L’articolo affronta il tema del recesso dal contratto come strumento di reazione e tutela da parte del consumatore vittima di pratiche commerciali scorrette che può inscriversi tra i rimedi che la normativa consumeristica europea chiede di attuare nei singoli ordinamenti nazionali.
Parole chiave: Contratti – recesso; consumatore – pratiche commerciali scorrette.
The paper tackles the withdrawal from the contract as a protection tool from unfair commercial practices in favour of the consumer. Such tool can be encompassed among the remedies that under the European legislation each national law system shall implement.
Sommario:
1. Dal recesso di pentimento del codice civile al diritto di ripensamento del consumatore - 2. La natura del c.d. recesso del consumatore - 3. Il recesso di autotutela - 4. Pratiche commerciali scorrette e rimedi - 5. Il recesso come rimedio contrattuale specifico alle pratiche commerciali scorrette - 6. Tra Delega al Governo per la revisione del codice civile e attuazione della dir. 2019/2161 - 7. Recesso di autotutela del consumatore e risarcimento del danno - 8. Conclusioni - NOTE
Il recesso come diritto potestativo di abbandono del vincolo contrattuale costituisce uno degli istituti che caratterizzano il diritto dei consumatori di origine europea. Come manifestazione unilaterale di volontà contrastante con il consenso all’accordo contrattuale esso era una figura nota alla disciplina dei contratti, ma il diritto europeo ne ha fatto uno strumento a disposizione del consumatore avente una dimensione funzionale nuova, diversa da quella che lo connota nella disciplina comune del diritto dei contratti. L’art. 1373 cod. civ. lo prevede come facoltà che deve essere attribuita alla parte dal contratto: quando questo sia il caso, «tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione» [1]. Si tratta di uno strumento di scioglimento del contratto di struttura diversa, ma analogo riguardo all’effetto, al contrarius consensus [2], in questo senso significativamente previsto dall’articolo precedente [3]. In ambedue i casi con esso si manifesta, mediante dichiarazione unilaterale o contrattuale [4], il pentimento rispetto al contratto concluso [5]. A un contratto già concluso si riferisce anche il recesso di cui all’art. 1385, comma 2, cod. civ., ove il pentimento nasce dalla delusione di fronte all’inadempimento dell’altra parte nonostante la caparra confirmatoria, e per questo, nel suo presupposto di fatto ma non negli effetti, si accosta di più al recesso del consumatore [6].
Quest’ultima figura di recesso è quella che l’ordinamento italiano prevede all’art. 52, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) per i contratti a distanza e quelli negoziati fuori dei locali commerciali, e consiste nel diritto di recedere «senza dover fornire alcuna motivazione», entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto o diverso termine a quo altrimenti previsto in relazione alla natura e all’oggetto del contratto. Di natura analoga è il recesso che lo stesso cod. cons. prevede all’art. 67-duodecies per i contratti di servizi finanziari e all’art. 73 per i contratti di multiproprietà, così come quello previsto dall’art. 125-ter del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico bancario) nei contratti di credito ai consumatori.
Una figura che si accosta al recesso ex art. 1373 cod. civ. è il recesso di cui all’art. 41 del d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (Codice del turismo) che, come il recesso di diritto comune, si esercita «prima dell’inizio del pacchetto», prima cioè che sia iniziata l’esecuzione del contratto, ma comporta un «rimborso all’organizzatore delle spese (da questo) sostenute».
Lasciando da parte quest’ultima figura, nonostante la comune denominazione, il recesso attribuito al consumatore dalla normativa speciale pone la questione della distanza rispetto alla figura codicistica, secondo la logica dei confronti suggeriti dalla disciplina di settore – o diritto secondo del consumo – con il diritto privato generale. Su un piano meramente descrittivo, la denominazione alternativa, avanzata in dottrina, di «diritto di ripensamento» [7], mette in luce quella che si può dire la caratteristica comune di commodus discessus dal contratto. La differenza emerge tuttavia non appena si approfondisca la diversa visione nella quale la figura consumeristica si incornicia e il diverso effetto specifico che la caratterizza rispetto al recesso di pentimento del codice civile [8]. Lo ha bene messo in evidenza un’autorevole dottrina, quando, a far da sfondo al diritto di recesso del consumatore, ha affermato che «il vero principio della contrattazione consumeristica è il riconoscimento di uno stabile e definitivo impegno negoziale in capo al consumatore solo a condizione che sia realmente riscontrabile una sua determinazione effettiva all’assunzione del vincolo» [9]. In questa prospettiva si può affermare che secondo il legislatore europeo, di una volontà vera e convinta del consumatore è possibile parlare solamente quando, entro la scadenza del termine previsto, quest’ultimo non abbia dichiarato di volersi sottrarre al contratto; per contro, che quando tale dichiarazione arrivi, essa manifesta una volontà incerta e non convinta, che per questo approda allo svincolo dal contratto. Coerentemente se ne è concluso che «finché ne è ammesso l’esercizio, la manifestazione volitiva del consumatore è privata – uno latere – di serietà e concludenza impegnativa; (onde si tratterebbe del) ritiro di un’accettazione (che impedisce) di perfezionare un procedimento formativo del contratto» [10].
Tale lettura esclude anzitutto la qualificazione del recesso come rimedio, pure autorevolmente proposta in dottrina [11]. Essa presuppone infatti un contratto già concluso, relativamente al quale sorga un’esigenza di tutela, laddove la ‘sganciamento’ del consumatore dal contratto preclude in radice una questione di tutela, salvo l’accertamento del ricorrere dei presupposti.
Esclusa l’assimilabilità, all’interno di uno stesso genus, al recesso di cui all’art. 1373 cod. civ., il c.d. recesso del consumatore non sembra potersi ridurre neppure entro il modello della condizione, sia che lo si intenda nel senso dello scioglimento del vincolo contrattuale (condizione risolutiva), sia che si qualifichi in senso sospensivo la mancanza di esso (condizione sospensiva). Anche nelle ipotesi in cui il dato testuale non precisa che l’esercizio ne è consentito «senza dover fornire alcuna motivazione», la mancanza di limitazioni all’iniziativa in tal senso del consumatore fa sì che, ove di condizione si intendesse parlare, si tratterebbe di condizione meramente potestativa [12]. L’arbitrarietà che caratterizza quest’ultima rende plausibile l’affermazione, anche recentemente sostenuta in dottrina [13], dell’identità di ragione che soggiace al divieto che espressamente riguarda solo la condizione sospensiva (art. 1355 cod. civ.), onde un recesso così qualificato urterebbe con la contrarietà dell’ordinamento nei confronti della costruzione o distruzione ad libitum del vincolo contrattuale [14]. Proprio su questo punto, tuttavia, la medesima dottrina ha sostenuto che il recesso ex art. 52 cod. cons. «dimostra … che non è estraneo al sistema un meccanismo … del rapporto contrattuale che ne rimette la prosecuzione alla mera volontà di uno dei contraenti … limitatamente ad alcuni settori in ragione dell’asimmetria dei contraenti e delle particolari modalità di conclusione del contratto» [15]. Se ne è tratta la conclusione nel senso di una figura che si distingue [16] sia dal recesso che dalla condizione risolutiva meramente potestativa [17]. Ma subito ne è sorto il problema se la relativa manifestazione di volontà del consumatore abbia o no efficacia retroattiva [18].
