Ad avviso delle Sezioni Unite, l’esito di questo bilanciamento è derivato della «poliedricità delle funzioni della responsabilità civile», come consacrata dalla pronuncia n. 16601/2017[13].

Per quanto si tratti del frutto di una valutazione comparativa tra due effetti “indesiderati”[14], anche questa ultracompensazione, per rimanere nel solco dei principi affermati da quest’ultima sentenza, deve trovare un appiglio legislativo.

Decisiva appare allora l’osservazione della S.C. secondo la quale «stabilire quando accompagnare la scelta del beneficio con l’introduzione di tale meccanismo di surrogazione o di rivalsa (…) è una scelta che spetta al legislatore». Se, infatti, il legislatore decide di non prevederlo, significa che ha inteso tenere separati i due rapporti obbligatori e rendere così il risarcimento insensibile alla prestazione erogata dal terzo, per quanto essa, per scopo o risultato, concorra a ristorare lo stesso pregiudizio “coperto” dal risarcimento.

In base a questa lettura[15], allora, l’ultracompensazione sarebbe frutto sì di una scelta “politica” – favorire il danneggiato anziché il danneggiante – ma il responsabile di questa scelta sarebbe pur sempre il legislatore, con ciò potendosi ritenere sostanzialmente soddisfatto il presupposto della “intermediazione legislativa”[16].

 

[1] Per tutti C.M. Bianca, Diritto civile, 5 La responsabilità, cit., p. 168; C. Salvi, La responsabilità civile, in G. Iudica, P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 2019, 3° ed., p. 261.

[2] Pubblicate ex aliis in Foro it., 2018, I, c. 1901, con nt. di R. Pardolesi, «Compensatio», cumulo e «second best».

[3] Cass. ord. 22 giugno 2017, nn. 15534-15537.

[4] Pubblicata ex aliis in Corr. giur., 2018, p. 517, con nt. di E. Bellisario, Divieto di cumulo fra equo indennizzo e risarcimento del danno.

[5] Hanno seguito il percorso lumeggiato dalle Sezioni Unite per risolvere i differenti casi al loro esame, tra le altre, Cass. 19 febbraio 2019, n. 4734; Cass. 27 maggio 2019, n. 14362; Cass. 5 luglio 2019, n. 18050.

[6] Cfr., ad es., Cass. 12 settembre 2008, n. 23563; Cass. 2 marzo 2010, n. 4950.

[7] Ad es., Cass. 15 aprile 1993, n. 4475; Cass. 28 luglio 2005, n. 15822; Cass. 20 maggio 2013, n. 12248.

[8] Lo osservano tra gli altri, P. Gallo, Compensatio lucri cum damno e benefici collaterali. Parte seconda: applicazioni e confini, in Riv. dir. civ., 2018, p. 1141; G. Giusti, voce «Compensatio lucri cum damno», in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2011, p. 202 ss.

[9] Cass. 11 giugno 2014, n. 13233; Cass. 13 giugno 2014, n. 13537 e Cass., 20 aprile 2016, n. 7774. Si tratta dell’orientamento accolto e suggerito alle Sezioni Unite dalle ordinanze del 2017 (v. nota 12).

[10] Secondo le citate pronunce, occorrerebbe dunque interpretare “simmetricamente” l’art. 1223 cod. civ.: come la giurisprudenza ha ricondotto al novero delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili anche quelle mediate ed indirette che, sulla base del criterio della regolarità causale, possono essere considerate effetti normali dell’illecito (per tutte, Cass. 21 dicembre 2001, n. 16163), analogamente si deve ragionare con riguardo ai vantaggi di cui il danneggiato abbia beneficiato.

[11] In dottrina, sulla centralità della funzione, v. già C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 309 ss.; G. De Nova, Intorno alla compensatio lucri cum damno, in Jus civile, 2018, p. 58; cfr. altresì E. Bellisario, Il problema della compensatio lucri cum damno, Padova, 2018, p. 144; U. Izzo, La «giustizia» del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Napoli, 2018, p. 380 ss.

