La rinuncia atipica alla proprietà immobiliare, al di fuori dei casi espressamente previsti dal codice, pure se astrattamente ammissibile, si scontra con il problema della valutazione della meritevolezza degli interessi concretamente perseguiti dalle parti.è
E' necessario constatare che neanche per i beni mobili è ravvisabile una generale e libera ammissibilità dell'abbandono mero.
The atypical renunciation of real estate property, apart from the cases expressly provided for by the code, even if abstractly admissible, clashes with the problem of assessing the merit of the interests actually pursued by the parties.
It is necessary to note that not even for chattels there is a general and free admissibility of mere abandonment.
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1. Premessa - 2. Cenni sul negozio di rinuncia - 3. La causa del negozio di rinuncia - 4. Segue: la meritevolezza degli interessi sottesi alla rinuncia al diritto di proprietà - NOTE
L’ordinamento riconosce al proprietario il diritto di disporre e di godere del bene, mediante l’esercizio di una pluralità di poteri e facoltà che rappresentano il contenuto del suo diritto, tuttavia, in alcuni casi, il concreto esercizio di alcune facoltà di godimento inerenti al diritto di proprietà può essere considerato antigiuridico (perché nocivo, antisociale, odioso, ecc.).
Anche il mancato o negligente uso del diritto di proprietà su un edificio, consistito nel mancato esercizio della facoltà di farlo valere in giudizio per rimuovere una situazione dannosa, non solo per chi ha omesso di agire, ma anche per i terzi da tale omissione danneggiati, è stato ritenuto un “uso anormale” del diritto stesso, fonte di responsabilità nei confronti dei terzi [1] sulla base della constatazione, tipica per i ragionamenti che all’epoca i giuristi erano soliti fare, che l’art. 833 cod. civ. in materia di divieto degli atti emulativi potesse rappresentare un principio generale suscettibile di applicazione analogica.
Nella fattispecie decisa dalla Seconda Sezione Civile della S.C. il 15 novembre 1960, n. 3040, fu statuito che “il mancato e negligente uso della facoltà di agire in difesa del diritto soggettivo per rimuovere una situazione dannosa non solo al titolare del diritto medesimo, ma anche a terzi, costituisce uso anormale del diritto soggettivo, se il non uso si risolve nell’inosservanza doloso o colposa di specifiche norme di condotta poste a tutela di diritti altrui”.
Si trattava in particolare del caso di un acquirente di alloggio, realizzato dall’Istituto Autonomo Case Popolari di Messina, che aveva citato in giudizio detto Istituto quale proprietario dei residui appartamenti facenti parte del condominio, il quale, dopo che alcuni sfollati avevano occupato sine titulo appartamenti sfitti facenti parte del fabbricato, non solo non si era attivato per liberare i locali, così consentendo ad una popolazione in sovrannumero di abitare negli stessi con ovvi disagi per la parte attrice, ma aveva addirittura costruito un ulteriore bagno e una fontana nelle parti comuni dell’edificio, al fine di ovviare in parte alle condizioni di disagio che si erano venute a creare.
L’annotatore della sentenza aveva stigmatizzato l’evidente errore in cui, a suo dire, era pervenuta la S.C. quando aveva qualificato come “abuso” o “uso anormale” il non uso di un diritto soggettivo, in quanto l’abuso è un uso eccessivo e smodato del diritto, mentre il non uso sarebbe esattamente il contrario [2].
Oggi, almeno secondo l’autorevole insegnamento di una parte della dottrina, si è soliti guardare anche al diritto di proprietà e non solo ai diritti reali di godimento su cosa altrui, in una prospettiva relazionale [3], per cui una pluralità di situazioni giuridiche soggettive sono tra loro in rapporto, e ciascuna è portatrice di una pluralità di interessi che debbono necessariamente coesistere.
La necessità del superamento della visione arcaica del diritto di proprietà quale “ius utendi et abutendi [4]” è resa vieppiù attuale a seguito dell’entrata in vigore della nostra Costituzione, che con l’art. 42 riserva alla legge la determinazione dei modi di acquisto [5], di godimento e dei limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
Sembra opportuno in questa sede evidenziare l’importanza dei principi costituzionali, perché una volta superata l’opinione più antica che negava una diretta efficacia precettiva delle norme costituzionali, si è pervenuti da un lato alla proposta di interpretazione costituzionalmente orientata delle norme ordinarie, e dall’altro addirittura alla proposta di applicazione congiunta delle norme ordinarie e dei precetti costituzionali con la tecnica del c.d. combinato disposto, di guisa che sia possibile tentare una ricostruzione equilibrata delle problematiche che in questi ultimi anni hanno interessato dottrina e giurisprudenza con esiti a volte tra loro inconciliabili.
Non è mia intenzione approfondire il tema generale della ammissibilità della rinuncia abdicativa ad un diritto di proprietà, in quanto sicuramente essa è possibile nei casi previsti dalla legge [6]: l’art. 882 cod. civ. consente al comproprietario di un muro comune di rinunciare al suo diritto al fine di esimersi dall’obbligo di contribuire alle spese di ricostruzione e riparazione, purché esse non si siano rese necessarie a causa del fatto proprio del rinunziante; l’art. 550 cod. civ. consente al legittimario, al quale il testatore abbia lasciato la nuda proprietà della disponibile attribuendo a terzi l’usufrutto, di abbandonare la nuda proprietà della disponibile (c.d. cautela sociniana); l’art. 1104 cod. civ. [7] consente a ciascun partecipante alla comunione di rinunciare al proprio diritto di comproprietà al fine di sottrarsi alle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune, ed infine l’art. 1070 cod. civ. consente al proprietario del fondo servente di liberarsi delle spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù, rinunziando alla proprietà del fondo stesso a favore del proprietario del fondo dominante.
Al di là delle ipotesi tipiche, la dottrina è in larga parte orientata ad ammettere anche fattispecie atipiche [8] di rinuncia abdicativa [9] per lo più ritenendo che si tratti di un negozio giuridico [10] unilaterale non recettizio con il quale un soggetto dismette una situazione giuridica soggettiva di cui è titolare senza che essa venga trasferita direttamente ad un soggetto terzo [11]. Gli ulteriori effetti che possono incidere sui terzi, secondo tale orientamento dottrinale, sarebbero effetti automatici ed ulteriori, operanti ex lege.
