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G. Giappichelli Editore

La responsabilità medica tra novità legislative e recenti indirizzi giurisprudenziali (di Anna Maria Siniscalchi, Professoressa associata di Diritto privato – Università degli Studi di Cagliari)


Il lavoro analizza il tema della responsabilità medica tenendo conto delle novità legislative e del centrale apporto della giurisprudenza successiva all’introduzione della legge Gelli-Bianco. In particolare l’indagine, volta a verificare il grado di tutela attualmente garantito al paziente, si sofferma criticamente sulle decisioni c.d. di San Martino del 2019 sul tema del nesso di causalità. L’interpretazione operata dalla Suprema Corte ad avviso dell’Autore altera il meccanismo del doppio binario di responsabilità ideato dal legislatore, determinando un aggravamento probatorio per il paziente.

Parole chiave: Responsabilità medica – nesso di causalità – onere della prova.

Medical responsibility between legislative innovations and recent jurisprudentia

This paper analyses the issue of medical liability, taking into consideration the legislative changes, and the central contribution of case-law after the introduction of the “Gelli-Bianco” law. In particular, the analysis, which is aimed at verifying the degree of protection currently guaranteed to the patient, focuses on the so called “decisions of San Martino” (2019) about the problem of causation. The interpretation made by the Supreme Court, I conclude, appears to alter the mechanism of the “double track of liability” devised by the legislator, resulting in a worsening for the patient in terms of the burden of proof.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il “doppio binario” della responsabilità medica - 3. Le tesi critiche sulla differenziazione di regime della responsabilità medica - 4. Le tesi favorevoli alla differenziazione di regime della responsabilità medica - 5. Impatto della nuova disciplina della responsabilità sanitaria sulla tutela del paziente - 6. La giurisprudenza antecedente alla legge Gelli-Bianco sui criteri di distribuzione dell’onere della prova - 7. Le nuove tendenze giurisprudenziali: le c.d. sentenze di “San Martino” del 2019 sul nesso di causalità e onere della prova - 8. Considerazioni conclusive - NOTE


1. Premessa

Nell’attuale contesto culturale e normativo la tutela dell’individuo ha assunto un ruolo sempre più centrale, consentendo di valorizzare aspetti della persona umana che fino a qualche anno fa non erano stati oggetto di adeguata considerazione [1].

Un’emblematica evidenza di questo processo evolutivo è ravvisabile nell’attenzione sempre crescente riservata alla salvaguardia della sfera di libertà della persona nell’ambito dell’attività sanitaria [2], dove il riconoscimento di nuovi diritti in capo al paziente e la rivalutazione del trattamento da riservare a quelli già oggetto di protezione hanno condotto ad un progressivo ampliamento dell’area dei danni risarcibili conseguenti alla condotta lesiva del sanitario [3].

Tale fenomeno si ricollega, fisiologicamente, al ripensamento delle caratteristiche fondamentali del rapporto di cura che ha determinato il definitivo superamento della logica c.d. “paternalistica” [4] a vantaggio della c.d. “alleanza terapeutica” tra medico e paziente.

Al modificato contesto socio-culturale di riferimento si è affiancata, peraltro, una cospicua produzione normativa che ha inciso profondamente su aspetti fondamentali della responsabilità medica, che risulta attualmente mutata in alcuni suoi tratti caratterizzanti.

Sotto questo profilo, decisivo è stato l’intervento normativo attuato con la legge Gelli-Bianco (l. 8 marzo 2017, n. 24) [5] che, con la scelta di differenziare il regime di responsabilità del medico, sembra aver determinato la “morte” definitiva nel settore sanitario della discussa, ma largamente impiegata, categoria del contatto sociale qualificato [6].

Alla novità legislativa cui si è fatto cenno, la quale cerca di offrire una riorganizzazione complessiva del settore sanitario, si sono affiancate normative, altrettanto importanti, di carattere settoriale [7] di cui si deve tenere conto per una corretta ricostruzione dello statuto della responsabilità medica. Una rilevanza determinante ha assunto anche la cospicua produzione giurisprudenziale che ha contribuito a delineare i tratti fondanti del sistema della responsabilità sanitaria.

La valutazione dell’efficienza del sistema sanità globalmente inteso deve tuttavia essere operata ponendo sempre in una posizione privilegiata l’interesse del paziente al quale devono essere assicurate le condizioni necessarie per una piena realizzazione della sua personalità ed una soddisfacente tutela dei suoi diritti.

E proprio l’assunzione di questa prospettiva di analisi è utile come criterio per svolgere un’indagine sull’attuale livello di tutela riconosciuto al paziente, alla luce non solo delle novità normative ma anche delle recenti decisioni giurisprudenziali che hanno inciso su posizioni che sembravano ormai costituire dei punti saldi e delle certezze nella materia.


2. Il “doppio binario” della responsabilità medica

La dottrina appare decisamente divisa sulla scelta operata dalla legge Gelli-Bianco di distinguere nell’art. 7 [8] la responsabilità del medico, e più in generale degli operatori sanitari, in responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

Da un lato vi sono i fautori o i nostalgici della teoria del contatto sociale, dall’altro vi sono coloro che non hanno mai condiviso tale ipotesi ricostruttiva e pertanto hanno considerato la novità legislativa condivisibile ed in grado di riportare ordine in un sistema che ingiustificatamente si era sempre più allontanato dalla disciplina codicistica e dall’impostazione tradizionale, dando luogo ad effetti distorsivi che avrebbero meritato di essere superati ben prima.

La teoria del contatto sociale trova applicazione nel settore sanitario con la storica sentenza della Cassazione n. 589/1999 [9], la quale afferma espressamente di voler aderire a quell’orientamento sostenuto in dottrina che configura un’obbligazione senza prestazione ai confini tra torto e contratto, rompendo la stretta relazione sussistente tra fonte dell’obbligazione e disciplina del rapporto [10].

La decisione ha costituito oggetto di numerosi commenti che hanno evidenziato come la tesi sostenuta avesse dato luogo, sin dall’inizio della sua formulazione, ad autorevoli voci critiche fondate su ragioni tanto diverse quanto riccamente articolate [11]. Ripercorrere tutti i passaggi del dibattito ad anni di distanza potrebbe apparire compito impervio e forse nemmeno utile per lo scopo che il lavoro si pone. Tuttavia non si può evitare di ricordare come le motivazioni espresse dalla Corte, nonostante la dichiarata adesione alla posizione autorevolmente sostenuta in dottrina, avessero suscitato perplessità per il discutibile accostamento che si era effettuato tra contatto sociale qualificato e rapporti contrattuali di fatto [12].

Al riguardo sia consentita una brevissima digressione sulla discussa categoria dei rapporti contrattuali di fatto.

Nella loro indubbia varietà, le ipotesi che tradizionalmente hanno impegnato la dottrina dedita allo studio dei rapporti contrattuali di fatto sono state ricondotte in tre gruppi essenziali: i rapporti che traggono origine da un contatto sociale, in particolare dai rapporti di cortesia o dalle relazioni precontrattuali, i rapporti caratterizzati dall’inserimento in una fattispecie comunitaria, nel cui ambito rientrerebbero la società di fatto e il lavoro di fatto, e i rapporti che derivano da un obbligo sociale di prestazione, riguardanti la prestazione di servizi offerti al pubblico [13].

Come si è correttamente sottolineato, questa impostazione non ha resistito alle critiche della dottrina successiva nemmeno in Germania sicché all’originaria tripartizione si è sostituita una bipartizione conseguente all’esclusione del primo gruppo d’ipotesi dalla categoria, motivata essenzialmente dalla sua eccessiva genericità [14]. Così delineato l’ambito di rilevanza dei rapporti contrattuali di fatto, l’attenzione si è incentrata da un lato sulle ipotesi in cui l’instaurazione di un rapporto giuridico deriva da un obbligo sociale di prestazione ed è ravvisabile un’oggettiva difficoltà nel rinvenire il fatto costitutivo del rapporto, dall’altro su quelle fattispecie nelle quali si determina una patologia nel fatto giuridico negoziale costitutivo del rapporto e, tuttavia, interviene l’effettivo svolgimento di fatto dell’attività che da tale fatto costitutivo avrebbe dovuto trarre origine. Si spiega dunque agevolmente perché nel primo caso il dibattito ha avuto principalmente ad oggetto la possibilità di individuare nel fatto della utilizzazione di servizi offerti al pubblico una manifestazione della volontà corrispondente a quella richiesta dal sistema contrattuale, nel secondo caso, sussistendo comunque una volontà indirizzata alla costituzione del rapporto, il problema si è spostato sulla spiegazione da fornire all’inapplicabilità della disciplina dell’invalidità al rapporto che trae origine da un fatto costitutivo invalido [15].

Al di là delle differenze ravvisabili in ciascuna singola ipotesi che comprende l’articolata e discussa categoria, caratteristica comune dei rapporti di fatto è rappresentata dalla circostanza che essi hanno origine indipendentemente dalla sussistenza di un contratto – il quale manca ab origine ovvero è inidoneo alla costituzione del rapporto – assumendo rilievo per la produzione degli effetti l’attuazione del rapporto nella realtà pratica. Così nell’ambito dei rapporti contrattuali dovrebbero individuarsi i rapporti che traggono origine da un contratto e quelli che, all’opposto, traggono origine da un rapporto di fatto.

Svolte queste brevi considerazioni, si può affermare che la sentenza della Cassazione n. 589/1999 ha evidenziato un limite, difficilmente negabile, rappresentato dall’impiego, alquanto disinvolto, di categorie – rapporti di fatto e contatto sociale – non assimilabili e sovrapponibili. Tuttavia è pur vero che essa ha dato vita ad un orientamento che ha finito nettamente col prevalere, oltre e al di là delle critiche mosse di impurità concettuale e di ambiguità ricostruttiva [16].

Un orientamento che non poteva non prevalere visto che il binomio responsabilità contrattuale-tutela del paziente sembrava nettamente preferibile al binomio responsabilità extracontrattuale-tutela del paziente, consentendo il primo, rispetto al secondo, una maggiore garanzia per il paziente [17].


3. Le tesi critiche sulla differenziazione di regime della responsabilità medica

Non è possibile procedere, in questo contesto, ad un esame dettagliato delle diverse posizioni critiche sostenute in dottrina nei confronti delle scelte operate con la riforma Gelli-Bianco. Ci si limita, pertanto, a richiamare, nella varietà delle posizioni assunte dagli Autori, gli argomenti fondanti da cui emerge chiaramente una valutazione negativa in ordine alla scelta di differenziare il regime di responsabilità nell’ambito sanitario. La possibilità di agire nei confronti del medico dipendente in base all’art. 2043 c.c. e non più sulla base delle norme sulla responsabilità contrattuale comporta un più gravoso onere probatorio per il paziente, il quale dovrà provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito e dunque la condotta colposa, il nesso di causalità e il danno, e inoltre dovrà far valere la sua pretesa nel più breve termine quinquennale di prescrizione.

Con una espressione colorita, ma indubbiamente efficace, si è parlato di “ritorno al passato”, al tempo in cui la distinzione disciplinare tra medico dipendente e libero professionista era ampiamente impiegata ed era perfettamente coerente con l’applicazione delle regole codicistiche e con la netta distinzione della categoria della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

Al riguardo, con varietà di argomenti e differenti prospettive ricostruttive, si è sottolineata la paradossale conseguenza di questo ritorno al passato [18], che ha comportato la cancellazione di importanti traguardi raggiunti grazie all’opera innovativa della giurisprudenza ed ha condotto ad una situazione inspiegabilmente meno garantista per il paziente rispetto al passato, vanificando l’apprezzabile opera di superamento di dogmi radicati al fine di allargare l’area di responsabilità del medico e assicurare giusto ristoro alle vittime di errori sanitari.


4. Le tesi favorevoli alla differenziazione di regime della responsabilità medica

In senso opposto, si è sottolineato come il ritorno al passato sarebbe solo apparente e non sostanziale [19], giacché frutto di un’indubbia visione settoriale e non complessiva della riforma. Focalizzare l’atten­zione su uno solo degli aspetti – differenziazione del regime di responsabilità – ha finito, secondo tale diversa impostazione, coll’assolutizzare un profilo di indubbio rilievo, quello della natura della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, la cui incidenza sul complesso sistema non può essere correttamente inteso in assenza di un’analisi globale del testo, da cui emergono rilevanti elementi di novità che si colgono nell’impianto generale e indubbiamente caratterizzano le scelte operate. E proprio queste considerazioni dovrebbero indurre una maggiore prudenza rispetto a conclusioni affrettate in ordine ad una presunta riduzione di tutela in capo al paziente vittima di un errore sanitario, valutazione che potrebbe essere condivisa solo in assenza di altri interventi che, all’opposto, hanno rafforzato nettamente la posizione del paziente rispetto alla normativa antecedente. In questa prospettiva non può non rilevarsi la centralità della gestione e prevenzione del rischio sanitario come strumento di riduzione del contenzioso che si combina con la scelta di indirizzare le azioni di responsabilità verso la struttura (responsabile contrattualmente) invece che sui medici dipendenti (responsabili extracontrattualmente) [20]. Nella stessa dimensione vanno lette le altre novità introdotte nel sistema. Al riguardo si pensi all’azione diretta del paziente nei confronti dell’impresa assicuratrice del danneggiato, al diverso impianto complessivo del sistema assicurativo con la previsione anche di un fondo di garanzia per i danni che derivano dalla responsabilità sanitaria nonché all’impiego di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, fondamentali per rendere più agevole la soddisfazione del paziente danneggiato e la riduzione del contenzioso.


5. Impatto della nuova disciplina della responsabilità sanitaria sulla tutela del paziente

La complessa vicenda giuridica che negli ultimi anni ha avuto ad oggetto la responsabilità medica è indice di un continuo tentativo di mediazione tra esigenze diverse. Le legittime istanze dei medici e dei pazienti necessitano una composizione, coerente con gli obbiettivi perseguiti nei diversi momenti storico-culturali di riferimento, la cui attuazione non sempre risulta agevole. Alla fase iniziale di forte squilibrio a favore del personale medico è infatti seguito un altrettanto evidente fenomeno di sbilanciamento delle tutele a favore del paziente. La nuova legge, dunque, cerca di superare tale anomalia e pur riproponendo, in conformità con l’impostazione tradizionale, la distinzione tra responsabilità del medico dipendente dalla struttura e medico libero professionista (il primo assoggettato alla responsabilità extracontrattuale, il secondo a quella contrattuale), introduce, a differenza di quanto potrebbe apparire ad una prima valutazione, elementi significativi di innovazione. Pur con i limiti e le criticità che sono state evidenziate dagli Autori che ne hanno contestato l’impianto, la riforma introdotta con la legge Gelli-Bianco ha comunque il merito di aver ridefinito i rapporti tra gli artefici del rapporto di cura senza incidere, a nostro avviso, sul grado di tutela riconosciuto al paziente, al quale sono stati assegnati diversi e aggiuntivi strumenti di protezione. La riduzione della tutela del paziente non può essere considerata un effetto inevitabile e necessario dell’adozione di un doppio regime di responsabilità [21].

