Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Il bilanciamento tra diritto all'oblio e diritto di cronaca e la scansione per Fallgruppen (di Sofia Lener)


Il diritto all’oblio, nato dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale a partire dal diritto alla riservatezza e dal diritto all’identità personale e tradizionalmente definito come il diritto a non veder pubblicati nuovamente determinati fatti legittimamente resi noti ma rispetto ai quali è trascorso un certo lasso di tempo, ha ormai assunto due ulteriori accezioni: diritto all’oblio come diritto a contestualizzare l’informazione e diritto all’oblio come diritto alla cancellazione dei dati personali su internet. 

Sebbene il diritto all’oblio abbia ormai trovato un esplicito riconoscimento nel Regolamento 2016/679, rimangono molte questioni aperte, tra cui come bilanciare correttamente quest’ultimo e il diritto di cronaca, bilanciamento rimesso alla giurisprudenza europea e nazionale. 

In questo contesto si pongono due recenti decisioni della Corte di Cassazione, risalenti, la prima, a marzo e, la seconda, a maggio del 2020. Tali sentenze sembrano fornire un quadro unitario di una materia tuttora in evoluzione: non esiste un unico rimedio a tutela del diritto all’oblio, si deve scomporre la materia in tipi diversi di casi, per ognuno dei quali vi è un differente schema di bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca da applicare alla fattispecie concreta, una sorta di scansione per Fallgruppen

The balance between the right to be forgotten and the right to report and the scanning by fallgruppen

The right to be forgotten, which stems from the development of doctrine and case law starting from the right to privacy and the right to personal identity - and traditionally defined as the right not to have certain facts legitimately made public again but in respect of which a certain amount of time has elapsed -, has now taken on two further meanings: the right to contextualise information and the right to have personal data deleted from the internet. 

Although the right to be forgotten has now been explicitly recognised in Regulation 2016/679, many questions remain open, including how to properly balance the latter and the right to report, a balance left to European and national case law. 

In this context, the Italian Court of Cassation issued two judgments in March and May 2020 that seem to provide a unitary picture of a matter that is still evolving: there is no single remedy to protect the right to be forgotten, the matter must be broken down into different types of cases, for each of which there is a different balancing scheme between the right to be forgotten and the right to report news to be applied to the concrete case, a sort of scanning by Fallgruppen.

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Sofia Lener - Il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca e la scansione per Fallgruppen

SOMMARIO:

1. Il moderno diritto all’oblio. - 2. Gli orientamenti giurisprudenziali. - 3. Le sentenze. - 4. Conclusioni.


1. Il moderno diritto all’oblio.

La Corte di Cassazione in due recenti decisioni - risalenti, la prima, a marzo e, la seconda, a maggio del 2020 - torna a pronunciarsi sul fondamentale e dibattuto tema del bilanciamento tra diritto all’oblio[1] e diritto di cronaca, in riferimento agli archivi storici online[2].

In realtà, queste ultime due ordinanze sono di poco successive ad una innovativa - sebbene non esente da critiche[3] - decisione della stessa Corte, che si è pronunciata sul rapporto tra diritto all’oblio e diritto alla rievocazione storica nella sua composizione più autorevole, le Sezioni Unite[4], in attesa della quale entrambe le cause erano state rinviate a nuovo ruolo[5].

Nonostante la Corte abbia poi ritenuto la sentenza delle Sezioni Unite irrilevante nei casi in esame[6], è tuttavia evidente che il diritto all’oblio è sempre più spesso oggetto delle decisioni dei giudici di legittimità, non solo perché di esso mancano tuttora una disciplina completa ed una interpretazione uniforme, ma anche e soprattutto perché nella Digital Age i dati vengono diffusi spontaneamente e facilmente in rete dagli stessi soggetti cui questi si riferiscono e sono potenzialmente accessibili a chiunque.

Siamo ben lontani dai tempi in cui la Cassazione ha riconosciuto per la prima volta il diritto all’oblio nella sua definizione tradizionale, elaborata da dottrina e giurisprudenza a partire dal diritto alla riservatezza[7] e dal diritto all’identità personale[8], secondo la quale il diritto all’oblio è il diritto a non veder pubblicati nuovamente determinati fatti legittimamente resi noti, ma rispetto ai quali è trascorso un certo lasso di tempo[9].

L’avvento di internet[10], infatti, ha determinato la più grande rivoluzione delle informazioni: gli utenti non ricevono più le notizie in modo passivo, come avveniva con i media tradizionali, ma interagiscono con la macchina, ricercando direttamente ciò che interessa loro, e possono comunicare con altri utenti, contribuendo alla circolazione di dati[11]. Inoltre, le informazioni accessibili online sono decontestualizzate e appiattite, potendo fornire un’immagine distorta di una persona, e una volta pubblicate in rete vi permangono, senza che sia necessaria una loro ripubblicazione.

Se a ciò si aggiunge che internet, rispetto alla creazione degli elaboratori elettronici[12], ha determinato il passaggio da un’informatica «accentrata» ad una «distribuita», dando voce ad un numero sempre più ampio di persone[13] - oggi oltre 4 miliardi[14] -, non ci si può stupire se il diritto all’oblio ha assunto una caratterizzazione nuova e più moderna.

