Il presente contributo – muovendo da una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – si concentra sul tema dell’integrazione del contratto a seguito della nullità di una pattuizione abusiva. In particolare, ci si domanda cosa accada allorché il contratto non possa essere mantenuto in vita senza la clausola nulla e non vi siano norme dispositive che disciplinino la stessa materia. La trattazione dell’argomento impone altresì di soffermarsi sul discrimine tra interpretazione e integrazione del contratto, nonché sul ruolo del giudice in tale contesto.
Parole chiave: integrazione del contratto – interpretazione – nullità di clausole abusive.
Starting from a recent ruling of the Court of Justice of the European Union, the essay focuses on the integration of the contract as a consequence of the nullity of an unfair clause. In particular, it tries to answer the question of what happens when the contract cannot be maintained without the void clause and there are no dispositive rules governing the same matter. The discussion of this topic also requires the author to dwell on the distinction between interpretation and integration of the contract, as well as on the role of the judge in this context.
Keywords: integration of the contract – interpretation – voidness of unfair clauses.
Sommario:
1. Il caso - 2. L’obbligo di chiarezza e i limiti del sindacato della Corte di Giustizia sulle clausole abusive - 3. La ricostruzione giurisprudenziale delle conseguenze dell’abusività - 4. Il rifiuto dell’integrazione giudiziale - 5. L’integrazione legale mediante norme dispositive in seguito alla nullità di clausole essenziali - 6. Al confine tra interpretazione e integrazione - 7. Rimane spazio per un intervento integrativo giudiziale? - NOTE
Con riguardo alla questione delle conseguenze della nullità di una clausola abusiva, la disposizione di cui all’art. 6 della direttiva 93/13, si limita a stabilire che le clausole che rechino uno squilibrio tra diritti e obblighi derivanti dal contratto «non vincolano il consumatore» [1]. Tale asettica formulazione ha sollevato una serie di dubbi a cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha tentato volta per volta di rispondere, arrivando a fornire una disciplina ‘pretoria’ con riguardo a diversi profili del regime della nullità di clausole abusive [2].
Uno degli aspetti su cui i giudici di Lussemburgo si sono soffermati in una recente pronuncia concerne l’eventuale spazio interpretativo concesso al giudice al fine di riempire il vuoto residuato in seguito alla dichiarazione di nullità della clausola abusiva [3].
In particolare, nel caso in esame, due consumatori concludevano con un istituto bancario polacco un contratto di mutuo ipotecario per una somma corrispondente a 100.000 Euro in zloty polacchi, indicizzato in valuta estera (il franco svizzero). I mutuatari firmavano altresì una dichiarazione in cui manifestavano la volontà di accendere un mutuo indicizzato in valuta estera, pur essendo consapevoli del rischio di cambio.
Le fluttuazioni del tasso di conversione tra zloty e franco comportavano una differenza di una somma corrispondente a circa 6.000 Euro tra l’importo rimborsato e quello che i ricorrenti avrebbero dovuto rifondere qualora il mutuo fosse stato denominato in zloty polacchi.
I mutuatari, ritenendo abusiva la clausola di indicizzazione del mutuo in valuta estera, decidevano di proporre un ricorso chiedendo in loro favore il pagamento di circa 10.000 Euro. La supposta abusività della clausola derivava dall’ambiguità della medesima, tant’è vero che le parti ne davano interpretazioni discordi: mentre per la banca il tasso di cambio da considerare sarebbe stato quello indicato nella tabella dei tassi in vigore presso di sé, per i mutuatari lo stesso si sarebbe dovuto determinare sulla base di un tasso di cambio oggettivo, come quello fissato dalla Banca Nazionale Polacca.
Secondo il giudice nazionale adito dal consumatore, la clausola presentava in effetti una dose di ambiguità dovuta alla genericità della sua formulazione, tale da far emergere profili di abusività; in particolare, la pattuizione sembrava porsi in contrasto con gli obblighi di informazione e trasparenza previsti dall’art. 5, dir. 93/13.
Con riferimento al giudizio di abusività, due erano gli interrogativi per i quali sorgeva – secondo la corte nazionale – l’esigenza di un rinvio pregiudiziale.
In primo luogo, il Tribunale polacco domandava ai giudici di Lussemburgo se il livello di chiarezza richiesto dalla normativa dovesse essere tale da permettere al consumatore di determinare autonomamente il tasso di cambio in qualsiasi momento ovvero se fosse sufficiente la correttezza linguistica e grammaticale.
La seconda questione riguardava invece la legittimazione del giudice, posta l’abusività della clausola caratterizzata da eccessiva genericità, ad avvalersi del potere conferitogli dal diritto nazionale – in particolare dall’art. 65 del codice civile polacco – di indagare sulla comune intenzione delle parti, al fine di trovare una soluzione interpretativa con riguardo alla determinazione di un criterio per fissare un tasso di cambio che garantisse l’equilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti, in modo da sopperire alla genericità della clausola, sanandone così il carattere abusivo. In particolare, il giudice polacco proponeva di interpretare la pattuizione nel senso di individuare il tasso di cambio nel valore di mercato della valuta estera.
Il collegio giudicante, dopo avere affermato – con riguardo al primo interrogativo – la necessità che la clausola venisse redatta in modo chiaro e comprensibile, di modo che un consumatore normalmente informato fosse posto in grado di calcolare autonomamente il tasso di cambio applicabile, affronta il secondo quesito, fondando il proprio ragionamento sui principi delineati dalla giurisprudenza precedente.
Si anticipa sin d’ora che, allineandosi alla tendenza che vede il ruolo del giudice molto circoscritto in sede di integrazione contrattuale a seguito della nullità di clausole abusive, la Corte giunge a negare il potere di interpretare la pattuizione in modo da rivederne il contenuto: più specificamente, ribadisce che la conseguenza dell’abusività di una clausola dev’essere la pura e semplice disapplicazione della medesima.
Nondimeno, sembra opportuno nel prosieguo ripercorrere i diversi approdi della giurisprudenza europea che hanno contribuito a delineare i tratti della disciplina degli esiti della nullità di cui al sopra menzionato art. 6, dir. 93/13.
Prima di entrare nel merito delle questioni anticipate, occorre delimitare i confini del giudizio di abusività.
La dir. 93/13 all’art. 4, comma 2, preclude il sindacato del giudice nei confronti delle clausole che riguardino la «definizione dell’oggetto principale del contratto», ovvero la «perequazione tra il prezzo e la remunerazione». La clausola oggetto del caso di specie contribuisce a definire il margine di guadagno della banca a fronte del finanziamento, sicché si potrebbe pensare che la stessa rientri nell’ambito dell’esclusione prevista dalla disposizione in esame. La Corte nega tuttavia che la clausola controversa si occupi della definizione nell’oggetto o della perequazione tra il prezzo e il servizio offerto, sicché esclude che la stessa ricada entro il campo di applicazione della norma citata [4].