Al contrario, l’analisi sistematica e complessiva della nuova disciplina consente di ritenere raggiunto un equo contemperamento degli interessi in gioco, in cui il regime differenziato di responsabilità degli esercenti la professione sanitaria rappresenta un mero tassello di un progetto più ampio con caratteristiche di indubbia novità. In questa prospettiva la maggiore difficoltà probatoria a carico del paziente che agisce verso il medico dipendente dalla struttura, oltre ad essere funzionale al raggiungimento di uno degli obbiettivi che si pone la legge (diversa gestione del rischio sanitario) [22], risulta ampiamente bilanciata dal riconoscimento di aggiuntivi strumenti di tutela. Peraltro, in sede di prima lettura della legge Gelli Bianco, si è rilevato che non si sarebbe potuto escludere che la reintrodotta differenziazione disciplinare potesse essere fortemente ridimensionata in sede applicativa attraverso l’utilizzo di meccanismi di diversa distribuzione dell’onere probatorio rispetto a quello che ordinariamente dovrebbe gravare sul danneggiato ai sensi dell’art. 2043 c.c. [23]: si pensi all’impiego della distinzione, tra interventi di facile e difficile esecuzione, all’utilizzo del criterio della c.d. “vicinanza della prova” [24], ma anche al ruolo decisivo della consulenza tecnica d’ufficio nell’individuazione della responsabilità professionale [25]. Insomma, alla luce dell’importante funzione storicamente svolta dalla giurisprudenza nel settore della responsabilità medica, la reale portata innovativa dovrà essere valutata alla stregua delle concrete soluzioni che si affermeranno e consolideranno nella prassi [26], alle quali, dunque, sarà opportuno prestare la massima attenzione. Al riguardo assume rilievo decisivo la recente giurisprudenza di Cassazione, espressa con le decisioni di San Martino del 2019 [27], il cui impatto sui precedenti e consolidati orientamenti richiede un’attenta e critica riflessione, al fine di comprendere gli effetti dei “rivoluzionari”, o secondo opposta prospettiva, “reazionari” interventi normativi cui sinteticamente si è fatto cenno in apertura del discorso.


6. La giurisprudenza antecedente alla legge Gelli-Bianco sui criteri di distribuzione dell’onere della prova

Solo per comodità del lettore, prima di procedere all’analisi delle più recenti sentenze successive alla legge Gelli-Bianco, si richiamano i principali strumenti impiegati dalla prassi giurisprudenziale per incidere sull’ordinario meccanismo di distribuzione dell’onere probatorio.

In primo luogo, è doveroso ricordare la scelta, per lungo tempo assunta nelle decisioni in tema di responsabilità medica, di riservare un differenziato trattamento giuridico agli interventi di facile e di difficile esecuzione. La distinzione, come è noto, ha portato la giurisprudenza ad introdurre un regime probatorio fortemente semplificato per il paziente il quale, nell’ipotesi di esito infausto di un intervento di routine poteva assolvere all’onere probatorio, necessario ai fini del riconoscimento della responsabilità del professionista, con la mera prova dell’esito negativo dell’operazione e del carattere routinario dell’intervento. Infatti, secondo la ricostruzione richiamata, il mancato raggiungimento del risultato auspicato dal paziente faceva presumere la colpa del sanitario con la conseguenza che spettava al medico provare che le conseguenze peggiorative dell’intervento dipendessero da una causa imprevedibile a lui non imputabile.

Ad inaugurare tale orientamento giurisprudenziale fu la decisione della Cassazione del 21 dicembre 1978, n. 6141, la quale giunse alla conclusione che la facilità degli interventi effettuati per l’eliminazione della patologia da cui era affetto il paziente e l’esito negativo dell’intervento costituivano condizioni sufficienti per far presumere l’inadeguata o non diligente prestazione del professionista [28]. Tale impostazione, è stato rilevato, aveva ristabilito il regime probatorio dettato dall’art. 1218 c.c., alterato dalla rilevanza assegnata alle obbligazioni di mezzi, e aveva dato luogo contestualmente ad una doppia presunzione: quella in ordine alla sussistenza della colpa professionale e quella relativa alla sussistenza del nesso di causalità [29].

Ulteriore e significativa modifica interpretativa si collegò all’affermazione del nuovo corso giurisprudenziale aperto con la nota decisione delle Sezioni Unite della Cassazione del 30 ottobre 2001, n. 13533 [30], la quale, applicando il criterio della vicinanza della prova, introdusse il fondamentale principio secondo cui vi è un regime probatorio unico indipendentemente dal fatto che il creditore agisca per l’adempimento, per la risoluzione o il risarcimento del danno. Nello specifico il creditore “deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadem­pimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento” [31]. A tale decisione fecero seguito numerose sentenze conformi in materia di responsabilità medica, di cui è nota la rilevanza applicativa [32].

Limitandomi a tracciare le linee essenziali dell’evoluzione del regime della responsabilità medica, rispetto alla quale l’apporto della giurisprudenza pratica è risultato particolarmente vivace, non può non prendersi atto dell’ulteriore riflessione critica sulla rilevanza della tradizionale distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato e delle conseguenze ad essa riconducibile [33] sotto il profilo della distribuzione del carico probatorio [34].

In un quadro che appariva ormai caratterizzato, come si è detto, da talune linee fondamentali consolidate soprattutto in ordine all’inquadramento della natura della responsabilità medica, l’indubbio impatto della nuova normativa sul piano teorico risulta inevitabilmente condizionato ancora una volta dalla prassi applicativa su temi centrali di indiscusso rilievo, con la conseguenza che solo alla luce delle concrete decisioni dei giudici potrà valutarsi l’effettività del sistema e la reale incidenza delle novità normative sulla misura della tutela riconosciuta al paziente.


7. Le nuove tendenze giurisprudenziali: le c.d. sentenze di “San Martino” del 2019 sul nesso di causalità e onere della prova

Con le sentenze del 2019 in materia di responsabilità sanitaria si conferma il ruolo centrale della giurisprudenza ed invero se ne accentua la rilevanza. Non è un caso che una storica rivista come il Foro italiano alle pronunce più significative della Corte di Cassazione del 2019 abbia deciso di dedicare un fascicolo speciale in cui sono raccolti i primi commenti sui nuovi orientamenti del settore [35]. Significativo è l’approccio al tema che viene chiaramente esplicitato nell’intento di dare ordine al sistema della responsabilità sanitaria attraverso un “intervento nomofilattico preventivo della Corte” [36] al fine di indirizzare le decisioni successive e dar vita ad orientamenti stabili e consolidati sugli aspetti più dibattuti e delicati.

Se questo è l’intento della Cassazione, non manca chi ha già sottolineato l’opportunità di un atteggiamento prudente rispetto all’effettiva riuscita dell’operazione, in quanto le esperienze pregresse hanno dimostrato la difficoltà di assicurare l’auspicata uniformità giurisprudenziale [37] in una materia complessa e ricca di sfumature come la responsabilità medica.

In ogni caso, al fine di attuare la riorganizzazione del sistema, la terza sezione ha istituito un gruppo di studio (“c.d. progetto sanità”), il quale ha selezionato una pluralità di tematiche degne di attenzione [38]. Tra di esse, qui l’analisi si soffermerà sulle scelte operate con riguardo al nesso di causalità e alla distribuzione dell’onere probatorio [39], per valutare se e quale impatto esse hanno determinato sulla tutela accordata al paziente dopo l’introduzione del doppio regime di responsabilità previsto dalla riforma del 2017.

In questa prospettiva, è interessante svolgere qualche breve riflessione alla luce delle due sentenze della Cassazione dell’11 novembre, nn. 28992 e 28991 [40], le quali si pongono, nella sostanza, in linea di continuità con la nota decisione del 26 luglio 2017, n. 18392 [41], che aveva introdotto nel giudizio di responsabilità medica “una doppia linea di causalità” [42], distinguendo, per usare testualmente le parole della Corte, tra il ciclo causale “relativo all’evento dannoso, a monte,” e quello “relativo all’impossibilità di adempiere, a valle”.

Sulla base di tale distinzione si stabiliva come doveva essere ripartito il carico probatorio.

In particolare, il ciclo causale “relativo all’evento dannoso” doveva “essere provato dal creditore/dan­neggiato”, quello “relativo alla possibilità di adempiere” doveva “essere provato dal debitore danneggiante”, con la conseguenza che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere” [43]. La sentenza del 2017, n. 18392, oggetto di significative e a nostro avviso fondate critiche in dottrina [44], non è stata smentita dalle decisioni del 2019 [45]. Anzi, a ben vedere, il ragionamento di fondo, pur con alcune precisazioni volte a superare le obiezioni sollevate [46], risulta confermato e destinato ad avere un peso ancora più significativo nell’ottica della funzione nomofilattica preventiva della Corte funzionalizzata a consolidare gli indirizzi precedenti e ad orientare le decisioni future.

Dalla lettura della motivazione delle richiamate sentenze del 2019, pur senza entrare nel merito dei singoli passaggi e delle critiche mosse alla scelta di confermare un duplice ciclo causale, risulta una certa ambiguità nel ragionamento a cui, invero, conseguono risultati applicativi di difficile condivisione. Al riguardo ci si limita a evidenziare solo i punti più rilevanti nell’ottica della valutazione della posizione del paziente e del livello di tutela ad esso riconosciuto.

La Suprema Corte, in primis, afferma che “Negare che incomba sul paziente creditore di provare l’esistenza del nesso di causalità fra l’inadempimento ed il pregiudizio alla salute (…) significa espungere dalla fattispecie costitutiva del diritto l’elemento della causalità materiale. Di contro va osservato che la causalità relativa tanto all’evento pregiudizievole, quanto al danno consequenziale, è comune ad ogni fattispecie di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, quale portato della distinzione fra causalità materiale ed imputazione” [47]. Dopo tale affermazione, tuttavia, la Cassazione precisa che “Su questo tronco comune intervengono le peculiarità della responsabilità contrattuale”. Infatti, in tali ipotesi, “la responsabilità consegue alla violazione di un rapporto obbligatorio” sicché “la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento. La causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’ina­dempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall’inadem­pimento, perché quest’ultimo corrisponde alla lesione dell’interesse tutelato dal contratto e dunque al danno evento” [48]. In tale prospettiva si ritorna al regime probatorio disegnato con le richiamate decisioni della Cassazione a Sezioni Unite del 2001 e del 2008 [49]. Questa ricostruzione sembra, invero, ricomporre lo strappo che, con riguardo alla prova del nesso di causalità, era stato operato con la sentenza del 26 luglio 2017, n. 18392, ma, ad un esame più attento, la ricomposizione è solo apparente. Infatti, la distribuzione del carico probatorio muta con riferimento alle obbligazioni di facere professionale [50], per le quali, invece, “il creditore di prestazione professionale, che alleghi un evento di danno alla salute, non solo deve provare quest’ultimo e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate (c.d. causalità giuridica), ma deve provare, anche avvalendosi eventualmente pure di presunzioni, il nesso di causalità fra quell’evento e la condotta del professionista nella sua materialità”. Infatti, “causalità e imputazione per inadempimento tornano a distinguersi anche sul piano funzionale” [51] in presenza di un interesse primario (la guarigione) rispetto al quale la prestazione dedotta in obbligazione ha carattere meramente strumentale [52]. Sulla base degli esiti raggiunti, sembra emergere, suscitando non poca sorpresa, il paradosso di un aggravamento sul piano probatorio della posizione del paziente [53] nelle ipotesi in cui la responsabilità consegua ad un inadempimento di quelle prestazioni che la Corte qualifica “di diligenza professionale” [54].

Questo epilogo, come è ovvio, non dipende dall’introduzione nella legge Gelli-Bianco del “doppio binario di responsabilità” ma risulta da una lettura operata dalla Cassazione fortemente penalizzante delle regole sull’onere della prova di cui è gravato il paziente a fronte di un inadempimento del sanitario nelle prestazioni di facere professionale. Circostanza che, invero, finisce per vanificare nell’essenza la sentenza delle Sezioni Unite del 2001, alla quale la Corte afferma di ispirarsi ma che nella sostanza smentisce [55]. Infatti, può cogliersi, sul piano dell’impostazione complessiva, la tendenza all’attrazione, sotto il profilo probatorio, della responsabilità per inadempimento delle prestazioni di diligenza professionale nell’alveo della responsabilità extracontrattuale [56].

Peraltro, il richiamo alle c.d. obbligazioni di diligenza, ad avviso di alcuni autorevoli studiosi, finisce col riproporre, sebbene sotto falso nome, la classica e quanto mai dibattuta distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato [57], distinzione che, per sottolineare ancora una volta il paradosso, la stessa Cassazione a Sezioni Unite aveva ritenuto necessario superare con l’importante e già citata sentenza n. 577 del 2018 [58].

Nonostante l’attenta scelta della Cassazione di non richiamare mai espressamente tale distinzione [59], se nella sostanza dovesse ritenersi che ad essa, sia pure implicitamente, la Corte abbia inteso fare riferimento, ci si dovrebbe interrogare sul regime applicabile alle c.d. obbligazioni di risultato. A meno di voler esclude che tra le obbligazioni di facere professionale debbano ricomprendersi anche obbligazioni nelle quali il sanitario si impegna ad assicurare un risultato [60], il tema non può non meritare qualche attenzione.

Ci si limita, in questa sede, a svolgere qualche sintetica considerazione.

Una volta assunta, con riguardo alle obbligazioni di facere professionale, la tesi basata sulla distinzione tra imputabilità e causalità sostenuta dalla Cassazione, la prova del nesso di causalità materiale dovrebbe continuare a gravare sul debitore anche nelle obbligazioni di risultato, visto che il nuovo regime probatorio viene affermato in via generale e senza distinzioni [61] (con la sola precisazione che la relativa prova può essere fornita anche mediante il ricorso a presunzioni). Invero non è mancato chi a monte ha ritenuto che la distinzione tra causalità e imputazione non dovrebbe trovare applicazione alle obbligazioni c.d. di risultato [62]. In ogni caso, ragionando nell’ottica prospettata dalla Cassazione del c.d. doppio ciclo causale, rimane centrale il tema della rilevanza delle presunzioni, le quali possono svolgere un ruolo significativo per contenere gli infausti esiti per il paziente derivanti dalla richiamata decisione del 2017 e, in buona misura, anche dalle sentenze del 2019 [63]. Dalla lettura delle decisioni del 2019 non risulta chiaro se le presunzioni cui si fa riferimento nella motivazione siano quelle semplici di cui all’art. 2729 c.c. ovvero le c.d. presunzioni giurisprudenziali [64].

La soluzione non sarebbe indifferente giacché nel primo caso si dovrebbe verificare nella singola fattispecie concreta la sussistenza delle condizioni che giustificano l’applicazione del meccanismo presuntivo che, ovviamente, in loro assenza sarebbe escluso.

Nella seconda ipotesi si tratterebbe di un’inversione dell’onere probatorio destinata ad operare in tutte le obbligazioni con un certo contenuto [65], tra cui, verosimilmente, le c.d. obbligazioni routinarie [66], rispetto alle quali tale inversione sarebbe, una volta ricondotta la prestazione di facere professionale tra quelle routinarie, “automatica”, salva la possibilità per il debitore, al fine di escludere la responsabilità, di fornire la contraria prova liberatoria [67].


8. Considerazioni conclusive

In attesa di intendere come si consoliderà la giurisprudenza [68] rispetto alla frequenza e all’ampiezza del ricorso al meccanismo presuntivo nonché alla eventuale differenziazione di trattamento tra interventi routinari o di difficile esecuzione, la sola certezza è l’inevitabile aumento, rispetto al passato [69], dei casi in cui verrà a gravare sul paziente il rischio della causa ignota [70].