Va notato però che di recente la riforma sul condominio ha portato il legislatore a modificare il secondo comma dell’art. 1118 cod. civ., statuendo che “il condomino non può rinunciare al suo diritto sulle parti comuni”. In tal caso, dunque, non viene data per presupposta la validità della rinuncia, costituendo la stessa un’eccezione non alla generale facoltà di rinuncia, bensì all’ipotesi più stringente del primo comma dell’art. 1104 cod. civ., che espressamente ammette la rinuncia della quota di comproprietà, ipotesi ben diversa dalla generale rinuncia, poiché in tal caso “il bene immobile non rimane acefalo, continuando ad identificarsi con uno o più soggetti responsabili della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse alla proprietà di quel bene [12]”.
Ciò significa che vi possono essere diritti irrinunziabili in forza della particolare funzione che il bene deve svolgere in rapporto ad una pluralità di individui. Ed è proprio con riguardo alla funzione dell’atto, e quindi analizzando la giustificazione causale della rinuncia, che la nostra attenzione deve soffermarsi per vagliarne l’ammissibilità [13].
Si ritiene che la rinuncia, in quanto atto meramente dismissivo che non realizza di per sé attribuzioni patrimoniali a soggetti terzi [14], debba comunque essere un negozio causale [15]. In particolare, si è sostenuto [16] che la rinuncia abdicativa dovrebbe perseguire, oltre che l’effetto di mera rinunzia della situazione giuridica, anche interessi meritevoli di tutela, essendo altrimenti il negozio, nel caso opposto, radicalmente nullo.
Un diverso orientamento [17] ritiene invece che nell’atto in esame la causa, intesa come sintesi essenziale degli effetti, consisterebbe solamente nella mera dismissione del diritto, con la conseguenza che il negozio sarebbe un “nudo patto”, astratto, sempre meritevole di tutela. Corollario di questa tesi sarebbe l’assenza di qualsiasi controllo sulle modalità di esercizio dell’autonomia privata. Secondo tale ricostruzione, quindi, non ci sarebbe necessità di accertare nella rinuncia l’esistenza di una funzione, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra due diversi soggetti [18].
Alla luce dell’autorevole orientamento che guarda al diritto di proprietà in un’ottica relazionale anche alla luce della funzione sociale che esso dovrebbe realizzare, sembra opportuno in questa sede tener conto di alcuni spunti che si possono trarre dal parere redatto dall’Avvocatura Generale dello Stato all’Agenzia del Demanio, pur con le sue luci ed ombre, e da alcune recenti decisioni, specialmente di giudici amministrativi [19].
Di recente, l’Avvocatura Generale dello Stato ha reso un interessante parere di massima in cui affronta il tema della rinunciabilità al diritto di proprietà immobiliare (il parere in questione è il n. 37243/17, sez. III, Avv. G. Palatiello) [20].
Con detto parere, rivolto all’Avvocatura Distrettuale di Genova, l’Avvocatura Generale ha affermato che fra le varie facoltà del proprietario, vi è anche quella di rinunciare al diritto dominicale, con l’effetto di provocare l’acquisto automatico (non rifiutabile) ed a titolo originario del bene rinunciato (spesso terreni con evidenti problemi di dissesto geologico e rischio di frane [21], abitazioni pericolanti ed inabitabili prive di alcun valore economico…) allo Stato ai sensi dell’art. 827 [22] cod. civ., con conseguente accollo all’Erario (con conseguenti profili di responsabilità civile ex artt. 2043, 2051 e 2053 cod. civ. e penale ex art. 449 cod. pen.) di tutti i costi necessari per le opere di consolidamento, demolizione, manutenzione ecc. relativi ai beni stessi. Il tutto, peraltro, senza una previa autorizzazione o quantomeno comunicazione allo Stato.
Nel parere si legge che in linea generale la facoltà di rinuncia è insita nella titolarità di ogni diritto [23] e quindi deve intendersi di massima consentita, anche se in alcune pronunce dei T.A.R. (per tutti T.A.R. Puglia, Bari, 17 settembre 2008, n. 2131, Tar Piemonte, sez. I, sentenza 28 marzo 2018, n. 368) si evidenzia che in tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore.
In nessun caso, comunque, “si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario”. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumere che la rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale, disciplinato in talune situazioni solo per esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla valorizzazione del bene immobile.
Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore in vari modi: ad esempio, con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione. La ammissione generalizzata della possibilità di abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo superficiario, di un bene immobile, va invece in segno diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed attiva dei beni.
Nel parere in questione l’Avvocatura dello Stato riconosce validità di massima al negozio unilaterale di rinuncia abdicativa, che sarebbe atipico e non rifiutabile, ma afferma che la validità dello stesso debba essere valutata caso per caso in relazione alla causa concreta del negozio abdicativo che deve essere sottoposta al giudizio di meritevolezza, essendo ad esso applicabile il secondo comma dell’art. 1322 cod. civ. per effetto dell’art. 1324 cod. civ.
Di recente, taluno [24] ha sostenuto che il controllo “caso per caso” sulla causa in concreto dell’atto non sarebbe condivisibile.
Il controllo sulla causa della rinuncia, pur non intaccando “la facoltà di abbandono formale dell’immobile”, renderebbe di fatto impossibile la rinuncia medesima. Sempre secondo tale linea di pensiero, eventuali obblighi di messa in sicurezza dell’immobile, sorti anteriormente alla rinuncia, resterebbero comunque a carico dei rinuncianti [25] i quali, dopo il ripristino del cespite, “rinunceranno ancora e avendo abbandonata una cosa in buono stato, il loro atto sarà inattaccabile”.
In realtà, bisogna distinguere tra rinuncia e donazione di immobili allo Stato.