Inoltre, a prescindere dalla questione se la pattuizione sia o meno compresa nell’ambito di esclusione di cui al sopra menzionato art. 4, comma 2, pare opportuno soggiungere che in base a tale disposizione l’esonero dal sindacato giudiziale opera «purché tali clausole siano redatte in modo chiaro e comprensivo», sicché, qualora – come nel caso in esame – sorgessero invece dubbi in merito alla chiarezza della pattuizione, tornerebbe in gioco il dovere del giudice di valutarne l’abusività [5].
Oltretutto, l’obbligo di redigere ogni clausola di modo che risulti chiara e comprensibile è sancito altresì dall’art. 5, dir. 93/13, che – secondo il dictum della Corte – si applica anche quando l’oggetto della pattuizione rientra nella sfera di applicazione del poc’anzi analizzato art. 4, comma 2 [6].
Come anticipato, con riguardo al contenuto del dovere di stilare le clausole in maniera chiara e comprensibile, il giudice del rinvio si chiedeva se fosse sufficiente la mera correttezza formale e grammaticale della clausola ovvero se sia necessario porre il debitore nella condizione di calcolare autonomamente l’importo della rata da rimborsare.
Tra le due alternative la Corte – sulla scia di un precedente orientamento [7] – sceglie senz’altro la via di maggior tutela a favore del consumatore. Invero, alla luce della ratio del sistema di protezione che la direttiva è volta a costruire al fine di sopperire alle situazioni di asimmetria informativa, i giudici di Lussemburgo interpretano estensivamente il dovere imposto dall’art. 5, affermando che il medesimo non soltanto implica la necessaria intellegibilità dal punto di vista formale e grammaticale del testo contrattuale, ma impone altresì di giungere a un più elevato livello di chiarezza, che consenta a un consumatore normalmente avveduto di comprendere il funzionamento della clausola, nonché le conseguenze economiche che dalla stessa derivano.
Non indicando a quale valore si dovesse fare riferimento nell’operazione di cambio valuta indispensabile al fine di quantificare l’esatto importo della rata da rimborsare, la clausola di cui al caso di specie sembra dunque essere censurabile, giacché non consente al consumatore di calcolare di volta in volta la somma dovuta e, dunque, più in generale, di determinare l’entità del sacrificio economico che si assume mediante la sottoscrizione.
Una volta accertata l’illegittimità di una pattuizione così configurata, occorre individuare le conseguenze di siffatta abusività.
La direttiva 93/13 all’art. 6 stabilisce che le clausole abusive inserite in un contratto con un consumatore non vincolano quest’ultimo, ferma restando la validità del negozio, se il medesimo possa sopravvivere senza la clausola ritenuta abusiva. Si tratta in sostanza di una nullità parziale necessaria, che nel nostro ordinamento viene recepita dall’art. 36 cod. cons. e rappresenta un’eccezione alla regola di cui all’art. 1419 cod. civ., in base al quale la nullità si estende all’intero contratto ove risulti che le parti non lo avrebbero concluso senza la parte affetta da nullità.
Come si accennava in esordio, la formulazione dell’art. 6, dir. 93/13, si presenta piuttosto ellittica, sicché lascia ampi margini all’interprete nella concreta individuazione della sorte del contratto che contenga previsioni vessatorie. Ci si deve chiedere in quale misura, a seguito dell’eliminazione della pattuizione abusiva, venga in rilievo il meccanismo dell’integrazione contrattuale [8].
Al fine di meglio circoscrivere il perimetro dell’indagine, si deve precisare che non s’intende in questa sede affrontare la questione della violazione di norme imperative e della conseguente sostituzione di clausole nulle con i parametri fissati legislativamente. Il fenomeno su cui ci si soffermerà è quello della deroga a norme suppletive, e dunque di per sé disponibili da parte dell’autonomia privata [9], allorquando la divergenza tra la disciplina fissata dalla legge, che dovrebbe astrattamente realizzare una situazione di equilibrio ideale nel regolamento contrattuale, e le pattuizioni a cui sono addivenute le parti risulti abusiva e dunque censurabile ai sensi della dir. 93/13, in quanto importi «un eccessivo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto» [10].
La Corte di Giustizia, mediante numerose pronunce susseguitesi nell’ultimo decennio, ha tentato di colmare il vuoto di disciplina concernente il problema delle sorti del contratto da cui venga espunta una clausola considerata abusiva. Lo sforzo pretorio di ricostruire il regime applicabile a tali fattispecie ha lasciato però residuare non pochi dubbi e suscitato diverse critiche con riguardo ad alcune delle scelte operate, che sembrano potenzialmente collidere con la ratio di tutela sottesa alla dir. 93/13.
Le strade percorribili sarebbero in astratto tre: la soluzione più radicale è rappresentata dalla pura e semplice obliterazione della clausola, con l’esclusione ogni forma di integrazione del contratto; altrimenti, potrebbe sostenersi l’integrazione contrattuale per mezzo di norme dispositive, che la pattuizione abusiva era andata a derogare; oppure, è forse ipotizzabile un intervento giudiziale che riporti a equità il contenuto del contratto sperequato per mezzo della clausola invalida.
Nel prosieguo si cercherà anzitutto di analizzare la posizione della Corte con riguardo a ognuna delle tre vie, al fine di delineare il quadro giurisprudenziale in cui si inserisce la recente decisione in esame, per scorgere tratti di continuità ed elementi di novità di quest’ultima.
L’ultima tra le possibili opzioni sopra prospettate, ossia quella che prevede un ruolo centrale del giudice è stata fermamente rigettata dalla Corte di Giustizia nel 2012, interpellata in sede di rinvio pregiudiziale, nella sentenza Banco Español de Crédito [11].
Nel caso di specie, il supremo organo giurisdizionale dell’Unione era chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità alla direttiva 93/13 di una disposizione spagnola che consentiva al giudice di ridurre il saggio degli interessi moratori qualora risultassero eccessivamente elevati. Secondo la Corte, il potere di integrazione giudiziale contrasterebbe con l’art. 6 della direttiva, in base al quale il contratto rimarrebbe vincolante nei medesimi termini, a seguito della caducazione delle clausole abusive. Il giudice avrebbe dunque unicamente il dovere di considerare queste ultime tamquam non essent, non essendo invece legittimato a integrare il contenuto del contratto.