Insomma, al di là delle numerose criticità che continuano a sussistere nonostante “la correzione di tiro” operata nel 2019, l’introduzione del doppio binario di responsabilità, alla prova dei fatti, ha finito, nell’appli­cazione giurisprudenziale della Suprema Corte, col dar luogo ad un fenomeno opposto a quello che si era registrato prima della sua introduzione [71]: dalla contrattualizzazione della responsabilità medica alla sua extracontrattualizzazione, con tutte le conseguenze che ne derivano dal punto di vista applicativo [72]. Se è vero che la situazione potrebbe essere parzialmente contenuta, come si è detto, dalla possibilità del ricorso a prove presuntive [73], emerge netta la sensazione che la giurisprudenza di legittimità, alla luce della riforma, tenda ad assumere posizioni più restrittive, rendendo meno agevole per il paziente, rispetto al passato, ottenere il risarcimento del danno conseguente all’attività sanitaria. Se appare ragionevole collegare tale scelta al­l’intenzione di arginare il contenzioso in materia sanitaria con una riduzione dell’impatto economico dei relativi giudizi coerentemente con la volontà espressa dal legislatore del 2017 [74], è pur vero che il risultato ottenuto con l’interpretazione operata sul nesso di causalità e sulla relativa distribuzione del carico probatorio va ben oltre la previsione legale in quanto, come sottolineato, altera il meccanismo del doppio binario di responsabilità ideato dal legislatore, e introduce un aggravamento probatorio per il paziente [75] anche nelle ipotesi in cui la norma non lo prevede.

Ebbene, al riguardo è importante ricordare come, una volta ripudiata dal legislatore la teoria del contatto sociale impiegata a lungo per “contrattualizzare” la responsabilità medica, la Cassazione abbia mostrato un atteggiamento ostile rispetto a tale scelta ed abbia continuato, approfittando dell’iniziale scarsa chiarezza dell’art. 3 della legge Balduzzi [76], ad applicare, fino alla riforma del 2017, la teoria del contatto sociale per qualificare in termini contrattuali la responsabilità del medico dipendente dalla struttura sanitaria [77]. Su queste premesse, francamente, dopo la riforma Gelli-Bianco, ci si sarebbe atteso un diverso indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte, volto a ridurre, in via applicativa, le distanze tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale nell’ottica della soluzione più favorevole al paziente. Invece le cose non sono andate così e si è assistito ad un deciso cambiamento di rotta che ha condotto all’opposto e inatteso risultato di estendere l’applicazione delle regole extracontrattuali alle obbligazioni di fare professionale. Tale risultato, come si è detto, svaluta la portata del dato normativo che diversifica il regime di responsabilità della struttura sanitaria e del medico libero professionista da quello del medico dipendente [78] ed evidenzia come la Cassazione continui a svolge in materia di responsabilità medica, nel bene e nel male, un ruolo creativo indiscutibile [79].


NOTE

[1] Rispondendo al quesito sulle nuove frontiere della responsabilità civile sottolinea P. Perlingieri, Stagioni del diritto civile. A colloquio con Rino Sica e Pasquale Stanzione, Napoli, 2021, 144, come il “cambiamento, da un’impostazione essenzialmente patrimonialistica ad una concezione personalistica, comporta che l’istituto della responsabilità civile, unitariamente inteso, non esaurisce la sua funzione nella tutela delle situazioni patrimoniali, ma riguarda anche la lesione delle situazioni esistenziali”. Osserva G. Vettori, La responsabilità medica e il danno non patrimoniale fra legge e giudice. Un invito al dialogo, in Pers. merc., 2013, 356, che “La responsabilità medica è lo specchio del tempo che oscilla fra la centralità della persona e la ricerca di un equilibrato e sostenibile criterio risarcitorio”.

[2] Cfr. B. Vimercati, Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeter­minazione terapeutica, Milano, 2014, 16 ss., la quale sottolinea come il principio personalista “permei l’intero dettato costituzionale” ed abbia inevitabili riflessi anche sulla relazione tra medico e paziente, ormai incompatibile con il classico “modello paternalistico-ippocratico”. T. Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009, 55, secondo la quale “il prevalente rilievo dato all’ispirazione personalistica cui è sotteso il sistema costituzionale vigente ha fatto sì che, nel contemperamento dell’interesse della collettività con l’interesse della persona, gli interpreti si orientassero nel senso di riconoscere preminenza a quest’ultimo”.

[3] Particolarmente emblematica, al riguardo, è stata la progressiva estensione delle fattispecie suscettibili di risarcimento per violazione del consenso informato. Vista l’ampiezza dei lavori dedicati al tema mi sia consentito limitare il richiamo alle considerazioni da me svolte sull’argomento: A.M. Siniscalchi, Consenso informato, mutamento dell’intervento chirurgico e suo esito positivo: vecchi problemi e nuove prospettive, in Liber amicorum per Bruno Troisi, II, Napoli, 2017, 1183 ss.; Id., Il consenso informato nell’attività medica, in Diritto privato e interessi pubblici, Scritti in onore del prof. L.V. Moscarini, a cura di N. Corbo, M. Nuzzo, F. Ricci, I, Roma, 2016, 353 ss.; Id., Chirurgia estetica e responsabilità per violazione dell’obbligo informativo, in Giustiziacivile.com, 2015, 1 ss.

[4] Sul tema cfr. C. Pilia, La tutela contrattuale della personalità nel trattamento medico, in Studi in onore di Giuseppe Benedetti, II, Napoli, 2008, 1445 s., il quale evidenzia come “L’autoritarismo, altrimenti detto paternalismo, del sistema si traduceva con riferimento alla posizione del medico nell’attribuzione di una forte supremazia, quasi, una vera e propria potestà curativa verso il paziente”. Nella stessa prospettiva M. Franzoni, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2016, 251 s., secondo cui nel modello tradizionale il paziente risultava un soggetto piuttosto passivo che era destinatario delle scelte del sanitario anche nelle ipotesi in cui entrava in gioco un problema di qualità della sua vita.

[5] Limitando il richiamo, senza pretese di completezza, alle principali monografie e commentari elaborati dopo la riforma Gelli-Bianco, v. B. Marucci, La riforma sanitaria Gelli-Bianco. Osservazioni in tema di responsabilità civile, Napoli, 2018; AA.VV., La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di G. Alpa, Pisa, 2017; AA.VV., La nuova responsabilità professionale in Sanità. Commentario alla riforma Gelli-Bianco (L. 8 marzo 2017, n. 24), a cura di U. Genovese, F. Martini, Rimini, 2017; AA.VV., La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione. Commento sistematico alla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. Legge Gelli), a cura di F. Gelli, M. Hazan, D. Zorzit, Milano, 2017; M.L. Missiaggia, La responsabilità sanitaria. Guida operativa alla riforma Gelli (L. 8 marzo 2017, n. 24), Piacenza, 2017; G. Montanari Vergallo, La nuova responsabilità medica dopo la riforma Gelli-Bianco (Le nuove leggi del diritto), Roma, 2017; G. Pascale, Responsabilità del medico e risarcimento del danno dopo la riforma Gelli Bianco, Rimini, 2017; F. Lorenzini, La responsabilità del medico, Civile-Penale-Amministrativa. Aggiornato con la riforma Gelli e con la giurisprudenza più recente, Pisa, 2017; A. di Majo, La salute responsabile, Torino, 2018; AA.VV., Le responsabilità dell’esercente la professione sanitaria dopo la legge 24/2017, a cura di C. Bottari e P. De Angelis, Bologna, 2018; P. Iannone, La responsabilità medica. Le novità della legge 24/2017, Roma, 2018; AA. VV., La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli Bianco (legge 24/2017), a cura di F. Volpe, Bologna, 2018; AA.VV., La nuova responsabilità medica. Le responsabilità della struttura e quelle del medico (“strutturato” e non). Le linee guida – Il consenso informato – La privacy. Le nuove frontiere: Artificial Intelligence, staminali, product liability, medicina “estetica”. I profili processuali, a cura di U. Ruffolo, Milano, 2018; AA.VV., Commentario alla legge 8 marzo 2017, n. 24. «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», a cura di B. Meoli, S. Sica e P. Stanzione, Napoli, 2018; AA.VV., La responsabilità sanitaria tra continuità e cambiamento, a cura di G. Romagnoli, Napoli, 2018; D. Chindemi, Responsabilità del medico e della struttura sanitaria pubblica e privata, Milano, 2018; AA.VV., Responsabilità sanitaria, in Responsabilità civile, diretta da F. Martini, M. Rodolfi, Milano, 2018; AA.VV., La responsabilità medica, diretto da P. Cendon. Guida operativa alla riforma Gelli Bianco. Inquadramento, profili civili e penali, assicurazione, procedimento stragiudiziale e giudiziale, casistica, a cura di N. Todeschini, II ed., Milano, 2019; C.M. Masieri, Linee guida e responsabilità civile del medico. Dall’esperienza americana alla legge Gelli-Bianco, Milano, 2019; N. Posteraro, La responsabilità del medico nelle prime applicazioni della legge Gelli-Bianco, Roma, 2019; AA.VV. Responsabilità medico sanitaria e risarcimenti. Quali nuovi scenari dopo le sentenze del “San Martino 2019” e la pandemia Covid-19?, Milano, 2021.

[6] Esprime rammarico per la scelta operata dal legislatore C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, in Europa dir. priv., 2020, 853 ss., il quale sottolinea la necessità di evitare un’applicazione “manichea” della disciplina attraverso, in primo luogo, l’esclusione delle fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore dal suo ambito applicativo (p. 857). L’A., peraltro, nel merito, ritiene che la scelta del legislatore riproponga i problemi cui si era ovviato con la decisione n. 589/1999 della Cassazione e dia luogo a una “disfunzionalità” del sistema (p. 862 ss.). Si interroga, sulle conseguenze della riforma sanitaria “sulle figure di contatto sociale che continuano a trovare applicazione giurisprudenziale” D. Pittella, Dall’obbligazione senza prestazione alla responsabilità extracontrattuale del medico: rigetto locale o totale del contatto sociale “qualificato”, in Contr. impr., 2020, 452 ss.

[7] Emblematica, in tale prospettiva, è la l. n. 219 del 22 dicembre 2017 («Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento»), la quale, rafforzando il ruolo del consenso informato del paziente, determina evidenti conseguenze sulla configurazione della relazione tra medico e paziente. Sul punto Cfr. M. Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 2 s.

[8] La norma rubricata “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria” afferma al primo comma che “La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata, che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose e colpose”, precisando al comma successivo, che la medesima disciplina si applica anche per le prestazioni rese “in regime di libera professione intramuraria, o nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica, o in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale, nonché attraverso la telemedicina”. Nel terzo comma, invece, prevede che “L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. Sul punto cfr. C.M. Celotto, La prova del danno da errore medico. La causalità nella responsabilità sanitaria dopo il decalogo di San Martino, Santarcangelo di Romagna, 2020, p.104 s., secondo la quale il fatto che l’art. 2043 c.c. trovi applicazione non solo al medico dipendente ma anche alle altre due ipotesi richiamate dalla norma comporta la difficoltà di distinguere queste ultime dal caso “in cui il paziente si rivolge ad un medico libero professionista presso una struttura privata in cui magari esercitano più soggetti nel quadro di un’organizzazione comune di mezzi e persone” soggetto all’applicazione dell’art. 1218 cc. Si tratta infatti di “situazioni sostanzialmente uguali (…) disciplinate dal legislatore in termini nettamente diversi”. Rileva “i limiti e le lacune di una qualificazione legislativa aprioristica” e non attenta al caso concreto, V. Rotondo, Responsabilità medica e autodeterminazione della persona, Napoli, 2020, 93.

[9] Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Resp. civ. prev., 1999, 661 ss., con nota di M. Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il “contatto sociale” conquista la Cassazione; in Foro it., 1999, I, c. 3332 ss., con nota di F. Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero; in Danno e resp., 1999, 781 ss., con nota di R. De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; ivi, 294 ss., con nota di V. Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto; in Corr. giur., 1999, 441 ss., con nota di A. di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione.

[10] Cfr. C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 554, il quale fa notare come il medico, pur non obbligato alla prestazione nei confronti del paziente, ingenera in esso quell’«affidamento in misura rilevante» che il nuovo § 311 III BGB pone a fondamento autonomo di una responsabilità da violazione di un rapporto obbligatorio costituito di soli obblighi di protezione.

[11] Cfr., di recente, A. Di Majo, La salute responsabile, cit., 5 s., il quale sottolinea come la decisione sia stata oggetto di “considerazioni di ordine critico” tali da rendere necessario un ripensamento del percorso seguito dalla giurisprudenza e dalla dottrina sul tema della responsabilità del medico. In particolare l’A. da un lato ritiene non appagante “il raffronto della responsabilità del medico con le note categorie del contratto e del torto”, dall’altro afferma la necessità, per una corretta analisi del fenomeno, di tenere conto principalmente del contesto normativo in cui esso si colloca, circostanza che richiede un confronto con lo statuto proprio che caratterizza la professione protetta da cui derivano “obblighi specifici di comportamento”.

[12] Di recente ribadisce C. Cicero, La presunta eclissi della responsabilità, tra contratto e torto, da contatto sociale, in AA.VV., La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli Bianco (legge 24/ 2017), a cura di F. Volpe, cit., 68, come “La tematica del rapporto contrattuale di fatto va tenuta nettamente distinta da quella del contatto sociale”.

Per un’analisi sull’evoluzione della teoria del contatto sociale in Germania cfr. C.W. Canaris, Il “contatto sociale” nell’or­dinamento giuridico tedesco, in Riv. dir. civ., 2017, 1 ss.

[13] Cfr. C. Angelici, Rapporti contrattuali di fatto, in Enc. giur. Treccani, XXV, Roma, 1991, 2.

[14] Sul punto v. C. Angelici, op. loc. ult. cit.

[15] A.M. Siniscalchi, Rapporti contrattuali di fatto, in Enc. dir. Sole 24 ore, diretta da S. Patti, Milano, 2007, 603 s., la quale sottolinea come “per la cultura giuridica italiana (…) la dottrina dei rapporti contrattuali di fatto si dimensiona sulle ipotesi nelle quali non viene in gioco una questione in ordine alla sussistenza di una dichiarazione che possa fondare il consenso” ma si restringe “all’area dei comportamenti esecutivi che si svolgono in dipendenza di un contratto invalido”. Pertanto l’ambito problematico si concentra “su quelle ipotesi nelle quali, a fronte delle conseguenze che la legge dovrebbe far ordinariamente derivare dalla nullità di un contratto, si rinvenga, per gli atti di esecuzione programmati dalla fattispecie invalida o a essa comunque riferibili, un trattamento normativo in qualche misura differenziato, che (…) sottrae il rapporto di fatto dall’indistinta tipologia dei comportamenti giuridicamente irrilevanti”.