Se l’immobile fosse messo in sicurezza e ristrutturato dal privato acquisendo così un valore patrimoniale “positivo”, l’eventuale atto di cessione a favore dello Stato, in presenza di un effetto economico di arricchimento dell’ente previo depauperamento del patrimonio del disponente e la insussistenza di un interesse patrimoniale in capo a quest’ultimo, dovrebbe necessariamente ricondurre tale fattispecie nell’ambito del contratto di donazione. Tra l’altro, la Circolare dell’11 febbraio 2000, n. 22 del Min. Finanze – Dip. Territorio Demanio Serv. II ha disciplinato il procedimento necessario per donare beni immobili allo Stato: l’ufficio del territorio deve acquisire tutti gli elementi di giudizio necessari al riguardo (eventuali oneri cui si intende subordinare la donazione, valore del bene oggetto della donazione stessa e convenienza della stessa tramite apposita relazione tecnico-descrittiva estimativa; parere dell’amministrazione usuaria ed effettiva destinataria poi della liberalità, titoli comprovanti la proprietà del bene in capo al donante mediante idonea documentazione da parte delle Conservatorie) e farà formalizzare l’intendimento in una vera e propria proposta di donazione rogata da un notaio anche per l’esecutività dai competenti organi dell’ente stesso.
In realtà, la facoltà di abbandono non è configurabile in generale neanche con riferimento ai beni mobili, pur in presenza di un chiaro indice normativo all’art. 923, comma 2, cod. civ.: l’abbandono di pneumatici usati, classificati rifiuti speciali, ad esempio, costituisce un reato previsto dall’art 192 e sanzionato dall’art. 256 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (TU dell’Ambiente). Parimenti, non è neanche possibile abbandonare le carcasse di automobili radiate dal P.R.A. [26] in parcheggi pubblici, oppure gettare in strada rifiuti, né è consentito lasciare la lavatrice non funzionante ai margini di una via pubblica. Difatti, l’esternalità negativa prodotta dall’abbandono di un bene mobile potrebbe fondare la qualificazione dello stesso in termini di “rifiuto” [27], che deve essere smaltito, previo pagamento del relativo servizio, da parte di appositi impianti di trattamento che garantiscono la salvaguardia dell’ambiente e il riciclo delle materie prime. Si noti bene come un tale parallelismo con la disciplina dei rifiuti permetterebbe di indagare lo spazio operativo riservato alle prerogative proprietarie: se neanche per i beni mobili è plausibile una rinuncia libera, che lo stesso non valga per i beni immobili potrebbe apparire tutt’altro che singolare.
Prosegue il parere evidenziando che tale negozio unilaterale atipico di rinuncia abdicativa sarebbe caratterizzato, dalla dottrina prevalente, dall’essere sostanzialmente un “nudo patto” la cui causa sarebbe insita nella mera dismissione del diritto. Ed in tal senso, esso non potrebbe mai essere nullo per illiceità della causa essendo la stessa volta esclusivamente a consentire la dismissione del diritto.
La volontà del privato di rinunciare al diritto di proprietà, tuttavia, secondo il parere non deve essere valutata esclusivamente alla stregua dei poteri del dominus di godere e disporre del bene in modo pieno ed esclusivo, secondo una visione ormai sorpassata del diritto dominicale, ma deve tenere necessariamente conto della funzione sociale della proprietà ex art. 42 Cost. L’abbandono della concezione ottocentesca della proprietà, infatti, impone una ricerca di un’armonia tra gli scopi individualistici e quelli facenti capo alla collettività, in termini di una “formale coesistenza del carattere privato della proprietà e della sua funziona sociale [28]”.
La rinuncia abdicativa non deve essere guidata da scopi egoistici e non deve essere lo strumento per conseguire un (illecito) vantaggio ai danni dello Stato e, conseguentemente, della collettività, poiché ciò renderebbe la causa concreta del negozio abdicativo illecita ex art. 1343 cod. civ. e determinerebbe la nullità del negozio stesso ai sensi dell’art. 1418, comma 2, cod. civ.
Nella fondamentale sentenza della terza sezione della Cassazione Civile, dell’8 maggio 2006 n. 10490, il cui estensore fu il consigliere Travaglino, è scritto che la causa, quale elemento essenziale del contratto, non deve essere intesa come mera ed astratta funzione economico-sociale del negozio, bensì come sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a realizzare, e cioè come funzione individuale dello specifico contratto, a prescindere dal singolo stereotipo contrattuale astratto, fermo restando che detta sintesi deve riguardare la dinamica contrattuale e non la mera volontà delle parti. Nel corpo della sentenza l’estensore fa presente che “si discorre da tempo di una fattispecie causale “concreta” e si elabori un’ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d’altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell’orbita della dimensione funzionale dell’atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l’uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale”.
Trasferendo tale principio al negozio unilaterale atipico di rinuncia abdicativa si può sostenere che il proprietario non può decidere di rinunciare ad una proprietà immobiliare al solo ed unico fine di liberarsi dai costi di manutenzione, di consolidamento e di demolizione dell’immobile in quanto ciò realizzerebbe un trasferimento dal privato allo Stato e, quindi, in ultima analisi, ai cittadini tutti, degli oneri e dei pesi connessi alla titolarità di beni aventi un valore negativo [29]. L’Avvocatura, all’interno del parere in commento, afferma che la rinuncia alla proprietà è nulla ove abbia il solo ed egoistico scopo di liberarsi di:
– terreni con evidenti problemi di dissesto idrogeologico (al fine di evitare i costi per “opere di consolidamento, demolizione e manutenzione”);
– edifici inutilizzabili e diruti (al fine di evitare i “costi di demolizione”);
– terreni inquinati (per spostare sullo Stato le spese di bonifica).
In corrispondenza di questi casi il negozio unilaterale di rinuncia non può che essere affetto da nullità, dal momento che in situazioni di questo tipo, esso non può essere qualificato come “meritevole di tutela” ai sensi dell’art. 1322 cod. civ.
Una rinuncia finalizzata a conseguire unicamente fini egoistici sarebbe in primis dotata di una causa illecita ex art. 1343 cod. civ., ed inoltre si porrebbe in aperto contrasto con l’art. 42 della Costituzione, in quanto renderebbe la proprietà un “peso” per lo Stato (e quindi per i cittadini), che sarebbe in tal modo costretto ad addossarsi tutte le spese e gli oneri necessari alla manutenzione, alla demolizione ed alla bonifica della consistenza immobiliare, in spregio alla funzione sociale della proprietà.