L’assenza nella legge di un’indicazione sul punto sembra suggerire l’idea che nelle fattispecie considerate quello che viene detto recesso, nonostante il nomen iuris, rilevi come figura di un procedimento [19] nel quale la formazione del contratto va in realtà oltre quella che la legge dice essere la sua ‘conclusione’; conclusione che per questo diventa una figura diversa da come tradizionalmente intesa, essendo caratterizzata da una temporanea inconcludenza. Non regge, infatti, l’obiezione che la novella del 2014 al codice del consumo [20] abbia reso impraticabili le tesi che inquadrano il c.d. recesso nel procedimento di formazione del contratto, a causa della previsione di decorrenza del dies a quo «dal giorno della conclusione del contratto» [21]. Così come per il recesso, vale anche per la conclusione del contratto la necessità di stabilire previamente quale ne sia l’effettiva natura. E su questo terreno appare persuasiva la considerazione che i rimedi all’asimmetria delle parti – sia quelli che riguardano gli obblighi di informazione sia quelli che si convertono in vizi di invalidità come accade in particolare per le clausole vessatorie – meglio si situano sistematicamente nella fase di formazione del contratto, che in quella dell’esecuzione [22]. Sembra poi più ragionevole, piuttosto che un contratto che prima si crea e poi si distrugge, pensare a un contratto che, proprio perché la parte debole vi si trova in svantaggio di conoscenze e perciò di adeguatezza della costruzione della volontà, venga formandosi di pari passo allo stabilizzarsi di tale volontà. Su questa strada peraltro sembra indirizzare l’idea stessa che a fondamento di questo c.d. recesso stia la «mancanza di una ponderata ed esaustiva riflessione» nonché «una valutazione incompleta» [23]. Una volontà negoziale che si instaura su tali basi non è una volontà consolidata, onde diventa difficile ritenere che su di essa la legge abbia inteso fondare un’autentica ‘conclusione’ del contratto. Si sostiene in dottrina che con misure come il diritto di ripensamento «si tende a valorizzare più la dinamica degli scambi … che la certezza delle contrattazioni» [24]: questa vocazione all’incertezza si manifesta in maniera più chiara e lineare con un vincolo che non finisce di concludersi piuttosto che con un vincolo che prima c’è e poi, ad libitum, cessa di esserci.
Questa particolare natura del recesso ‘di formazione’, come lo si può denominare, non risulta compresa dal Draft Common Frame of Reference (DCFR), che agli artt. II. – 5:201 e 202 disciplina il recesso dai contratti stipulati fuori dai locali commerciali e quello riguardante i contratti di multiproprietà come ipotesi particolari di una figura generale di recesso il cui esercizio «terminates the contractual relationship and the obligations of both parties under the contract» (art. II. – 5:105 (1).
Per quanto in questa sede interessa, è stata ricordata in dottrina un’altra specie di recesso chiamato recesso di autotutela [25]. Esso manifesta il potere di una parte di sottrarsi al contratto quando questo si riveli non in grado di corrispondere, originariamente o a un certo momento del rapporto, all’interesse di colui che lo esercita. Interessante, nella prospettiva delle modalità di tutela del consumatore, si presenta l’art. 1893 cod. civ., che in materia di assicurazione prevede la facoltà di recesso dell’assicuratore quando l’altro contraente, senza dolo o colpa grave, sia stato autore di dichiarazioni inesatte o reticenze che non abbiano consentito all’altra parte di valutare con precisione il rischio oggetto del contratto. Qui il fondamento del recesso è una inadeguatezza del contratto rispetto allo scopo che le parti mostrano di voler perseguire. Quello che non riesce ad essere un vizio genetico, onde non si può dire che la volontà sia viziata in senso tecnico, viene assunto dalla legge in chiave funzionale, nel senso che, nonostante il contratto non risulti attaccabile sul fronte dei vizi, ugualmente l’ordinamento su un piano più rarefatto di correttezza del rapporto lo rende disdicibile, consentendo al contraente di ritrattare le cose dette o promesse [26]. L’idea di scopo sembra sostituire quella di volontà con la conseguenza che, in presenza di un vizio genetico non in grado di raggiungere l’annullabilità, consente al consumatore di affrancarsi ugualmente dal contratto. E si tratta di una figura di reazione dell’ordinamento giuridico che risulta congeniale al modello di pensiero che riguarda il consumatore, più attento all’efficacia della forma giuridica che alla sua calibratura per le linee nette della teoria tradizionale del contratto. In questo senso la figura di recesso che si sta considerando, nonostante la diversità dell’effetto, sul piano della politica del diritto si rivela omogenea a quella prima considerata di c.d. recesso o meglio di ripensamento che, come abbiamo visto, nasconde una volontà che non giunge a compimento e non è in grado di produrre il vincolo contrattuale. Infatti, con una modalità tecnica diversa, in ambedue la forma giuridica risulta ugualmente protesa a quello che è un commodus discessus dal contratto.
È appunto in quest’ottica che in dottrina si fa riferimento [27] a un recesso come strumento di tutela del consumatore nei confronti delle pratiche commerciali scorrette. Sembra infatti ricorrere con riguardo a queste l’analogo presupposto di un contratto che non è necessariamente viziato nella volontà nei termini in cui il vizio si converta in annullabilità, ma allo stesso tempo non può dirsi che il consumatore abbia esercitato un’autonomia contrattuale libera da condizionamenti [28].