Siffatto esito sembrerebbe altresì conforme all’obiettivo di armonizzazione del diritto consumeristico degli Stati membri. Invero, qualora fosse riconosciuto al giudice un potere creativo, i diversi giudici nazionali potrebbero integrare il contratto secondo modalità e parametri mutuati dal proprio ordinamento di appartenenza, rischiando così di pregiudicare l’uniformità a cui mira il legislatore europeo.
Ma la ragione che più di ogni altra spinge la Corte verso la decisione in tal senso deve leggersi alla luce della ratio della direttiva, che mira a scoraggiare i professionisti dall’inserimento di previsioni nocive nei confronti del consumatore. Invero, l’integrazione giudiziale rischierebbe di eliminare l’effetto deterrente che scaturisce dalla caducazione tout court delle clausole ritenute abusive [12]. Infatti, se al giudice fosse riconosciuto il potere di ridurre a equità il contenuto della pattuizione, il professionista sarebbe indotto a tentare comunque di inserirla nel contratto, rischiando – nel peggiore dei casi – che il giudice, anziché eliminare totalmente la clausola, soltanto ne argini gli effetti sino a ripristinare l’equilibrio.
Orbene, l’effetto dissuasivo della totale espunzione della clausola risulta di regola più incisivo rispetto alla sostituzione della stessa con una norma dispositiva: invero, mentre la disciplina legale solitamente mira a porre in essere una situazione di ideale equilibrio tra i sacrifici di ciascuna parte, la totale obliterazione della clausola conduce a uno sbilanciamento in favore del consumatore. Per esempio, è chiaro come quest’ultimo risulterebbe alquanto avvantaggiato in casi come quello da cui si sono prese le mosse, in cui alla mera espunzione dell’indicizzazione al franco svizzero conseguirebbe la restituzione dell’importo mutuato al valore nominale [13].
Nondimeno, se si guarda alle conseguenze a livello sistematico di questo orientamento, ci si accorge che l’esito anelato dal supremo organo giurisdizionale dell’Unione Europea è quello di fare in modo che i professionisti, guidati dal timore verso la censura di pattuizioni che modifichino a loro sfavore la disciplina legale, tendano a evitare di inserirle, cosicché si realizzi il bilanciamento codificato dal legislatore europeo [14].
I medesimi principi venivano poi confermati un anno dopo dalla sentenza Asbeek Brusse, nella quale – richiamando le argomentazioni utilizzate nella pronuncia Banco Español – si negava il potere del giudice di ridimensionare l’entità di una clausola penale sproporzionata [15].
Ulteriori puntualizzazioni sono poi state aggiunte dalla successiva giurisprudenza europea con riguardo al dovere di eliminare le clausole abusive: in particolare, nella sentenza Abanca viene dichiarata non conforme alla direttiva l’obliterazione soltanto di alcuni degli elementi della pattuizione che equivalga sostanzialmente alla revisione del contenuto della stessa [16]. Nella successiva decisione Bank BPH si precisa poi che l’eliminazione parziale di una clausola è ammissibile solamente qualora la porzione coinvolta corrisponda a un obbligo contrattuale distinto [17]. Da tali pronunce si evince quindi che, nel caso di clausola indivisibile, vengono travolte anche le sue componenti che sarebbero di per sé valide [18].
La ratio di tale orientamento si mostra coerente con il precedente rifiuto dell’integrazione del giudice: la Corte mira a evitare che mediante l’eliminazione ‘selettiva’ si pervenga di fatto a una revisione giudiziale della pattuizione invalida.
Sin qui si è trattato dell’integrazione giudiziale, ma il panorama si complica allorché ci si chieda se sia ammissibile l’integrazione mediante norme suppletive che disciplinano gli stessi aspetti della clausola dichiarata abusiva.
Con riguardo all’integrazione legale, il leading case può considerarsi la sentenza Kásler del 2014 [19].
In tale decisione la Corte di Giustizia si occupava di un caso di mutuo indicizzato in valuta estera, simile a quello oggetto della pronuncia da cui si sono prese le mosse. La clausola di indicizzazione veniva ritenuta abusiva e dunque priva di effetto. Tuttavia, poiché la stessa veniva considerata una previsione essenziale, senza la quale il contratto non sarebbe potuto rimanere in vita e fermo restando il divieto di integrazione giudiziale, i giudici si trovavano di fronte a un bivio: caducare tout court il contratto, ovvero ammettere l’integrazione per mezzo di norme suppletive.
Appare chiaro il rischio della nullità totale del contratto, potenzialmente in grado di pregiudicare il consumatore, il quale si sarebbe trovato a dover rifondere in un’unica soluzione l’intera somma mutuata. Proprio dalla salvaguardia di quest’ultimo dagli effetti delle restituzioni conseguenti alla nullità muovono le argomentazioni che spingono la Corte ad ammettere in questi casi l’integrazione per mezzo di norme dispositive. Se così non fosse, infatti, il consumatore sarebbe spesso portato ad accettare la presenza di una clausola, nonostante la sua vessatorietà, pur di non dover subire le conseguenze restitutorie della nullità. A questo riguardo si deve rammentare che il giudice è tenuto a effettuare la valutazione circa l’abusività della clausola anche d’ufficio, senza necessità che il consumatore sollevi la questione [20]; tuttavia, trattandosi di una c.d. nullità di protezione, il consumatore può decidere di rinunciare alla tutela in suo favore.
L’ipotesi appena delineata, ossia quella dell’abusività di una clausola essenziale è però l’unica in cui la giurisprudenza europea ammette l’introduzione nel contratto di norme suppletive in luogo della pura obliterazione della pattuizione nulla.
Tale fermezza della Corte non è tuttavia andata esente da critiche: in tutte le sentenze sinora citate, i giudici di Lussemburgo enfatizzano il tenore letterale del già menzionato art. 6, dir. 93/13, secondo cui le clausole abusive «non vincolano il consumatore», per affermare la necessaria neutralità dell’intervento del giudice, il quale non dovrebbe far altro che disapplicare la previsione affetta da nullità. Sennonché, come da molti già osservato, l’eliminazione di una clausola mai può risultare in toto neutrale, invero, essa stessa comporta la creazione di una regola, che va a sostituire quella (abusiva) stabilita dall’autonomia privata [21].
Inoltre, una soluzione così tranchant spesso determina a danno del professionista uno squilibrio, che pare risultare eccessivo in assenza di una scelta legislativa espressa in tal senso.
Una presa di posizione del nostro legislatore orientata alla totale obliterazione della clausola abusiva si riscontra, per esempio, nel nostro ordinamento con riguardo agli interessi usurari ex art. 1815 cod. civ. In quest’ipotesi è infatti proprio la norma, animata da una finalità punitiva, a sancire che qualora il tasso d’interesse superi la soglia d’usura non siano dovuti interessi [22].
