Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Il recesso del consumatore tra formazione del contratto e commodus discessus (di Francesco Castronovo, Assegnista di ricerca – Università degli Studi di Siena)


L’articolo affronta il tema del recesso dal contratto come strumento di reazione e tutela da parte del consumatore vittima di pratiche commerciali scorrette che può inscriversi tra i rimedi che la normativa consumeristica europea chiede di attuare nei singoli ordinamenti nazionali.

Parole chiave: Contratti – recesso; consumatore – pratiche commerciali scorrette.

Consumer’s right of withdrawal between contract formation and commodus discessus

The paper tackles the withdrawal from the contract as a protection tool from unfair commercial practices in favour of the consumer. Such tool can be encompassed among the remedies that under the European legislation each national law system shall implement.

COMMENTO

Sommario:

1. Dal recesso di pentimento del codice civile al diritto di ripensamento del consumatore - 2. La natura del c.d. recesso del consumatore - 3. Il recesso di autotutela - 4. Pratiche commerciali scorrette e rimedi - 5. Il recesso come rimedio contrattuale specifico alle pratiche commerciali scorrette - 6. Tra Delega al Governo per la revisione del codice civile e attuazione della dir. 2019/2161 - 7. Recesso di autotutela del consumatore e risarcimento del danno - 8. Conclusioni - NOTE


1. Dal recesso di pentimento del codice civile al diritto di ripensamento del consumatore

Il recesso come diritto potestativo di abbandono del vincolo contrattuale costituisce uno degli istituti che caratterizzano il diritto dei consumatori di origine europea. Come manifestazione unilaterale di volontà contrastante con il consenso all’accordo contrattuale esso era una figura nota alla disciplina dei contratti, ma il diritto europeo ne ha fatto uno strumento a disposizione del consumatore avente una dimensione funzionale nuova, diversa da quella che lo connota nella disciplina comune del diritto dei contratti. L’art. 1373 cod. civ. lo prevede come facoltà che deve essere attribuita alla parte dal contratto: quando questo sia il caso, «tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione» [1]. Si tratta di uno strumento di scioglimento del contratto di struttura diversa, ma analogo riguardo all’effetto, al contrarius consensus [2], in questo senso significativamente previsto dall’articolo precedente [3]. In ambedue i casi con esso si manifesta, mediante dichiarazione unilaterale o contrattuale [4], il pentimento rispetto al contratto concluso [5]. A un contratto già concluso si riferisce anche il recesso di cui all’art. 1385, comma 2, cod. civ., ove il pentimento nasce dalla delusione di fronte all’inadempimento dell’altra parte nonostante la caparra confirmatoria, e per questo, nel suo presupposto di fatto ma non negli effetti, si accosta di più al recesso del consumatore [6]. Quest’ultima figura di recesso è quella che l’ordinamento italiano prevede all’art. 52, comma 1, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo) per i contratti a distanza e quelli negoziati fuori dei locali commerciali, e consiste nel diritto di recedere «senza dover fornire alcuna motivazione», entro quattordici giorni dalla conclusione del contratto o diverso termine a quo altrimenti previsto in relazione alla natura e all’oggetto del contratto. Di natura analoga è il recesso che lo stesso cod. cons. prevede all’art. 67-duodecies per i contratti di servizi finanziari e all’art. 73 per i contratti di multiproprietà, così come quello previsto dall’art. 125-ter del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico bancario) nei contratti di credito ai consumatori. Una figura che si accosta al recesso ex art. [continua ..]