Secondo la direttiva europea 11 maggio 2005, n. 29, pratica commerciale scorretta è quella in grado di «alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo … ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso» (art. 2, lettera e, dir. nonché art. 18, comma 1, lettera e, cod. cons.). Contro tali pratiche, però, la direttiva n. 29 del 2005, dedotta l’inibitoria che peraltro si situa lungo la linea di confine tra diritto pubblico e diritto privato che la caratterizza [29], aveva lasciato scoperto il fronte delle tutele [30], e nella necessità di trovarne gli interpreti avevano già sperimentato la teorizzazione generale che «il diritto secondo non può deragliare dal primo se non in forza di una precisa regola derogatrice» [31], rifacendosi variamente ai rimedi del codice civile [32]. Del resto, i rapporti tra quest’ultimo e la disciplina di settore non si pongono esclusivamente nella logica ‘generale-speciale’, ma anche in quella del correre paralleli, nella quale la fonte generale continua a regolare ciò che quella speciale, per i suoi limiti intrinseci, non è in grado di raggiungere, e quella speciale associa nuove fattispecie a quelle note del diritto comune [33].
Sia con riguardo alle pratiche dette ingannevoli (art. 21 cod. cons.) che a quelle aggressive (art. 24 cod. cons.), il richiamo immediato della dottrina fu dunque quello relativo ai vizi della volontà: «come le pratiche commerciali ingannevoli sono state in grado di evocare il dolo quale causa di annullamento del contratto, le pratiche commerciali aggressive inducono a pensare alla violenza» [34]. A conclusione di un’analisi dedicata a esplorare affinità e differenze, la conclusione è stata però che «non esiste … una corrispondenza biunivoca tra gli istituti invalidanti della nullità e dell’annullabilità e le condotte scorrette contemplate dal codice del consumo» [35]. Quanto alla violenza, si è osservata la non sovrapponibilità tra «una condotta costituente molestia o coercizione che limiti considerevolmente la libertà di scelta del consumatore [e] ... la minaccia di un male ingiusto e notevole» [36] su cui si impernia la fattispecie dell’art. 1435 cod. civ. Circa il dolo, il rilievo è che «se … il silenzio non sia circostanziato, e si risolva … in reticenza meramente colposa, l’esito di annullabilità non sarà praticabile» [37]. Come aveva sinteticamente già insegnato Mengoni, «la ‘sorpresa’ non è classificabile tra i vizi della volontà» [38].
Il risultato di relativa inadeguatezza della disciplina dei vizi della volontà nel caso delle pratiche commerciali scorrette rivelava quindi la necessità di individuare vie alternative. Tra queste, com’è ovvio, la responsabilità civile è la prima ad essere evocata, per la ragione che tra le tutele civili essa si è affermata come quella alla quale ricorrere come una sorta di tutela generica di cui servirsi ogni volta che non sia dato rintracciarne di più specifiche tra quelle predisposte dall’ordinamento. E questo ricorso quasi automatico alla responsabilità aquiliana ha fatto spesso dimenticare che anch’essa è costituita di elementi caratterizzanti, che come per ogni altra fattispecie vanno verificati nel caso concreto per giustificare un’applicazione che altrimenti difetta di presupposti [39]. L’altra ragione è che nel diritto dell’Unione europea, caratterizzato da una relativa povertà, la responsabilità civile, nella sua apparente semplicità, risulta essere il rimedio al quale in ogni caso non si può dire di no. Puntualmente perciò la Corte europea di giustizia, in questa prospettiva della responsabilità civile come ultima spiaggia per un consumatore in cerca di tutela, ha affermato che «la tutela risarcitoria può essere considerata come uno dei mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali» [40]. L’assunto, preso in sé, lascia scoperta la questione circa la fattispecie da considerare a monte dell’effetto risarcitorio: in particolare, se la responsabilità abbia natura contrattuale o extracontrattuale. Di questo la dottrina ha avuto modo di occuparsi, e su questo terreno la messa in luce della dimensione negoziale nella quale si concretizza l’efficacia della pratica commerciale scorretta ha reso possibile evidenziare la povertà di una soluzione che riducesse tutto alla responsabilità aquiliana [41].
Ma al di là della responsabilità, la prospettiva che muove dal contratto coerentemente su di esso doveva saggiare il fronte della tutela; e proprio questo spiega la domanda prioritaria circa la possibile invalidità da vizi della volontà. Registrata la relativa inadeguatezza della risposta su questo piano, la ricerca ulteriore non poteva non riguardare i rimedi alternativi che un contratto stipulato sotto l’influenza di una pratica commerciale scorretta fosse plausibilmente in grado di attivare. In un quadro che è stato definito «il mosaico europeo» [42], in dottrina è stato notato e messo in luce un rimedio negoziale che da un lato non soggiace alle limitazioni cui le pratiche commerciali scorrette vanno incontro quando intendano farsi valere come fonte di un vizio della volontà, dall’altro si rivela in grado di dissolvere il vincolo contrattuale sulla base della presa d’atto che quest’ultimo sia assunto sulla spinta di «una pratica commerciale idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole» (art. 18, comma 1, lettera e, cod. cons.), dunque da una volontà non sufficientemente consapevole sul piano cognitivo, anche se non necessariamente «idonea ad indurre in errore il consumatore» (art. 21, comma 1, cod. cons.).
Si tratta di un rimedio adottato nel diritto inglese [43] proprio come strumento di reazione alle pratiche commerciali scorrette, e corrispondente a quello che nella nostra nomenclatura deve chiamarsi recesso, trattandosi di un «right to unwind in respect of a business to consumer contract», che esprime precisamente il fine di sciogliere unilateralmente il vincolo contrattuale. Anche in questo caso il diritto di recesso si rivela consono alla tutela del consumatore, come figura di recupero a posteriori di un potere sul contratto del quale il consumatore risulta sprovveduto al momento della conclusione per l’asimmetria negativa che lo caratterizza rispetto al professionista. All’interno di questa comune funzione di tutela del consumatore, lo stesso contesto nel quale questo recesso è previsto ne mostra la diversità rispetto al c.d. recesso di pentimento. Di quest’ultimo si è detto prima che recesso non è, dato che opera sulla stessa (non) formazione del vincolo, laddove il rimedio previsto dal Consumer protection amendment si rivolge a un contratto concluso, nei termini di una vera e propria impugnativa negoziale.
La rilevata differenza [44] è corroborata dalla considerazione che il c.d. recesso di pentimento si inscrive in un arco limitato di tempo, a conferma del fatto che esso risolve l’incertezza circa la conclusione del contratto, la quale non può durare se non un tempo breve, ma non ha bisogno di alcuna giustificazione; il recesso di impugnazione, invece, ha una limitazione temporale di tre mesi [45] e si riferisce a un contratto pienamente efficace, che «comes to an end so that the consumer and the trader are released from their obligations under it» [46]. È significativo che esso al momento in cui fu adottato aveva proprio la funzione di ovviare alla mancanza di rimedi privatistici specifici contro le pratiche commerciali scorrette. Opportunamente perciò esso è stato richiamato in dottrina [47] come figura da tenere presente nella analoga situazione nella quale, così come per gli altri ordinamenti dell’Unione europea, la direttiva n. 29/2005, non avendo previsto specifici rimedi privatistici, aveva lasciato il consumatore ai rimedi di diritto comune costituiti da un lato dalla precaria ricorribilità all’invalidità da vizi della volontà e dall’altro dalla consueta facile risorsa della responsabilità, di cui pure abbiamo ricordato come la disinvolta affermazione della Corte di Giustizia dell’Unione europea circa «la tutela risarcitoria» sembra saltare a piè pari i problemi relativi alla natura e ai presupposti di questa.