Oltretutto, in altre ipotesi la correzione giudiziale della clausola potrebbe risultare, anche per il consumatore, più conveniente rispetto alla totale espunzione della medesima: si pensi all’ipotesi affrontata dalla sopra menzionata sentenza Abanca, in cui viene decisa l’eliminazione tout court di una clausola che consentiva al professionista di risolvere stragiudizialmente il contratto previa intimazione. L’obliterazione di tale facoltà apre la strada al creditore per chiedere la risoluzione giudiziale per inadempimento, nonché per procedere con l’ordinaria esecuzione forzata, giacché sarebbe venuta meno la causa di improcedibilità – rappresentata dalla necessaria preventiva intimazione stragiudiziale – che impediva l’instaurazione del giudizio. Si assiste così a un deterioramento della posizione del debitore-consumatore, il quale si troverebbe esposto al rischio di subire una procedura per lui maggiormente gravosa [23].
Per quanto sin qui considerato, la Corte altro non ha fatto che confermare l’orientamento precedente sui diversi aspetti trattati. Un profilo sul quale invece con la decisione in esame si aggiunge un tassello al mosaico della disciplina delle clausole vessatorie è quello concernente il ruolo dell’interpretazione nel contesto della valutazione di abusività. Peraltro, l’esposizione condotta dal supremo organo giurisdizionale dell’Unione presenta diversi nodi problematici.
A ben vedere, in astratto, la ferma ostilità della Corte nei confronti dell’integrazione giudiziale non escluderebbe di per sé il dovere del giudice di interpretare le previsioni contrattuali nel senso più favorevole al consumatore, come stabilito dall’art. 5, dir. 93/13 [24]. Tutto sembrerebbe dunque giocarsi sul confine tra la (doverosa) attività interpretativa e la (vietata) integrazione giudiziale [25].
Orbene, volendosi sintetizzare i punti di approdo a cui è giunta l’elaborazione dottrinale nel corso degli ultimi decenni, la distinzione tra le due operazioni in esame si fonda sulle fonti che vanno a comporre il regolamento contrattuale: mentre l’interpretazione consiste nell’accertamento del significato dei segni con cui viene manifestata la volontà delle parti [26], l’integrazione vede affiancarsi alla cd. fonte privata altre fonti legali [27]. In altre parole, mentre con l’interpretazione – in base a criteri soggettivi od oggettivi – si opera una scelta tra più potenziali significati attribuibili alle espressioni utilizzate dalle parti, mediante l’integrazione si verifica una vera e propria addizione di norme rispetto a quelle previste dai contraenti nel contesto del regolamento di interessi fissato nell’accordo.
Nella prospettiva del giudice del rinvio, l’attività che egli si apprestava a svolgere nel caso in esame non consisteva in una vietata revisione del contenuto della pattuizione, bensì in un’interpretazione della volontà delle parti, fondata su una previsione codicistica che espressamente gli attribuiva un corrispondente potere. Nel ragionamento del giudice polacco tale disposizione rappresenterebbe una norma suppletiva che interverrebbe a colmare la lacuna residuata a seguito dell’espunzione della clausola abusiva.
Nondimeno, l’argomentazione, così come espressa dal giudice polacco, risulta senz’altro censurabile alla luce della giurisprudenza sovrannazionale.
Anzitutto, nella decisione in esame, la Corte nega che si versi in un caso in cui la clausola controversa rivesta un ruolo essenziale per la sopravvivenza del contratto, sicché sarebbe preclusa anche l’integrazione per mezzo di norme suppletive.
Anche volendosi assumere l’essenzialità della clausola in esame, sembrerebbero a ogni modo frapporsi ostacoli all’operazione integrativa ipotizzata dal giudice del rinvio. Invero, la norma su cui si fonderebbe l’intervento di quest’ultimo sarebbe l’art. 65, comma 2, del codice civile polacco – pressoché analogo al nostro art. 1362 cod. civ. – in base al quale nell’interpretazione del contratto il giudice ha il dovere di indagare la comune intenzione delle parti.
Orbene, tale disposizione è espressione di un principio generale che guida l’attività interpretativa; non reca invece la disciplina legale di un particolare profilo del regolamento contrattuale, sicché non potrebbe qualificarsi alla stregua di una norma dispositiva. In questa affermazione la Corte si allinea ai principi già affermati nella sentenza Dziubak, che aveva stabilito l’inammissibilità di un’attività integrativa fondata su norme che rinviino genericamente all’equità o agli usi [28]. L’inadeguatezza di tali norme a giustificare un intervento integrativo è dovuta al fatto che esse non sono state oggetto di una valutazione specifica del legislatore in ordine all’equilibrio che dovrebbero stabilire tra diritti e obblighi dei contraenti [29].
Di recente, la Corte ha poi negato che la funzione integrativa delle norme suppletive possa essere svolta, in mancanza di queste ultime, da un parere non vincolante dell’organo giurisdizionale supremo dello Stato membro interessato [30].
Il ragionamento del giudice polacco finalizzato ad attribuire rilievo all’interpretazione avrebbe dovuto seguire una diversa strada.
Non rileva in questo contesto il divieto di integrazione giudiziale. L’interpretazione è infatti un’attività pressoché indispensabile [31], nonché prodromica rispetto alla eventuale integrazione e, a ben vedere, sembra collocarsi ancor prima del giudizio di abusività per mancata trasparenza [32]: una clausola è infatti censurabile qualora in seguito all’interpretazione del suo testo secondo i canoni ermeneutici previsti da ogni singolo ordinamento rimangano zone di oscurità. Sicché, se davvero un comune intendimento tra le parti con riguardo alla clausola in esame vi fosse stato, nemmeno si sarebbe posta la questione della sua abusività per mancata chiarezza. Tuttavia, come emerge dalla narrativa, non sussisteva alcuna volontà comune dei contraenti, ed è proprio la diversità nel modo di intendere la clausola di indicizzazione ad aver dato origine alla controversia.
L’attività ermeneutica avrebbe piuttosto dovuto lasciarsi guidare dai criteri di interpretazione oggettiva: primo tra tutti il principio del favor consumatoris di cui al citato art. 5, dir. 93/13. Tale parametro avrebbe consentito al giudice di interpretare la clausola nel senso più favorevole al consumatore, evitando al contempo di sollevare un rinvio pregiudiziale e di suscitare la reazione della Corte in opposizione all’integrazione giudiziale.
Ciò non toglie che l’argomentazione di quest’ultima, benché coerente con i precedenti giurisprudenziali dello stesso organo, non sembra in realtà pertinente nel caso di specie, in cui un’interpretazione conforme al diritto europeo avrebbe consentito di evitare a monte il giudizio di abusività.