Più precisamente, in dottrina[15], prima, e in giurisprudenza[16], poi, si sono accolte due ulteriori definizioni: diritto all’oblio come diritto a contestualizzare l’informazione, affinché l’identità di un soggetto non ne sia alterata, e diritto all’oblio come diritto alla cancellazione dei dati personali su internet, introdotto dalla Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995 e interpretato dalla storica sentenza Google Spain[17].

La prima di queste definizioni viene riconosciuta in Italia con la sentenza n. 5525 del 2012 della Corte di Cassazione, in relazione agli archivi di notizie su internet [18].

Va ricordato che, precedentemente, l’orientamento in materia era diverso. Lo testimonia il Garante della privacy, secondo il quale «non è consentito un intervento modificativo e/o integrativo del contenuto di un articolo che, nato come espressione di libera manifestazione del pensiero, ad oggi è legittimamente conservato, per finalità di documentazione, all’interno di un archivio che, benché informatizzato, svolge pur sempre la medesima funzione degli archivi cartacei»[19].

La Corte di Cassazione, invece, abbandona l’orientamento del Garante e accoglie il ricorso di un politico, che, imputato di corruzione e, successivamente, assolto, chiede l’aggiornamento dei dati presenti in un articolo confluito nell’archivio online di un giornale, dal quale risulta la sola notizia dell’imputazione.

Infatti, la Corte riconosce in capo ai soggetti i cui dati personali siano memorizzati in un archivio il diritto all’oblio, definito come il diritto al «controllo a tutela della propria immagine sociale, che anche quando trattasi di notizia vera [...], può tradursi nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento» dei propri dati[20]. Obbliga quindi il titolare del sito a predisporre un sistema idoneo a segnalare gli sviluppi della vicenda in questione, in quanto «la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando, quindi, parziale e non esatta, e pertanto sostanzialmente non vera»[21].

La sentenza postula, pertanto, l’obbligo di aggiornamento in capo al gestore del sito, a prescindere da una formale richiesta dell’interessato[22]. Si tratta di una soluzione estremamente innovativa, che tiene conto delle peculiarità di internet: il diritto all’oblio non può più far riferimento al tempo trascorso tra la prima e la seconda pubblicazione, dovendo bensì concernere la permanenza di uno stesso dato in rete. Il diritto all’oblio non è più «diritto a dimenticare», ma «diritto a contestualizzare»[23].

Un risultato analogo viene raggiunto poco dopo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) nel caso Węgrzynowski e Smolczewski vs. Polonia[24], a riprova della necessità - evidente anche a livello europeo - di evitare che a un individuo si associ un’immagine mendace, per il solo fatto che questa permane online senza soluzione di continuità[25], al tempo stesso tutelando il diritto all’informazione[26].

La terza e ultima definizione di diritto all’oblio, invece, è frutto dell’opera interpretativa della Corte di giustizia dell’Unione europea nel caso Google Spain, che nasce da una richiesta di cancellazione di dati personali presenti nella versione elettronica di un giornale.

La Corte, dopo aver rilevato che le informazioni pubblicate su internet spesso sono riprodotte in altri siti e che gli editori di tali pagine online non sempre sono assoggettati alla normativa europea, stabilisce che l’unico modo per realizzare una tutela efficace delle persone interessate dai dati è interpretare gli articoli 12 e 14 della Direttiva 95/46 nel senso che, al verificarsi delle condizioni da questi previste, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a rimuovere dall’elenco dei risultati i link verso pagine di terzi, anche quando i dati personali non siano rimossi da queste pagine o quando la loro pubblicazione sia di per sé lecita[27].

E tra le condizioni previste dagli articoli 12 e 14 della Direttiva, che disciplinano il diritto alla cancellazione, al blocco, al congelamento dei dati e all’opposizione al loro trattamento, vi è l’obbligo di conservare un dato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario al conseguimento delle finalità per le quali è stato trattato[28], nonché l’obbligo di rispettare il diritto alla vita privata e alla vita familiare e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale[29]: in questo modo viene definito il diritto all’oblio come «diritto alla deindicizzazione».

Si tratta di una decisione «rivoluzionaria» e molto discussa[30], ma che, invero, il Garante per la protezione dei dati personali aveva anticipato, affermando, sin dal 2004, che, venuto meno l’interesse pubblico alla conoscenza di un certo fatto, la sua archiviazione su internet è lecita se la notizia è rinvenibile solo consultando gli stessi siti che la hanno inizialmente pubblicata[31] e, quindi, se la pagina web che contiene i dati personali è tecnicamente sottratta alla diretta individuabilità tramite i più utilizzati motori di ricerca esterni[32].

Tuttavia, la sentenza della Corte di giustizia segna un punto di svolta nella tutela del diritto all’oblio, che oggi può essere attuata direttamente da pagine web programmate ad hoc, mediante moduli di facile compilazione.