[16] Cfr. sul tema E. Navarretta, L’adempimento dell’obbligazione del fatto altrui e la responsabilità del medico, in Pers. merc., 2011, 190 ss., la quale evidenzia gli aspetti critici presenti nel ragionamento sostenuto dalla Corte, anche alla luce delle riflessioni svolte da una parte della dottrina sul punto. Secondo l’Autrice la fragilità della tesi dell’obbligazione senza prestazione ha determinato la necessità di un successivo cambiamento di rotta nella giurisprudenza la quale, «pur confermando l’esito della responsabilità contrattuale da contatto sociale, (…) puntualizza che “non si tratta di contatto sociale dal quale insorge, secondo quanto prospettato da una parte della dottrina, una obbligazione senza prestazione. Nel contatto sociale è infatti da ravvisarsi la fonte di un rapporto che quanto al contenuto non ha ad oggetto la “protezione” del paziente bensì una prestazione che si modella su quella del contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente”», (in tal senso Cass. 13 aprile 2007, n. 8826, in Resp. civ. prev., 2007, 1824, con nota di Gorgoni citata alla nota n. 17). Ad avviso dell’A. “L’emendamento concettuale, dietro una semplicità disarmante, cela invero un’implacabile fragilità teorica, poiché viene a mancare una qualunque spiegazione del passaggio dalla dimensione del contatto puramente sociale al piano della rilevanza giuridica (…). Là dove, dunque, la Cassazione si allontana dal paradigma dell’obbligazione senza prestazione, inevitabilmente abbandona una possibile (ma inadeguata) ragione del passaggio dal contatto sociale al piano giuridico, senza sostituirla con ulteriori e convincenti argomentazioni” (p. 191). Cfr. di recente G. Vettori, Effettività tra legge e diritto, Milano 2020, 189 ss., il quale, nel rilevare come il contatto sociale sia stato “abrogato” dalla riforma legislativa del 2017 che “impone, per legge, la qualifica giuridica di un fatto (la responsabilità del sanitario)”, sottolinea come il ricorso alla figura del contatto sociale “in assenza di un criterio dogmatico rigoroso, era certo divenuto potenzialmente amplissimo. E proprio questo è stato il timore della dottrina e degli operatori preoccupati per l’erosione di margini certi nel sistema della responsabilità civile”.

[17] Osserva G. Vettori, Le fonti e il nesso di causalità nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2008, 394, come «Sempre più spesso si fa riferimento al “contatto sociale’’ per attrarre nell’area contrattuale una serie di rapporti e per invertire l’onere probatorio in presenza di una posizione soggettiva del danneggiato ritenuta meritevole di particolare protezione».

[18] L’espressione è utilizzata con preoccupazione da numerosi Autori. Cfr., sul tema, C. Guerriero, Il disegno di legge Gelli cambia i connotati della responsabilità medica, in www.iurisprudentia.it, 7, la quale sottolinea come già prima dell’inizio del procedimento parlamentare fossero state sollevate voci critiche con riguardo alla scelta di dar vita ad un doppio binario di responsabilità. In particolare, oltre ai dubbi sulla costituzionalità della norma, si era sottolineato come essa consacrasse «un definitivo ‘ritorno al passato’» che non teneva conto da un lato dell’evoluzione della giurisprudenza, dall’altro delle conseguenze negative che avrebbe determinato sulla tutela dei pazienti. Di un ritorno al sistema antecedente alla decisione della Cassazione n. 589/1999 parla F. Di Ciommo, Casualità verso causalità: scienza e natura, determinazione e destino nella (nuova?) responsabilità medica, in AA. VV., La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli Bianco (legge 24/2017), cit., 117 s., il quale evidenzia come, oltre ai problemi da ricollegare al diverso regime di responsabilità applicabile, si determineranno situazioni problematiche sia per il fatto che i pazienti dovranno intentare le azioni contro la struttura e i sanitari in forza di due differenti titoli di responsabilità sia per le difficoltà già emerse in precedenza in giurisprudenza nelle ipotesi di “c.d. cumulo tra le azioni di responsabilità verso il medico e la struttura in presenza di diverse norme applicabili”. Cfr. C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., 559, il quale fa notare come “In questo quadro ormai sufficientemente sedimentato, nel quale la responsabilità del medico connotata in esito a una prestazione obbligatoria, si qualifica come contrattuale, è piombata all’improvviso e inopinatamente la regola contenuta nell’art. 7, co. 3, l. 24/2017, che in maniera che possiamo definire solo disarmante, perché ignara delle partizioni fondamentali della responsabilità civile e dei suoi presupposti, sembra qualificare la condotta dannosa del medico alla stregua di un qualunque fatto illecito”.

[19] Esclude che si tratti di un ritorno al passato B. Marucci, op. cit., 118 s., secondo la quale la scelta del doppio regime di responsabilità è il “frutto di una valutazione che tiene conto di una serie di fattori, di natura sia sostanziale sia processuale, all’interno di un quadro complesso e organico che caratterizza (...) il neo provvedimento”; A.M. Siniscalchi, Il doppio regime di responsabilità del medico: ritorno al passato o nuova prospettiva di tutela per il paziente?, in Danno e resp., 2019, 461 ss.; G. Alpa, Dal medico all’équipe, alla struttura, al sistema, in La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, cit., 228. Ritengono che “il ritorno al passato” sia “in linea di principio innegabile” ma al contempo evidenziano “come, nei fatti, la realtà (sostanziale e processuale) rifletta, oggi sensibili differenze” D. Zorzit, F. Garzella, Onere della prova nella responsabilità sanitaria, dopo la riforma Gelli, in La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, cit., 393. Cfr. M. Hazan, Alla vigilia di un cambiamento profondo: la riforma della responsabilità medica e della sua assicurazione (DDL Gelli), in Danno e resp., 2017, 82, il quale ritiene “il ritorno all’antico” una lineare osservanza delle regole codicistiche sulla responsabilità “al riparo da certi abusi indotti dalle eccentriche teorie del contratto sociale”.

[20] Sottolinea M. Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 272, che l’intento di indirizzare le azioni risarcitorie verso la struttura, consentendo ai medici di lavorare senza la preoccupazione di essere esposti ad azioni risarcitorie, è stato raggiunto solo parzialmente in quanto, nonostante la prevista differenziazione del regime di responsabilità del medico e della struttura, non può escludersi che “la vittima vittoriosa possa far valere la sentenza resa esecutiva nei confronti del medico e non nei confronti dell’ospedale o della sua assicurazione”. Una scelta più decisa avrebbe potuto comportare “di canalizzare la responsabilità nei confronti della sola struttura, lasciando al medico il rischio della rivalsa in caso di dolo o colpa grave”.

[21] A.M. Siniscalchi, Il doppio regime di responsabilità del medico: ritorno al passato o nuova prospettiva di tutela per il paziente?, cit., 467 ss.; Id., La responsabilità medica e la tutela del paziente, in Quad. conc., a cura di C. Pilia, Cagliari, 2019, 217 ss.

[22] Rilevano F. Gelli, M. Hazan, La riforma “Gelli”, principi ispiratori e coordinate di base, in La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, cit., 1 ss., come la nuova legge abbia inteso modificare il precedente approccio culturale caratterizzato da una tutela del paziente fondata su un sistema essenzialmente sanzionatorio favorendo, al contrario, un sistema basato sulla prevenzione attraverso la responsabilizzazione “ex ante” dei soggetti che detengono “il governo e l’organizzazione del rischio clinico”.

[23]Sul punto cfr. M. Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in Resp. medica. Diritto e pratica clinica, 2017, 10 s., il quale, sulla base di articolate motivazioni, dubita che la configurazione della responsabilità in termini extracontrattuale darà luogo ad un cambiamento del riparto dell’onere della prova modificando una prassi consolidata da decenni.

[24] Secondo R. Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 453 s., “Se è vero che nell’àmbito della responsabilità civile spetta di massima al danneggiato provare la colpa quale elemento costitutivo della pretesa risarcitoria, è altrettanto vero – come notato – che grazie al criterio ancorato alla vicinanza della prova e alla verosimiglianza del rapporto eziologico tra intervento maldestro del medico e pregiudizi subiti dal paziente, la linea di confine in subiecta materia fra neminem laedere e obbligazione contrattuale tende, in termini realistici, a diradarsi”.

Sulla difficoltà di cogliere la natura e la funzione del principio di vicinanza della prova cfr. F. Franzoni, La «vicinanza della prova», quindi…, in Contr. impr., 2016, 360 ss., il quale evidenzia, attraverso il richiamo di numerose decisioni, il differente impiego che tale principio ha avuto nella giurisprudenza.

[25] G. Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, in Danno e resp., 2017, 269 s., secondo cui l’utilizzazione, tanto nel giudizio di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, della consulenza tecnica d’ufficio per valutare la sussistenza della colpa professionale “stempera e riduce di molto la differenza tra i due regimi di responsabilità, che, al di là del termine più ridotto previsto per la prescrizione, sarebbe evidente almeno per quanto riguarda l’onere della prova”. Sul punto cfr. C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, cit., 855, secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio funge da vera e propria “stanza di compensazione” che consente di stemperare il peso del carico probatorio che grava sul medico o sul paziente in forza della riconducibilità della responsabilità al modello contrattuale o extracontrattuale.

[26] Affermano con decisione D. Zorzit, F. Garzella, op. cit., 409 s., che un’operazione interpretativa volta ad invertire l’onere della prova, che in base all’art. 2043 c.c. grava sull’attore danneggiato, “non dovrebbe in nessun modo essere autorizzata; anzi dovrebbe considerarsi addirittura vietata” in quanto sarebbe contraria non solo alla ratio della legge Gelli ma anche alla previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 7.

[27] Sul punto si rinvia alla nota 26 e al § successivo: Le nuove tendenze giurisprudenziali: nesso di causalità ed onere della prova.

[28] Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1978, I, 1, c. 953, secondo cui “Quando il cliente abbia provato in giudizio che l’intervento operatorio applicato dal chirurgo al suo stato patologico era di facile esecuzione, e che tali erano pure (ove questa ulteriore prova fosse necessaria) le successive prestazioni post-operatorie, ed abbia inoltre provato che a quell’intervento di facile esecuzione (nonché, se del caso, alle successive prestazioni post-operatorie) è conseguito un risultato peggiorativo, essendo le sue condizioni finali deteriori rispetto a quelle preesistenti, non può non presumersi la inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale: presunzione, questa, basata appunto sulla regola di comune esperienza nel settore (…) e sull’aberrante risultato conseguito. Sicché il cliente, fornendo la dimostrazione di quegli elementi, sui quali è possibile fondare la presunzione, ha adempiuto l’onere probatorio a suo carico. Ed allora spetta al chirurgo fornire la prova contraria: di aver eseguito adeguatamente e diligentemente la prestazione professionale, e che l’esito peggiorativo fu causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile secondo l’ordinaria diligenza professionale oppure dall’esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accertabile con il medesimo criterio dell’ordinaria diligenza professionale”.

[29] In tal senso cfr. R. De Matteis, La responsabilità medica, un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, 436, la quale chiarisce che si presume che l’esito infausto sia “causalmente riferibile alla condotta del soggetto di cui si presume la colpa”.

[30] Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Foro it., 2002, I, c. 769, con nota di P. Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo; in Contratti, 2002, 113, con nota di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova; in Studium iuris, 2002, 389, con nota di M. Farneti, Inadempimento e onere della prova; in Riv. dir. civ., 2002, II, 707, con nota di G. Villa, Onere della prova, inadempimento e criteri di razionalità economica; in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 355, con nota di B. Meoli, Risoluzione per inadempimento ed onere della prova; in Dir. giust., 2001, 24, con nota di M.R. San Giorgio, Contratti: al debitore (convenuto) tutto l’onere di provare l’adempimento; in Corr. giur., 2001, 1569, con nota di V. Mariconda, Inadempimento ed onere della prova: le sezioni unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Guida al dir. 2001, fasc. 45, 41 ss., con nota di E. Sacchettini, Il creditore che propone l’azione giudiziaria non deve provare l’inadem­pimento del debitore; in Contr. impr., 2002, 903, con nota di G. Visintini, La Suprema Corte interviene a dirimere un contrasto tra massime (in materia di onere probatorio a carico del creditore vittima dell’inadempimento).

[31] Precisa ulteriormente Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, cit., che “l’esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. (e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione”.

[32] Sul punto cfr. M. Faccioli, “Presunzioni giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, in Contr. impr., 2014, 93 ss., il quale richiama una serie di sentenze del 2004 (nota 49) da cui risulta il superamento della distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione come criterio di ripartizione del carico probatorio e l’applicazione alla responsabilità medica del regime probatorio delineato, per l’inadempimento delle obbligazioni in generale, dalla richiamata Cassazione del 2001, n. 13533. Ad avviso dell’A., tuttavia, “i nuovi orientamenti giurisprudenziali emersi a partire dal 2004” non hanno inciso sul regime dell’onere della prova del nesso di causalità che ha continuato a gravare sul paziente fino alla decisione del 2008 n. 577, con la quale si è posta una presunzione di sussistenza del nesso di causalità. Tale ricostruzione delle sezioni unite, rileva l’A., non ha trovato una pacifica applicazione in giurisprudenza e non sembra condivisibile; N. Rizzo, Inadempimento e danno nella responsabilità medica: causa e conseguenze (commento a Cass. 11 novembre 2021, n. 28991), in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, 326, secondo il quale non deve essere ignorato il fatto che tradizionalmente fino all’inizio degli anni 2000 e anche, non raramente, dopo la decisione del 2001, i giudici “hanno sempre richiesto al paziente di provare il nesso causale: fino alle fine degli anni ’70 in tutte le fattispecie di responsabilità medica; da quel momento in tutti i casi che non avessero ad oggetto interventi sanitari classificabili come routinari”. Sul punto cfr. G. Vettori, Le fonti e il nesso di causalità nella responsabilità medica, cit., 395 s., il quale considera la scelta di esimere il creditore dalla prova del nesso di causalità ritenendo sufficiente l’allegazione di un inadempimento qualificato, cioè astrattamente idoneo alla produzione del danno, “un modo razionale di amministrazione del danno perché il professionista può con più facilità fornire la prova sull’inesistenza del nesso di causalità”.

[33] Sul tema, con particolare attenzione alla responsabilità medica, cfr. B. Marucci, op. cit., 16 ss.

Per un esame critico delle principali tesi elaborate sulla contestata distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato cfr. A.P. Ugas, in A.P. Ugas, F.M. Bandiera, Commento all’art. 2230, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Dell’im­presa e del lavoro, a cura di O. Cagnasso, A. Vallebona, IV, Torino, 2014, 639, la quale sottolinea come la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato abbia dato luogo a un acceso confronto che ha avuto ad oggetto “la stessa terminologia (...) da utilizzare per individuare i due gruppi che la compongono, la costruzione del contenuto proprio di ciascuno di essi ed il regime di responsabilità cui assoggettarli”. Sul tema cfr. anche G. Sicchiero, Dalle obbligazioni “di mezzi e di risultato” alle “obbligazioni “governabili o non governabili”, in Contr. impr., 2016, 1391ss.; M. Azzalini, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Categorie giuridiche travisate, Padova, 2012, 1, il quale in apertura dello studio dedicato alle obbligazioni di mezzi e di risultato sottolinea come la distinzione alimenti un “inesausto dibattito” ritornando periodicamente al centro delle riflessioni della giurisprudenza e della dottrina; F. Piraino, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” ovvero dell’inadempimento incontrovertibile e del­l’inadempimento controvertibile, in Eur. dir. priv., 2008, 83 s.; Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli, 2011, 509 s.; Id., Corsi e ricorsi delle obbligazioni “di risultato” e delle obbligazioni “di mezzi”: le distinzione e la dogmatica della sua irrilevanza, in Contr., 2014, 891 s.; G. D’Amico, Responsabilità per inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma?, Atti del Convegno svoltosi a Treviso 23-24-25 marzo 2006 per il cinquantenario della Rivista di diritto civile, Padova, 2006, 141 s.