[12] Scettico sul rilievo del meccanismo di recupero U. Izzo, Quando è «giusto» il beneficio non si scomputa dal risarcimento del danno, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, p. 1519 s., secondo cui decisiva è unicamente l’analisi della funzione del beneficio, rispetto alla quale la previsione legislativa della surroga o della rivalsa ha valore solo indiziario.

[13] Sono critici rispetto all’utilità del richiamo alla pronuncia sui danni punitivi M. Franzoni, La compensatio lucri cum damno nel III millennio, in Danno resp., 2019, 11 e E. Bellisario, Compensatio lucri cum damno: il responso delle Sezioni Unite, in Danno resp., 2018, p. 447. V. pure C. Salvi, op. cit., p. 262, secondo cui il criterio della previsione di un meccanismo di surroga o rivalsa «non ha alcun legame con la logica dell’istituto», né sarebbe «soddisfacente l’argomento su cui la Cassazione lo fonda (“la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile”)», che, ad avviso dello stesso A., «sembra diventato un passepartout per originali interpretazioni dei giudici». Mette in rilievo il legame tra compensatio e funzioni della responsabilità civile C. Scognamiglio, Le Sezioni Unite e la compensatio lucri cum damno: un altro tassello nella costruzione del sistema della responsabilità civile e delle sue funzioni, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, p. 1492 ss.

[14] Secondo E. Bellisario, Compensatio lucri cum damno: punti fermi e persistenti questioni aperte, in Danno resp., 2019, p. 734 ss., invero, il problema dell’alleggerimento della responsabilità del danneggiante, che conseguirebbe all’operatività della compensatio a fronte di un vantaggio erogato dal terzo con funzione sostanzialmente risarcitoria, per non essere questo associato ad uno specifico meccanismo recuperatorio, può trovare diversa soluzione: si potrebbe infatti prospettare il ricorso a due rimedi di ordine generale alternativi, l’arricchimento senza causa (avendo già chiarito la giurisprudenza che il principio che esclude l’esperibilità dell’azione nelle ipotesi di arricchimento indiretto, quale quello che originerebbe in capo al danneggiante per effetto della compensatio, ammette alcune eccezioni) e la surrogazione legale che valorizzi un’interpretazione estensiva dell’art. 1203,  n. 3) cod. civ.