Per ovviare a tale carenza, il nostro legislatore, nel disegno di legge n. 1151 del 19 marzo 2019, Delega al Governo per la revisione del codice civile, all’art. 1, lettera g, ha preso in considerazione le pratiche commerciali scorrette, parlando di «invalidità del contratto», e quindi facendo presagire una impugnativa negoziale analoga a quella dei vizi della volontà [48]. Successivamente è giunta la direttiva europea n. 2161 del 2019, la quale, con l’obiettivo di «generale migliore applicazione e … modernizzazione delle norme dell’Unione relative alla protezione dei consumatori», ha inserito un nuovo art. 11-bis nella direttiva n. 29 del 2005, prevedendo al comma 1 gli attesi rimedi, «compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto». Dell’inadeguatezza della qualificazione di invalidità abbiamo già detto; riguardo alla nuova previsione della direttiva, si può poi notare, anzitutto, l’attitudine a una certa sciatteria – da tempo rilevata nella normativa prodotta dall’Unione europea – di considerare il risarcimento del danno come misura primaria di tutela, che invece negli ordinamenti nazionali casomai figura come rimedio di seconda istanza, e perciò subordinato, rispetto a rimedi specifici; dall’altra parte, pur all’interno di tale scelta, è evidente l’incuria di non indicare i presupposti di quello che è un mero effetto giuridico, del quale appunto occorre costruire la fattispecie.
Si conferma l’idea che il diritto europeo non si costruisca sul modello della fattispecie bensì su quello dei rimedi, idea che proprio attraverso il diritto europeo è trapelata nella cultura degli ordinamenti nazionali, come se fosse una connotazione qualificante del diritto di questo tempo. Sembra sfuggire, in proposito, la diversa funzione delle fonti nella generalità del diritto europeo e nella particolarità degli ordinamenti nazionali [49], nel senso che laddove il diritto europeo si rivolge a questi ultimi perché diano concretezza a un determinato orientamento legislativo, quando si serve come in questo caso della direttiva si limita – o dovrebbe limitarsi – a indicare gli obiettivi rispetto ai quali sono gli ordinamenti nazionali a individuare i mezzi (cfr. l’art. 288 TFUE). Anche in questo caso, perciò, dovrebbe essere l’ordinamento interno a predisporre lo strumento (fattispecie) necessario al risarcimento del danno in favore del consumatore. Purtroppo però il legislatore nazionale non pare pienamente consapevole del piano diverso delle fonti sul quale si trova rispetto al legislatore europeo, e sempre più frequentemente si limita a riprodurre le norme così come le trova nelle direttive. Proprio questa ragione spiega come mai pure all’interno dell’ordinamento domestico si possa teorizzare una disciplina che si limita a prevedere i rimedi senza preoccuparsi di costruirne le fattispecie.
Lo stesso potrebbe accadere in questo caso, dato che la nuova direttiva, come accennato, oltre al risarcimento del danno e alla riduzione del prezzo, nel testo italiano parla di «risoluzione del contratto». Sembrerebbe questa la corrispondenza linguistica più vicina a quello che il testo inglese della direttiva indica come «termination». In proposito è stato subito rilevato che alla parola inglese non necessariamente corrisponde quella italiana ‘risoluzione’. Tale corrispondenza può riconoscersi nell’art. III.-3:502 DCFR, e prima ancora nell’art. 9:301 dei Principi di Diritto europeo dei Contratti, che disciplinano il rimedio contro l’inadempimento essenziale. Ma se si pone attenzione all’art. III.-1:109 DCFR, si trova che quello che in questa norma è un diritto della parte di liberarsi dal vincolo contrattuale «sembra piuttosto traducibile con ‘recesso unilaterale’» [50]. Tale dovrebbe essere il rimedio da adottare nell’attuazione della direttiva n. 2161 del 2019 all’art. 11-bis. Sarebbe così superata la difficoltà rilevata in dottrina circa l’applicabilità per analogia alle fattispecie degli articoli 18 e seguenti cod. cons. delle norme che prevedono il rimedio del recesso [51]. Tuttavia già in queste, nonostante la frammentarietà, sembra possibile rinvenire un nucleo comune [52]: se si confronta, ad esempio, la disciplina del recesso nei contratti a distanza o stipulati fuori dei locali commerciali e quella relativa alla commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori, o ancora in materia di multiproprietà, rispettivamente agli articoli 55, 67-duodecies e terdecies e 74, quel che si ricava è che queste sono tutte norme che pongono termine al contratto, sia che tale effetto si voglia intendere come mancata conclusione del procedimento di formazione – come nel caso del c.d. recesso di pentimento – sia come scioglimento di un contratto già efficace. Peraltro, nello stesso DCFR il rimedio che viene chiamato col nome ad esso proprio, withdrawal, viene qualificato dall’art. II.-5:105 (1) con l’effetto di termination, onde a stare strettamente aderenti a questa terminologia si rischia un esito incerto. Quello che risulta dal linguaggio di questi testi è una scarsa precisione, dato che, come si può facilmente convenire, adoperare lo stesso termine per chiamare da un lato il classico rimedio sinallagmatico che è la risoluzione e dall’altro il potere unilaterale di scioglimento del vincolo contrattuale non denota consapevolezza della differenza di presupposti, la quale dovrebbe condurre alla qualificazione dei rispettivi rimedi in maniera diversa riguardo agli effetti, e perciò a una denominazione a sua volta diversa.