Sebbene il diritto all’oblio abbia in seguito trovato un esplicito riconoscimento nel Regolamento 2016/679[33], rimangono molte questioni aperte, tra cui come bilanciare correttamente quest’ultimo e la libertà di espressione e di informazione[34], bilanciamento rimesso alla volontà degli Stati membri[35]. Mancando, però, una disciplina nazionale in tal senso, è compito della giurisprudenza contemperare, caso per caso, diritto all’oblio e diritto di cronaca.

 

[1] L’espressione «diritto all’oblio» viene coniata dalla dottrina francese negli anni Sessanta: per una ricostruzione della nascita del diritto all’oblio nell’ordinamento statunitense e nell’ordinamento francese si veda Pierfelici, in Il diritto all’oblio. Atti del Convegno di Studi del 17 maggio 1997, a cura di Gabrielli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, p. 60 ss.

[2] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, in Foro it., 2020, I, c. 1549 ss., con nota di Palmieri,Pardolesi, Polarità estreme: oblio e archivi digitali; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, in Foro it., 2020, I, c. 2671 ss., con nota di Pardolesi, Oblio a regime?.

[3] Innanzitutto, è stato rilevato che la linea che separa la cronaca dalla storiografia è labile e la Corte non indica alcun criterio discretivo che possa aiutare i giudici di merito in questa demarcazione. La seconda critica attiene al motivo che la Corte di Cassazione utilizza per giustificare l’anonimato storiografico, ossia il fatto che «l’interesse alla conoscenza di un fatto, che costituisce manifestazione del diritto ad informare e ad essere informati e che rappresenta la spinta ideale che muove ogni ricostruzione storica, non necessariamente implica la sussistenza di un analogo interesse alla conoscenza dell’identità della singola persona che quel fatto ha compiuto». La stessa motivazione varrebbe anche per l’esercizio del diritto di cronaca, visto che nella maggior parte dei casi conoscere l’identità di un soggetto è irrilevante: l’anonimato diventerebbe la regola. Infine, anche l’eccezione della notorietà del soggetto solleva dei dubbi: è giusto privare completamente del diritto alla riservatezza questi soggetti? Cfr., ex multis, Pardolesi, Oblio e anonimato storiografico: «usque tandem...»?, in Foro it., 2019, I, c. 3082 ss.; Muscillo, Oblio e divieto di lettera scarlatta, in Danno e responsabilità, 5/2019, p. 614.

[4] Cass., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681, in Foro it., 2019, I, c. 3071 ss., con nota di Pardolesi, Oblio e anonimato storiografico: «usque tandem ...»?.

[5] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 3.1; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., § 4.

[6] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 5.7.3; Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., § 11.

[7] Cass., 25 maggio 1975, n. 2129, in Foro it., 1975, I, c. 2895 ss.

[8] Cass., 22 giugno 1985, n. 3769, in Foro it., 1985, I, c. 2211 ss.

[9] Cass., 9 aprile 1998, n. 3679, in Foro it., 1998, I, c. 1834 ss.

[10] La storia di internet ha origine nel 1969 da un progetto denominato ARPANET (Rete della Advanced Research Projects Agency), ideato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America durante la «guerra fredda»: attraverso una rete telematica di quattro computer vengono scambiate informazioni di tipo scientifico tra ricercatori localizzati in diversi luoghi. In seguito, vengono connessi sempre più elaboratori nell’ARPANET e nascono altre reti per comunità chiuse di utenti. Internet è costituito dall’insieme di tutte queste reti, è la «rete delle reti».

[11] Di Ciommo, Diritti della personalità tra media tradizionali ed avvento di internet, in Persona e tutele giuridiche, a cura di Comandè, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 8-17.

[12] L’elaboratore elettronico in senso moderno nasce nel 1833 come «calcolatore» - da qui «computer», macchina che computa - per opera di Charles Babbage, anche se il primo computer digitale completamente elettronico, l’«Atanasoff-Berry Computer», risale al 1943. I primi computer sono uniporpose, svolgono cioè una sola funzione, e sono macchine di grandi dimensioni con memoria limitata. Negli anni Settanta, invece, viene inventato il microprocessore e, conseguentemente, il personal computer, che diventa multipurpose: l’elaboratore elettronico si può acquistare a prezzi relativamente ridotti e si può utilizzare direttamente da casa con diverse finalità.

[13] Mensi, La rete fra tecnologia e diritto, ne Il diritto del web, Mensi,Falletta, ed. II, Cedam, Padova, 2018, p. 22.

[14] Si veda, tra gli altri, il sito Internet Live Stats, https://www.internetlivestats.com, consultato il 17 gennaio 2021.

[15] Finocchiaro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, in Il diritto all’oblio su internet dopo la sentenza Google Spain, a cura di Resta, Zeno-zencovich, RomaTrE-Press, Roma, 2015, pp. 30-35.

[16] Cass., sez. un., 22 luglio 2019, n. 19681, cit., § 8.

[17] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 13 maggio 2014, C‑131/12, http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=152065&doclang=IT, consultato il 17 gennaio 2021.

[18] Cass., 5 aprile 2012, n. 5525, in Dir. inform., 2012, p. 452 ss.

[19] Garante Privacy, 29 settembre 2010, n. 1763552, https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1763552, consultato il 17 gennaio 2021.