[15] Si è osservato che questo modo di ragionare lascia aperto il problema “funzionale” nell’ipotesi in cui la surroga, pur legislativamente prevista, non sia concretamente esercitata: in questo caso, infatti, lo scomputo opera e il danneggiante si avvantaggia definitivamente del risparmio così ottenuto (cfr. C. Scognamiglio, ult. op. cit., p. 1498, che ipotizza l’opportunità dell’introduzione, da parte del legislatore, di uno strumento volto a prelevare, a beneficio dell’Erario, l’arricchimento del responsabile, sulla scorta del modello dell’amende civile proposta nel progetto di riforma del code civil francese). Sin dai primi commenti (ad es., R. Pardolesi-P. Santoro, Sul nuovo corso della compensatio, in Danno resp., 2018, p. 427 ss.) si è posta poi la questione dell’impatto delle pronunce delle Sezioni Unite sulla prassi delle compagnie assicurative di prevedere, specie nelle polizze infortuni, clausole di rinuncia alla surroga a vantaggio del danneggiato assicurato, al fine di consentirgli di cumulare indennizzo e risarcimento. Di fronte al silenzio dei giudici sul punto, si sono prospettate, in dottrina, soluzioni eterogenee. Se si accoglie l’idea della centralità della surroga quale strumento «di interesse generale volto a garantire i corretti i disincentivi dell’attività illecita» e, ad un tempo, «il principio indennitario viene inteso in senso rigoroso», si può opinare nel senso dell’inderogabilità dell’art. 1916 cod. civ., con la conseguenza di un sicuro impatto delle pronunce in esame sull’autonomia privata (G. Villa, Brevi annotazioni al confine tra compensatio e autonomia privata, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, p. 1502). Argomentando dall’idea che lo scomputo non possa tradursi in una mitigazione della posizione del responsabile, si è diversamente sostenuto che «in presenza di una pattuizione rivolta escludere la surroga, il cumulo tra indennizzo e risarcimento debba essere comunque garantito, posto che viene a mancare in radice lo snodo essenziale a garantire l’applicazione del meccanismo della compensatio» (P. Ziviz, Il rapporto tra indennità da polizza infortuni e risarcimento del danno non patrimoniale alla persona, in A. Venchiarutti [a cura di], La compensatio lucri cum damno. Orientamenti italiani e europei a confronto, Pisa, 2020, p. 66 s.). Se invece si ritiene che la prassi in esame non abbia alcuna incidenza sull’operatività della compensatio, giudicandosi sufficiente in proposito la mera previsione legislativa della surroga, le clausole in questione, pur valide, risulterebbero comunque inutili per il danneggiato, il quale non potrebbe comunque beneficiare del cumulo (E. Bellisario, op. cit., p. 443).  Da altro punto di vista, tenuto conto delle peculiarità, sotto il profilo causale, delle polizze infortuni (contratti che storicamente oscillano tra l’assicurazione contro i danni e l’assicurazione sulla vita: v., per alcune indicazioni, L. Locatelli, La polizza contro gli infortuni non mortali: un contratto a causa variabile?, in Resp. civ. prev., 2019, p. 335 ss.; F. Sartori, Appunti sulle assicurazioni infortuni: funzione indennitaria e vantaggi compensativi, ivi, p. 813 ss.), ci si è chiesti se la rinuncia alla surroga non incida piuttosto sulla causa contrattuale, attraendo il negozio in questione «dal ramo danni (…) ad una forma intermedia nella quale non è escluso l’aspetto previdenziale», con la conseguenza che «la disciplina applicabile si debba discostare da quelle regole del principio indennitario che si rendono incompatibili» (così M. Franzoni, op. cit., p. 13 s.; cfr. anche L. La Battaglia, La compensatio lucri cum damno al vaglio delle Sezioni Unite, in Giur. comm., 2020, II p. 341 s.). In proposito, però, la tesi di Cass. 11 giugno 2014, n. 13233 – sulla quale cui, per alcune osservazioni critiche, M. Hazan, Risarcimento e indennizzo (nelle polizze infortuni): cumulo o scorporo?, in Danno resp., 2014, p. 917) –, secondo cui l’assicurazione contro gli infortuni non mortali, in quanto assicurazione contro i danni, soggiace inderogabilmente al principio indennitario (principio di ordine pubblico), e il danneggiato non può beneficiare della rinuncia alla surroga (che dunque «giova solo al responsabile civile»), è stata ribadita da Cass. ord. 27 maggio 2019, n. 14358, che ha confermato l’operatività della regola dello scomputo.

[16] Secondo G. Mattarella, Compensatio lucri cum damno e tipicità dei danni punitivi: una prospettiva critica, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, p. 591, il criterio della previsione di un meccanismo di surroga o simile finirebbe per introdurre surrettiziamente danni punitivi atipici, in contrasto con le affermazioni delle Sezioni Unite del 2017. Opererebbe, infatti, «una sorta di tipicità alla rovescia», perché solo nelle ipotesi predeterminate in cui operi detto meccanismo verrebbe rispettato il principio di indifferenza; negli altri casi, il risarcimento assumerebbe contorni punitivi, eccedendo la pura compensazione. Invero, a fronte di una indiscutibile ultracompensazione, nelle ipotesi in esame, il passaggio normativo “indiretto”, illustrato nel testo, sembra sufficiente: se, nel complesso, il danneggiato ottiene più di quanto basta a porre rimedio al pregiudizio subito, ciò non dipende da un modo di quantificare il danno che, in deroga ai principi generali, si ispiri a determinati fini (come la deterrenza o la punizione) ulteriori alla compensazione, quanto piuttosto dalla scelta del legislatore di non mettere in diretta correlazione il risarcimento del danno con la prestazione indennitaria, che rimane dal primo autonoma. In nessun caso, infatti, l’arricchimento del danneggiato comporta, in capo al danneggiante, un obbligo risarcitorio più gravoso del pregiudizio causato: l’esborso a cui quest’ultimo è tenuto non è infatti maggiore di quello che avrebbe avuto luogo qualora il terzo avesse avuto a disposizione (e sfruttato) la possibilità di recuperare l’emolumento e avesse quindi operato la regola dello scomputo. In definitiva, l’ultracompensazione del danneggiato è il portato di una comparazione di interessi che, sia pure porti in concreto a favorire quest’ultimo a scapito del danneggiante (di cui si vuole evitare un ingiustificato alleggerimento di responsabilità), non è animata da una finalità punitiva (la quale invece richiederebbe una intermediazione legislativa “diretta”): cfr. E Vincenti, Le Sezioni Unite civili sulla compensatio lucri cum damno: le quattro sentenze del 22 maggio 2018, in A. Venchiarutti (a cura di), La compensatio lucri cum damno, cit., p. 11.