Ritornando allora alla direttiva, poiché da un punto di vista formale non si può qualificare la dicitura ‘risoluzione’ come traduzione dell’inglese termination, dato che ogni Stato membro ha diritto agli atti formali dell’Unione come originariamente redatti nella sua lingua secondo il principio ricavabile dall’art. 55 TUE, quel che si può dire è che il rimedio in questione va considerato per quello che intende essere. In questa chiave è fin troppo evidente che non si tratta né si può trattare di un rimedio sinallagmatico [53]. Come è stato ben chiarito in dottrina, le pratiche commerciali scorrette «assumono … i connotati della violazione dell’obbligo di … buona fede … in presenza del quale, con tutta evidenza, il nostro ordinamento non contempla il rimedio della risoluzione del contratto» [54]: quello, infatti, contro cui reagisce la risoluzione è la rottura del vincolo di corrispettività [55]. Le pratiche commerciali scorrette sollecitano invece il rifiuto del contratto in quanto viziato dalla violazione della buona fede. Esso dovrebbe avere le caratteristiche del right to withdrawal disciplinato agli artt. II.-5:101 ss. DCFR, che all’art. II.-5:102 ne prevede l’esercizio «by notice to the other party», senza indicazione di motivi, e all’art. II.-5:103 la necessità della previsione di un termine. Questa figura di recesso, da un lato, come si è appena considerato, riproduce il profilo del c.d. recesso di pentimento, dall’altro, come prevede l’art. II.-5:101 (1), è applicabile ogni volta che «a party has a right to withdraw from a contract within a certain period». Il DCFR dunque suggerisce che il recesso noto al codice del consumo solo come recesso di pentimento vada generalizzato a ogni ipotesi in cui il recesso sia adeguato a risolvere un problema di tutela del consumatore, come abbiamo visto ipotizzare in dottrina per le pratiche commerciali scorrette. Se ne può concludere che il recesso come figura dell’armamentario a disposizione del consumatore, nelle ipotesi in cui è positivamente previsto come strumento di pentimento rispetto al vincolo contrattuale si manifesta come specie di una figura più generale, l’altra specie della quale è appunto il recesso di autotutela, destinato a reagire a un contratto che, pur concluso, diversamente dall’ipotesi alla quale reagisce la prima specie, ugualmente si innesta in una debolezza del consumatore che rende precario il vincolo.
La questione di maggiore rilievo attiene agli effetti del recesso e alla liquidazione del rapporto che il contratto ha comunque creato. Qui bisogna considerare che parliamo di recesso perché la violazione della buona fede che non ammonta a vizio della volontà non consente di qualificare il contratto come realmente viziato. Se si accetta questo punto di partenza, si deve coerentemente ritenere che il recesso non ha a suo fondamento una invalidità del contratto; esso perciò non necessita di quella retroattività che trova giustificazione in quest’ultima [56]. Si tratta, piuttosto, di una «liquidazione» [57] del rapporto, rispetto al quale si riconosce che, nonostante la scorrettezza del professionista, il contratto è stato validamente concluso e ha prodotto effetti che è necessario regolare nuovamente dal momento in cui il rapporto viene sciolto. In questo senso suggerisce la prospettiva che, muovendo dalla distinzione tra regole di (in)validità e regole di responsabilità [58], ne constata l’insufficienza mettendo in luce una terza via: se la nuova direttiva, inserendo il nuovo art. 11-bis nella direttiva n. 29 del 2005, parla ora di scioglimento del vincolo contrattuale (termination o c.d. risoluzione), intende andare oltre l’invalidità, evitando gli effetti che la caratterizzano, prima fra tutte la retroattività.
Lo scioglimento del vincolo contrattuale estinguerà le reciproche obbligazioni, onde il consumatore, così come sarà liberato della propria, dovrà restituire il bene ricevuto dal professionista. Poiché, come si è detto, il recesso non trova fondamento in una violazione del sinallagma contrattuale, non dovrebbero valere i vincoli di restituzione che caratterizzano i contratti sinallagmatici nel senso che le restituzioni che conseguono allo scioglimento del vincolo debbono riprodurre al contrario il sinallagma in quella che si configura come un’esecuzione del contratto in senso inverso. Si tratta piuttosto, come si è accennato, di un rapporto di liquidazione, nel quale alla restituzione del bene il consumatore deve aggiungere il vantaggio che abbia conseguito per l’uso che ne abbia fatto, incremento che tende a ristorare la diminuzione di valore nel frattempo subita dal bene; di questo valore andrà diminuita la prestazione del consumatore che il professionista dovrà restituire [59]. Ovviamente, permane la questione del danno patito dal consumatore per avere stipulato un contratto sotto la spinta di una condotta contraria a buona fede. Essa rimane comune alle altre due modalità di tutela previste dalla direttiva n. 2161 del 2019 nel nuovo art. 11-bis aggiunto alla direttiva n. 29 del 2005: la riduzione del prezzo e il recesso.
Anche per questo profilo l’individuazione nel recesso del rimedio idoneo ad agire sul vincolo contrattuale esclude che il risarcimento possa essere quello che segue al contratto inadempiuto. Se infatti il recesso trova fondamento nella violazione dell’obbligo di buona fede, concretizzatosi in una informazione ingannevole o comunque distorsiva della determinazione contrattuale del consumatore, non viene in questione l’inadempimento contrattuale. La categoria di riferimento che invece immediatamente viene in considerazione è quella della responsabilità precontrattuale, nella quale il danno risarcibile deve esprimere l’interesse della parte pregiudicata a non addivenire al contratto. In proposito, essendo scontato ormai che «non vi è … motivo di ritenere che la stipulazione di un contratto valido ed efficace sia di ostacolo a … un’azione risarcitoria fondata sulla violazione della regola posta dall’art. 1337» [60], il danno risarcibile in conseguenza di pratiche commerciali scorrette segue il modello richiesto da tale norma [61] se è vero, come prima abbiamo considerato, che rispetto al contratto tali pratiche sono da inquadrare nella violazione dell’obbligo di buona fede che grava sulle parti nella fase di formazione. Al riguardo un punto critico potrebbe essere la distanza tra l’autore della pratica scorretta e la vittima della medesima, quando il contratto sia concluso con un professionista diverso all’interno della catena di mercato che giunge al consumatore [62]. Ma nel momento in cui si possa affermare che il contratto è stato concluso per influenza decisiva della pratica scorretta, il professionista che ha stipulato con il consumatore, sia o no lui stesso l’autore della pratica riconosciuta come scorretta, non se ne può dire estraneo e, avendone tratto beneficio, ne subirà il riflesso negativo derivante dalla violazione della buona fede [63]. In proposito si deve precisare che quella richiamata è buona fede in senso oggettivo [64], onde il significato di ricondurre attraverso la violazione di essa la responsabilità del professionista al modello contrattuale si manifesta precisamente nel senso che allora la colpa non può essere invocata come elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità [65], come invece deve essere nella responsabilità aquiliana secondo l’art. 2043 cod. civ. Sarà invece il professionista a doversi scagionare dalla responsabilità, secondo il modello dell’art. 1218 cod. civ. [66].