[20] Cass., 5 aprile 2012, n. 5525, cit., p. 461.

[21] Cass., 5 aprile 2012, n. 5525, cit., p. 458.

[22] Di Ciommo, Pardolesi, Dal diritto all’oblio in Internet alla tutela dell’identità dinamica. È la Rete, bellezza!, in Danno e Responsabilità, 7/2012, pp. 703-704.

[23] Finocchiaro, Identità personale su Internet: il diritto alla contestualizzazione dell’informazione, in Dir. inform., 2012, pp. 391-392.

[24] Corte EDU, Quarta sezione, 16 luglio 2013, 33846/07, https://www.garanteprivacy.it/documents/10160/2644195/CASE+OF+WEGRZYNOWSKI+AND+SMOLCZEWSKI+v.+POLAND.pdf/1f6eb4b0-bf73-443c-abb7-9ddf377054e2?version=1.0, consultato il 17 gennaio 2021.

[25] Si noti che la vicenda in questione non riguarda il diritto all’oblio, in quanto a rilevare non è il trascorrere del tempo, ma la conservazione di dati illegittimi su internet. Cfr. Nannipieri, La sopravvivenza online di articoli giornalistici dal contenuto diffamatorio: la pretesa alla conservazione dell’identità e la prigione della memoria nel cyberspazio. Osservazioni intorno a Corte CEDU, IV Sez., sentenza 16 luglio 2013 (Węgrzynowski e Smolczewski contro Polonia, Ric. N. 33846/2007), http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/corte_europea_diritti_uomo/0030_nannipieri.pdf, consultato il 17 gennaio 2021, pp. 10-15.

[26] Vigevani, Identità, oblio, informazione e memoria in viaggio da Strasburgo a Lussemburgo, passando per Milano, https://boa.unimib.it/retrieve/handle/10281/175231/249587/federalismi%20oblio.pdf, consultato il 17 gennaio 2021, p. 4.

[27] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 13 maggio 2014, C‑131/12, cit., § 84-88.

[28] Art. 6, paragrafo 1, lettere da c) a e), Direttiva 95/46.                                       

[29] Art. 7, lettera f), Direttiva 95/46 e Art. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

[30] Di Ciommo, Quello che il diritto non dice. Internet e oblio, in Danno e responsabilità, 12/2014, p. 1107.

[31] Di Ciommo, Pardolesi, Dal diritto all’oblio in Internet alla tutela dell’identità dinamica. È la Rete, bellezza!, cit., p. 711.

[32] Ex multis, Garante Privacy, 8 aprile 2009, n. 1617673, https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1617673, consultato il 17 gennaio 2021.

[33] Art. 17 Regolamento 2016/679.

[34] Il bilanciamento in questione è stato ritenuto di fondamentale importanza fin dalle prime riflessioni dottrinali in materia. Cfr., ex multis, Giacobbe, in Il diritto all’oblio, a cura di Gabrielli, cit., p. 40 ss.; Consoli, ibid., p. 49 ss.

[35] Art. 85 e Considerando 153 Regolamento 2016/679.


2. Gli orientamenti giurisprudenziali.

Prima di esaminare le due sentenze da cui si è partiti, è necessario dar brevemente conto degli orientamenti europei e nazionali espressi dalla giurisprudenza per risolvere il contrasto tra diritto all’oblio e diritto di cronaca.

Emblematico a tal fine è il caso Fuchsmann vs. Germany, deciso dalla Corte EDU, che trae origine dalla pubblicazione nel 2001 sul giornale «The New York Times» di un articolo riguardante un’indagine per corruzione nei confronti di un candidato a sindaco di New York. L’articolo, che ha anche una versione online, nomina Boris Fuchsmann, un imprenditore tedesco nel settore dei media, descrivendolo come «un contrabbandiere di oro e un truffatore, la cui società in Germania era parte di una rete internazionale del crimine organizzato», a cui era stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti.

Nel novembre del 2013 il caso approda alla Corte EDU, per presunta violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), ossia del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

La Corte EDU, quindi, si occupa di verificare se la Corte tedesca, nei gradi precedenti di giudizio, abbia effettuato un corretto bilanciamento tra il diritto al rispetto della vita privata e la libertà di espressione e, a tal fine, si basa su cinque criteri consolidati nella sua giurisprudenza in materia, che garantiscono un ragionevole bilanciamento di opposti interessi: il contributo ad un dibattito di pubblico interesse; il ruolo sociale rivestito dall’interessato; il metodo impiegato per ottenere le informazioni e la loro veridicità; la condotta precedente della persona interessata; il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione.

Arriva così ad escludere la violazione dell’articolo 8 della CEDU nel caso di specie[1].

Nonostante la mancata richiesta del ricorrente di deindicizzazione e la mancata considerazione del fattore temporale da parte della Corte, è evidente il grande peso assegnato da quest’ultima agli archivi online, considerati «un’importante fonte per l’educazione e la ricerca storica, soprattutto perché prontamente accessibili al pubblico e generalmente gratuiti»[2], quasi ad escludere l’esistenza del diritto all’oblio in questa fattispecie[3].