A margine, pare infine utile soffermarsi su un ultimo aspetto. Come si è già osservato, nel caso di specie, la Corte sembra non considerare essenziale la pattuizione controversa. Nondimeno, in un caso pressoché analogo, come quello affrontato nella pronuncia Dziubak, i giudici di Lussemburgo erano andati oltre; in particolare, sottolineando che l’espunzione di una clausola di indicizzazione, ferma restando la validità del contratto, sebbene astrattamente configurabile, sarebbe sfociata in un mutamento della natura dell’operazione.
In effetti, una volta eliminata la pattuizione nulla, il contratto sarebbe divenuto un mutuo non indicizzato. Tuttavia, in base al principio secondo il quale rimarrebbero ferme le altre previsioni contenute nell’accordo, il tasso di interesse permarrebbe immutato e dunque più basso rispetto a quello che si sarebbe fissato nel caso in cui il mutuo fosse stato erogato in valuta locale e non indicizzato.
Nella sopracitata sentenza Dziubak i giudici concludevano nel senso della nullità totale del contratto in ipotesi come quella in oggetto, in cui la sopravvivenza del rapporto sarebbe stata di per sé possibile, ma avrebbe in realtà snaturato l’operazione voluta dai contraenti.
Come si è già affermato, nulla quaestio nel caso in cui esistano norme dispositive idonee a integrare il contratto: si dovrebbe in tal caso seguire il percorso tracciato dalla sentenza Kásler. Rimane da chiedersi tuttavia che cosa accada nell’ipotesi in cui non vi siano norme suppletive volte a disciplinare l’aspetto regolato dalla clausola caducata.
Appare evidente che la conclusione nel senso della nullità totale del contratto condurrebbe in molti casi alla perdita di effettività della tutela consumeristica, in quanto, pur di evitare le conseguenze restitutorie della nullità totale di un contratto, per es. di mutuo, il consumatore potrebbe essere spinto a mantenere in vita il contratto, seppur viziato da una clausola abusiva.
Sono proprio queste le ipotesi nelle quali sarebbe forse opportuno attribuire al giudice un ruolo di maggior rilievo.
A tali situazioni di criticità la Corte ha di recente tentato di fornire una risposta nella sentenza Banca B. SA, riconoscendo al giudice nazionale la facoltà di rinviare le parti a una trattativa finalizzata a giungere a una disciplina equilibrata del profilo su cui verteva la clausola affetta da nullità [33]. Tale proposta non appare tuttavia risolutiva, in quanto lascia residuare il problema qualora i contraenti non pervengano a un accordo.
La negazione tout court di uno spazio di manovra entro il quale il giudice sia legittimato a intervenire in via integrativa al fine di scongiurare una nullità totale svantaggiosa per il consumatore parrebbe invero contraddire la stessa ratio della direttiva e gli obiettivi che la medesima si pone [34].
In una delimitata cerchia casi sarebbe forse sufficiente consentire quella che nell’ordinamento tedesco è conosciuta come ergänzende Vertragsauslegung [35], la cui base giuridica viene rinvenuta nel combinato disposto tra i § 157 e 306, comma 2, BGB [36]. Questa, infatti, non si fonda su elementi soggettivi, bensì integra la disciplina giuridica di un negozio sopperendo alle lacune (anche sopravvenute) del contratto, introducendo norme che – secondo buona fede – realizzano un equilibrio contrattuale oggettivo tra le parti [37].
Stando alla gran parte degli studiosi tedeschi un’attività così configurata non si porrebbe in contrasto con il diritto europeo [38]. In particolare, non contrasterebbe con il menzionato divieto giurisprudenziale di utilizzare disposizioni generali quali norme suppletive, in quanto in effetti a essere introdotte nel contratto sarebbero previsioni riferite al singolo tipo contrattuale preso in considerazione. In altre parole, data una determinata operazione negoziale, la disciplina verrebbe completata, per gli ambiti non coperti dalle norme dispositive, da precetti di creazione giurisprudenziale che ex fide bona consentano di realizzare l’equilibrio tra le parti.
Nell’ordinamento italiano la ‘norma veicolo’ per introdurre nel regolamento contrattuale previsioni che consentano di mantenere in vita il contratto potrebbe essere rappresentata dall’art. 1374 cod. civ., sebbene il medesimo fosse inizialmente riferito soltanto alle lacune originarie dell’accordo. Invero, nel codice del 1942 in caso di nullità per contrarietà a disposizioni imperative erano previsti i meccanismi sostitutivi di cui agli artt. 1339 e 1419, comma 2, cod. civ., mentre una nullità conseguente alla deroga abusiva di norme dispositive nemmeno sarebbe stata immaginabile [39]. Un’interpretazione evolutiva di tale norma, che permetta di utilizzarla anche in queste ultime ipotesi, sembrerebbe tuttavia suggerita dall’esigenza di tutelare il consumatore dalle gravose conseguenze della nullità totale e può trovare una base giuridica nel rinvio di cui all’art. 38 cod. cons., in forza del quale per quanto non previsto dalla disciplina consumeristica deve applicarsi il codice civile [40].
Senz’altro fondate sono le ragioni di scetticismo nei confronti di un potere di revisione da parte del giudice [41]; tuttavia, un utilizzo dell’integrazione giudiziale, guidato dai canoni dell’equità e della buona fede, potrebbe ritenersi giustificato dall’esigenza di evitare la nullità totale: non si tratterebbe di un indiscriminato potere di correzione giudiziale, bensì di un intervento come extrema ratio limitato allo stretto necessario al fine di scongiurare la caducazione tout court del contratto, qualora questa risulti eccessivamente gravosa a carico del consumatore.
Invero, poiché l’intervento integrativo del giudice sarebbe limitato ai casi in cui si tratti di una clausola essenziale e in cui siano assenti norme dispositive e dovrebbe inoltre ispirarsi all’equilibrio degli interessi da realizzare nell’operazione voluta dalle parti, una ricostruzione così configurata, da una parte, non pare concedere al giudice spazi così ampi da minare l’esigenza di uniformità di applicazione della direttiva negli Stati membri ovvero l’effetto deterrente della medesima; dall’altra, avrebbe il pregio permettere la più piena realizzazione della ratio di tutela del consumatore sottesa alla direttiva [42].
[1] Sul significato dell’espressione utilizzata dal legislatore europeo e la sua trasposizione nell’ordinamento italiano in termini di ‘inefficacia’, si veda A. Gentili, L’inefficacia delle clausole abusive, in Riv. dir. civ., 1997, I, 403 ss.