3. L’impatto della intermediazione legislativa, quale presupposto della sovracompensazione, sulla teoria del danno in re ipsa.

L’arresto sui danni punitivi è stato richiamato anche nell’ambito del dibattito sull’ammissibilità del danno in re ipsa e, nello specifico, in una delle principali ipotesi in cui tale costrutto ha trovato terreno fertile: la lesione di un diritto di godimento su un bene immobile che consista nella privazione per il titolare della disponibilità di tale bene (si tratta, frequentemente, di casi di occupazione sine titulo)[1].

Secondo la tesi favorevole, ben rappresentata nella giurisprudenza di legittimità, poiché il bene immobile è di “natura normalmente fruttifera”, una perdita patrimoniale è senz’altro intrinseca alla descritta lesione[2]. Il concetto di intrinsecità è inteso non tanto nel senso di sufficienza del danno-evento (lesione dell’interesse protetto) a fondare l’obbligo risarcitorio, quanto piuttosto col significato di “normalità” e automaticità della conseguenza risarcibile, che, quindi, pur rimanendo formalmente elemento costitutivo dell’obbligazione risarcitoria, si sottrae alla necessità di uno specifico accertamento. In merito alla quantificazione, in assenza di elementi diversi, il giudice può dirigere la valutazione equitativa alla luce del parametro del danno figurativo, agganciando cioè il risarcimento al valore locativo dell’immobile nel tempo considerato. La struttura del fatto-fonte dell’obbligazione risarcitoria è lasciata, almeno in apparenza, immutata: la valutazione delle caratteristiche del bene consente di ritenere sussistente il pregiudizio anche in assenza di una specifica dimostrazione da parte del danneggiato.

La tesi negativa, parimenti sostenuta dalla Corte di Cassazione, muove dall’osservazione che il modo di ragionare appena descritto finisce per “normalizzare” un vero e proprio stravolgimento degli oneri probatori delle parti: toccherebbe al danneggiante fornire la prova dell’insussistenza del danno lamentato dal danneggiato, circostanza che assumerebbe i contorni dell’eccezionalità[3]. Ne deriva che la teoria del danno in re ipsa, per quanto non sovrapponga concettualmente il pregiudizio con l’evento dannoso, accorda pur sempre un risarcimento in assenza dell’accertamento, a monte, della ricorrenza di un danno-conseguenza: la distanza tra questa teoria e quella, inammissibile, della risarcibilità del mero danno-evento è dunque più apparente che reale[4]. Anche nel caso di privazione della disponibilità del bene, allora, il titolare del diritto leso deve allegare e dimostrare i pregiudizi che ne sono conseguenza e di cui domanda il risarcimento. Potrà senz’altro avvalersi, allo scopo, di presunzioni semplici, le quali, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., potranno essere valorizzate dal giudice solo se «gravi, precise e concordanti».

Diverse recenti pronunce hanno peraltro ritenuto che, tra queste posizioni, il contrasto sia solo apparente: anche l’espressione “danno in re ipsa”, infatti, intenderebbe descrivere, sia pure sinteticamente, un ragionamento di tipo presuntivo, che inferisce l’elemento ignoto (il danno) da quello noto (caratteristiche del bene, normalmente fruttifero)[5].