Per le opere meno recenti ma emblematiche del vivace dibattito sul tema cfr. F. Leone, La negligenza nella colpa extracontrattuale e contrattuale, in Riv. dir. civ., 1915, 100 ss.; G. Osti, Revisione critica della teoria sull’impossibilità della prestazione, ivi, 1918, 345 ss., spec. 424 ss.; A. Giovene, L’impossibilità della prestazione e la sopravvenienza, Padova, 1941, 90 ss.; E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1953, 111 ss.; L. Mengoni, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”. Parte I. Studio critico, in Riv. dir. comm., 1954, I, 185 ss.; Id., Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi”. Parte II. Studio critico, ivi, 280.; U. Breccia, Diligenza, buona fede e attuazione del rapporto, Milano, 1968, 107; G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 45 ss.; R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 60 ss.; P. Schlesinger, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, 1277 ss.

[34] Cfr. l’emblematica decisione della Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, che, sottolinea G. Vettori, Contratto e rimedi, 3° ed., Padova, 2017, 963, ha determinato “la svolta anche in merito alla prova del nesso di causalità” con il conseguente alleggerimento del carico probatorio del debitore il quale dovrà “allegare – e non provare – l’inadempimento e il nesso di causalità fra questo e il danno”. L’allegazione deve riguardare un “inadempimento qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”. Fa notare di recente C.M. Celotto, op. cit., 110, come tale orientamento prevalga nella giurisprudenza di legittimità successiva senza che siano fornite “indicazioni utili su quale debba essere il grado di determinatezza e specificità di tale allegazione” con la conseguenza che si finisce per “svuotare e quindi alleggerire in misura sempre maggiore il contenuto del predetto onere”; N. Rizzo, op. cit., 327 s., il quale sottolinea come la decisione del 2008 sugelli e perfezioni un orientamento emerso in un gruppo di pronunce precedenti che avevano fatto applicazione, nell’ambito della responsabilità medica, del principio espresso dalle Sezioni unite del 2001, precisando che l’inadempimento deve essere “qualificato” cioè idoneo a produrre il danno lamentato. In questo modo “l’eli­minazione del nesso causale dai fatti costitutivi della pretesa risarcitoria (…) si realizza con l’attrazione del nesso causale all’ina­dempimento”; R. Pucella, Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, in Danno e resp., 2016, 822, secondo cui «La Corte opera così una sorta di “crasi logica” tra dimostrazione processuale della colpa e della catena causale».

La sentenza può essere letta in Danno e resp., 2008, 788 ss., con nota di G. Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica; ivi, 871 ss., con nota di A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; ivi, 1002 ss., con nota di M. Gazzara, Le S.U. “fanno il punto” in tema di onere della prova della responsabilità sanitaria; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612 ss., con nota di R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in Resp. civ., 2008, 687 ss., con nota di M. Dragone, Le S.U., la “vicinanza alla prova” e il riparto dell’onere probatorio; ivi, 397 ss., con nota di R. Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; ivi, 2009, 221 ss., con nota di C. Miriello, Nuove e vecchie certezze sulla responsabilità medica; in Resp. civ. prev., 2008, 856, con nota di M. Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato; in Giur. it., 2008, 1653 ss., con nota di A. Ciatti; Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato; ivi, 2197 ss., con nota di M.G. Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio; in Foro it., 2008, I, c. 455, con nota di A. Palmieri.

[35] Le sentenze, con i relativi commenti, sono pubblicate nel volume tematico, Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, a cura di R. Pardolesi, in Foro it. – Gli Speciali, 2020.

Indica i punti più significativi delle sentenze del 2019 M. Franzoni, Spigolature sulle sentenze di san Martino, in Danno e resp. 2020, 7 ss.

[36] L’espressione è di C. Scognamiglio, Un “restatement” dialogante con la dottrina, così come con i giudici di merito, della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità sanitaria, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., c. 2 (Introduzione al volume), il quale, richiamando l’intento espresso dal Presidente della terza Sezione di pronunciare “sentenze pilota” su questioni di particolare rilevanza al fine di assicurare uniformità giurisprudenziale, sottolinea la funzione nomofilattica “selettiva e preventiva” operata dalla Corte di Cassazione. Sul punto cfr. E. Scoditti, La nomofilachia naturale della Corte di cassazione. A proposito di un recente scritto sulla “deriva della Cassazione”, in Foro it., 2019, V, c. 422, il quale sottolinea l’intento della terza sezione della Cassazione di attuare “il progetto organizzativo che può essere definito di «nomofilachia preventiva» sia rimuovendo “provvedimenti che contraddicono «l’unità del diritto nazionale»” sia indirizzando i giudici di merito; cfr. anche R. Pardolesi, Responsabilità sanitaria in Cassazione: una nota esplicativa (nota a Cass., 10 dicembre 2019, n. 32124), in Foro it., 2020, I, c. 163, il quale ravvisa il “quid novi” nel metodo “che è quello della progettazione condivisa delle soluzioni da assegnare ai nodi controversi o irrisolti della disciplina di settore”.

[37] Fa notare C. Scognamiglio, op. ult. cit., c. 6, che le decisioni sono state depositate dopo undici anni dalle sentenze sul danno non patrimoniale di San Martino del 2008, le quali erano state ritenute “in grado di costituire una sorta di statuto del danno non patrimoniale per il terzo millennio”. Tale previsione è risultata, alla luce degli sviluppi sul tema, eccessivamente ottimistica, tanto da indurre l’A. ad una maggiore prudenza, almeno sotto il profilo “dell’orizzonte temporale”, circa la capacità delle decisioni di San Martino del 2019 di riuscire effettivamente a garantire soluzioni stabili di lungo periodo sul tema della responsabilità sanitaria. Sul punto cfr. R. Pardolesi, R. Simone, Sulla «fine della storia» della responsabilità da «facere» professionale, in Foro it., 2020, I, c. 1608, i quali, commentando le decisioni della Cass., ord. 18 febbraio 2020, n. 4009 e Cass. 26 febbraio 2020, n. 5128, sottolineano che “si è formalmente fuori dal perimetro «del progetto sanità» con cui la III sezione civile (…) ha voluto dettare le linee guida in tema di responsabilità sanitaria per gli anni a venire”; F. Piraino, Travisamenti pretori in tema di esonero dalla responsabilità contrattuale tra causalità e vicinanza della prova, in Foro it., 2020, I, c. 2000 ss., nota a Cass., ord. 18 febbraio 2020, n. 4009, oltre a ritenere “fallace” tutto “l’impianto motivazionale”, sottolinea come l’ordinanza si discosti dalle decisioni del novembre del 2019 generalizzando l’autonomo rilievo del nesso di causalità materiale “sostanzialmente a tutto il campo delle obbligazioni”; R. Pardolesi, R. Simone, Frammenti di responsabilità medica. E ricomposizioni problematiche, in Foro it., 2020, V, c. 337, che, in occasione di tre decisioni della Corte (Cass. 8 luglio 2020, n. 14258; Cass., ord. 6 luglio 2020, n. 13872; Cass, ord. 6 luglio 2020, n. 13870, in Foro it., 2020, I, c. 3468), sottolineano come, a poco tempo di distanza dalle decisioni di S. Martino 2019, si ravvisano disallineamenti giurisprudenziali che confermano la difficoltà di realizzare quell’obiettivo di “nomofilachia programmatica” convintamente perseguito dalla Corte.

[38] Sul punto v. C. Scognamiglio, op. ult. cit., c. 2 ss., secondo il quale dalla lettura delle decisioni nel suo complesso si coglie la tendenza a consolidare e razionalizzare gli “indirizzi giurisprudenziali in larga misura già accreditati” al fine di evitare l’insorgere di contrasti in sede di legittimità e di orientare le decisioni dei giudici di merito, anche nell’ottica della riduzione del contenzioso. Ad avviso dell’A. oltre all’intento della prevedibilità delle decisioni, che sicuramente rappresenta un modo nuovo di “declinare la funzione nomofilattica”, risulta particolarmente significativo, a livello metodologico, il dialogo con la dottrina che determina nelle sentenze una “interazione creativa tra dottrina e giurisprudenza” in netto contrasto con l’opposta tendenza di una giurisprudenza creativa e di una dottrina remissiva. Id., La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, commento a Cass. 11 novembre 2019, n. 28991 e n. 28992, in Corr. giur., 2020, 308, il quale sottolinea il “flusso dialogico continuo tra la prospettiva della dottrina e quella della Corte”. Esprime preoccupazione per le decisioni non sostenute da un adeguato apparato argomentativo C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, il cui capitolo II, come ricorda C. Scognamiglio, Un “restatement” dialogante con la dottrina, così come con i giudici di merito, della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità sanitaria, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., c. 4 e nota 16, è intitolato “Giurisprudenza creativa e dottrina remissiva”.

[39] In particolare, al tema del nesso di causalità sono dedicate le decisioni della Cass. 11 novembre 2019, nn. 28992 e 28991, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., con nota di R. Pardolesi, R. Simone, Prova del nesso di causa e obbligazioni di facere professionale: paziente in castigo, c. 136 ss.; ivi, con nota di G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, c. 150 ss.; ivi, con nota di F. Macario, Prova del nesso di causalità (materiale) e responsabilità medica: un pregevole chiarimento sistematico da parte della Cassazione, c. 162 ss.; ivi, con nota di F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, c. 169 ss.; ivi, con nota di U. Izzo, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, c. 198 ss.

[40] Nel commentare le due decisioni sul nesso di causalità F. Piraino, op. ult. cit., c. 189, parla di “parziale correzione di tiro operata rispetto all’oramai noto precedente del 2017” e di “predisposizione di un più preciso corredo concettuale alla riconferma della regola che assegna al creditore l’onere della prova del nesso di causalità materiale, ancorché circoscritta alla responsabilità per inadempimento delle obbligazioni di fare professionale”. Alla luce di ciò l’A. si propone di verificare se la regola sulla distribuzione dell’onere probatorio della causalità materiale possa risultare meno infondata. Per una ricognizione sintetica delle posizioni della dottrina e della giurisprudenza sul nesso di causalità cfr. E. Iannello, Onere della prova del nesso causale nella responsabilità sanitaria. Le oscillazioni del «pendolo» nel dialogo tra dottrina e giurisprudenza, in wwwgiustiziainsieme.it.

[41] Cass. 26 luglio, 2017, n. 18392, in I nuovi orientamenti della Cassazione, a cura di C. Granelli, Milano, 2018, 529 ss.; ed in Foro it., 2018, I, c. 1348.

[42] L’espressione è di R. Pardolesi, R. Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura sanitaria. indietro tutta!, in Danno e resp., 2018, 5, secondo i quali la decisione inaugura “una doppia linea di causalità, basata sulla distinzione tra causalità materiale del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (a carico dell’attore) e causalità del fatto estintivo, ossia dell’impossibilità della prestazione (a carico del convenuto)” dando luogo ad “un impianto dogmatico sofisticato anche se opinabile”. Sul punto cfr. C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, cit., 884 s., secondo cui “la doppia sequenza causale, presieduta la prima dal danneggiato e la seconda dall’ipotetico danneggiante è autocontraddittoria, per il fatto che la prima esclude la seconda”. Infatti, se il creditore prova la sussistenza del nesso di causalità tra condotta del sanitario e peggioramento dello stato di salute non vi è più spazio per la prova contraria del debitore. Allo stesso modo, qualora il creditore non riesca a fornire la suddetta prova, non sarebbe necessario fornire la prova dell’impossibilità derivante da una causa estranea al debitore. Di recente, in uno studio dedicato al nesso di causalità F. Piraino, Il nesso di causalità, in Europa e dir. priv., 2018, 430, si sottolinea come “il nesso di causalità materiale non può che essere anche giuridico, nel senso di giuridicizzato, ossia sottoposto a un processo di connotazione in chiave giuridica che adatti le regole causali desunte aliunde agli obbiettivi del diritto e alla struttura della responsabilità civile, tanto aquiliana quanto contrattuale. Una tale osservazione potrebbe essere accolta in maniera più proficua se nella prassi lessicale e concettuale di giurisprudenza e dottrina non fosse invalso l’uso che assegna al sintagma “causalità giuridica” la funzione di designare un secondo nesso di causalità rispetto a quello materiale incaricato di circoscrivere l’area dei danni consequenziali risarcibili e quindi posto tra l’evento dannoso primario e gli ulteriori pregiudizi”.

Cfr. sul tema G. D’Amico, Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria, in Danno e resp., 2018, 358, il quale ritiene che “il tema di prova in materia di nesso di causalità deve essere considerato unico ed unitario (sempre trattandosi, in definitiva, di comprendere se la causa dell’evento dannoso subito dal creditore sia o meno da individuarsi nel comportamento del debitore”; concetto ribadito dall’A. in L’onere della prova nel nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di assestamento, cit., c. 161.

[43] Cass. 26 luglio, 2017, n. 18392, in I nuovi orientamenti della Cassazione, cit., 532 s. La decisione precisa ulteriormente che “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione: l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari”.

[44] Tra le numerose voci critiche cfr. R. Pardolesi, R. Simone, op. loc. ult. cit.; G. D’Amico, La prova del nesso di causalità «materiale» e il rischio della c.d. «causa ignota» nella responsabilità medica, cit., c. 1348 ss., che evidenzia come l’impostazione che risulta dalla pronuncia ponga “un problema di «compatibilità»” con il modello generale costruito in precedenza con riguardo alla distribuzione dell’onere della prova nella responsabilità contrattuale; Id., Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria, in Danno e resp., 2018, 349 ss.; A. Procida Mirabelli di Lauro, La Terza Sezione e la strana teoria dell’inadempimento…extra-contrattuale per colpa, ivi, 2019, 248 ss.; F. Piraino, Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale e la ripartizione dell’onere della prova, in Giur. it., 2019, 709. In senso adesivo E. Scoditti, La responsabilità contrattuale del medico dopo la l. n. 24 del 2017: profili di teoria dell’obbligazione, in Foro it., 2018, V, c. 265. Cfr. sul tema M. Faccioli, Nesso causale e onere della prova nella responsabilità sanitaria, in I nuovi orientamenti della Cassazione civile, cit., 550 ss., il quale, nonostante le perplessità che potrebbero derivare dalla scomposizione del nesso causale in due segmenti e dall’af­fermazione della continuità con l’indirizzo espresso dalla nota Cass. n. 577/2008, esprime un giudizio di indubbio apprezzamento per il “decisivo cambio di rotta nel segno della restaurazione dei più tradizionali e consolidati insegnamenti della dottrina civilistica” secondo cui, indipendentemente dal tipo di responsabilità, incombe sul danneggiato la prova del nesso di causalità tra condotta e danno.