[2] Sottolineano il ruolo fondamentale della giurisprudenza della Corte di Giustizia sul tema S. Pagliantini, L’effettività della tutela consumeristica in stile rococò: massimo e minimo di deterrenza rimediale terra una Corte di giustizia epigona di Dedalo e delle sez. un. 19597/20 sotto scacco di un rinvio pregiudiziale, in Foro it., 2021, V, 275 ss., il quale afferma che la «parabola esegetica della direttiva 93/13/Cee» è «divenuta simbolo per eccellenza di una nomenclatura edittale rimasta formalmente intatta ma perché assiologicamente scalzata da un creazionismo interpretativo della Corte di giustizia sopravanzante la valutazione originaria del legislatore europeo»; nonché G. De Cristofaro, Le invalidità negoziali ‘di protezione’ nel diritto comunitario dei contratti, in Le forme della nullità, a cura di S. Pagliantini, Torino, 2009, 192, secondo il quale la Corte di Lussemburgo è pervenuta «all’elaborazione praeter legem di una serie di principi che sono andati ad affiancare ed integrare i precetti espressamente dettati dall’art. 6 della direttiva 93/13, dando così vita ad un regime normativo assai più ricco e completo di quello contemplato dal testo del provvedimento comunitario».
[3] Corte di Giustizia UE 18 novembre 2021, C-212/20, M.P. c. A. SA, di cui si può leggere un primo commento in J. Gruber, Verbraucherdarlehen in Fremdwährung; missbräuchliche Vertragsklauseln; Auslegung, in Wirtschafts- und Bankrecht, 2022, 104 ss.
[4] In tal senso, cfr. nr. 37 della sentenza in esame, in cui si afferma che «la controversia di cui al procedimento principale non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio dall’altro lato, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, di tale direttiva».
[5] Le stesse argomentazioni si trovano in Corte di Giustizia UE 30 aprile 2014, C-26/13, Árpad Kásler c. OTP Jelzálogbank Zrt. Sulla sentenza, cfr. F. Scavone, Le clausole abusive e gli effetti della declaratoria di nullità nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea: il caso ‘Kàsler c. OTP Jelzalogbank Zrt’, in Contr. impr., 2014, 102 ss. Sui limiti del sindacato della Corte, si vedano M. Dellacasa, Il sindacato sui termini dello scambio nei contratti di consumo: nuovi scenari, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 324 ss.; F. Azzarri, Nullità della clausola abusiva e integrazione del contratto, in Oss. dir. civ. comm., 2017, 48 ss. Per quanto riguarda il nostro ordinamento, l’orientamento della Corte di Lussemburgo è stato altresì recentemente accolto da Cass. 31 agosto 2021, n. 23655, in Giur. it., 2022, 579 ss., con nota di P. Gallo, I mutui indicizzati al franco svizzero al vaglio della Cassazione.
[6] Chiara sul punto è la sentenza in esame al n. 38, ove vengono richiamate le statuizioni di Corte di Giustizia UE 3 marzo 2020, C-125/18, Gómez del Moral Guasch c. Bankia, in Juscivile, 2021, 1957 ss., con nota di V. D’Alessandro, Trasparenza e abusività delle clausole di indicizzazione degli interessi, nella quale, al n. 46, si stabilisce che l’obbligo di chiarezza «si applica in ogni caso, anche quando una clausola rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2, di detta direttiva e anche se lo Stato membro interessato non ha trasposto tale disposizione». Su tale pronuncia, cfr. anche C. Sartoris, Clausola (abusiva) di risoluzione anticipata e poteri del giudice nella sentenza ‘Bankia’ della Corte di Giustizia, in Persona e mercato, 2019, 9 ss.
[7] In precedenza, sul punto, già Corte di Giustizia UE 5 giugno 2019, C-38/17, GT c. HS, in Foro it., 2020, IV, 23 ss., con nota di A. Iuliani, La trasparenza consumeristica nell’interpretazione della Corte di giustizia e della dottrina; nonché in Nuova giur. civ. comm., 2020, I, 16 ss., con nota di E. Valletta, Finanziamenti in valuta estera: l’omessa indicazione del tasso di cambio nel contratto. Di recente, anche Corte di Giustizia UE 10 giugno 2021, C-776/19 e C-782/19, BNP Paribas Personal Finance; Corte di Giustizia UE 3 marzo 2020, C-125/18, Gómez del Moral Guasch c. Bankia.
[8] Il tema è stato affrontato ampiamente da S. Pagliantini, L’effettività della tutela consumeristica in stile rococò, cit., 275 ss.; Id. Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 561 ss.; A. D’Adda, Integrazione del contratto, in Enc. dir. – I tematici, Contratto, Milano, 2021, 626 ss.; Id., Giurisprudenza comunitaria e ‘massimo effetto utile per il consumatore’: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, in Contratti, 2013, 22 ss.; Id., Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, Padova, 2008, 173 ss.; F. Azzarri, Nullità della clausola abusiva e integrazione del contratto, cit., 37 ss.; F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, 554 ss.; F.P. Patti, Clausola vessatoria sugli interessi moratori e integrazione del contratto, in Contratti, 2014, 737 ss.; G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, in S. Pagliantini, G. D’Amico, Nullità per abuso ed integrazione del contratto. Saggi, Torino, 2013, 213 ss.; L. Valle, La nullità delle clausole vessatorie: le pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e il confronto con le altre nullità di protezione, in Contr. impr., 2011, 1407 ss.; Id., L’inefficacia delle clausole vessatorie, Padova, 2004; A. Federico, L’integrazione del contratto e la giurisprudenza della Corte di Giustizia sulle clausole abusive, in Complessità e integrazione delle fonti nel diritto privato in trasformazione. Convegno in onore del prof. V. Scalisi (Messina, 27-28 maggio 2016), Milano, 2018, 297 ss.; Id., Profili dell’integrazione del contratto, Milano, 2008; F. Di Marzio, Deroga abusiva al diritto dispositivo, nullità e sostituzione di clausole nei contratti del consumatore, in Contr. impr., 2006, 673 ss. Di recente, anche M.P. Gervasi, Clausole abusive e mutui ipotecari secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Giur. it., 2021, 1576 ss.; C. Sartoris, Nullità di protezione e integrazione del contratto, in Riv. dir. priv., 2020, 609 ss.; P. Iamiceli, Nullità parziale e integrazione del contratto nel diritto dei consumatori tra integrazione cogente, nullità ‘nude’ e principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle tutele, in Giust. civ., 2020, 713 ss.; P. Mengozzi, La Corte di giustizia e la trasparenza da assicurare nella conclusione di contratti con i consumatori, in Studi sull’integrazione europea, 2019, 765 ss. In precedenza, già L. Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei ‘contratti del consumatore’ nel sistema del codice civile, in Studi in onore di P. Rescigno, III.2, Milano, 1998, 535 ss.; V. Rizzo, Clausola ‘dubbia’ e interpretazione ‘più favorevole’ al consumatore (Art. 1469-quater, comma 2, c.c.), in Studi in onore di P. Rescigno, III.2, Milano, 1998, 673 ss.; C. Castronovo, Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, in Eur. dir. priv., 1998, I, 5 ss.; S. Mazzamuto, L’inefficacia delle clausole abusive, in Eur. dir. priv., 1998, I, 45 ss.