In senso contrario, si è osservato[6] che, nella misura in cui questa “presunzione” sia assolutizzata e operi a prescindere dalla allegazione di circostanze concrete della specifica vicenda che suggeriscano l’effettiva ricorrenza di un pregiudizio economico, essa non può essere condivisa, se non altro perché si fonda su una massima di esperienza controvertibile (e, cioè, che tutti gli immobili vengano sfruttati da chi vanti sugli stessi un diritto che lo consenta): del resto, lo stesso ordinamento, contemplando l’istituto dell’usucapione, ha preso atto dell’eventualità che il titolare del diritto reale sul bene non ne tragga frutto per sua scelta. Così operando, insomma, la teoria del danno in re ipsa maschererebbe una vera e propria presunzione relativa (di origine, però, non legale) e la conseguente inversione dell’onere della prova, con un ragionamento probatorio basato su presunzioni semplici[7]. Perché il danno (conseguenza) possa dirsi effettivamente dimostrato sulla base di presunzioni, occorre però anzitutto che il danneggiato lo alleghi (deducendo, ad esempio, di avere avuto l’intenzione di locare l’immobile in questione o di venderlo) e, in secondo luogo, che le circostanze addotte in relazione alla specifica fattispecie concreta facciano desumere, secondo l’id quod plerumque accidit, l’effettiva sussistenza del pregiudizio in concreto. Solo una volta dimostrata l’esistenza del danno il giudice potrà fare ricorso alla valutazione equitativa secondo i noti principi, se del caso parametrando il risarcimento ai canoni che il titolare avrebbe potuto percepire se avesse concesso in locazione il suo immobile.

In ultima analisi, l’esito a cui giunge la teoria del danno in re ipsa consiste in un risarcimento che, prescindendo dall’accertamento effettivo del danno, trascende la tradizionale dimensione compensativa. Tale esito è criticato dalle più recenti pronunce non tanto in assoluto, quanto in ragione dell’assenza di una previsione legislativa che lo giustifichi. Infatti, risarcire un danno senza avere previamente accertato la sua esistenza imprimerebbe una deriva punitiva alla sanzione che, in accordo con quanto affermato nella sent. n. 16601/2017, si giustifica solo in presenza di una “intermediazione legislativa”[8].

Così impostato, il ragionamento sul danno in re ipsa, pur essendo condotto con riguardo alle specifiche ipotesi di privazione della disponibilità di un immobile, si candida a trovare applicazione anche al di fuori di esse, e, dunque, con riferimento (almeno) a tutte le fattispecie di danno patrimoniale[9].

Questa argomentazione appare senz’altro condivisibile, sia pure con la precisazione che non necessariamente l’ultracompensazione ha lo scopo della “punizione”. Al netto della questione se possano definirsi tali i “risarcimenti” punitivi, possono essere altre le ragioni che spingono il legislatore a modulare la prestazione in base parametri diversi dal danno effettivo (ad esempio, la radicata e generalizzata incertezza del danno in una determinata fattispecie o l’esigenza di evitare contenziosi per danni di entità modesta ma ad alta frequenza)[10]. In assenza di una chiara indicazione normativa, spetta all’interprete comprendere se dietro quella prestazione si celi un vero e proprio risarcimento (sia pure quantificato in modo peculiare)[11] o una sanzione la cui natura “risarcitoria”, per le differenti finalità che persegue, può essere fondatamente revocata in dubbio[12].

 

[1] Sono numerosi gli ambiti del danno patrimoniale e non patrimoniale in cui si è richiamata la figura del danno in re ipsa: a titolo esemplificativo, sul primo versante, il c.d. danno da fermo tecnico (per la tesi negativa, v. Cass. ord. 22 settembre 2017, n. 22201) e il danno conseguente alla violazione di un diritto di proprietà intellettuale (contra, v. Cass., 19 dicembre 2008, n. 29774); sul secondo versante, il danno alla reputazione e all’immagine derivante da ingiusto protesto (in senso negativo, v. Cass. ord. 24 settembre 2013, n. 21865).

[2] Cfr., ex multis, Cass. 10 febbraio 2011, n. 3223; Cass. 15 ottobre 2015, n. 20823; Cass. ord. 28 agosto 2018, n. 21239.

[3] V. già Cass. 11 gennaio 2005, n. 378 e Cass. 17 giugno 2013, n. 15111, richiamate da Cass. 25 maggio 2018, n. 13071 e Cass. ord. 4 dicembre 2018, n. 31233.