Per l’Avvocatura dello Stato, inoltre, il negozio unilaterale di rinuncia abdicativo del diritto di proprietà, finalizzato a tali obiettivi di traslazione sullo Stato di spese, responsabilità ed oneri, sarebbe configurabile come un negozio in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 cod. civ., in quanto costituirebbe il mezzo per il conseguimento di un risultato contrario alla legge e, dunque, “per eludere l’applicazione di una norma imperativa”.
Inoltre, in queste ipotesi, l’atto di rinuncia abdicativa sarebbe anche contrario all’art. 1345 cod. civ., poiché il privato verrebbe determinato a porlo in essere solo ed esclusivamente per un motivo illecito anche se non comune, essendo noto che il motivo determinante illecito unilaterale spieghi i suoi effetti invalidanti anche se non sia comune nelle ipotesi previste dagli artt. 788 e 626 cod. civ., in tema di donazione e testamento, dovendosi necessariamente togliere soverchia importanza a tale presupposto, essendo sufficiente, rispetto agli unilaterali, che essi siano finalizzati esclusivamente al “perseguimento di scopi riprovevoli e antisociali”.
Secondo la Corte di Cassazione “la norma dettata dall’art. 1345 cod. civ. che, derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all’art. 1324 cod. civ., trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’art. 1343 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” [30].
Nota bene l’Avvocatura come la Corte di Cassazione giunga “ad applicare l’art. 1345 cod. civ. anche agli atti unilaterali, tramite l’art. 1324 cod. civ., analizzando la ratio della prima norma “da individuarsi nell’esigenza di evitare gli abusi del diritto, ricorrenti quando l’atto di autonomia privata sia finalizzato esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali”.
Affinché il motivo illecito di un atto unilaterale assuma rilevanza determinandone la nullità ex art. 1418 cod. civ., per l’Avvocatura dello Stato occorre che:
– il motivo sia illecito;
– esso sia la ragione determinante del soggetto che pone in essere il negozio;
– esso sia oggettivamente riconoscibile dall’atto o almeno sia ragionevolmente desumibile da elementi estrinseci.
La rinuncia alla proprietà immobiliare quindi, secondo quanto previsto dall’Avvocatura, risulta giustificata solo nelle ipotesi in cui non sia finalizzata unicamente al perseguimento di fini egoistici ed utilitaristici come accade, invece, nei seguenti casi:
– presenza di problemi di dissesto idrogeologico;
– necessità di procedere a demolizione o messa in sicurezza;
– inquinamento del terreno e conseguente necessità di bonifica.
In tutti questi casi, infatti, il privato si determina a rinunciare alla proprietà dell’immobile unicamente per liberarsi dei relativi costi e porli a carico dello Stato [31].
L’atto di rinuncia sarebbe, pertanto, radicalmente nullo tutte le volte in cui il privato, attraverso lo stesso, persegua l’obiettivo di liberarsi di beni che per lui non hanno nessuna utilità o che, addirittura, costituiscono un peso, in quanto fonti di spese e di oneri di vario tipo [32]. Esso si pone in contrasto con il generale divieto di abuso del diritto, segnatamente per essere stato posto in essere per una finalità che può qualificarsi meramente emulativa, anche tenendo conto dell’autorevole dottrina sopra citata che estende la ratio dell’art. 833 cod. civ. anche ad ambiti diversi dalla proprietà e persino nell’ambito dei diritti di credito [33].
Come si accerta però la nullità? Essa può naturalmente derivare solo ed esclusivamente da una pronuncia giudiziale, per mezzo della quale si procede all’accertamento della medesima e, conseguentemente, all’annullamento del negozio di rinuncia. Per arrivare alla dichiarazione di nullità dell’atto, quindi, sarà necessario impugnare lo stesso ed impostare un ordinario giudizio, all’interno del quale onerato di provare la sussistenza della causa di nullità sarà (come affermato espressamente dall’Avvocatura) il “Demanio attore”. All’interno di questo giudizio il Demanio potrà inoltre far valere una pretesa risarcitoria nei confronti del rinunciante per i danni da questi procuratigli attraverso l’omissione degli interventi manutentivi e di messa in sicurezza dell’immobile che è stato oggetto di rinuncia.
Qualora lo Stato volesse porre nel nulla gli effetti del negozio di rinuncia posto in essere dal privato, dovrà impugnare lo stesso e farne dichiarare la nullità (eventualmente accompagnando alla domanda di nullità anche una domanda risarcitoria).
In conclusione, pur premessa l’ammissibilità, in linea astratta, di una rinuncia abdicativa immobiliare, qualora essa fosse posta in essere al fine di traslare sullo Stato, e quindi sulla collettività, debiti originariamente sorti in capo al rinunciante, in forza del presunto effetto automatico che si realizzerebbe ex art. 827 cod. civ., norma peraltro avente solo una funzione di chiusura, come si legge al punto 398 della Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al codice civile del 4 aprile 1942 “Colmando una lacuna del codice del 1865”, la quale aveva aperto l’adito a dubbi e a soluzioni diverse, ho disposto (art. 827 cod. civ.) che i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato: con questa nuova norma è pertanto escluso che vi siano beni immobili senza proprietario” [34]. Una lettura diversa che aprisse un varco a rinunzie finalizzate al trasferimento in capo allo Stato, e quindi alla collettività, di beni immobili dannosi e forieri di spesa, oltre che palesemente in contrasto con una interpretazione assiologica del sistema normativo alla luce dei principi fondamentali, in particolare il principio di solidarietà e la funzione sociale della proprietà [35], finirebbe per introdurre surrettiziamente una specie di “rinuncia al debito” da parte del debitore, che, prima ancora che nulla, ritengo sia direttamente inconfigurabile ed estranea a qualsiasi cultura giuridica.
Resta, infine, da accennare velocemente in questa sede a quella prassi che ha correttamente risolto, facendo ricorso alla logica dello scambio, la questione del trasferimento degli immobili aventi un valore negativo. Si è ipotizzato [36], a tal riguardo, il ricorso alla c.d. “vendita inversa” nella quale è il venditore a corrispondere un corrispettivo al compratore al fine di rendere meno indigesto il trasferimento di un bene gravato da un vincolo e/o da un onere.