[9] Circa la derogabilità del diritto dispositivo, si veda l’ampia analisi di M. Grondona, Ritardo nel pagamento e debolezza del creditore: operatività e limiti dell’autonomia privata contrattuale, Torino, 2011, 97 ss.
[10] Si cita la formulazione letterale dell’art. 3, dir. 93/13. Sul tenore linguistico di tale articolo, in particolare sull’inciso in base al quale, ai fini dell’abusività, il citato squilibrio debba riscontrarsi «malgrado la buona fede», si veda E. Ferrante, Alcune considerazioni ‘malgrado’ o ‘contro’ la buona fede dopo la rettifica della dir. Ce 13/93, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 541 ss.
[11] Così Corte di Giustizia UE 14 giugno 2012, C-618/10, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, in Contratti, 2013, 16 ss., con nota di A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e ‘massimo effetto utile per il consumatore’: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, in cui, al punto 65, si legge: «risulta pertanto dal tenore letterale del paragrafo 1 di detto articolo 6 che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti del consumatore, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile».
[12] In questo senso, sempre Corte di Giustizia UE 14 giugno 2012, C-618/10, cit., in particolare al punto 69.
[13] Avanza tale considerazione P. Gallo, I mutui indicizzati al franco svizzero al vaglio della Cassazione, in Giur. it., 2022, 586.
[14] Così S. Pagliantini, Profili sull’integrazione del contratto abusivo parzialmente nullo, in S. Pagliantini, G. D’Amico, Nullità per abuso ed integrazione del contratto. Saggi, Torino, 2013, 123 s.
[15] Corte di Giustizia UE 30 maggio 2013, C-488/11, Asbeek Brusse c. Jahani BV. Sulla pronuncia, si vedano R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Jőrös e Asbeek Brusse, in Juscivile, 2013, 388 ss.; M. Dellacasa, Judicial review of ‘core terms’in consumer contracts: defining the limits, in ERCL, 2015, 152 ss.
[16] Corte di Giustizia UE 26 marzo 2019, C-70/17 e C-179/17, Abanca Corporación Bancaria SA c. Al. Ga.
[17] Corte di Giustizia UE 29 aprile 2021, C-19/20, I.W. c. Bank BPH SA.
[18] Su questo aspetto, cfr. S. Pagliantini, Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, cit., 561 s.
[19] L’integrazione mediante norme dispositive in ipotesi di nullità di clausole essenziali è ammessa da Corte di Giustizia UE 30 aprile 2014, C-26/13, Árpad Kásler c. OTP Jelzálogbank Zrt. Sulla sentenza, ampiamente S. Pagliantini, I mutui indicizzati ed il mito di un consumatore ‘costituzionalizzato’: la ‘dottrina’ della Corte di Giustizia da ‘Árpád Kásler’ a ‘Dziubak’, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1258 ss. Aveva sostenuto l’ammissibilità dell’integrazione mediante norme dispositive già parecchi anni prima C. Castronovo, Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, cit., 41 s.
[20] La rilevabilità d’ufficio è stabilita anche in Corte di Giustizia UE 30 maggio 2013, C-397/11 Jőrös c. Aegon Magyarország Hitel Zrt, cu cui R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Jőrös e Asbeek Brusse, cit., 388 ss.
[21] A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e ‘massimo effetto utile per il consumatore’, cit., 26 s.; Id., Integrazione del contratto, cit., 632; S. Pagliantini, Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, cit., 563 s.; D. Valentino, La caducazione delle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori tra giurisprudenza nazionale e giurisprudenza comunitaria, in Persona e mercato, 2016, 165 s. In favore dell’integrazione mediante norme dispositive si esprimeva, già al termine del secolo scorso, C. Castronovo, Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, cit., 39 ss. Fondano sull’art. 1374 cod. civ. la legittimità dell’integrazione mediante norme suppletive F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., 559; F.P. Patti, Clausola vessatoria sugli interessi moratori e integrazione del contratto, in Contratti, 2014, 744.
[22] A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e ‘massimo effetto utile per il consumatore’: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, cit., 30; F. Azzarri, Nullità della clausola abusiva e integrazione del contratto, cit., 66.
[23] Così osserva S. Pagliantini, Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, cit., 563.
[24] L’art. 5, dir. 93/13, dispone che «in caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore». Circa tale criterio, si veda S. Pagliantini, L’interpretazione dei contratti asimmetrici nel canone di Gentili e della Corte di Giustizia (il dopo Radlinger aspettando le clausole ‘floor’, sullo sfondo del nuovo art. 1190 ‘Code civil’), in Contratti, 2016, 1029 ss.; Id., Interpretazione (ed integrazione) dei contratti asimmetrici (Atto secondo), in Contratti, 2016, 1147 ss.
[25] Circa i confini tra interpretazione e integrazione, cfr., per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto2, Milano, 2000, 412 s.; L. Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1991, 23 ss.; V. Calderai, Interpretazione dei contratti e argomentazione giuridica, Torino, 2008, 392 s.
[26] V. Roppo, Il contratto2, Milano, 2011, 436, definisce l’interpretazione come «l’operazione che individua il giusto significato dei segni con cui le parti hanno manifestato la volontà contrattuale». Sul ruolo dell’interpretazione, si veda C. Scognamiglio, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, Padova, 1992.
[27] Per V. Roppo, Il contratto2, cit., 457, l’integrazione consiste nella «costruzione del regolamento contrattuale ad opera di fonti eteronome, cioè diverse dalla volontà delle parti». Sulla disciplina codicistica dell’integrazione del contratto, cfr. S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 2004; M. Barcellona, Un breve commento sull’integrazione del contratto, in Quadrimestre, 1988, 524 ss.; C. Scognamiglio, L’integrazione, in I contratti in generale2, a cura di E. Gabrielli, Assago, 2006, 1149 ss.; M. Franzoni, Degli effetti del contratto, II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, in Il codice civile. Commentario. Art. 1374-1381, fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2013; F. Sangermano, Il controllo giudiziale dell’equilibrio delle prestazioni contrattuali tra apparente interpretazione correttiva e reale integrazione dell’atto di autonomia privata, in Nuova giur. civ. comm., 2015, II, 758 ss. Per uno studio sul ruolo e la disciplina dell’integrazione contrattuale in comparazione tra diversi ordinamenti di civil law e common law, si veda V. Bongiovanni, Integrazione del contratto e clausole implicite, Milano, 2018.