Anche la Corte di Cassazione prova ad individuare alcuni criteri per risolvere il problema del bilanciamento oblio-cronaca e lo fa in un caso riguardante la messa in onda nel 2005, nel corso della trasmissione «La vita in diretta», di un filmato risalente a cinque anni prima, che fa vedere il cantante Antonello Venditti che si sottrae a un tentativo di intervista.

Sulla base della giurisprudenza e della normativa nazionale ed europea, il giudice delle leggi stabilisce che il diritto all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti: il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l'immagine; l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; le modalità impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera (poiché attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico. Qualora manchino questi requisiti, prevale il diritto all’oblio[4].

Si noti che i criteri individuati dalla Cassazione per eseguire il bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca non prendono in considerazione la tipologia del mezzo impiegato per diffondere le informazioni - il quale, in realtà, determina delle conseguenze rilevanti nei confronti del soggetto interessato[5] - e, anche per questo motivo, hanno una portata molto ampia, determinando un effetto espansivo del diritto all’oblio[6].

Merita, infine, di essere esaminata la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea GC e altri c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), che si occupa del trattamento di categorie particolari di dati personali ad opera dei gestori di motori di ricerca.

La vicenda giudiziaria nasce perché quattro soggetti chiedono individualmente a Google di deindicizzare alcuni link che si trovano digitando i loro nomi sul motore di ricerca. I link in questione rimandano a foto o articoli riguardanti relazioni intime che questi intrattengono, la loro religione o indagini e condanne penali a loro carico. Google nega la deindicizzazione e, per questo, viene adita la CNIL, che archivia le denunce. I ricorrenti propongono quattro ricorsi davanti al Consiglio di Stato, che ne dispone la riunione e sospende il procedimento, ponendo alla Corte di giustizia alcune questioni pregiudiziali sulla corretta interpretazione degli articoli della Direttiva 95/46 - poi confluiti nel Regolamento 2016/679 - che vietano il trattamento dei dati personali «sensibili».

Innanzitutto, i giudici rilevano che il divieto stabilito da queste norme si applica a qualsiasi trattamento di dati particolari e a qualsiasi responsabile, compreso il gestore di un motore di ricerca: se allo stesso non si applicasse questa restrizione non si garantirebbe una tutela efficace dei soggetti interessati, determinando «un’ingerenza particolarmente grave nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali»[7].

La Corte, accogliendo la proposta dell’avvocato generale[8], dichiara che tale divieto si deve applicare al motore di ricerca a causa della sua attività di indicizzazione «e, quindi, per il tramite di una verifica da effettuare, sotto il controllo delle autorità nazionali competenti, sulla base di una richiesta presentata dalla persona interessata»[9].

Tuttavia, il divieto viene meno quando vi siano le condizioni previste dalla Direttiva e, oggi, dal Regolamento, tra le quali vi è il trattamento di dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse. In questo caso il gestore del motore di ricerca, quando riceva una richiesta di deindicizzazione, deve verificare se l’inserimento di un certo link nell’elenco dei risultati sia strettamente necessario per proteggere la libertà di informazione degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale notizia[10]. Pertanto, quando il bilanciamento si risolve a favore della libertà di espressione il gestore del motore di ricerca può rifiutarsi di accogliere una richiesta di deindicizzazione.

L’ultima questione pregiudiziale verte sulle informazioni relative a un procedimento giudiziario di cui è stata oggetto una persona fisica. In particolare, si chiede alla Corte se il gestore di un motore di ricerca sia tenuto ad accogliere una richiesta di deindicizzazione di link che rimandano a pagine web nelle quali compaiono tali informazioni, quando queste si riferiscono ad una fase precedente del procedimento giudiziario e non corrispondono più alla situazione attuale.

Oltre alle condizioni di liceità previste per il trattamento di dati sensibili tra cui questi rientrano, vi sono altri obblighi imposti dalla normativa comunitaria, tra cui il divieto di conservare i dati per un arco di tempo superiore al conseguimento delle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati, come affermato nel caso Google Spain.

In ogni caso, anche quando questa ipotesi si verifichi, il gestore di un motore di ricerca deve tenere in considerazione la libertà di informazione degli utenti di internet, bilanciandola con «tutte le circostanze del caso di specie, quali, in particolare, la natura e la gravità dell’infrazione di cui trattasi, lo svolgimento e l’esito di tale procedura, il tempo trascorso, il ruolo rivestito da tale persona nella vita pubblica e il suo comportamento in passato, l’interesse del pubblico al momento della richiesta, il contenuto e la forma della pubblicazione nonché le ripercussioni della pubblicazione per tale persona»[11].

Da ultimo, al termine del bilanciamento, se il gestore del motore di ricerca decide di non deindicizzare i link che rimandano ad informazioni non aggiornate relative ad un procedimento penale, «tale gestore è in ogni caso tenuto, al più tardi al momento della richiesta di deindicizzazione, a sistemare l’elenco dei risultati in modo tale che l’immagine globale che ne risulta per l’utente di internet rifletta la situazione giudiziaria attuale, il che necessita, in particolare, che compaiano per primi, nel suddetto elenco, i link verso pagine web contenenti informazioni a tal proposito»[12].