Tali prestazioni, strettamente legate, sono l’una il presupposto dell’altra e sono unite da un nesso di interdipendenza volto a soddisfare bisogni ed interessi della controparte: il contratto di vendita inversa, infatti, appare inquadrabile nell’alveo dei contratti a prestazioni corrispettive, in quanto il cedente, anche a fronte del pagamento del corrispettivo, ottiene la liberazione dalle conseguenze negative derivanti da un vincolo gravante sul bene, mentre l’acquirente risulta disponibile ad accollarsi gli oneri necessari per affrancare il bene, rendendolo idoneo all’uso cui è destinato, al fine di trarre dei vantaggi di ordine patrimoniale aventi causa dal bene e dall’attività svolta in relazione allo stesso.
[1] Così, Cass. 15 novembre 1960, n. 3040, in Foro it., 1961, I, 256 ss. con nota critica di A. Scialoja, Il “non uso” è “abuso” del diritto soggettivo?
[2] Ritiene che l’idea stessa di abuso del diritto sia assurda e contraddittoria: se del diritto soggettivo si è titolari in quanto esso è attribuito dallo jus positum, allora vi può solo essere uso e non abuso; nel caso contrario e quindi in assenza del diritto non di abuso si dovrebbe discutere ma di agire senza diritto od anche di usurpazione di un diritto M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, nota a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Riv. dir. civ., 2010, 147 ss.
[3] P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della proprietà, Edizioni Scientifiche Italiane, 1971, 91 ss.
[4] V. M. Bellinvia, La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, in Studi CNN, Consiglio Nazionale del Notariato, studio n. 216-2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014, 25: “La rinunziabilità, in definitiva, costituisce un predicato del diritto reale, costituendo forse una delle residue facoltà di quello ius utendi ed abutendi che nel tempo è stato via via eroso, sia pure legittimamente, dal sopravvenire di rilevanti esigenze collettive e dal perseguimento di una funzione sociale della proprietà”.
[5] Sul principio di tipicità dei modi di trasferimento della proprietà mi sia consentito il rinvio a E. Damiani, Il principio di tipicità dei negozi unilaterali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 30 ss. In giurisprudenza hanno negato che la produzione di effetti traslativi possa discendere da un negozio unilaterale: Cass. 30 gennaio 2007, n. 1967, in Riv. not., 2008, 399 ss. con riguardo alla costituzione di usufrutto e più di recente, con riferimento alla costituzione di servitù prediali, Cass. 12 febbraio 2021, n. 3684, in Guida dir., 2021, 15, la quale ha stabilito che per conservare una costruzione a distanza inferiore rispetto a quella prescritta dalla legge, non è sufficiente una mera autorizzazione unilaterale del proprietario del fondo vicino, che acconsenta alla corrispondente servitù, dato che, in materia di diritti reali, non risulta idoneo un atto che abbia semplice natura ricognitiva, mentre è necessario un vero e proprio contratto, che dia luogo – per l’appunto – alla costituzione di una servitù prediale, ai sensi dell’art. 1058 cod. civ.
[6] La dottrina ha rivolto una particolare attenzione all’atto di rinuncia. Con diverse posizioni al riguardo cfr.: R. Quadri, La rinunzia al diritto reale immobiliare: spunti di riflessione sulla causa dell’atto unilaterale, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, il quale sembra orientato ad ammettere in linea generale la rinuncia ai diritti reali previa verifica della compatibilità della causa in concreto dell’atto tenuto conto anche degli interessi dei terzi; R. Franco, La rinunzia alla proprietà (immobiliare): ripensamenti sistematici di (antiche e recenti) certezze, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019; A. De Mauro, La rinuncia alla proprietà immobiliare, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018; C. Bona, L’abbandono mero degli immobili, Editoriale Scientifica, 2017; U. La Porta, La rinuncia alla proprietà, in Rass. dir. civ., 2018, 484 ss.; G. Sicchiero, Rinuncia, aggiornamento in Dig. dis. priv., sez. civ., IV ed., Giappichelli, 2014, 606 ss.; V. Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Riv. dir. civ., 2017, 187 ss.; F. Meglio, Note in tema di rinunzia alla proprietà, tra categorie dogmatiche e istanze pratiche, in Jus civ., 2019, 630 ss.; G. Orlando, Rinuncia opportunistica alla proprietà immobiliare e abbandono immobiliare, in Dir. econ., 2021, 233 ss.
[7] È stato notato da parte della dottrina e della giurisprudenza che l’art. 1104 cod. civ. presenta certamente un profilo di specialità, ma che questo è generalmente circoscritto all’effetto liberatorio dalle obbligazioni già sorte in virtù del dovere di conservazione e non sembra estendersi, dunque, a tale dovere genericamente inteso che trova invece nell’elasticità del diritto di proprietà la sua ragione. A tal proposito, in dottrina: L. Bigliazzi Geri, Oneri reali e obbligazioni propter rem, Giuffrè, 1984, 139; C. Bona, L’abbandono, cit., 87. In giurisprudenza, v.: Avvocatura Generale dello Stato, 14 marzo 2018, n. 137950, in Foro Padano, 2018, 321 ss., con osservazioni in merito di A. Cacchetto, La rinuncia alla proprietà dell’immobile tra nuovi limiti e prospettive future.
[8] Contra C. Bona, L’abbandono, cit., 83: “i referenti normativi dell’abbandono (artt. 827, 923, 1350 n. 5 cod. civ.) attraggono il negozio unilaterale di rinuncia nell’area della tipicità”. Anche S. Pugliatti, I fatti giuridici, Giuffrè, 1945, 41 fa spesso riferimento ad uno schema tipico del negozio di rinuncia.
[9] F. Macioce, Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Giuffrè, 1989, 923.
[10] Sull’idea che la rinuncia sia un negozio giuridico, v.: S. Pugliatti, I fatti, cit., 40; L. Mengoni, F. Realmonte, Disposizione (atto di), in Enc. dir., XIII, Giuffrè, 1964, 191. Critica sul punto e sull’inquadramento negoziale della rinuncia alla proprietà: L. Bozzi, La negoziabilità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, 48 ss. dove conclude per la qualificazione della rinuncia alla stregua di un atto giuridico in senso stretto. Parimenti, in giurisprudenza, si noti la recente sentenza del Trib. Perugia 30 aprile 2021, n. 704 in wwww.giustizia.umbria.it, dove si legge che la rinuncia si avvicina “ad un atto giuridico puro piuttosto che ad un negozio”.