[28] Con gli stessi argomenti nega la natura di norma suppletiva a una disposizione nazionale che preveda l’integrazione per mezzo di usi ed equità Corte di Giustizia UE 3 ottobre 2019, C-260/18, Dziubak c. Raiffeisen Bank International AG, in Foro it., 2020, IV, 22 ss., con nota di A. Palmieri, Il ruolo trainante della Corte di Giustizia nella messa in opera della disciplina sulle clausole abusive. Spunti dal caso ‘Dziubak’ e dintorni. Fortemente critico nei confronti di tale decisione F. Esposito, ‘Dziubak’ is a fundamentally wrong decision: superficial reasoning, disrespectful of national courts, lowers the level of consumer protection, in ERCL, 2020, 538 ss.
[29] Tale riflessione si legge in Corte di Giustizia UE 3 ottobre 2019, C-260/18, Dziubak c. Raiffeisen Bank International AG, cit., al n. 61, in cui si afferma che le norme in esame «non risultano, in ogni caso, essere state oggetto di una valutazione specifica del legislatore al fine di stabilire tale equilibrio, di modo che tali disposizioni non beneficiano della presunzione di non abusività». Sul punto, S. Pagliantini, I mutui indicizzati ed il mito di un consumatore ‘costituzionalizzato’, cit., 1283; S. Pagliantini, A. Palmieri, Il post-vessatorietà come una ‘Baustelle im Dunkeln’?, in Foro it., 2021, IV, 294 ss.
[30] Cfr. Corte di Giustizia UE 31 marzo 2022, C-472/20, Lombard Pénzügi és Lízing ZRT c. PN.
[31] V. Roppo, Il contratto2, cit., 440, sottolinea infatti che «il vecchio brocardo in claris non fit interpretatio va dunque respinto, se lo s’intende nel senso che la chiarezza del testo contrattuale esclude radicalmente l’attività interpretativa».
[32] Nel senso della precedenza dell’interpretazione rispetto all’integrazione, di recente, A. D’Adda, Integrazione del contratto, cit., 611.
[33] Si fa riferimento a Corte di Giustizia UE 25 novembre 2020, C-269/19, Banca B. SA c. A.A.A., in Foro it., 2021, IV, 288 ss., con nota di S. Pagliantini, A. Palmieri, Il post-vessatorietà come una ‘Baustelle im Dunkeln’?.
[34] C. Castronovo, Profili della disciplina nuova delle clausole c.d. vessatorie cioè abusive, cit., 37, già nei primi anni che seguirono all’emanazione della direttiva sottolineava che «ogni soluzione interpretativa che, sotto pretesto di un rigore ermeneutico orientato in senso opposto a quello significato dal legislatore con le parole riferite, avesse come esito finale la delusione dell’interesse del consumatore andrebbe contro lo spirito della legge o, in termini più tradizionali, contro la volontà del legislatore».
[35] In generale, in tema di ergänzende Vertragsauslegung, si vedano, per tutti, H. Kötz, Dispositives Recht und ergänzende Vertragsauslegung, in JuS, 2013, 289 ss.; U. Ehricke, Zur Bedeutung der Privatautonomie bei der ergänzenden Vertragsauslegung, in RabelsZ, 1996, 661 ss.; W. Henckel, Die ergänzende Vertragsauslegung, in AcP, 1960/1961, 106 ss. In lingua italiana, V. Bongiovanni, Integrazione del contratto e clausole implicite, cit., 91 ss.
[36] Sin dalla pronuncia del BGH 1 febbraio 1984, in Neue juristische Wochenschrift, 1984, 1177 s., la giurisprudenza tedesca ha infatti incluso nella locuzione «gesetzliche Vorschriften» norme e principi deducibili mediante interpretazione integrativa. Sul punto, si veda l’analisi di M.C. Dalbosco, La ‘Tagespreisklausel’nell’esperienza giuridica tedesca, in Riv. dir. civ., 1986, I, 91 ss.
[37] Sottolinea questo aspetto C. Herresthal, Unionsrechtskonformität der ergänzenden Vertragsauslegung bei unwirksamen AGB-Klauseln, in Neue juristische Wochenschrift, 2021, 589 ss., secondo la quale nella ergänzende Vertragsauslegung «Ziel ist nicht die Durchsetzung der Privatautonomie der konkreten Vertragsparteien des Rechtsstreits durch das Zu-Ende-Denken der konkreten privatautonomen Regelung, sondern die Durchsetzung von beiderseitigem Interessenschutz mittels Vorgabe einer judikativ formulierten Ersatzregelung».
[38] Nel senso della conformità della ergänzende Vertragsauslegung al diritto europeo, si veda, C. Herresthal, Unionsrechtskonformität der ergänzenden Vertragsauslegung bei unwirksamen AGB-Klauseln, cit., 589 ss., nonché gli autori ivi citati in nt. 2. Cfr., inoltre, F. Azzarri, Nullità della clausola abusiva e integrazione del contratto, cit., 58 s., nt. 27.
[39] G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, cit., 262, nt. 94.
[40] Discorre di «interpretazione evolutiva» G. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante il diritto dispositivo, cit., 262, nt. 94; mentre A. Federico, L’integrazione del contratto e la giurisprudenza della Corte di Giustizia sulle clausole abusive, cit., 316, esprimendosi in favore dell’applicabilità dell’art. 1374 cod. civ. al fine di integrare il contratto a seguito della nullità di una clausola in forza del rinvio di cui all’art. 38 cod. cons., sostiene che «non sembra che possa parlarsi soltanto di una interpretazione evolutiva, ma, piuttosto di una diversa funzione assolta dall’integrazione, conformativa, appunto, del regolamento contrattuale». Favorevole a un intervento integrativo del giudice, come extrema ratio, P. Gallo, I mutui indicizzati al franco svizzero al vaglio della Cassazione, cit., 586.
[41] Con riguardo alle ragioni del rifiuto dell’integrazione giudiziale, si rinvia al § 2.
[42] S. Pagliantini, A. Palmieri, Il post-vessatorietà come una ‘Baustelle im Dunkeln’?, cit., 299 s., affermano che «se una rettifica giudiziale può servire a sterilizzare gli effetti di una nullità totale sconveniente, il diritto nazionale che dovesse prevederla incrementerebbe (in realtà) il livello di tutela consumeristica».