[4] In relazione al danno non patrimoniale, ma con un ragionamento di carattere generale poiché inerente alla struttura dell’illecito come fonte dell’obbligazione risarcitoria, Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-26975, dopo avere affermato che «va disattesa la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di danno-evento», poiché un risarcimento è dovuto solo in corrispondenza di una conseguenza risarcibile, subito estendono tale esito anche alla ricostruzione secondo cui il danno potrebbe dirsi in re ipsa, considerata una «variante» della prima tesi.

[5] V., in particolare, Cass. 27 giugno 2016, n. 13224; Cass. 9 agosto 2016, n. 16670; Cass. ord. 23 novembre 2018, n. 30472.

[6] V. Cass. 25 maggio 2018, n. 13071; Cass. ord. 4 dicembre 2018, n. 31233.

[7] Ipotesi diversa dal danno in re ipsa è quella in cui l’evento dannoso e la conseguenza risarcibile, pur rimanendo concettualmente distinti, di fatto si sovrappongono: v. ancora Cass. ord. 4 dicembre 2018, n. 31233: «in taluni casi, specie di danno emergente (es. la riduzione del valore di mercato del bene leso), la “vicinanza” causale del danno all’evento dannoso è tale da potersi ricavare la prova del primo dalla stessa dimostrazione del secondo». La S.C. trae esempio dalla vicenda esaminata da Cass. ord. 26 settembre 2018, n. 22824: l’inquinamento della falda acquifera derivante dallo sversamento di carburanti integra, ad un tempo, l’evento dannoso (lesione del diritto protetto) e conseguenza risarcibile, consistente nella effettiva perdita di valore del bene compromesso.

[8] Richiamano espressamente le affermazioni della sent. n. 16601/2017 le già citate Cass. 25 maggio 2018, n. 13071 e Cass. ord. 4 dicembre 2018, n. 31233.

[9] In generale, l’inammissibilità del danno in re ipsa è affermazione ricorrente anche con riguardo al danno non patrimoniale, seppure alcune fattispecie siano connotate da maggiori incertezze. In tema di consenso informato alla prestazione sanitaria, la massima che nega la risarcibilità del danno in re ipsa è stata di recente ribadita da Cass. 11 novembre 2019, n. 28985, che ha spiegato come non possa sorgere un obbligo risarcitorio dalla sola violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, essendo a tale fine necessario appurare la ricorrenza di un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale correlato a tale violazione; in precedenza, era stato però altresì sostenuto che, dimostrata la lesione del diritto all’autodeterminazione, le conseguenze pregiudizievoli consistenti nella sofferenza psichica e nella contrazione della libertà di scelta non abbisognerebbero di specifica prova, rappresentando un esito statisticamente normale, secondo l’id quod plerumque accidit (Cass. ord. 15 maggio 2018, n. 11749; cfr. poi, in relazione all’ipotesi dell’errore diagnostico che ha impedito al paziente di avvedersi della sua condizione di malato terminale, Cass. ord. 23 marzo 2018, n. 7260, in Giur. it., 2019, p. 287, con nota di C. Irti, Il danno non patrimoniale da lesione del diritto all’autodeterminazione: danno in re ipsa?). Secondo G. Longo, Il danno derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile nella più recente giurisprudenza di legittimità, in Danno resp., 2019, p. 398 ss., l’automatismo risarcitorio potrebbe in questo caso trovare giustificazione nell’applicazione da parte del giudice di una massima di esperienza (ex art. 115, co. 2°, cod. proc. civ.), giustificazione, questa, non ripetibile nelle ipotesi di occupazione sine titulo di un bene immobile.

[10] Sulle diverse modalità con le quali il legislatore può intervenire nella quantificazione del danno determinando uno scollamento più o meno pronunciato del risarcimento dal pregiudizio effettivo, v. ampiamente A. De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, p. 411ss. 