[11] D. Riva, Rinuncia abdicativa al diritto di proprietà, in www.federnotizie.it, 2018, 2.
[12] A tal proposito, in giurisprudenza cfr. TAR Piemonte 28 marzo 2018, n. 368, in Nuova giur. civ. comm, 2018, 1547, con nota di con nota di L.A. Caloiaro, La rinuncia alla proprietà immobiliare tra principio di tipicità e funzione sociale. In tale pronuncia si legge di una rinuncia vietata poiché in grado di lasciare la proprietà immobiliare “acefala”. La conclusione appare coerente con un’interpretazione restrittiva dell’art. 827 cod. civ., ma la dottrina nota che è invece proprio l’art. 827 cod. civ., nella sua tradizionale interpretazione, a permettere all’immobile vacante di non restare acefalo e dunque trovare qualcuno che se ne prenda cura. (R. Quadri, La rinunzia, cit., 44). Ancora, B. Brizzolari, Brevi note a margine di un recente (ed emblematico) caso di rinuncia alla proprietà immobiliare, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 633: “l’art. 827 cod. civ. indica la scelta del legislatore di farsi carico della proprietà nullius, indipendentemente dalle condizioni o dal valore della res. È vero che nessuno può divenire proprietario di un bene contro il suo consenso, ma lo Stato, se di consenso può discorrersi, l’ha espresso nel momento in cui ha posto l’art. 827 cod. civ.”
[13] Negli Stati Uniti non si fa ricorso alla rinuncia al diritto di proprietà ma all’abbandono immobiliare. V.C.L. Eson, Housing abandonment. The problem and a proposed solution, in Real Property, Probate and Trust Journal, 1971, 382 ss. A tal proposito, T. Pellegrini, Proprietà privata e Stato nel dibattito sulla rinuncia alla proprietà del bene immobile, in Riv. crit. dir. priv., 2021, 255 ss. accenna al paradosso americano, ai sensi del quale un ordine giuridico, quale quello americano, storicamente meno sociale e più attento alle prerogative proprietarie del nostro sembra superarci in limiti proprietari e socializzazione della proprietà con esclusivo e apparentemente inspiegabile riferimento alla negata possibilità di liberarsi degli immobili indesiderati. L’Autore spiega, però, che un tale paradossale quadro diventa coerente se il fondamento di un tale divieto non viene rinvenuto nell’organizzazione della proprietà, quanto piuttosto in quella dello Stato.
[14] Evidenzia come la “rinunzia, come negozio essenzialmente abdicativo, non ha in nessun caso altra conseguenza che l’estinzione del rapporto, per uscita dal medesimo del soggetto attivo” F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Edizioni Scientifiche Italiane, 1989, 218; E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, 292. Secondo L. Bozzi, La negozialità, cit., 49 ss., la rinunzia costituirebbe un atto di autonomia debole, riconducibile all’ambito dell’atto giuridico in senso stretto piuttosto che del negozio giuridico: in essa la volontà del soggetto sarebbe posta esclusivamente sull’atto e sul suo effetto primario costituito dalla dismissione del diritto, non invece sugli effetti ulteriori (consolidazione, accrescimento, o acquisto) che sono disposti direttamente dalla legge.
[15] B. Troisi, Negozio giuridico, negozio astratto, in Enc. giur. Treccani, XX, Zanichelli, 1990; E. Betti, Astrazione (Negozio astratto), in Noviss. dig. it., I, Giappichelli, 1968, 1469 ss.
[16] F. Macioce, Rinuncia, cit., 923 ss.
[17] G. Sicchiero, Rinuncia, in Dig. disc. priv., IX, Giappichelli, 2014, 661 ss.; M. Bellinvia, La rinunzia, cit., 27.
[18] Si pensi, a tal riguardo, a quell’autorevole dottrina che grazie all’art. 827 cod. civ. non solo risolveva “in senso affermativo la questione della possibilità di abbandono della proprietà immobiliare”, ma si interrogava anche sulla possibilità di acquisizione di un immobile per occupazione. Per dare soluzione ad un tale ampio dibattito intervenne, alla fine, il legislatore del 1942 che escluse che vi siano beni immobili senza proprietario: tale affermazione, chiaramente, sancì il divieto di acquisizione dei beni immobili per occupazione. Per una lucida ricostruzione della vicenda, cfr.: V. Brizzolari, La rinuncia alla proprietà immobiliare, in Riv. dir. civ., 2017, 193 ss.; L. Barassi, La proprietà nel nuovo Codice civile, Giuffrè, 1941, 396 ss. Ancora, T. Pellegrini, Proprietà, cit., 253 ss. nel sostenere che già la collocazione dell’art. 827 cod. civ. nel titolo dedicato ai beni e non nella parte dedicata all’acquisto dell’occupazione fa già di per sé sospettare, propone una ricostruzione storico-politica dei precedenti dell’art. 827 cod. civ., della nascita della norma finale, dell’intervento del legislatore e, infine, dell’idea che lo Stato esprime nel merito.
[19] Sul fronte giurisprudenziale il problema della facoltà della rinuncia alla proprietà del bene immobile è stato dapprima individuato da parte delle sentenze dei tribunali amministrativi, per poi essere ripreso da alcuni giudici civili. Per quanto concerne i primi, v.: TAR Puglia 17 settembre 2009, n. 2081, in www.giustizia-amministrativa.it; TAR Piemonte 28 marzo 2018, n. 368, cit., 1551. La differenza tra il ragionamento dei tribunali amministrativi e di quelli civili è che mentre i primi ragionano sulla facoltà di rinunciare alla proprietà dell’immobile per via di un risvolto della occupazione usurpativa, i tribunali civili si interrogano, invece, sulla validità di una rinuncia foriera di eventuale depauperamento per lo Stato che si trova ad essere proprietario dell’immobile rinunciato secondo quanto previsto dall’art. 827 cod. civ. La stessa tesi dell’invalidità, infatti, nasce proprio nella giurisprudenza amministrativa, in termini di impossessamento pubblico del bene privato senza una dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace.