Cfr., oltre alla Cassazione appena richiamata, anche Cass. 14 novembre 2017, n. 26824; Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315, in I nuovi orientamenti della Cassazione civile, cit., 529 ss., secondo le quali la prova del nesso di causalità tra condotta e danno grava sul soggetto danneggiato. Per un’analisi delle richiamate decisioni cfr. M. Faccioli, op. ult. cit., 540 ss., che sottolinea come la reale portata applicativa di questo criterio di riparto dell’onere probatorio dipenderà dal tipo di applicazione che ne farà concretamente la giurisprudenza attribuendo ad esso rigidità o maggiore flessibilità introducendo eccezioni in cui si riconosce la presunzione di sussistenza del nesso causale con riferimento ad ipotesi specifiche” (p. 554 s.). Analoghe considerazioni sono svolte dall’A. nello scritto Nuovi orientamenti giurisprudenziali sull’onere probatorio del nesso eziologico e sul rischio della “causa ignota” nella responsabilità medica, in www.eclegal.it, 2018, 5. Sul tema cfr. anche I. Riccetti, Responsabilità della struttura sanitaria: non è più sufficiente la (già difficile) allegazione dell’inadempimento qualificato per soddisfare l’onere probatorio del danneggiato? (nota a Cass. 7 dicembre 2017, n. 29315), in Riv. it. med. leg. 2, 2018, 712 ss.; B. Tassone, Responsabilità contrattuale e inversione della prova del nesso, in Danno e resp., 2018, 14 ss. In senso conforme alle decisioni sopra richiamate cfr. anche Cass. 15 febbraio 2018, n. 3704, in Cassazione.net.; Cass. 2 marzo 2018, n. 4928, in Resp. medica. Diritto e pratica clinica, 2018, con nota di S. Corso.

Ripercorre “le principali tappe” dell’evoluzione della giurisprudenza sia civile che penale sul nesso di causalità F. Di Ciommo, Casualità verso causalità: scienza e natura, determinazione e destino nella (nuova?) responsabilità medica, cit., 85 ss.

[45] Sulla identità “del principio di diritto” espresso nelle due decisioni della Cassazione del 2019, nn. 28992 e 28991 e quello che emerge dalla sentenza del 2017, n. 18392, cfr. R. Pardolesi, R. Simone, Prova del nesso di causa e obbligazioni di facere professionale: paziente in castigo, cit., c. 136, i quali rilevano come l’indirizzo sia divenuto “dominante” come emerge chiaramente dalle numerose decisioni conformi. Sul punto si rinvia alle sentenze indicate nella nota 2, c. 136. Dello stesso avviso G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, cit., c. 151, nota 4, secondo cui «L’indirizzo inaugurato da Cass. 26 luglio 2017, n. 18392 (…) viene sostanzialmente ribadito (sia pure con qualche “messa a punto” argomentativa)».

[46] Di “correzioni di tiro (…) contenute al minimo sindacale” parlano R. Pardolesi, R. Simone, op. ult. cit., secondo i quali “lo sforzo ricostruttivo si rivela, per chi voglia prestare un minimo di attenzione, assai posticcio”, c. 136 ss.; C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, cit., 889 ss., il quale, pur apprezzando il ripensamento operato dalla Corte sull’onere della prova nella responsabilità per inadempimento, non trova una giustificazione, né sul piano dogmatico né su quello della disciplina positiva, alla scelta di dettare una particolare disciplina per le obbligazioni di fare professionale. Di diverso parere F. Macario, op. cit., c. 162, secondo cui, nel ritornare sul tema della prova del nesso di causalità, la Cassazione offre una “pregevole motivazione, che in modo convincente ed esaustivo (come si addice a una sentenza di legittimità, intesa a ‘fare il punto’, come si usa dire), riesce a fissare i tratti essenziali della questione, anche in risposta ad alcune delle obiezioni rivolte in sede di annotazione delle precedenti pronunce (sempre provenienti dalla terza sezione civile)”. Nella stessa prospettiva P. Mariotti, In cammino verso una responsabilità civile più equilibrata solidale e sostenibile, in Responsabilità medico-sanitaria e risarcimenti, cit. 261 ss.; ravvisa nelle decisioni della Corte “lo sforzo, apprezzabile e condivisibile, anche se appunto bisognoso di qualche ulteriore specificazione, di costruire un assetto degli oneri della prova (…) il più possibile modellato sulla specificità della prestazione oggetto dell’obbligazione C. Scognamiglio, La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, cit., 313 s.

[47] Osservano, sul punto R. Pardolesi, R. Simone, op. ult. cit., c. 137, che “sotto il profilo strutturale, dunque, si assume che le due traiettorie – contrattuale e aquiliana – combacino”.

[48] Così espressamente Cass., 11 novembre 2019, nn. 28992 e 28991, cit., la quale precisa ulteriormente che “La causalità acquista qui autonomia di valutazione solo quale causalità giuridica, e dunque quale delimitazione del danno risarcibile attraverso l’identi­ficazione del nesso eziologico fra evento di danno e danno conseguenza (art. 1223 c.c.). L’assorbimento pratico della causalità materiale nell’inadempimento fa sì che tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (oltre che della fonte del diritto di credito), perché, come affermato da Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533 è onere del debitore provare l’adempimento o la causa non imputabile che ha reso impossibile la prestazione (art. 1218 c.c.), mentre l’inadempimento, nel quale è assorbita la causalità materiale, deve essere solo allegato dal creditore. Non c’è quindi un onere di specifica allegazione (e tanto meno di prova) della causalità materiale perché allegare l’inadempimento significa allegare anche nesso di causalità e danno evento”.

Sottolinea F. Piraino, Il nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale e la ripartizione dell’onere della prova, cit., 718 s., che “l’inadempimento esibisce un’intrinseca connotazione eziologica che rende superflua una specifica ed autonoma indagine sulla causalità materiale posta a carico del debitore”. Secondo l’A. «La via da percorrere è (…) quella di approfondire la riflessione sulle cadenze che l’unitario regime di responsabilità contrattuale assume quando l’obbligazione inadempiuta è connotata da un risultato non predeterminato ma determinabile soltanto “a posteriori”. Potrebbero offrire una risposta adeguata sia lo svolgimento della verifica dell’inadempimento secondo il modello del ‘‘giudizio teleologico a posteriori’’ sia l’inclusione del giudizio nomologico-deduttivo, proprio della causalità generale, nell’accertamento del carattere dannoso dell’inadempimento» (p. 736); Id., Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 174.

[49] Osservano R. Pardolesi, R. Simone, op. ult. cit., c. 138, che in questo modo si vorrebbe far salva la simmetria sistematica (ossia “il tronco comune”, se si preferisce, “le regole generali”), conciliandolo con il risultato pratico di chiedere al creditore la sola prova del titolo e l’allegazione dell’inadempimento».

[50] Cfr. G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, cit., c. 157 e nota 23, secondo il quale la Corte perviene ad una «sorta di “riduzione teleologica” (nella interpretazione) del contenuto della sentenza delle sezioni unite» escludendo che il principio espresso nella decisione del 2001, n. 13533, possa applicarsi alle ipotesi di inadempimento delle obbligazioni professionali rispetto alle quali esso deve essere integrato con la regola secondo cui il debitore deve fornire la prova del nesso di causalità materiale. Sottolinea U. Izzo, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, cit., c. 209, come la Corte ometta di fornire una spiegazione del regime probatorio previsto per le obbligazioni di facere professionale.

[51] Esprime molto apprezzamento per “l’intento di distinguere l’accertamento della causalità di fatto (…) dall’imputazione soggettiva” e ritiene “logica la conclusione” prospettata dall’estensore secondo cui “ogni forma di responsabilità è dunque connotata dalla congiunzione di causalità e imputazione” M. Franzoni, Onere della prova e il processo, in Resp. civ. e prev., 2020, 195 s., nota a Cass. 11 novembre 2019, n. 28991, il quale, tuttavia, con riguardo all’onere della prova che grava sul creditore, manifesta il proprio disagio “poiché dall’allegazione dell’inadempimento si passa ad affermarne la necessità della prova”.

[52] Così Cass. 11 novembre 2019, n. 28992 e n. 28991, cit.

In senso critico rispetto alle scelte operate dalla Cassazione A.M. Benedetti, Verso una “medicalizzazione” della responsabilità contrattuale? Esercizi di (discutibile) riscrittura dell’art. 1218…, nota a Cass. 11 novembre 2019, n. 28992 e n. 2899, in giustiziacivile.com, 2020, secondo cui “le decisioni non convincono pienamente, non solo per l’ardua sostenibilità tecnica delle conclusioni, ma anche per una motivazione che non brilla per chiarezza di argomentazioni”; R. Simone, Ombre e nebbie di San Martino: la causalità materiale nel contenzioso sanitario, (nota a Cass. 11 novembre 2019, nn. 28991 e 28992, in Foro it.,2020, I, c. 218 ss.; N. Rizzo, op. cit., 327 ss., il quale, in sede di commento alla Cass. 11 novembre 2019, n. 28992, svolgendo una articolata critica alle motivazioni poste a fondamento della sentenza sottolinea come “la necessità di dar corso ad un’indagine eziologica tra l’inadempimento ed il danno alla salute, nella forma del peggioramento delle condizioni del paziente o del­l’in­sorgere di nuove patologie, non è implicata dalla distinzione tra interesse strumentale del creditore – rappresentato dalla prestazione – ed interesse primario dello stesso – segnato dalla guarigione o, comunque, dal mancato deterioramento del suo stato psicofisico –, ma dal fatto che il creditore affermi di aver subìto un danno conseguenza dell’inadempimento; e cioè che si sia prodotto un evento dannoso (il peggioramento delle condizioni cliniche) successivo all’inadempimento e che, di questo evento, l’ina­dempimento costituisca la causa” (p. 331); C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, cit., 889 ss., il quale articola una serrata critica alla decisione della Cassazione n. 28991 del 2017, sostenendo, tra le varie obbiezioni, che essa “ha risolto una questione di causalità giuridica nell’erronea convinzione che si trattasse di causalità del fatto (p. 899 e nota 136); A Di Majo, La doppia natura della responsabilità del medico (nota a Cass. 11 novembre 2019, n. 28991), in Giur. it., 2020, 38 ss., il quale evidenzia la criticità di una ricostruzione che, gravando il debitore della prova del nesso di causalità materiale, determina un sensibile avvicinamento della responsabilità del medico che è definita contrattuale alla responsabilità aquiliana; di opinione diversa C. Scognamiglio, La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, cit., 308 ss., secondo cui, partendo dall’analisi delle fattispecie concrete oggetto di giudizio dalle quali risultava totale incertezza in ordine alla sussistenza del nesso causale “tra l’evento dannoso subito dal paziente e la condotta in ipotesi (…) colpevole del sanitario tenuto alla prestazione di cura”, non si giustifica la “preoccupazione circa un ipotetico effetto eversivo della materia della responsabilità da inadempimento di un’ob­bligazione che (…) i critici delle sentenze qui commentate hanno paventato” (p. 310).

È solo il caso di fare cenno ai problemi sollevati in dottrina nelle ipotesi in cui oggetto dell’obbligazione sia proprio un risultato. Tale criticità è rilevata da G. D’Amico, op. ult. cit., c. 154 ss., il quale sottolinea come non sia negabile che obbligazioni di facere professionale possano essere qualificate come obbligazioni di risultato con la conseguenza che, in ipotesi siffatte «inadempimento (ossia: profilo della “imputazione soggettiva” della responsabilità) e nesso di causalità sembrano astretti da un inscindibile nesso». Invero secondo l’A. il richiamo effettuato nelle decisioni del 2019 alle obbligazioni di diligenza professionale sembra far intendere che l’estensore delle sentenze abbia ritenuto applicabile la scissione tra interesse strumentale e primario del creditore anche alle obbligazioni di risultato in quanto anche in queste ipotesi oggetto della prestazione non è “(il risultato del)la guarigione bensì una condotta diligente e perita”. Tale impostazione non tiene conto secondo l’A. del fatto che nelle prestazioni ad alta vincolatività non può non istituirsi “una presunzione di responsabilità a carico del debitore, nel senso della sussistenza di un sicuro nesso causale (salva soltanto l’esimente del caso fortuito) tra il mancato risultato e la violazione delle leges artis da parte del debitore”. Presunzione che non è da ricondurre all’art. 2729 c.c., ma che consiste in una “presunzione giurisprudenziale” per cui l’inversione dell’onere probatorio si determinerà in tutti i casi di inadempimento di una prestazione di quel contenuto”.

[53] Tale aggravamento sembra mettere in crisi la scelta legislativa di dettare regimi differenziati di responsabilità. La diversa disciplina dettata per il medico dipendente dalla struttura ospedaliera e per il medico libero professionista trova la sua giustificazione nell’intento di far gravare il rischio sanitario sul soggetto che è legittimamente nelle condizioni migliori per farvi fronte (la struttura sanitaria) ma non rende agevolmente comprensibile la soluzione prospettata dalla Corte di Cassazione con riguardo alle ipotesi riconducibili alla responsabilità contrattuale del sanitario per inadempimento dell’obbligazione di facere professionale. Sul punto cfr. F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 171 s., che criticamente coglie nella scelta della terza sezione della Cassazione, dopo l’intervento del legislatore che ha posto fine alla discussa teoria del contatto sociale, l’intento di “riconquistare il centro del proscenio strappandolo a quel legislatore che si è permesso di battere un colpo”, attraverso una interpretazione volta a svuotare di significato parte della riforma introdotta con la l. n. 24/2017. Id., Inadempimento e causalità nelle obbligazioni di fare professionale, in Danno e resp., 2020, 560 s., secondo cui “i diversi indirizzi che patrocinano la specificità delle obbligazioni di facere professionale pretendono di scindere il danno principale da inadempimento dall’interesse protetto, riannodando invece il primo a un interesse esterno al perimetro dell’obbligazione. Così facendo, esse imprimono inevitabilmente alla responsabilità contrattuale un’innaturale torsione aquiliana”.

Condivide la scelta normativa di valorizzare “la responsabilità della struttura, assicurando invece parziali immunità al personale sanitario strutturato”. U. Ruffolo, Le ‘‘mobili frontiere’’ della responsabilità medica, in Giur. it., 2021, 456, il quale sottolinea come già nel 2014 (nel lavoro a sua cura La responsabilità medica, Milano, 2004 e precisamente nel quarto di copertina) aveva prospettato la necessità di “una inversione di tendenza rispetto ad una anomalia: l’anacronistico quanto illogico privilegio accordato, nella pratica, alla responsabilità personale, e per colpa, sia contrattuale che extracontrattuale, del singolo operatore sanitario, trascurandosi o ponendosi invece in secondo piano le responsabilità (spesso anche oggettive) delle strutture sanitarie”. Concetto ribadito dall’A. anche nella Prefazione al volume La nuova responsabilità medica, a cura di U. Ruffolo, Milano, 2018.

[54] Cfr. sul tema le riflessioni critiche di E. Labella, Il nesso di causalità nelle “obbligazioni di diligenza professionale”, in Europa dir. priv., 2020, 277 ss.