In confronto al caso Google Spain, che ha affermato per la prima volta l’esistenza del diritto alla deindicizzazione, i giudici di Lussemburgo hanno molto abbassato il livello di protezione dei dati personali[13]. Al tempo, infatti, si è parlato di un bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto all’informazione completamente a vantaggio della privacy. E ciò perché la Corte di giustizia ha ritenuto di regola prevalente il diritto alla deindicizzazione non solo rispetto all’interesse economico del titolare ma anche rispetto al diritto ad essere informati degli utenti di internet[14].

L’orientamento della Corte muta completamente: viene stabilito un obbligo di verifica in capo al motore di ricerca che tratta particolari categorie di dati solo dopo la ricezione di una richiesta in tal senso e si prevede che in caso di diniego di deindicizzazione di link che rimandano a procedimenti penali non aggiornati il gestore del motore di ricerca sia obbligato «a sistemare l’elenco dei risultati». Non è chiaro, però, se esista o meno un obbligo di contestualizzazione in capo al gestore.

Tuttavia, la Corte considera il bilanciamento tra diritto alla protezione dei dati personali e diritto all’informazione come l’ago della bilancia nel decidere di una richiesta di deindicizzazione di un determinato link: anche le questioni problematiche che si possono presentare nel caso concreto devono essere valutate dalle autorità competenti in base all’esito del bilanciamento in questione.

 

[1] Corte EDU, Quinta sezione, 19 ottobre 2017, n. 71233/13, https://hudoc.echr.coe.int/eng#{"itemid":["001-177697"]}, consultato il 17 gennaio 2021, § 9-55.

[2] Corte EDU, Quinta sezione, 19 ottobre 2017, n. 71233/13, cit., § 39.

[3] Mazzanti, Vecchio sospetto di reato e diritto all'oblio. A proposito di una recente sentenza della corte di Straburgo, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/5980-vecchio-sospetto-di-reato-e-diritto-all-oblio-a-proposito-di-una-recente-sentenza-della-corte-di-st, consultato il 17 gennaio 2021.

[4] Cass., 20 marzo 2018, n. 6919, in Foro it., 2018, I, c. 1145 ss.

[5] Martinelli, Il diritto all’oblio nel bilanciamento tra riservatezza e libertà di espressione: quali limiti per i personaggi dello spettacolo?, in Giurisprudenza italiana, 5/2019, p. 1051.

[6] Bonavita, Pardolesi, Diritto all’oblio e buio a mezzogiorno, in Foro it., 2018, I, c. 1151 ss.

[7] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, C‑136/17, http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=218106&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2766880, consultato il 17 gennaio 2021, § 44.

[8] Conclusioni avvocato generale UE, 10 gennaio 2019, C‑136/17, http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=209686&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=2766880, consultato il 17 gennaio 2021, § 48-56.

[9] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, C‑136/17, cit., § 47.

[10] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, C‑136/17, cit., § 68.

[11] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, C‑136/17, cit., § 77.

[12] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, C‑136/17, cit., § 78.

[13] Globocnik, The Right to Be Forgotten is Taking Shape: CJEU Judgments in GC and Others (C-136/17) and Google v CNIL (C-507/17), in GRUR International, 69(4), 2020, p. 380.

[14] Corte di giustizia UE, Grande sezione, 13 maggio 2014, C‑131/12, cit., § 81.


3. Le sentenze.

Le due sentenze in esame, come già anticipato, si collocano nel contesto del bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca, quest’ultimo nella versione di trattamento della notizia per finalità storico-archivistica.

La prima vicenda giudiziaria ha ad oggetto la pubblicazione nell’archivio online del «Corriere della Sera» di due articoli del 1994 intitolati «I miliardi dell'eredità P. Firme false e intrighi dietro la Dinasty di Bergamo» e «Eredità miliardaria. È guerra». M.F.P. propone ricorso al Garante della privacy, sostenendo che gli articoli in questione, facilmente reperibili tramite i comuni motori di ricerca, narrando la condanna in primo grado del defunto padre P.P., un importante imprenditore nel campo tipografico, e non riportando l’esito della vicenda, ossia il proscioglimento dell’imputato, ledono l’onore e la dignità del padre e di tutta la famiglia. Quindi, chiede la rimozione gli articoli dall’archivio e, subordinatamente, il loro aggiornamento, oltre alla deindicizzazione dei link che vi rimandano. Il Garante nel 2011 respinge il ricorso e M.F.P. impugna il provvedimento davanti al Tribunale di Milano.

Il Tribunale rileva che l’articolo «I miliardi dell'eredità P. Firme false e intrighi dietro la Dinasty di Bergamo» non risulta più indicizzato e che il secondo articolo è stato aggiornato dal «Corriere della Sera» con l’aggiunta dell’esito del procedimento. Pertanto, è cessata la materia del contendere. In ogni caso, il Tribunale sottolinea l’importanza degli archivi giornalistici: il diritto ad essere informati prevale di regola sul diritto del soggetto titolare del dato personale, a meno che da un tale trattamento derivi «una non emendabile compromissione della propria vita di relazione»[1].