[20] In Foro Pad., 2018, 288 ss. Con nota di A. Cecchetto, La rinuncia alla proprietà dell’immobile tra nuovi limiti e prospettive future, dove è richiamata anche la sentenza del TAR Piemonte 28 marzo 2018, n. 367, cit., secondo la quale “il fatto che la rinunzia ai diritti reali è espressamente ammessa dal Codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumente che la rinuncia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale. Il mantenimento in buono stato di un bene immobile costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere”.
[21] Il territorio ligure è, per esempio, considerato notoriamente ad alto rischio di dissesto idrogeologico a causa della presenza di versanti scoscesi, di fiumi sotterranei e di montagne che, perimetrando l’umidità marina, favoriscono un’abbondante piovosità. Nella giurisprudenza locale è, infatti, molto comune imbattersi in fattispecie di “danno da frana”: ex multis, v. App. Genova 22 agosto 2019, n. 1206, in Banca Dati “pluris”. Si noti ancora come, alla fine, la pluralità di dati circa il disagio causato dalle caratteristiche del terreno ligure ha suscitato l’espressione dell’Avvocatura Generale dello Stato, sollecitata dal suo ufficio di Genova, preoccupato da alcuni casi di rinuncia di immobili “con evidenti problemi di dissesto geologico, con conseguente accollo in capo all’Erario di tutti i costi necessari per le opere di consolidamento, demolizione, ecc., relativa ai beni stessi”. A tal proposito, cfr. Avvocatura Generale dello Stato 14 marzo 2018, n. 137950, cit., 323; T. Pellegrini, Proprietà, cit., 239 ss. dove viene ricostruito lucidamente il parere dell’Avvocatura circa il caso ligure.
[22] Come vedremo successivamente l’art. 827 cod. civ. ha natura di mera norma di chiusura: a differenza del cod. civ. del 1865 che non contemplava alcuna disposizione in materia di beni immobili che non fossero di proprietà di alcuno, e per i quali si riteneva possibile l’acquisto da parte di chiunque mediante occupazione, il legislatore del 1942 ha inteso prevedere espressamente una regola finale così come ha disposto con riguardo alla successione legittima dello Stato in assenza di successibili ex lege all’art. 586 cod. civ. Circa l’interpretazione dell’art. 827 cod. civ. si rimanda anche alla tesi di F. Santoro-Passarelli che vede nella norma stessa la “giustificazione tecnica” di una ipotetica prescrittibilità del diritto di proprietà, comunque a suo dire impedita dalla scelta ordinamentale di rendere imprescrittibile l’azione di rivendicazione. La ragione tecnica, comunque, consiste nel “permettere alla prescrizione di adempiere alla sua funzione di rendere conforme al diritto la composizione di interessi realizzatesi in fatto, data la configurazione di quell’interesse collettivo al quale si può considerare già subordinato in fatto l’interesse particolare del dominus inerte” (F. Santoro-Passarelli, Dottrine, cit., 115). Sul punto, v. anche: B. Troisi, La prescrizione come procedimento, Edizioni Scientifiche Italiane, 1980, 135 ss.; A. Auricchio, Appunti sulla prescrizione, Edizioni Scientifiche Italiane, 1971, 47.
[23] Trib. Genova 23 marzo 1991, n. 946, in Foro it., 1991, 1171 ss., nega l’ammissibilità della rinuncia al diritto di proprietà. Sembrano invece implicitamente ammetterla le Cass., sez. un., 19 gennaio 2015, n. 735, in Foro it., 2015, 436 ss., che riformando il precedente indirizzo sulla cd. occupazione acquisitiva della P.A., alla luce delle decisioni della C.E.D.U., hanno statuito che “L’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorché il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso”.
[24] V. Brizzolari, Note a margine, cit., 638; F. Macioce, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, 101 che non è persuaso dalla causa astratta del negozio di rinuncia ed è incline ad indicare una simmetria tra causa ed effetto in grado di stringere il giudizio causale ad un’azione data in vista del raggiungimento dell’effetto tipico della rinuncia, quale è la dismissione fine a sé stessa, ossia non orientata ad esempio al raggiungimento di un risultato economico ingiustificato. Contra, G. Gorla, Il contratto, I, Giuffrè, 1954, cit. 513: “si considera rilevante soprattutto la volontà di disfarsi di un diritto o di un bene e del peso della sua gestione, nonché dell’affidamento che un simile atto di abbandono del diritto suscita nei terzi o nel debitore” e poi, in nota: “onde si è parlato di un carattere astratto della rinuncia…”; ma vedi anche: S. Pugliatti, I fatti, cit., 41.
[25] V. Brizzolari, Note a margine, cit., 638, 634 e 639, sulla scorta delle osservazioni di R. Quadri, La rinunzia, cit., 40 ss. In giurisprudenza, v. il parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, 14 marzo 2018, n. 137950, cit., par. 10.
[26] Emblematica è la disciplina dell’abbandono di un veicolo a motore che condivide con quella immobiliare l’organizzazione di pubblici registri: l’art. 231, comma 6, del Codice Ambiente prevede che solo la corretta procedura di smaltimento “libera il proprietario del veicolo della responsabilità civile, penale e amministrativa connessa con la proprietà dello stesso”.
[27] Sul problema della nozione di rifiuto, cfr.: G. Resta, I rifiuti come beni in senso giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 218; A. Jannarelli, L’articolazione delle responsabilità nell’“abbandono dei rifiuti”: a proposito della disciplina giuridica dei rifiuti come non-beni sia in concreto sia in chiave prospettica, in Riv. dir. agr, 2009, 128 ss. Si noti, inoltre, come la definizione di rifiuto proposta da parte della direttiva 19 novembre 2008, n. 98 quale “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi” (art. 1, n.1) raggiunga la qualificazione presentata nel testo alla luce del principio che informa la materia stessa, ossia “ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente” (considerando n.6). Cfr. CGUE, 12 dicembre 2012, C-241, in Foro amm., 2013, 3252, punto 38: “l’espressione “disfarsi” va interpretata tenendo conto dell’obiettivo della direttiva che consiste nella tutela della salute umana e dell’ambiente”.