[11] Un esempio può essere rinvenuto nell’art. 1518 cod. civ., che, nell’ipotesi ivi contemplata, presumendo iuris et de iure la ricorrenza di un danno, quantifica il tetto minimo del risarcimento nella misura della «differenza tra il prezzo convenuto e quello corrente nel luogo e nel giorno in cui si doveva fare la consegna»: v. D. Rubino, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F, Messineo, Milano, 1962, p. 989 ss.; secondo C.M. Bianca, La vendita e la permuta, II, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Torino, 1993, p. 1097-1098, invece, la norma si limiterebbe a riconoscere al danneggiato una agevolazione probatoria, traducentesi, in sostanza, in una presunzione vincibile con la prova contraria del danneggiante.

[12] Ad es. l’orientamento dominante legge nella condanna ex art. 96, co. 3°, cod. proc. civ. una sanzione diversa dal risarcimento del danno: v. T. Dalla Massara, Terzo comma dell’art. 96: quando, quanto e perché?, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, p. 60 ss.; C. De Menech, op. cit., 146 ss. e, in giurisprudenza, ad es., Cass., Sez. Un., 20 aprile 2018, n. 9912. Corte Cost. 6 giugno 2019, n. 139 ha in proposito rinvenuto «la natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa».


4. Osservazioni conclusive: l’influenza sotterranea della polifunzionalità e il confine normativo.

Gli esempi appena esaminati confermano l’impressione che, per quanto la sentenza sui “danni punitivi” non abbia un contenuto propriamente innovativo, nondimeno la sua influenza sull’evoluzione della responsabilità civile interna non affatto può dirsi nulla.

Nei due casi citati, detta influenza è anzi immediatamente percepibile grazie al richiamo diretto a questa sentenza e ai principi in essa affermati. Per un verso, la «poliedricità delle funzioni» dell’illecito aquiliano ha reso decisiva, nel caso di benefici erogati da un terzo, la previsione di un meccanismo di recupero perché operi la compensatio lucri cum damno; per altro verso, la necessaria «intermediazione legislativa» affinché il risarcimento superi la soglia dell’integrale riparazione ha fornito un ulteriore argomento forte alla tesi che nega, sul piano generale, l’ammissibilità della teoria del danno in re ipsa.

L’effetto della riaffermata polifunzionalità della responsabilità civile pare tuttavia assumere portata più generale, nella misura in cui ha reso più salda la consapevolezza della complessità del ruolo che questo istituto svolge nell’ordinamento.

Così, pur non essendo richiamata espressamente la sent. n. 16601/2017, si è avvertito l’intento di sanzionare la riprovevolezza della condotta e di imprimere un effetto deterrente al risarcimento[1] nelle parole di una recente pronuncia[2], la quale, in una ipotesi di diffamazione di un insegnante ad opera di un genitore, ha invitato il giudice del rinvio a modulare la valutazione equitativa del danno conseguente tenendo conto del «preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il compito educativo delle giovani e giovanissime generazioni».

Invero, l’elemento di novità che permette di accostare questa sentenza alla prospettiva polifunzionale della responsabilità civile non consiste in una supposta apertura ad arbitrari incrementi risarcitori in chiave punitiva – i quali non sembrano affatto autorizzati, poiché i giudici, più semplicemente, invitano ad una più attenta valutazione degli effetti dell’illecito sulla sfera psicologica del danneggiato – ma nella valorizzazione del contesto nel quale il fatto dannoso è stato realizzato e della capacità dell’istituto di muoversi in esso, offrendo soluzioni, che pur risultando rispettose delle regole giuridiche, risultino adeguate alle esigenze di giustizia sostanziale.

Il peso di queste valutazioni è di immediata percezione se si pensa che esse sono state poste alla base di una dirompente decisione, con la quale la Suprema Corte, discostandosi da un orientamento che sembrava ormai consolidato[3], ha fatto applicazione dell’art. 1227, co. 1°, cod. civ. in un’ipotesi di provocazione del danneggiato[4].

A questo risultato la Cassazione non giunge in esito ad una revisione critica della tesi maggioritaria sul tema[5]: il ragionamento è invece incardinato sul piano delle regole causali a fondamento del concorso colposo, che divengono “permeabili” alle «istanze di giustizia sostanziale» emergenti dalla valutazione del contesto situazionale in cui si è verificato il fatto[6]. Nella specie, un adolescente vittima di reiterato bullismo aveva reagito, provocando lesioni al suo oppressore: ad avviso della Corte, la «risposta giuridica» rappresentata dalla sanzione risarcitoria a carico del danneggiante non può rimanere insensibile alla ripetuta umiliazione a cui lo stesso – peraltro di giovane età e dunque dalla personalità non ancora pienamente formata – era stato ripetutamente sottoposto ed all’assenza di ogni misura di supporto psicologico a suo sostegno.