L’analisi sin qui condotta ha cercato di approfondire le ragioni per cui il recesso, inventato dal diritto europeo del consumo come misura singolare di fuga dal contratto in relazione a caratteristiche particolari della stipulazione – come nei contratti a distanza e in quelli stipulati fuori dei locali commerciali –, o in ragione della rilevanza particolare riconosciuta al tipo contrattuale – come nel caso della multiproprietà e della commercializzazione a distanza di servizi finanziari –, possa diventare strumento significativo e utile di commodus discessus del consumatore da un contratto improprio come nel caso della reazione alle pratiche commerciali scorrette.
Tale recesso da un lato supera le difficoltà che deriverebbero dal forzare le dette pratiche entro i canoni più rigorosi e rigidi dei vizi della volontà; in secondo luogo, aderendo al contratto, risolve in maniera diretta la questione di tutela del consumatore senza cadere nella genericità del solo risarcimento del danno.
[1] «Il contratto non può … essere di regola sciolto unilateralmente dalla parte. Successivamente alla sua conclusione la revoca del consenso è infatti preclusa dal principio della vincolatività del contratto (il contratto ha forza di legge fra le parti). Lo stesso contratto può tuttavia accordare ad una delle parti o ad entrambe il potere di sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale. La disciplina del contratto indica tale facoltà come potere di recesso» (C.M. Bianca, Diritto civile – Il contratto, Milano, 2000, 737). Cfr. anche R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, Torino, 2016, 1716: «Se la legge non attribuisce ai contraenti (espressamente o implicitamente) un diritto di recesso unilaterale, l’unica via per lo scioglimento del contratto è il mutuo dissenso: a meno che, appunto, il contratto stesso attribuisca a una delle parti (o ad entrambe, si può tranquillamente aggiungere) ‘la facoltà di recedere dal contratto’ (art. 1373 c.c.)».
[2] Su cui, in generale, cfr. A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Milano, 1980.
[3] Cfr. R. Sacco, G. De Nova, Il contratto, cit., 1715: «L’art. 1373 c.c., che appunto disciplina il recesso unilaterale convenzionale, fa seguito all’affermazione di principio secondo cui ‘il contratto ha forza di legge fra le parti’ e ‘non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge’ (art. 1372 c.c.)»; G. De Nova, Recesso e risoluzione nei contratti – Appunti da una ricerca, in Recesso e risoluzione nei contratti, a cura di G. De Nova, Milano, 1994, 1: «Dire che il contratto ha forza di legge significa affermare che non può essere modificato unilateralmente e che deve essere adempiuto, ma significa anche che non può essere sciolto unilateralmente: e dunque recesso e risoluzione costituiscono – insieme – un tema centrale per misurare la forza di legge di un contratto».
Cfr. anche F. Galgano, sub art. 1373, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna, 1993, 58: «Il contratto può consentire ad una delle parti o ad entrambe la facoltà di sciogliere il contratto con il recesso unilaterale, in deroga al principio per il quale il contratto non può che essere sciolto che per mutuo consenso»; in giurisprudenza, cfr. ad es. Cass. 26 novembre 1987, n. 8876, che reputa «la clausola con la quale si attribuiscono ad uno o ad entrambi i contraenti la facoltà di recesso ex art. 1373 … derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti».
[4] Cfr. ad es. C. M. Bianca, Diritto civile – Il contratto, cit., 733: «Per risoluzione negoziale si intende l’estinzione del contratto per atto di autonomia negoziale. La risoluzione negoziale unilaterale prende il nome di revoca o di recesso. Tendenzialmente il termine revoca indica l’atto negoziale estintivo di negozi unilaterali (es.: la procura) o di contratti stipulati nell’interesse preminente della parte revocante (es.: il mandato). Il recesso è invece il termine usato per indicare l’atto negoziale estintivo dei contratti in genere (1373 cc)». In giurisprudenza, cfr. ad es. Cass. 12 febbraio 1990, n. 987, che in punto di recesso osserva come esso «lungi dal costituire una facoltà normale delle parti contraenti, presuppone invece, a norma dell’art. 1373 c.c., che essa sia specificamente attribuita per legge o per clausola contrattuale».
[5] «Il recesso può … costituire lo strumento per riservare a una delle parti contraenti una nuova valutazione di convenienza dell’affare (ius se poenitendi)» (P. Sirena, I recessi unilaterali, in Effetti, a cura di M. Costanza, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 119). Più in generale, il recesso è uno di quei rimedi approntati dall’ordinamento che «reagiscono contro difetti o problemi che toccano primariamente l’interesse particolare di una delle parti, la quale sarebbe pregiudicata dalla normale produttività degli effetti contrattuali: essi sono dunque accordati nell’interesse della parte protetta, cui specificamente giova la cancellazione del vincolo» (V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, 680).
[6] Trattasi infatti di uno di quei casi in cui «la legge dà alla parte facoltà di recesso per consentirle di reagire contro eventi sopravvenuti che minacciano i suoi interessi contrattuali: la liberazione dal vincolo è il mezzo con cui la parte si tutela; e siccome la liberazione consegue automaticamente all’iniziativa della parte, definiamo questi recessi come recessi di autotutela» (V. Roppo, Il contratto, cit., 519).
[7] Suggerito da G. Grisi, Gli istituti del diritto privato, II, Napoli, 2005, 66.
[8] Di «imbarazzo classificatorio» parla A.M. Benedetti, Recesso del consumatore, in Enc. dir. – Annali, IV, Milano, 2011, 966, il quale ripercorre la varietà di proposte dottrinali riguardo alla natura di questo recesso, e infatti conclude che esso «agisce sugli effetti, ma reagisce a fattori turbativi che risalgono al procedimento di formazione del contratto».
Rilevano la disomogeneità delle fattispecie e delle categorie G. Gabrielli, F. Padovini, Recesso (dir. priv.), in Enc. Dir., Milano, 1988, XXXIX, 27, che osservano come «all’unicità della locuzione [recesso] corrisponda una sicura pluralità di funzioni», e come vi sia una «disomogeneità del linguaggio legislativo, giacché viene attribuita una denominazione affatto diversa ad atti che presentano una funzione analoga a quella percepita con negozi chiamati di ‘recesso’». In senso generale cfr. anche G. De Nova, Recesso, cit., 10, che ritiene che «il tema del recesso appartiene – nel sistema del nostro codice – alla disciplina dei singoli tipi», confermando la difficoltà di individuare una figura generale unitaria della fattispecie.
[9] G. Benedetti, La formazione del contratto, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di C. Castronovo, S. Mazzamuto, II, Milano, 2007, 353; cfr. anche Id., La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione. Dal codice civile ai Principi di diritto europeo dei contratti, in Europa dir. priv., 2005, 337.
[10] G. Benedetti, La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione, cit., 353. Cfr. L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Scritti, a cura di C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi, Milano, 2011, 117, con riferimento alla prima disciplina delle vendite ‘porta a porta’ e dell’intermediazione mobiliare.