[28] S. Rodotà, Il diritto di proprietà tra dommatica e storia, anche in Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Zanichelli, 2013, 1238. A tal proposito, cfr. anche L. Mengoni, Proprietà e libertà, in C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi (a cura di), Scritti I, Metodo e teoria giuridica, Giuffrè, 2001, 92. L’Autore individua lo scopo della riserva di legge ex art. 42 Cost. in una composizione tra le due contemporanee funzioni della proprietà: “omogeneizzazione dell’interesse individuale con l’interesse generale” e “partecipazione del singolo al sistema delle decisioni economiche”. Fondamentale al riguardo è poi la lettura del contributo di P. Perlingieri, Introduzione, cit., 21 ss.
[29] Sul punto, A. Iannarelli, Funzione sociale della proprietà e disciplina dei beni, in F. Macario, M.N. Miletti (a cura di), La funzione sociale nel diritto privato tra XX e XXI secolo, Roma Tre Press, 2017, 58 che scrive di un “raccordo virtuoso tra le legittime aspettative del proprietario e la salvaguardia e promozione di istanze collettive pur sempre riconducibili all’uso e alle diverse destinazioni dei beni alla luce della loro diversa rilevanza sociale in linea con le linee di sviluppo di una società industrializzata del mercato”.
[30] Cass. 19 ottobre 2005, n. 20197, in Vita not., 2006, 252: “ne consegue che, sussistendone le condizioni di fatto, deve qualificarsi affetto da motivo illecito e quindi nullo, ai sensi dell’art.1418, secondo comma, cod. civ., l’atto di recesso da un rapporto di agenzia che, diretto nei confronti di un agente costituito in forma di società di persone, risulti ispirato dalla sola finalità di rappresaglia e di ritorsione nei confronti del comportamento sindacale tenuto dai soci di quest’ultima, dovendosi ritenere un siffatto motivo contrario alle norme imperative poste a tutela delle libertà sindacali dei lavoratori, norme che, in ragione del valore e della tutela che lo stesso dettato costituzionale assegna al “lavoro”, nella sua accezione più ampia, appaiono estensibili, al di fuori dei rapporti di lavoro subordinato, a tutti coloro che svolgono attività lavorativa, anche se in forma parasubordinata o autonoma”.
[31] Nel parere, tra l’altro, l’Avvocatura di Stato avanza l’ipotesi secondo la quale il privato rinunciante rimarrebbe comunque soggetto a rispondere alle obbligazioni già sorte precedentemente in quanto in base al disposto dell’art. 882, comma 3, cod. civ. “la rinunzia non libera il rinunciante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio”. Inoltre, è stata anche avanzata l’ipotesi di una responsabilità aquiliana del rinunziante per i danni arrecati.
[32] Ai sensi dell’art. 882 cod. civ. “la rinunzia alla comproprietà del muro comune non libera il rinunziante dall’obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio”.
[33] Secondo Cass. 14 giugno 2021, n. 16743, in Riv. giur. ed., 2021, 1237, il comportamento del locatore, titolare del credito rappresentato dai canoni locatizi, che non abbia mai preteso il pagamento, sin dall’origine del rapporto, può generare un affidamento sulla rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del conduttore. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento costituisce un abuso del diritto. Infatti, il principio di buona fede rientra negli inderogabili doveri di solidarietà sociale previsti dalla Costituzione (art. 2). Ciascuna parte, quindi, deve operare in modo da tutelare anche gli interessi dell’altra a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali in tal senso. L’abuso del diritto costituisce una particolare violazione dell’obbligo di buona fede contrattuale. L. Di Nella, G. Perlingieri, A proposito della traduzione italiana De l’abus des droits di Louis Josserand, in Ann. Sisdic, 2019, 23 ss. e P. Perlingieri, Le obbligazioni tra vecchi e nuovi dogmi, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, 26. Di recente nella stessa direzione si veda A. Fachechi, Il diritto comune delle situazioni patrimoniali: diritti reali e diritti di credito, nota a Trib. Palermo 29 ottobre 2018 e Arb. Banc. Milano 21 giugno 2017, n. 6869, in G. Perlingieri, G. Carapezza Figlia (a cura di), L’“interpretazione secondo costituzione” nella giurisprudenza, Crestomazia di decisioni giuridiche, 3 ss. Secondo l’Arb. Banc. Milano 21 giugno 2017, n. 6968, in www.arbitrobancariofinanziario.it con riguardo al caso in cui un correntista, usufruendo della gratuità delle operazioni di bonifico, aveva disposto nell’arco di pochi giorni decine e decine di trasferimenti elettronici di denaro per un ammontare complessivo inferiore a 90 Euro, subendo da parte della Banca un recesso al quale egli si era opposto chiedendo un risarcimento che l’Arbitro Bancario ha rifiutato stante l’abusività del suo comportamento.
[34] Nella vigenza del cod. civ. abrogato v. F. Atzeri, Delle rinunzie secondo il Codice civile italiano, Giappichelli, 1910, 1 ss.; R. Quadri, La rinunzia, cit., 31 in cui osserva “ogni tentativo di esame della rinuncia appare inevitabilmente destinato ad incidere sulla conseguente visione dei rapporti tra privato e Stato”.
[35] Sulla necessità di una verifica della meritevolezza dell’atto di autonomia, onde verificarne la conformità ai principi su cui si fonda l’ordinamento giuridico, si vedano: P. Perlingieri, “Controllo” e “conformazione” degli atti di autonomia negoziale, in Rass. dir. civ., 2017, 204 ss.; M. A. Urciuoli, Liceità della causa e meritevolezza dell’interesse nella prassi giurisprudenziale, in Rass. dir. civ., 1985, 752 ss.
[36] Sul punto si vedano: P. Cataldo, Il contratto di “vendita inversa”, in Contr., 2016, 612 ss.; L. Ballerini, Crisi di mercato e «prezzo nullo o negativo» nella vendita di lunga durata, in Contr. e impr., 2018, 328 ss.; F. Raponi, Profili fiscali della vendita a prezzo irrisorio avente ad oggetto beni immobili, in Studio CNN 122-2018/T, consultabile al link https://www.notariato.it/sites
/default/files/122-2018-T.pdf.