2. La natura del c.d. recesso del consumatore

Tale lettura esclude anzitutto la qualificazione del recesso come rimedio, pure autorevolmente proposta in dottrina [11]. Essa presuppone infatti un contratto già concluso, relativamente al quale sorga un’esigenza di tutela, laddove la ‘sganciamento’ del consumatore dal contratto preclude in radice una questione di tutela, salvo l’accertamento del ricorrere dei presupposti. Esclusa l’assimilabilità, all’interno di uno stesso genus, al recesso di cui all’art. 1373 cod. civ., il c.d. recesso del consumatore non sembra potersi ridurre neppure entro il modello della condizione, sia che lo si intenda nel senso dello scioglimento del vincolo contrattuale (condizione risolutiva), sia che si qualifichi in senso sospensivo la mancanza di esso (condizione sospensiva). Anche nelle ipotesi in cui il dato testuale non precisa che l’esercizio ne è consentito «senza dover fornire alcuna motivazione», la mancanza di limitazioni all’iniziativa in tal senso del consumatore fa sì che, ove di condizione si intendesse parlare, si tratterebbe di condizione meramente potestativa [12]. L’arbitrarietà che caratterizza quest’ultima rende plausibile l’afferma­zione, anche recentemente sostenuta in dottrina [13], dell’identità di ragione che soggiace al divieto che espressamente riguarda solo la condizione sospensiva (art. 1355 cod. civ.), onde un recesso così qualificato urterebbe con la contrarietà dell’ordinamento nei confronti della costruzione o distruzione ad libitum del vincolo contrattuale [14]. Proprio su questo punto, tuttavia, la medesima dottrina ha sostenuto che il recesso ex art. 52 cod. cons. «dimostra … che non è estraneo al sistema un meccanismo … del rapporto contrattuale che ne rimette la prosecuzione alla mera volontà di uno dei contraenti … limitatamente ad alcuni settori in ragione dell’asimmetria dei contraenti e delle particolari modalità di conclusione del contratto» [15]. Se ne è tratta la conclusione nel senso di una figura che si distingue [16] sia dal recesso che dalla condizione risolutiva meramente potestativa [17]. Ma subito ne è sorto il problema se la relativa manifestazione di volontà del consumatore abbia o no efficacia retroattiva [18]. L’assenza nella legge di [continua ..]


3. Il recesso di autotutela

Per quanto in questa sede interessa, è stata ricordata in dottrina un’altra specie di recesso chiamato recesso di autotutela [25]. Esso manifesta il potere di una parte di sottrarsi al contratto quando questo si riveli non in grado di corrispondere, originariamente o a un certo momento del rapporto, all’interesse di colui che lo esercita. Interessante, nella prospettiva delle modalità di tutela del consumatore, si presenta l’art. 1893 cod. civ., che in materia di assicurazione prevede la facoltà di recesso dell’assicuratore quando l’altro contraente, senza dolo o colpa grave, sia stato autore di dichiarazioni inesatte o reticenze che non abbiano consentito all’altra parte di valutare con precisione il rischio oggetto del contratto. Qui il fondamento del recesso è una inadeguatezza del contratto rispetto allo scopo che le parti mostrano di voler perseguire. Quello che non riesce ad essere un vizio genetico, onde non si può dire che la volontà sia viziata in senso tecnico, viene assunto dalla legge in chiave funzionale, nel senso che, nonostante il contratto non risulti attaccabile sul fronte dei vizi, ugualmente l’ordinamento su un piano più rarefatto di correttezza del rapporto lo rende disdicibile, consentendo al contraente di ritrattare le cose dette o promesse [26]. L’idea di scopo sembra sostituire quella di volontà con la conseguenza che, in presenza di un vizio genetico non in grado di raggiungere l’annul­labilità, consente al consumatore di affrancarsi ugualmente dal contratto. E si tratta di una figura di reazione dell’ordinamento giuridico che risulta congeniale al modello di pensiero che riguarda il consumatore, più attento all’efficacia della forma giuridica che alla sua calibratura per le linee nette della teoria tradizionale del contratto. In questo senso la figura di recesso che si sta considerando, nonostante la diversità dell’effetto, sul piano della politica del diritto si rivela omogenea a quella prima considerata di c.d. recesso o meglio di ripensamento che, come abbiamo visto, nasconde una volontà che non giunge a compimento e non è in grado di produrre il vincolo contrattuale. Infatti, con una modalità tecnica diversa, in ambedue la forma giuridica risulta ugualmente protesa a quello che è un commodus discessus dal contratto. È appunto in [continua ..]