Al di là della loro condivisibilità, anche le pronunce da ultimo richiamate dimostrano la centralità della prospettiva funzionale nella soluzione di questioni aperte in tema di responsabilità civile: tale prospettiva non funge però da grimaldello per scardinare le regole che presidiano l’istituto e in particolare la determinazione del danno risarcibile, ma si inserisce piuttosto in un ragionamento meditato che può portare a suggerirne una diversa interpretazione, incidendo così di riflesso sulla definizione del quantum debeatur. In definitiva, il modo di procedere di dette pronunce non sembra in alcun modo forzare i limiti posti dalle Sezioni Unite del 2017: le istanze funzionali che suggeriscono determinate modulazioni del risarcimento, infatti, hanno trovato qui accoglimento non perché ritenute rilevanti ex se, ma poiché giudicate rispondenti all’interpretazione (pur sempre rigorosa) che si è offerta di norme generali che regolano la quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio del danno effettivo di cui tali norme sono espressione[7]. Rimane invece impregiudicato che uno scostamento dai confini normativi tracciati da tale principio – sia pure giustificabile alla luce di una determinata esigenza funzionale – è ammissibile solo nei casi in cui la legge lo preveda.  

 

[1] E. Quarta, op. cit., p. 91 ss.

[2] Cass. ord. 12 aprile 2018, n. 9059.

[3] V., da ultima, Cass. 23 marzo 2016, n. 5679.

[4] Cass. ord. 10 settembre 2019, n. 22541, in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, p. 342, con commento di V. Caredda, Provocazione e reazione nel giudizio di responsabilità.

[5] Critico per questa ragione è A. Vercellone, Concorso di colpa del danneggiato in caso di provocazione? Bullismo e “risarcimenti attenuati dalla condotta”, in Danno resp., 2020, p. 187 ss.

[6] Rileva la centralità del discorso funzionale in questa pronuncia (con presa, nella specie, sulle valutazioni in punto di causalità), G. Ponzanelli, Educazione e responsabilità civile: il caso del bullismo, in Danno resp., 2019, p. 762 s. Secondo A. Vercellone, op. cit., p. 191, «ci si trova di fronte ad un caso nel quale il giudizio risarcitorio si apre a considerazioni relative al disvalore del fatto commesso dal danneggiante». Non necessariamente ciò significa che alla base della decisione della Cassazione vi siano considerazioni immediatamente legate alla funzione deterrente o sanzionatoria della responsabilità civile: cfr. l’analisi di C. Murgo, Frammenti sul bullismo, tra doveri educativi e compensazioni risarcitorie, in Resp. civ. prev., 2020, p. 514 ss.

[7] Come si è già evidenziato, nel caso trattato da Cass. ord. 12 aprile 2018, n. 9059, cit., l’invito della S.C. a tenere in considerazione il «clima di intolleranza e di violenza» che si trovano a vivere gli insegnanti nella quantificazione del risarcimento non poggia immediatamente sull’istanza deterrente, quanto piuttosto sulla necessità che, nella corretta esplicazione della valutazione equitativa giudiziale, vengano apprezzate pienamente le conseguenze negative nella sfera del danneggiato. In modo ancora più evidente, nella vicenda decisa da Cass. ord. 10 settembre 2019, n. 22541, cit., la riduzione del risarcimento non è frutto di una valutazione di minore gravità della condotta del minore, ma è l’esito di un procedimento interpretativo che giunge a ritenere applicabile, al caso di specie, l’art. 1227 cod. civ. A proposito di quest’ultima soluzione, V. Caredda, op. cit., 2020, I, p. 342, pur non facendo cenno alla polifunzionalità, conclude che la strada battuta dalla S.C. è «percorribile», e «favorisce non solo il conseguimento di risultati apprezzabili sul piano etico», ma «si muove nel rigoroso rispetto dell’ordinamento giuridico».