Avverso questa sentenza M.F.P. propone ricorso in Cassazione per tre motivi, di cui, ai nostri fini, è rilevante il terzo, nel quale si legge che il Tribunale di Milano avrebbe violato il d.lgs. 196/03 (Codice della privacy) e la Direttiva 95/46, avendo ritenuto prevalente l'interesse della collettività alla conoscenza della notizia, pur in assenza di particolari esigenze che giustifichino la permanenza del dato in un archivio liberamente accessibile. Si noti, in ogni caso, che la Corte stessa antepone l’analisi del terzo motivo, ritenendolo di carattere preminente rispetto agli altri.

Innanzitutto, i giudici di legittimità ripercorrono le varie fasi dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa del diritto all’oblio, anche alla luce dei nuovi sviluppi determinati dall’avvento di internet.

Quindi delimitano il campo di indagine alla «necessità di stabilire se gli archivi storici online possiedano una sorta di primato, garantito dalla libertà di stampa e di informazione (art. 21 Cost.), alla conservazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato»[2], considerato che l’archiviazione online non ha una finalità di tipo giornalistico, ma documentaristico e, rispetto agli archivi cartacei, è potenzialmente molto più lesiva per i titolari dei dati trattati.

La Corte rileva, poi, che effettuare una reductio ad unum del diritto all’oblio è un’operazione impossibile, dovendosi di volta in volta raccordare la sua tutela alla fattispecie concreta e, in particolare, al medium utilizzato per trattare i dati personali. A ciò aggiunge che la fattispecie sottoposta alla sua attenzione è equiparabile a quella oggetto della sentenza n. 5525/2012, sul diritto alla contestualizzazione, che utilizza quindi come parametro decisionale.

Sulla base dei criteri espressi in quest’ultima sentenza, infatti, la Corte analizza il contenuto della sentenza del Tribunale di Milano. Dapprima, si afferma che nel bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto all’informazione, prevale quest’ultimo, ex articolo 21 della Costituzione, quando il dato è trattato correttamente e permane l'interesse alla sua conoscenza, «da valutarsi e da ritenersi sussistente in funzione non solo della perdurante attualità del dato di cronaca, ma anche in presenza del solo assolvimento del valore documentaristico conservativo proprio dell'archivio, sia pure integrato dagli aggiornamenti prescritti dalle autorità intervenute in tema»[3]. Si precisa, poi, che un ragionevole compromesso tra gli interessi contrapposti è rappresentato dalla deindicizzazione.

Da questi principi deduce che, avendo la società editrice spontaneamente provveduto alla deindicizzazione e all’aggiornamento dell’articolo, per il quale sussiste un interesse del mondo economico, ha attuato correttamente il bilanciamento in questione.

La Corte condivide le argomentazioni del Tribunale, ritenendole in linea con la giurisprudenza nazionale ed europea richiamata, e aggiungendo che il nuovo Regolamento 2016/679 prevede espressamente tra i limiti del diritto all’oblio il trattamento di dati per finalità di archiviazione nel pubblico interesse. Respinge, pertanto, il ricorso.

Il secondo caso in esame, come si è detto, tratta lo stesso argomento. S.A., amministratore unico di una società di rappresentanza di dispositivi medicali, presenta un ricorso nei confronti di Donlisander Communication, editore di un quotidiano, a causa della pubblicazione nel suo archivio online di un articolo, reperibile su Google, intitolato «Truffa Asl di Teramo per fornitura di protesi, patteggia 8 mesi», che riporta un fatto di cronaca giudiziaria per cui l’interessato nel 2015 aveva patteggiato la pena per una imputazione di frode in pubbliche forniture, sostituzione di persona e falso in atto pubblico commesso da privato.

Nel 2017 Il Tribunale di Pescara, ritenendo la notizia non più attuale in seguito al patteggiamento e riconoscendo il diritto all’oblio del titolare dei dati, accoglie la domanda e ordina la cancellazione dell’articolo dall’archivio su internet.

L’editore, quindi, propone ricorso in Cassazione per quattro motivi, relativi alla violazione e falsa applicazione del Codice della privacy, del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, della Direttiva 95/46 e del Regolamento 2016/679: in particolare, ritiene erroneo il riferimento al diritto all’oblio, considerato che la notizia di cronaca risale a un anno e sei mesi prima della presentazione del ricorso, e, in ogni caso, reputa eccessivo e contrario al caso Google Spain il rimedio della cancellazione degli articoli.

La Corte, dopo aver ripercorso l’evoluzione del diritto all’oblio prendendo le mosse dal diritto alla riservatezza e passando per i cambiamenti determinati da internet, tratta congiuntamente i motivi di ricorso, individuando due questioni da analizzare: la liceità dell’archiviazione di notizie per finalità storiche e i rimedi a tutela dei soggetti interessati.

Quanto alla prima questione, rileva che l’attività di archiviazione online di notizie con finalità storica assume «un duplice rilievo costituzionale: a) in quanto strumentale alla ricerca storica ed espressione del correlato diritto (art. 33 Cost.); b) in quanto espressione del diritto di manifestare liberamente il pensiero (artt. 21 e 33 Cost.)»[4]: all’esito del bilanciamento tra interesse pubblico alla conoscenza e interesse del singolo ad essere dimenticato, si può ottenere l’integrazione del dato se questo non risponde a verità, ma non la cancellazione della notizia, poiché l’archivio, avendo una finalità documentaristica, è espressione del diritto all'informazione.