4. Pratiche commerciali scorrette e rimedi

Secondo la direttiva europea 11 maggio 2005, n. 29, pratica commerciale scorretta è quella in grado di «alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo … ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso» (art. 2, lettera e, dir. nonché art. 18, comma 1, lettera e, cod. cons.). Contro tali pratiche, però, la direttiva n. 29 del 2005, dedotta l’ini­bitoria che peraltro si situa lungo la linea di confine tra diritto pubblico e diritto privato che la caratterizza [29], aveva lasciato scoperto il fronte delle tutele [30], e nella necessità di trovarne gli interpreti avevano già sperimentato la teorizzazione generale che «il diritto secondo non può deragliare dal primo se non in forza di una precisa regola derogatrice» [31], rifacendosi variamente ai rimedi del codice civile [32]. Del resto, i rapporti tra quest’ultimo e la disciplina di settore non si pongono esclusivamente nella logica ‘generale-speciale’, ma anche in quella del correre paralleli, nella quale la fonte generale continua a regolare ciò che quella speciale, per i suoi limiti intrinseci, non è in grado di raggiungere, e quella speciale associa nuove fattispecie a quelle note del diritto comune [33]. Sia con riguardo alle pratiche dette ingannevoli (art. 21 cod. cons.) che a quelle aggressive (art. 24 cod. cons.), il richiamo immediato della dottrina fu dunque quello relativo ai vizi della volontà: «come le pratiche commerciali ingannevoli sono state in grado di evocare il dolo quale causa di annullamento del contratto, le pratiche commerciali aggressive inducono a pensare alla violenza» [34]. A conclusione di un’analisi dedicata a esplorare affinità e differenze, la conclusione è stata però che «non esiste … una corrispondenza biunivoca tra gli istituti invalidanti della nullità e dell’annullabilità e le condotte scorrette contemplate dal codice del consumo» [35]. Quanto alla violenza, si è osservata la non sovrapponibilità tra «una condotta costituente molestia o coercizione che limiti considerevolmente la libertà di scelta del consumatore [e] ... la minaccia di un male ingiusto e notevole» [36] su cui si impernia la fattispecie dell’art. [continua ..]


5. Il recesso come rimedio contrattuale specifico alle pratiche commerciali scorrette

Ma al di là della responsabilità, la prospettiva che muove dal contratto coerentemente su di esso doveva saggiare il fronte della tutela; e proprio questo spiega la domanda prioritaria circa la possibile invalidità da vizi della volontà. Registrata la relativa inadeguatezza della risposta su questo piano, la ricerca ulteriore non poteva non riguardare i rimedi alternativi che un contratto stipulato sotto l’influenza di una pratica commerciale scorretta fosse plausibilmente in grado di attivare. In un quadro che è stato definito «il mosaico europeo» [42], in dottrina è stato notato e messo in luce un rimedio negoziale che da un lato non soggiace alle limitazioni cui le pratiche commerciali scorrette vanno incontro quando intendano farsi valere come fonte di un vizio della volontà, dall’altro si rivela in grado di dissolvere il vincolo contrattuale sulla base della presa d’atto che quest’ultimo sia assunto sulla spinta di «una pratica commerciale idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole» (art. 18, comma 1, lettera e, cod. cons.), dunque da una volontà non sufficientemente consapevole sul piano cognitivo, anche se non necessariamente «idonea ad indurre in errore il consumatore» (art. 21, comma 1, cod. cons.). Si tratta di un rimedio adottato nel diritto inglese [43] proprio come strumento di reazione alle pratiche commerciali scorrette, e corrispondente a quello che nella nostra nomenclatura deve chiamarsi recesso, trattandosi di un «right to unwind in respect of a business to consumer contract», che esprime precisamente il fine di sciogliere unilateralmente il vincolo contrattuale. Anche in questo caso il diritto di recesso si rivela consono alla tutela del consumatore, come figura di recupero a posteriori di un potere sul contratto del quale il consumatore risulta sprovveduto al momento della conclusione per l’asimmetria negativa che lo caratterizza rispetto al professionista. All’interno di questa comune funzione di tutela del consumatore, lo stesso contesto nel quale questo recesso è previsto ne mostra la diversità rispetto al c.d. recesso di pentimento. Di quest’ultimo si è detto prima che recesso non è, dato che opera sulla stessa (non) formazione del vincolo, laddove il rimedio previsto dal Consumer [continua ..]