[55] D’Amico, op. ult. cit., c. 157 s., secondo il quale, al di là dell’asserita adesione alla sentenza del 2001, le decisioni del 2019 finiscono per “ribaltare (anche abbastanza vistosamente) la ratio che ispirava l’intervento delle sezioni unite del 2001 – all’insegna di un evidente favor creditoris – offrendo una soluzione esattamente speculare (nei suoi esiti finali)”. Secondo F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 178 s., “Non può non suscitare un certo stupore la capacità dei giudici della terza sezione di prodursi in evoluzioni spericolatissime pur di trovare uno spazio, che non c’è, tra le due pronunce a sezioni unite del 2001 e del 2008, grazie al quale enunciare principi di diritto chiaramente divergenti rispetto a quelli espressi dai due autorevoli precedenti, sfuggendo al limite della rimessione alle sezioni unite sancito dall’art. 374, comma 3, c.p.c.”. Id., Inadempimento e causalità nelle obbligazioni di fare professionale, cit., 563; il quale ribadisce come la scelta di non rimettere la questione alle Sezioni Unite, come si sarebbe dovuto fare, ha portato “una corrente dei giudici di legittimità” a “minare la tenuta di quei presupposti in maniera surrettizia”; T. De Mari Casareto dal Verme, Prestazione professionale sanitaria e prova dell’inadempimento dell’obbligazione: tornare ai “mezzi” senza dirlo?, in Giust. civ. comm., 2020, 15, il quale nel ritenere che si sia in presenza di “un vento decisamente controriformista”, se paragonato al clima che accompagnò l’acuto delle sezioni unite del 2001” ritiene che il nuovo indirizzo abbia consentito di superare “una soluzione che nel volgere di pochi anni aveva generato un dispositivo difficilmente governabile, ove allegare l’inadempimento dell’obbligazione di prestare la cura professionalmente era divenuto troppo facile, determinando le condizioni perché la pressione risarcitoria si facesse troppo intensa e i medici si ribellassero”. “Di insanabile conflitto fra le due impostazioni” parla U. Izzo, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, cit., c. 209, secondo il quale si è in presenza di una “vera e propria inversione ad U, del tutto eversiva rispetto all’ordine che si era voluto istituire nel 2001”. In senso contrario F. Macario, op. cit., c. 164, il quale ritiene “piuttosto evidente la linea di continuità con la giurisprudenza di legittimità (alludendosi alla notissima decisione a sezioni unite n. 13533/01, richiamata nella motivazione): una continuità, peraltro, incomprensibilmente negata da una parte della dottrina”. Sul punto cfr. inoltre S. Cafarelli, L’onus probandi della causalità materiale nella responsabilità sanitaria e il rischio della c.d. “causa ignota”, in giustiziacivile.com, secondo la quale, il «precedente delle Sezioni Unite non viene (…) ribaltato” né tantomeno scalfito dalla ricostruzione de qua, (…) bensì riletto in chiave evolutiva e adattato al contesto ordinamentale, sì da acquisire stabilità nel tempo».

[56] Sul punto fortemente critico F. Piraino, op. ult. cit., 171, secondo il quale equiparare sotto il profilo della prova della causalità materiale, anche se solo per le obbligazioni di facere professionale, la responsabilità contrattuale, a quella extracontrattuale “annulla una delle più significative differenze tra i due regimi, per di più allineando quello più vantaggioso (la responsabilità contrattuale) a quello meno vantaggioso (la responsabilità aquiliana)”. Cfr. anche A. Procida Mirabelli di Lauro, La Terza Sezione e la strana teoria dell’inadempimento…extra-contrattuale per colpa, in Danno e resp. 2019, 248 ss.; Id, Inadempimento e causalità materiale: “perseverare diabolicum”, in Danno e resp., 2020, 75 s., che, esaminando una ipotesi di responsabilità della struttura sanitaria, sottolinea come la Cassazione abbia «deciso di perseverare in quella “strana teoria” che tende a ricostruire la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria pubblica o privata con regole che sono tratte dalla responsabilità extracontrattuale per colpa (art. 2043 c.c.), ma che sono inconciliabili sia con la disciplina dell’inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., sia con la regola iscritta nell’art. 2697 c.c.». Cfr., inoltre, le considerazioni svolte da M. Franzoni, Onere della prova e il processo, cit., 197, il quale, peraltro, dopo un’attenta analisi del caso concreto e delle risultanze della CTU, solleva il dubbio che la vicenda “abbia ad oggetto il tema dell’onere della prova della vittima, oppure riguardi altro”. Si sarebbe, infatti, potuto seguire un diverso iter argomentativo affermando che l’attore, pur avendo fornito la prova del titolo, aveva “allegato un evento che non è risultato essere un inadempimento” in quanto il medico nel giudizio aveva fornito la prova dell’adempimento. Su tali premesse si sarebbe potuto applicare il criterio del riparto dell’onere della prova dettato dall’art. 1218 cc, secondo l’interpretazione offerta dalla decisione del 2001.

[57] Sul punto criticamente cfr. R. Pardolesi, R. Simone, Prova del nesso di causa e obbligazioni di facere professionale: paziente in castigo, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., c. 139, secondo cui le decisioni del 2019 mirano “a ripristinare – sia pure a livello della nozione di causa imputabile ex art. 1218 c.c. – la distinzione tra obbligazioni di risultato o di mezzi, ossia, nel campo medico, fra interventi routinari e interventi di difficile esecuzione (altri preferisce parlare di interventi ad alta vincolatività a fronte di interventi difficili, ovvero di obbligazioni con risultato indeterminato o, ancora, di obbligazioni ‘governabili e non’, ma la sostanza non cambia)”. Di diverso avviso F. Macario, op. cit., c. 165, secondo cui “quest’ultimo intervento della Cassazione vale a confermare la validità – utilità (…) della distinzione generale delle obbligazioni di mezzi e di risultato, che invero la migliore dottrina civilistica ha sempre rispettato”; Favorevole all’impiego della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, cit., c. 159 ss., il quale ha riformulato la distinzione tradizionale contrapponendo gli interventi routinari a quelli di speciale difficoltà per collegare ad essi un differente regime probatorio «con correlativa diversa distribuzione del rischio della c.d. “causa ignota”». L’A., auspicando che la giurisprudenza si evolva in tale direzione, non si nasconde che, in tal caso, sarebbe inevitabile riconsiderare i principi espressi dalla sentenza n. 13533/2001. Al riguardo osserva F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 179, che le sentenze del 2019 “giungono (…) ad esiti che vanno ben oltre rispetto a quelli prospettati dalla dottrina appena richiamata che attribuisce rilevanza alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato nell’ottica di “una diversa dislocazione del rischio della causa ignota” in quanto esse, “nelle obbligazioni di diligenza professionale (nozione che rievoca la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato) prevedono una diversa distribuzione della prova della causalità materiale”. Di una “una battuta d’arresto” e di «un ritorno, per qualcuno condivisibile, alle “obbligazioni di mezzi” e cioè ad un regime meno severo (questa volta in punto di prova del nesso di causalità) per il medico» parla A. Plaia, La responsabilità del medico e l’argomento statistico, in Contratti, 2020, 344.

Sull’utilità della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato E. Scoditti, La responsabilità contrattuale del medico dopo la legge n. 24 del 2017: profili di teoria dell’obbligazione, cit.

[58] Si rinvia alla nota n. 29.

[59] Sul punto v. F. Piraino, op. ult. cit., c. 178, secondo il quale la Cassazione riesuma la distinzione “guardandosi bene, però, dall’adottare la nota nomenclatura, così da celare il contrasto con un’altra fondamentale pronuncia delle sezioni unite, che ha fatto meritoriamente segnare l’abbandono della distinzione proprio nel settore (…) della responsabilità medica”. Posizione ribadita dall’A. nello scritto Inadempimento e causalità nelle obbligazioni di fare professionale, cit., 565, in cui parla di un “ritorno al passato” che rappresenta “un regresso per la scienza pratica”.

[60] Sottolinea G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica, cit., c. 156, come una delle criticità rinvenibili nel ragionamento della Corte consiste nel fatto che essa sembra negare l’«esistenza di prestazioni di “facere professionale” che abbiano ad oggetto “un risultato” o quantomeno sembra ritenere che anche in tali “obbligazioni (nel campo medico) oggetto dell’obbligazione non sia il risultato del(la guarigione), bensì la condotta diligente e perita (e, dunque conforme alle leges artis) da parte del debitore”.

[61] Evidenzia F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale, cit., c. 189, che appare “eccessiva la pretesa” che sembra emergere dalla lettura delle sentenze del 2019 “di estendere addirittura all’intero campo delle obbligazioni di facere professionale quell’iden­tificazione del risultato atteso con la perizia della condotta del debitore che è già di per sé contestabile in chiave categoriale”.

[62] In tal senso G. D’Amico, op. ult. cit., c. 157, secondo cui “la distinzione tra imputazione e causalità” dovrebbe riguardare solo una parte delle obbligazioni di facere professionale e precisamente quelle “c.d. di mezzi (o non routinarie)”.

[63] Osserva G. D’Amico, op. ult. cit., c. 152, che l’impiego del meccanismo presuntivo consente di spostare di nuovo sul debitore l’onere della prova che, in linea di principio, dovrebbe gravare sul creditore. Sul punto cfr. M. Bona, “San Martino” dolceamaro: pregi e dilemmi, in Responsabilità medico-sanitaria e risarcimenti. Quali nuovi scenari dopo le sentenze del “San Martino 2019” e la pandemia Covid-19?, cit., 101, secondo cui è «evidente come in realtà il recente “pacchetto” delle dieci sentenze novembrine confermi nel suo insieme importanti capisaldi del modello presuntivo precedente alla “deviazione” inaugurata dalla sentenza Cass. 18392/2017».

[64] Sul punto cfr. G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, cit., c. 158 s., secondo cui è «probabile (…) che nelle sentenze in commento si evochi l’istituto della “presunzione semplice” di cui all’art. 2729 c.c.», (nota 27). Sul punto cfr. le considerazioni svolte da F. Piraino, Inadempimento e causalità nelle obbligazioni di fare professionale, cit., 565 ss., il quale, peraltro, richiama il ragionamento già sviluppato sul tema da G. D’Amico nel lavoro appena richiamato e in Il rischio della “causa ignota” nella responsabilità contrattuale in materia sanitaria, cit., 357, per manifestare il suo dissenso rispetto alla ricostruzione prospettata dall’A. che ricorre al sistema delle presunzioni giurisprudenziali e collega “una presunzione giurisprudenziale” a “ciascuna categoria di obbligazione” giungendo a configurare una diversa distribuzione del carico probatorio tra le prestazioni ad alta vincolatività e quelle routinarie riformulando, alla luce di ciò, la tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

Per un lucido e generale inquadramento dell’istituto delle presunzioni cfr. M. Taruffo, Presunzioni, I, Diritto processuale civile, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1 ss., il quale, dopo aver operato un esame delle differenti tipologie di presunzioni, precisa che le c.d. presunzioni giurisprudenziali presentano una struttura “analoga a quella delle presunzioni legali relative, in quanto si muove da un fatto presunto a favore di una parte per addossare all’altra l’onere della prova contraria” con la conseguenza che, come per le presunzioni relative, esse “hanno effetto solo sul piano della ripartizione dell’onere probatorio tra le parti” (spec. 3).

[65] Cfr., F. Galgano, Trattato di diritto civile, I, II ed., Padova, 2010, 832, secondo cui si è in presenza di ipotesi nelle quali “il giudice argomenta per presunzioni basate sui caratteri tipologici del caso e suscettibili di ripetizione per tutti i casi che presentano i medesimi caratteri”. Sul tema si rinvia alle considerazioni svolte da G. Verde, Le presunzioni giurisprudenziali (introduzione a un rinnovato studio sull’onere della prova), in Foro it., 1971, V, c. 177 ss., il quale, dopo aver evidenziato la sussistenza, nelle motivazioni delle decisioni della Suprema Corte, di presunzioni che non hanno “la virtù di indirizzare il convincimento del giudice in un certo senso, bensì quella di invertire o comunque di disporre in determinate maniere gli oneri probatori delle parti”, rileva come la giurisprudenza, talvolta, finisca “con l’operare anche contro e/o fuori dei canoni legali di ripartizione degli oneri probatori, facendo ricorso a presunzioni che, a poco a poco, si astraggono dalle peculiarità dei casi concreti e assumono andamento tipico e costante” (c. 188).

Ritiene il “vero problema” delle presunzioni giurisprudenziali quello di stabilire se tale potere possa essere riconosciuto al giudice in assenza di una norma espressa che lo consenta M. Taruffo, op. cit., 3.

Analizza il ruolo delle presunzioni giurisprudenziali, con particolare riguardo alla responsabilità medica, M. Faccioli, “Presunzioni giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, cit., 79 ss., il quale, tenendo conto delle posizioni discordanti in dottrina in ordine alla loro ammissibilità, ritiene che nonostante le criticità connesse alla “creazione giurisprudenziale di regole di distribuzione dell’onere della prova devianti dai criteri previsti, in materia, dal diritto positivo” non si debba esprimere a priori una valutazione negativa ma occorra esaminare caso per caso ogni presunzione giurisprudenziale per operare una verifica volta a valutare «se e fino a che punto essa, oltre ad apparire fondata su di un ragionamento sufficientemente rigoroso e convincente sul piano tecnico-giuridico, sia effettivamente rispondente al principio di riferibilità della prova e all’esigenza di realizzare, eventualmente anche concedendo una speciale tutela alla parte “debole” del giudizio, una soddisfacente ed equilibrata composizione degli interessi in gioco in quel determinato processo». Secondo l’A. tali condizioni di ammissibilità non sussistono per le presunzioni giurisprudenziali elaborate in materia di responsabilità medica.

[66] Secondo F. Macario, op. cit., c. 166, “la distinzione più rilevante, ai fini della gestione processuale dell’onere probatorio, e in particolare del ricorso alle presunzioni (a vantaggio del paziente, s’intende) è quella che intercorre tra le diverse tipologie di interventi, di carattere routinario ovvero di particolare complessità e difficoltà”.

[67] Secondo G. D’Amico, L’onere della prova del nesso di causalità materiale nella responsabilità (contrattuale) medica. Una giurisprudenza in via di “assestamento”, cit., 155 s., “l’alta vincolatività che caratterizza le procedure di accertamento e di cura di alcune patologie consente di istituire una presunzione di responsabilità a carico del debitore, nel senso della sussistenza di un sicuro nesso causale (salva l’esimente del caso fortuito) tra il mancato risultato e la violazione delle leges artis da parte del debitore”.

[68] Rileva, tuttavia, con toni critici F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., c. 170, come sulla prova del nesso di causalità materiale si manifesti “la ferrea volontà della terza sezione della Corte di cassazione” di consolidare la posizione secondo cui la relativa prova gravi sul creditore lasciando “pochissimo spazio a voci dissenzienti”.

[69] Mi sembrano emblematiche le considerazioni svolte da R. Pardolesi, R. Simone, Sulla «fine della storia» della responsabilità da «facere» professionale, cit., c.1611, i quali non ritengono risolutivo “il ricorso (generoso?) al giuoco delle presunzioni”, posto dal “nuovo” credo»” per situazioni che “gridano vendetta dal cielo”, visto che la prova del nesso di causalità materiale continua a gravare sul creditore e “magari le presunzioni non risultano pienamente convincenti con conseguente rigetto della domanda risarcitoria”. Gli stessi A., tuttavia, in sede di riflessione su un gruppo di recenti decisioni, tra cui la Cass., ord. 6 luglio 2020, n. 13872, in Foro it., 2020, I, c. 3468, ritengono “pregevole la riapertura verso la dimensione probabilistica del nesso di causa”. Così R. Pardolesi, R. Simone, Frammenti di responsabilità medica. E ricomposizioni problematiche, cit., c. 338 s., secondo i quali tale scelta esprime “un ripensamento critico verso l’approccio troppo rigido inaugurato nel 2017”. Nel caso oggetto di esame, la Cassazione, in riforma della decisione di appello che aveva rigettato la richiesta di risarcimento del danno in quanto, recependo le risultanze della ctu, non era stato possibile stabilire con certezza il nesso eziologico tra l’intervento (toractomia) e il successivo decesso (per emotorace) del paziente, con ampia motivazione afferma che l’accertamento del nesso causale deve essere svolto secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza. In particolare, precisa la Corte che la sentenza “avrebbe dovuto verificare, sulla scorta delle evidenze probatorie acquisite (anche a mezzo della disposta consulenza tecnica d’ufficio), innanzitutto, se l’ipotesi sulla verità dell’enunciato relativo all’i­doneità della toracentesi a cagionare l’emotorace presentasse un grado di conferma logica maggiore rispetto a quella della sua falsità (criterio del «più probabile che non»). Di seguito, essa avrebbe dovuto stabilire – in applicazione, questa volta, del criterio della «prevalenza relativa della probabilità» se tale ipotesi avesse ricevuto, sempre su un piano logico, ovvero nuovamente sulla base delle prove disponibili, un grado relativamente maggiore di conferma rispetto ad altrettante, differenti, ipotesi sulla eziologia tanto del­l’emotorace, quanto del decesso della paziente (facendo la sentenza riferimento a non meglio precisate sue «critiche condizioni di salute» che avrebbero influito sul cd. «exitus»), ipotesi anch’esse, però, da riscontrare preliminarmente, nella loro verità, nello stesso modo, ovvero in applicazione del principio del «più probabile che non»”.