Quanto alla seconda questione, i giudici di legittimità innanzitutto sottolineano che la finalità di un archivio non muta nella sua versione online, tanto che eliminare un articolo su internet equivale a strappare la pagina di un vecchio giornale: «all’interno dell’archivio digitale, come in quello cartaceo, di una testata giornalistica, infatti, le notizie sono organizzate cronologicamente e con indicazione, per ciascuna, del proprio autore, restando, come tali, ricomprese in contesti non anonimi e contestualizzati»[5].

La Corte ritiene che tale interpretazione sia in linea con l’orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel caso Google Spain e nel caso riguardante il trattamento di categorie particolari di dati personali ad opera dei gestori di motori di ricerca. Aggiunge che nel caso in esame, tuttavia, non viene in rilievo l’attualizzazione della notizia, così come la sentenza 5525/2012 sul diritto alla contestualizzazione, bensì il diritto alla deindicizzazione di cui al caso Google Spain.

Sulla base di queste considerazioni, enuncia il seguente principio di diritto: «In materia di diritto all'oblio là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi - appartenente al passato e che egli voglia tenere per sé a tutela della sua identità e riservatezza - e la sua riemersione senza limiti di tempo all'esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, e può trovare soddisfazione, fermo il carattere lecito della prima pubblicazione, nella deindicizzazione dell'articolo sui motori di ricerca generali, o in quelli predisposti dall'editore»[6].

Pertanto, cassa la sentenza, dichiarando che il Tribunale di Pescara non ha verificato se il tempo trascorso dalla data del patteggiamento al momento della pubblicazione online della notizia integri gli estremi del diritto all’oblio, che non ha provveduto al bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca e che non ha accertato i presupposti di applicabilità della deindicizzazione.

 

[1] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 2.2.2.

[2] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 5.7.3.

[3] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 5.10.1.

[4] Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., § 11.1.

[5] Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., § 11.2.

[6] Cass., 19 maggio 2020, n. 9147, cit., § 12.


4. Conclusioni.

Nonostante i dubbi che quest’ultima sentenza della Cassazione pone in relazione al tempo necessario per legittimare il diritto all’oblio, le due decisioni appena analizzate, considerate congiuntamente, forniscono un quadro unitario di una materia magmatica e tuttora in evoluzione.

Infatti, la seconda sentenza, ponendosi nel solco della prima, ribadisce che non esiste un unico rimedio a tutela del diritto all’oblio: si deve scomporre la materia in tipi diversi di casi, per ognuno dei quali vi è un differente schema di bilanciamento tra diritto all’oblio e diritto di cronaca da applicare alla fattispecie concreta. Come si è rilevato in dottrina, viene profilandosi una scansione per Fallgruppen[1].

Si possono così distinguere quattro casi e quattro corrispondenti schemi di bilanciamento.

Nell’ipotesi in cui vi sia una richiesta di oblio dei propri dati personali, rispetto ai quali non vi è un interesse pubblico e attuale alla conoscenza ma una semplice curiosità, si ha tendenzialmente diritto alla deindicizzazione dei link che a questi rimandano, al fine di intaccare il meno possibile il diritto all’informazione.

Se, invece, la richiesta è in conflitto con un interesse pubblico a conoscere tali dati prevale il diritto all’informazione, a discapito del diritto al controllo dei dati personali.

Ancora, quando i dati personali sono inequivocabilmente falsi e lesivi dei diritti della personalità il soggetto interessato ha diritto alla loro cancellazione, anche se rimane preferibile una smentita, a tutela del fondamentale diritto all’informazione.

Infine, come avviene nelle due sentenze in esame, nel caso di una richiesta di oblio di una notizia contenuta in un archivio storico su internet prevale di regola il diritto all’informazione, potendosi ottenere non la cancellazione del dato, bensì la deindicizzazione dei link che rimandano all’articolo e, in determinati casi, il suo aggiornamento.

Si noti che, abbandonando l’orientamento espresso dai giudici di legittimità con la sentenza n. 5525/2012, la Corte riconosce ora un regime di notice and take down, in base al quale gli editori delle pagine online sono tenuti all’aggiornamento dei dati personali, così come avviene per i gestori dei motori di ricerca per le richieste di deindicizzazione, solo a seguito di un’opportuna segnalazione da parte del soggetto interessato[2].

Partendo da tale modello, pertanto, i giudici dovranno sussumere la fattispecie sotto lo schema corrispondente per poi eseguire il bilanciamento dei vari interessi in gioco nel caso concreto.

 

[1] Pardolesi, Scarpellino, Sulle stratificazioni del diritto all’oblio: quando sì e come, in Diritto di internet, 3/2020, p. 461; Pardolesi, Oblio a regime?, in Foro it., 2020, I, c. 2684 ss.

[2] Cass., 27 marzo 2020, n. 7559, cit., § 5.9.1.