6. Tra Delega al Governo per la revisione del codice civile e attuazione della dir. 2019/2161

Per ovviare a tale carenza, il nostro legislatore, nel disegno di legge n. 1151 del 19 marzo 2019, Delega al Governo per la revisione del codice civile, all’art. 1, lettera g, ha preso in considerazione le pratiche commerciali scorrette, parlando di «invalidità del contratto», e quindi facendo presagire una impugnativa negoziale analoga a quella dei vizi della volontà [48]. Successivamente è giunta la direttiva europea n. 2161 del 2019, la quale, con l’obiettivo di «generale migliore applicazione e … modernizzazione delle norme dell’U­nione relative alla protezione dei consumatori», ha inserito un nuovo art. 11-bis nella direttiva n. 29 del 2005, prevedendo al comma 1 gli attesi rimedi, «compresi il risarcimento del danno subito dal consumatore e, se pertinente, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto». Dell’inadeguatezza della qualificazione di invalidità abbiamo già detto; riguardo alla nuova previsione della direttiva, si può poi notare, anzitutto, l’attitudine a una certa sciatteria – da tempo rilevata nella normativa prodotta dall’Unione europea – di considerare il risarcimento del danno come misura primaria di tutela, che invece negli ordinamenti nazionali casomai figura come rimedio di seconda istanza, e perciò subordinato, rispetto a rimedi specifici; dall’altra parte, pur all’interno di tale scelta, è evidente l’incuria di non indicare i presupposti di quello che è un mero effetto giuridico, del quale appunto occorre costruire la fattispecie. Si conferma l’idea che il diritto europeo non si costruisca sul modello della fattispecie bensì su quello dei rimedi, idea che proprio attraverso il diritto europeo è trapelata nella cultura degli ordinamenti nazionali, come se fosse una connotazione qualificante del diritto di questo tempo. Sembra sfuggire, in proposito, la diversa funzione delle fonti nella generalità del diritto europeo e nella particolarità degli ordinamenti nazionali [49], nel senso che laddove il diritto europeo si rivolge a questi ultimi perché diano concretezza a un determinato orientamento legislativo, quando si serve come in questo caso della direttiva si limita – o dovrebbe limitarsi – a indicare gli obiettivi rispetto ai quali sono gli ordinamenti nazionali a individuare i mezzi [continua ..]


7. Recesso di autotutela del consumatore e risarcimento del danno

La questione di maggiore rilievo attiene agli effetti del recesso e alla liquidazione del rapporto che il contratto ha comunque creato. Qui bisogna considerare che parliamo di recesso perché la violazione della buona fede che non ammonta a vizio della volontà non consente di qualificare il contratto come realmente viziato. Se si accetta questo punto di partenza, si deve coerentemente ritenere che il recesso non ha a suo fondamento una invalidità del contratto; esso perciò non necessita di quella retroattività che trova giustificazione in quest’ultima [56]. Si tratta, piuttosto, di una «liquidazione» [57] del rapporto, rispetto al quale si riconosce che, nonostante la scorrettezza del professionista, il contratto è stato validamente concluso e ha prodotto effetti che è necessario regolare nuovamente dal momento in cui il rapporto viene sciolto. In questo senso suggerisce la prospettiva che, muovendo dalla distinzione tra regole di (in)validità e regole di responsabilità [58], ne constata l’insufficienza mettendo in luce una terza via: se la nuova direttiva, inserendo il nuovo art. 11-bis nella direttiva n. 29 del 2005, parla ora di scioglimento del vincolo contrattuale (termination o c.d. risoluzione), intende andare oltre l’invalidità, evitando gli effetti che la caratterizzano, prima fra tutte la retroattività. Lo scioglimento del vincolo contrattuale estinguerà le reciproche obbligazioni, onde il consumatore, così come sarà liberato della propria, dovrà restituire il bene ricevuto dal professionista. Poiché, come si è detto, il recesso non trova fondamento in una violazione del sinallagma contrattuale, non dovrebbero valere i vincoli di restituzione che caratterizzano i contratti sinallagmatici nel senso che le restituzioni che conseguono allo scioglimento del vincolo debbono riprodurre al contrario il sinallagma in quella che si configura come un’esecuzione del contratto in senso inverso. Si tratta piuttosto, come si è accennato, di un rapporto di liquidazione, nel quale alla restituzione del bene il consumatore deve aggiungere il vantaggio che abbia conseguito per l’uso che ne abbia fatto, incremento che tende a ristorare la diminuzione di valore nel frattempo subita dal bene; di questo valore andrà diminuita la prestazione del consumatore che il professionista [continua ..]


8. Conclusioni

L’analisi sin qui condotta ha cercato di approfondire le ragioni per cui il recesso, inventato dal diritto europeo del consumo come misura singolare di fuga dal contratto in relazione a caratteristiche particolari della stipulazione – come nei contratti a distanza e in quelli stipulati fuori dei locali commerciali –, o in ragione della rilevanza particolare riconosciuta al tipo contrattuale – come nel caso della multiproprietà e della commercializzazione a distanza di servizi finanziari –, possa diventare strumento significativo e utile di commodus discessus del consumatore da un contratto improprio come nel caso della reazione alle pratiche commerciali scorrette. Tale recesso da un lato supera le difficoltà che deriverebbero dal forzare le dette pratiche entro i canoni più rigorosi e rigidi dei vizi della volontà; in secondo luogo, aderendo al contratto, risolve in maniera diretta la questione di tutela del consumatore senza cadere nella genericità del solo risarcimento del danno.


NOTE