[11] Cfr. A. di Majo, Rimedi e dintorni, in Europa dir. priv., 2015, 709: muovendo dalla considerazione che il contratto già concluso, ai sensi dell’art. 1372 cod. civ. vincola le parti, attribuisce al recesso del consumatore natura di rimedio, in questo caso di natura stragiudiziale. In senso contrario, v. S. Mazzamuto, La nozione di rimedio nel diritto continentale, in Europa dir. priv., 2007, 595. Se il rimedio è uno strumento di risposta a un bisogno di tutela, e questa postula un conflitto, non è questo il caso del recesso del consumatore, nel quale il suo autore si limita a concludere negativamente un procedimento da lui stesso instaurato.
[12] «Dal punto di vista concettuale, il diritto di recesso corrisponde perfettamente alla condizione risolutiva potestativa, in cui anzi si identifica se è stato volontariamente previsto dalle parti contraenti» (P. Sirena, I recessi, cit., 115).
[13] V. G. Marchetti, Potestatività condizionale e scioglimento del contratto, Milano, 2022, 246.
[14] «La regola [art. 1355 cod. civ.] trova la sua giustificazione nella mancanza di qualsiasi ragione di tutela giuridica per un atto che sia rimesso al mero arbitro del suo autore … Manifestare l’intenzione di vendere, ma subordinare la realizzazione del trasferimento al verificarsi o al mancare di una propria scelta equivale ad esprimere un’intenzione destinata a concretarsi solo in un momento successivo, allorché venga compiuto ciò che consente il verificarsi dell’evento dedotto in condizione. Questa possibilità non è ammessa dal nostro ordinamento» (M. Costanza, Della condizione del contratto, in Commentario del codice civile e codici collegati Scialoja – Branca – Galgano, a cura di G. De Nova, Bologna, 2019, 85).
[15] G. Marchetti, Potestatività, cit., 375.
[16] Peraltro, a ben vedere, la distinzione tra condizione e recesso ulteriormente rimarca come il recesso del consumatore sarebbe comunque più vicino alla seconda delle due figure e del tutto alieno rispetto alla prima; infatti «nel caso di recesso occorre una dichiarazione di volontà; nell’ipotesi di condizione basta un comportamento o meglio il compimento di un fatto, che costituisce l’evento dedotto» (M. Costanza, Della condizione, cit., 99).
[17] Né, peraltro, queste due ultime figure possono dirsi coincidere, benché si rilevino delle «similitudini funzionali»: «fra clausole condizionali e recesso esiste in ogni caso una differenza: il primo opera sostanzialmente come uno strumento di impugnazione del contratto; l’altra è un mezzo per impedire la prosecuzione di un rapporto negoziale che non ha più interesse per quella delle parti negoziali che gestisce l’evento dedotto in condizione» (M. Costanza, Della condizione, cit., 94).
[18] Cfr. G. Marchetti, Potestatività, cit., 375, 382 e 383. Infatti, quando si è sostenuta (rispetto alla disciplina originaria, cfr. C. Castronovo, La risoluzione del contratto nel diritto italiano, in Il contratto inadempiuto, a cura di L. Vacca, Torino 1998, 227) la natura di condizione risolutiva potestativa del recesso nei contratti stipulati fuori dei locali commerciali, se ne è affermata l’efficacia retroattiva.
[19] Cfr. G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, 72.
[20] D.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21.
[21] Cfr. G. Marchetti, Potestatività, cit., 379.
[22] Cfr. A. Albanese, I contratti dei consumatori tra diritto privato generale e diritti secondi, in Jus, 2009, 351); A.M. Benedetti, Contratto asimmetrico, in Enc. dir. – Annali, V, Milano, 2012, 376.
[23] G. Marchetti, Potestatività, cit., 383.
[24] G. Grisi, Gli istituti, cit., 70.
[25] I vari tipi di recesso vengono ricordati, nella prospettiva del diritto dei consumatori, da A. Barenghi, Diritto dei consumatori, Milano, 2020, 236 ss.
[26] «In una numerosa serie di ipotesi, il recesso consente alle parti di modificare o sciogliere il vincolo già esistente per la presenza di vizi originari del contratto o di vizi sopravvenuti successivamente alla conclusione di esso, atteggiandosi così il recesso come strumento parallelo all’annullamento o alla risoluzione» (G. Gabrielli, F. Padovini, Recesso, cit., 32).
[27] Cfr. supra, nota 22.
[28] «Il recesso come strumento d’impugnazione assicura, insomma, la possibilità di ottenere lo scioglimento del vincolo, in ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dalla disciplina generale del contratto o, per lo meno, con un procedimento più semplice e spedito» (G. Gabrielli, F. Padovini, Recesso, cit., 35).
[29] Cfr. in particolare l’art. 27 cod. cons.
[30] Cfr. ad es. C. Camardi, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Studi in onore di Giorgio Cian, Padova, 2010, I, in partic. 366 ss., ove si legge che «la pratica scorretta … non può essere di per sé e in quanto tale causa di invalidità di un contratto»; M.R. Maugeri, Violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Studi in onore di Giorgio Cian, Padova, 2010, II, 1681.
[31] C. Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi, in Diritti civile e diritti speciali, a cura di A. Plaia, Milano, 2008, 13. Sul piano positivo ne dà conferma l’art. 1469-bis cod. civ. Secondo A.M. Benedetti, Recesso, cit., 981, pur in ossequio a tale norma, «l’applicazione integrativa e residuale della disciplina generale del contratto» presuppone una valutazione di compatibilità con la logica dei contratti dei consumatori.
[32] Cfr. G. De Cristofaro, Pratiche commerciali scorrette, in Enc. dir. – Annali, Milano, 2012, V, 1110.
[33] Cfr. A. Albanese, I contratti, cit., 353; F. Castronovo, Violenza economica e annullamento del contratto, Milano, 2021, 67 ss.
[34] L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza delle pratiche commerciali e rapporto di consumo, Napoli, 2020, 240.
[35] L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 242. A tale conclusione era giunto anche E. Labella, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici, in Contratto impr., 2013, 731. Ma si tratta di valutazione diffusa: cfr., ad esempio, G. Grisi, Rapporto di consumo e pratiche commerciali, in Europa dir. priv., 2013, 14 ss.