Sottolinea come l’impiego del meccanismo presuntivo nella prova del nesso di causalità materiale da parte della Cassazione rappresenti “un chiaro spiraglio, quasi una valvola di sicurezza capace di attenuare il prevedibile stridente contrasto del nuovo orientamento con il principio di vicinanza della prova” P. Laghezza, Causalità materiale, prova e presunzioni: nuovi equilibri e inedite incertezze (nota a Cass., ord. 26 novembre 2020, n. 26907, in Foro it., 2021, I, c. 528 ss., secondo il quale l’ordinanza della Cassazione insieme ad altre pronunce recenti (Cass. 26 febbraio 2020, n. 5128 e Cass., ord. 6 luglio 2020, n. 13872; Cass., ord. 25 agosto 2020, n. 17696) fanno “intravedere (…) un tentativo di ripensamento dell’approccio troppo rigido di San Martino 2.0”.

In particolare con riferimento a Cass., ord. 26 novembre 2020, n. 26970, ivi, c. 524, si segnala il passaggio nel quale, dopo aver riconfermato che l’onere della prova del nesso causale materiale grava sul paziente, testualmente si afferma che tale prova “può essere fornita dal paziente, quale creditore, anche attraverso presunzioni; siffatto possibile ricorso alla prova presuntiva è in grado di attenuare la condizione di maggiore difficoltà probatoria in cui versa il creditore della prestazione professionale medica rispetto al creditore di qualunque altra prestazione; la giurisprudenza di questa corte ha sempre rilevato siffatta difficoltà, agevolando il ricorso alla prova presuntiva”.

Rimane, tuttavia, difficilmente comprensibile perché sia stata affermata una regola di ripartizione dell’onere probatorio del nesso di causalità nelle c.d. prestazioni di diligenza così penalizzante per il paziente e non in linea con l’assetto del regime di responsabilità delineato dalla riforma del 2017.

[70] Sul punto cfr. E. Pavan, La rilevanza dell’accertamento causale nei giudizi di responsabilità medica della struttura sanitaria, la quale commentando la sentenza della Cass., 3 dicembre 2020, n. 27612, sottolinea come “L’orientamento più recente del giudice di legittimità, richiedente la prova del nesso eziologico tra condotta del medico e danno subito, ha come necessaria conseguenza quella di far sopportare al paziente danneggiato le conseguenze sfavorevoli della causa rimasta ignota, con il conseguente rigetto della domanda risarcitoria”. In senso critico rispetto a questa soluzione F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 197, secondo il quale “il senso più profondo dell’obbligazione e della consustanziale responsabilità impedisce tale esito: il ciclo vitale dell’obbligazione è segnato dalla possibilità per il debitore di conseguire il risultato promesso con i mezzi che si è impegnato ad adoperare e, di conseguenza, all’interno di tale perimetro è il debitore a doversi assumere il rischio dell’insuccesso dell’attuazione del vincolo per cause rimaste ignote”. Sul punto cfr. M. Bona, op. cit., 101 ss., secondo il quale «non è affatto vero che sotto l’egida della “nuova giurisprudenza” (quella originatasi da Cass. n. 18392/2017 e ripresa l’11 novembre 2019) il rischio della causa ignota gravi sempre sul creditore».

[71] Cfr. M. Faccioli, Nesso causale e onere della prova nella responsabilità sanitaria, cit., 2014, 541, il quale, ricostruendo la posizione della giurisprudenza antecedente alla legge Gelli-Bianco, sottolinea come fosse stata ricondotta nell’ambito contrattuale “(anche) la responsabilità del medico dipendente” e si fosse affermato un regime dell’onere della prova “sostanzialmente unitario a prescindere dal fatto che soggetto convenuto in giudizio dal malato asseritamente danneggiato sia la struttura sanitaria, il personale operante nell’ambito della medesima o (ipotesi più ricorrente) entrambi”.

[72] Nella stessa prospettiva cfr. F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 171, il quale ritiene che l’equiparazione operata dalla Corte di Cassazione “della responsabilità contrattuale, ancorché soltanto nell’ambito delle obbligazioni di fare professionale, alla responsabilità aquiliana sul versante della causalità materiale e della relativa prova, annulla una delle più significative differenze tra i due regimi” vanificando uno degli scopi della l. 8 marzo 2017, n. 24 che “consacra la diversità dei titoli di responsabilità della struttura sanitaria e del medico da essa dipendente”.

[73] Sul punto cfr. G. D’Amico, op. ult. cit., c. 152, che sottolinea «la novità costituita dall’insistenza – nelle pronunce in esame – sulla possibilità che la prova del nesso di causalità materiale possa considerarsi acquisita anche attraverso il ricorso a “presunzioni”. Tale circostanza “ridimensiona (almeno in parte)” le preoccupazioni in ordine alla riduzione di tutela del paziente e fa riacquisire rilevanza alla distinzione, già impiegata nella giurisprudenza della Corte, tra interventi routinari e di difficile esecuzione. Sul ruolo importante delle presunzioni nell’ottica del superamento delle obiezioni poste in dottrina in ordine all’aggravamento sul piano probatorio della posizione del paziente Cfr. C. Scognamiglio, La Cassazione mette a punto e consolida il proprio orientamento in materia di onere della prova sul nesso di causa nella responsabilità contrattuale del sanitario, cit., 311.

Nella stessa prospettiva cfr. U. Izzo, In tema di tecnica e politica della responsabilità medica, cit., in Responsabilità sanitaria in Cassazione: il nuovo corso tra razionalizzazione e consolidamento, cit., c. 211, secondo il quale il riferimento contenuto nelle sentenze del 2019 al ricorso alla prova della causalità materiale mediante presunzioni “permette di nutrire la speranza che la giurisprudenza di legittimità torni a coltivare, in un immediato futuro, il dialogo casistico con la regola probatoria degli interventi di facile esecuzione, improvvisamente troncato dal delinearsi della regola del 2001” consentendo di “riappropriarsi di una regola di giudizio elastica ed equilibrata”.

Sul tema cfr. F. Macario, op. cit., c. 166, il quale ritiene che “la vera chiave di volta della decisione” sarà l’impiego delle presunzioni da parte del giudice di merito in presenza di situazioni complesse rispetto alle quali si pone «il rischio della c.d. “causa ignota”». Cfr. di recente M. Bona, op.cit., 108 ss., secondo il quale “nel corso del 2020 e del 2021 la giurisprudenza di legittimità” è “tornata (…) a valorizzare il ricorso alla prova presuntiva del nesso di causa” come emerge dalle pronunce richiamate nel testo della Cass., ord. 15 giugno 2020, n. 11599; Cass., ord. 25 agosto 2020, n. 17696; Cass. 23 febbraio 2021, n. 4864 e Cass., ord. 15 settembre 2020, n. 19188.

[74] L’opinione è ampiamente condivisa: cfr. per tutti F. Volpe, Introduzione al volume, La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli Bianco (legge 24/2017), cit., XIII, il quale sottolinea come “Nelle intenzioni del legislatore la «decontrattualizzazione» della responsabilità del medico comporterebbe maggiori oneri probatori a carico del paziente, e, quindi, un minor rischio di condanne al risarcimento del danno per il medico. Il che dovrebbe – sempre nelle intenzioni del legislatore – ripercuotersi positivamente sia sui costi delle polizze assicurative, sia sul fenomeno (…) della medicina difensiva”. Di “radiazione ope legis del rapporto tra paziente e medico-dipendente dalla cornice del vincolo contrattuale in precedenza consolidatasi (…) sulle orme della dottrina professante la tesi del c.d. contatto sociale” parla R. Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria, in La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli Bianco (legge 24/2017), cit., 16 s., il quale si interroga sulla legittimità “di là dei profili d’opportunità pratica” di “una «mutilazione» di questo genere, che ha portato alla «decontrattualizzazione» della responsabilità da contatto sociale (posto che il «contatto» continua a esserci, essendo insindacabile che il comune cittadino possa legittimamente confidare sull’elevata professionalità di chi opera all’interno di strutture sanitarie pubbliche o private).

[75] Cfr. F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 172, il quale sottolinea come tale aggravamento sul piano probatorio sia destinato ad operare non solo rispetto alle azioni risarcitorie promosse verso i medici dipendenti ma anche nei confronti della stessa struttura ospedaliera in ragione dell’equiparazione della responsabilità contrattuale a quella extracontrattuale sotto il profilo della prova del nesso di causalità materiale. Dello stesso avviso A. Procida Mirabelli di Lauro, op. cit., 250 s.

[76] Come è noto, è stato ampio il dibattito in ordine al significato da assegnare al richiamo contenuto nell’art. 3 della legge Balduzzi all’art. 2043 c.c. Cfr. M. Comandè, L. Nocco, La responsabilità dell’esercente la professione sanitaria tra artt. 1218 c.c. e 2043 c.c., cit., 270 s.; B. Marucci, op. cit., 74 s.; F. Onnis Cugia, Responsabilità civile del medico, responsabilità della struttura sanitaria e contratto di assicurazione dopo la legge Balduzzi, in Resp. civ. prev., 2016, 1751 s. Rilevano, tra i numerosi A., la scarsa chiarezza del tenore della disposizione F. Salesia, Dalla legge Balduzzi alla riforma Gelli, in La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, cit., 29 ss.; A. di Majo, La salute responsabile, cit., 8; Sul punto cfr. anche G. Vettori, La responsabilità medica e il danno non patrimoniale fra legge e giudice. Un invito al dialogo, in Pers. merc., 2013, 356, il quale sottolinea come “Assai meno chiara è l’incidenza della Legge Balduzzi sulla responsabilità civile. L’alternativa espressa nei primi commenti è fra un ritorno ad un regime aquiliano e altre diverse interpretazioni”. Sul significato della disposizione nella ricostruzione offerta in dottrina e giurisprudenza cfr. C. Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in www.rivistaresponsabilitàmedica.it, 36 ss.

[77] Cfr. per tutte Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030, in Guida al dir., 2013, 25; in Danno e resp., 2013, 367; Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 909; in Resp. civ. prev., 2014, 803; in Foro it., 2014, I, c. 1413. Sul punto v. R. Carleo, Cartella clinica elettronica e profili probatori nella responsabilità sanitaria, in Responsabilità medica. Diritto e pratica medica, 2021, 102, il quale sottolinea come il “sistema consolidato della qualificazione della responsabilità sanitaria come contrattuale resiste negli orientamenti della Cassazione anche in seguito all’introduzione della legge Balduzzi che per la prima volta contiene un espresso riferimento all’art. 2043 c.c., per “spingere” la qualificazione della responsabilità del medico verso il paradigma della responsabilità aquiliana. La giurisprudenza, infatti, quasi in un “braccio di ferro” con il legislatore, anche a seguito del nuovo testo legislativo, aveva conservato la propria posizione consolidata e mantenuto fede ai propri precedenti”. Oscillante sul punto invece la giurisprudenza di merito: cfr. B. Marucci, op. cit., 74 ss., la quale cita le diverse decisioni assunte sul tema. Per un’analisi degli orientamenti giurisprudenziali cfr. anche F. Onnis Cugia, op. cit., 1751 ss.

[78] Nella stessa prospettiva F. Piraino, Ancora sul nesso di causalità materiale nella responsabilità contrattuale, cit., c. 171 s., il quale sottolinea come la giurisprudenza stia cercando di svuotare di significato la l. n. 24/2017 che “consacra la diversità dei titoli di responsabilità della struttura sanitaria e del medico dipendente da essa”.

[79] Cfr. G. Ponzanelli, Il Restatement dell’11 novembre 2019 ovvero il nuovo codice della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2020, 5, secondo cui “Il primato della giurisprudenza nel campo della responsabilità civile non è stato mai scalfito nonostante qualche intervento normativo in alcuni dei suoi settori più importanti (da ultimo la legge Gelli Bianco in materia di responsabilità medica)”. Di ruolo attivo della giurisprudenza “principalmente sul fronte della ripartizione dell’onere della prova tra le parti in causa” parla M. Faccioli, “Presunzioni giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, cit., 80.

Sul punto cfr. anche F. Macario, op. cit., c. 167, secondo cui l’intervento della giurisprudenza risulta “decisamente preferibile all’intervento legislativo, connotato dall’arbitro (…) e dalla disorganicità, se non addirittura conflittualità”, dato chiaramente emerso dalle opposizioni della dottrina e della giurisprudenza alla scelta qualificatoria della responsabilità medica operata con la legge Gelli– Bianco; G. Ponzanelli, Certezze e incertezze nel risarcimento del danno alla persona, ivi, 2020, 103, il quale valuta positivamente l’intervento effettuato della terza sezione della Cassazione con le sentenze dell’11 novembre del 2019 in tema di responsabilità sanitaria sottolineando come la “deviazione” rappresentata dal fatto che “l’obiettivo nomofilattico” venga “raggiunto dal basso e non dall’alto” non sembra “possa essere considerata né rivoluzionaria, né antisistemica. In senso fortemente critico F. Piraino, op. ult. cit., c.171 s., secondo il quale la giurisprudenza, svuotando il dato normativo, evidenzia il tentativo di riacquisire una posizione di centralità in una materia “evidentemente considerata proprio municipio”; Id., Inadempimento e causalità nelle obbligazioni di fare professionale, cit., 562, secondo il quale il terreno della causalità materiale è uno degli ambiti in cui si “conduce una battaglia per il riconoscimento alla giurisprudenza del ruolo di fonte del diritto, pur a Costituzione invariata, così trasformando in senso materiale l’ordinamento italiano in un sistema che più che misto risulterebbe ibrido”.

Evidenziano R. Pardolesi, R. Simone, Tra discese ardite e risalite: causalità e consenso in campo medico, in Foro it., 2018, I, c. 3583, come sul “già tormentato sviluppo della responsabilità sanitaria (…) “si è innestato il tentativo (per lo più maldestro) del legislatore di recuperare una centralità offuscata da decenni di rampante diritto giurisprudenziale.

Di “sfiducia reciproca del legislatore e della giurisprudenza” cui consegue uno scambio dei ruoli parla C. Castronovo, Swinging malpractice. Il pendolo della responsabilità medica, cit., 860, il quale pone il dubbio “amletico” circa la preferenza da accordare alla giurisprudenza che svolge una funzione “paralegislativa” o, all’opposto, al legislatore “che veste i panni della giurisprudenza”.