[36] A. Renda, Annullabilità, in Manuale di diritto privato, a cura di M. Paladini, D. Minussi, A. Renda, Milano, 2019, 1640. Cfr. anche M. Mantovani, Vizi incompleti, Torino, 1995, 250, che in generale osserva come «una pressione, sia pure scorretta, ma che non rivesta i caratteri, cui l’art. 1435 c.c. condiziona l’esperibilità dell’azione di annullamento, non rileva sul terreno dell’invalidità: il contratto resta valido e giustifica la ‘forza di legge’ dell’assetto degli interessi che ne risulta».
[37] L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 239. Vari adattamenti del dolo evoca C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, in Enc. Dir. – I tematici, 2021, I, 864, sulla scorta di M.R. Maugeri, Violazione, cit. Ma, appunto, si tratta di adattamenti. Per la critica, cfr. L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e invalidità del contratto, in Jus, 2020, 167. Cfr. anche M. Mantovani, Vizi, cit., 224, che reputa convincente piuttosto «riconoscere che al di qua della soglia del dolo causa di annullabilità, residuano ipotesi pur marginali e – per così dire – ‘di confine’ le quali, se sfuggono alle maglie del giudizio di invalidità, possono talora rilevare sul piano risarcitorio, in ragione del contegno riprovevole di uno dei contraenti alla luce della regola di correttezza, tenuto conto della natura del contratto, della qualità delle parti e delle circostanze che ne hanno accompagnato la conclusione, e sempreché – ovviamente – la condotta scorretta sia fonte di pregiudizio per il contraente vittima del ‘bonario inganno’».
[38] L. Mengoni, Autonomia, cit., 117.
[39] Cfr. C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 239 ss.
[40] CGUE 19 settembre 2018, C-109/2017.
[41] Cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 199 ss., 245 ss.
[42] Cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 263 ss.
[43] The Consumer Protection (Amendment) Regulations 2014 alle Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008, art 27 E, 27I, 27.
[44] Cfr. pure L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 266 ss.
[45] Art. 27 E (3) The Consumer Protection (Amendment) Regulations, 2014.
[46] Art. 27 F (1) (a) The Consumer Protection (Amendment) Regulations, 2014.
[47] Cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 265 ss.
[48] Sul punto, v. le perplessità sollevate da C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette e invalidità del contratto: il D.D.L. S1151 di revisione del codice civile, in Jus, 2020, 179, 182 ss. Per un commento all’art. 1, lettera g, cfr. P. Gaggero, La comminatoria d’invalidità derivante da pratiche negoziali scorrette o da talune altre circostanze, in Materiali per una revisione del codice civile, a cura di V. Cuffaro, A. Gentili, Milano, 2022, II, 169.
[49] Cfr. in generale A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna, 2020, 44, che osserva come «l’europeizzazione del diritto delle fonti è sicuramente il più rilevante fattore nella trasformazione delle fonti del diritto e nello spostamento del baricentro di rilevanza ermeneutica delle norme».
[50] L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 283 ss.
[51] Cfr. M.R. Maugeri, Violazione, cit., 1681.
[52] Le caratteristiche comuni del recesso del consumatore ricavabili dalla varia disciplina sono indicate da A. Barenghi, Diritto, cit., 246 ss.
[53] Cfr. C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, cit., 870.
[54] L. Guffanti Pesenti, Pratiche commerciali scorrette e rimedi nuovi. La difficile trasposizione dell’art.3, co. 1, n. 5) dir. 2019/2161 UE, in Europa dir. priv., 2021, 657.
[55] Cfr., ad esempio, C. Castronovo, La risoluzione, cit., 227.
[56] In senso contrario, A. M. Benedetti, Recesso, cit., 973, secondo il quale la retroattività garantirebbe al consumatore l’assenza di costi che potrebbero indurlo a mantenere un contratto non desiderato. Cfr. anche G. Marchetti, Potestatività, cit., 383, che parla di un’efficacia ex tunc, ma in base a un’analogia con l’art. 1360 cod. civ., che per le ragioni espresse prima nel testo, circa l’irriducibilità del recesso alla condizione, non è dato vedere.
[57] La categoria del rapporto di liquidazione trova spazio nell’esperienza tedesca rispetto al Rücktritt come figura potestativa di scioglimento unilaterale del vincolo contrattuale (cfr. C. Castronovo, La risoluzione, cit., 211, nt. 11; 242, nt. 84).
[58] Cfr. Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725.
[59] La logica delle conseguenze dell’estinzione del vincolo contrattuale è quella indicata dalla CGUE, 3 settembre 2009, causa C-489/07, Pia Messner c. Firma Stefan Krüger: la buona fede non consente al consumatore di pretendere di restituire un bene abusato – onde se questo sia il caso, il diritto di recesso risulta esercitato illegittimamente – mentre dell’uso corretto che del bene sia stato fatto fino al recesso deve tenersi conto secondo il principio relativo all’arricchimento ingiustificato.
[60] Cass. 29 settembre 2005, n. 19024. In dottrina, v., anzitutto, L. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Scritti, cit., II, 273. Più di recente, cfr. A. Renda, Obblighi informativi e responsabilità contrattuale da contratto valido, in Jus, 2020, 109, ove l’opportuna precisazione che non ogni difetto di informazione ammonta a condotta scorretta fonte di responsabilità; A. Albanese, L’obbligo di informazione nelle trattative: proposta di riforma e sistema del codice civile, in Jus, 2020, 141, con l’altrettanto importante rilievo, ai fini del nostro tema, che «l’alterazione della volontà negoziale … è di per sé insufficiente a fondare una responsabilità precontrattuale, ove non sia conseguenza di una condotta contraria alla buona fede».
[61] «Si tratta … di tutti i costi strumentali alla stipulazione, dei quali si rivela un’ingiustificata inutilità che una condotta secondo buona fede avrebbe consentito all’altra parte di evitare» (C. Castronovo, La responsabilità precontrattuale, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di C. Castronovo, S. Mazzamuto, Milano, 2007, II, 339).
[62] Infatti, come nota E. Labella, Pratiche, cit., 737, «l’ordinamento impone al professionista un obbligo … di … diligenza professionale, che è qualcosa di più della semplice buona fede e che si inserisce in un momento che è qualcosa di meno di una trattativa in senso classico».
[63] Se per il professionista autore della pratica scorretta ma non controparte del consumatore vale l’affermazione che la trattativa (che in questo caso manca) si può dire sostituita dalla pubblicità (cfr. L. Guffanti Pesenti, Scorrettezza, cit., 675), nel caso del professionista non autore della pratica scorretta ma controparte del contratto con il consumatore vale la reciproca: la pratica scorretta in esito alla quale il contratto viene stipulato ‘colora’ di mala fede la trattativa.
[64] In generale, cfr. F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015.
[65] Cfr. A. Albanese, Responsabilità precontrattuale, in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, Napoli, 2018, III, 1711.
[66] Cfr. C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 531 ss.