Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Scelta del rimedio e sua convenienza: il caso dei finanziamenti in valuta straniera ai consumatori (di Federico Pistelli, Ricercatore – Università degli Studi di Trento)


La Corte di Giustizia Europea torna a pronunciarsi su una vicenda legata alla vessatorietà delle clausole di indicizzazione al cambio con la valuta estera nei mutui ai consumatori. A seguito dell’entrata in vigore della legge ungherese che converte il meccanismo di doppia indicizzazione all’indicizzazione semplice, la Corte si interroga sui limiti che il consumatore incontra nella scelta del rimedio dell’annullamento del contratto. Dopo aver ripercorso le tappe della giurisprudenza europea sull’integrazione del contratto per vessatorietà di una clausola essenziale, lo scritto si propone di discutere l’applicazione del criterio dello status quo ante nell’ambito della regolazione del rischio.

Parole chiave: tutela consumatori – clausole vessatorie – finanziamenti in valuta – rischio finanziario.

The limits to consumer’s choice of remedies: the case of foreign currency loans

The European Court of Justice rules on a case concerning the unfairness of indexation clauses in a consumer foreign currency loan. Following the approval of the Hungarian law, which introduced a State-driven conversion of double indexation clauses into simple indexation, the ECJ questions the limit for consumers to either opt for the remedy of the annulment of the contract, or for the abovementioned conversion mechanism. After a brief analysis of the ECJ case law on the consequences of the unfairness of contractual core terms, the essay focuses on the application of the “status quo ante” criterion to regulate the allocation of financial risk among the parties.

Keywords: consumer law – unfair terms – foreign currency loans – financial risk.

L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che, per quanto riguarda i contratti di mutuo conclusi con un consumatore, commini la nullità di una clausola relativa al divario nel cambio considerata abusiva e obblighi il giudice nazionale competente a sostituire a quest’ultima una disposizione di diritto nazionale che impone l’uso di un tasso di cambio ufficiale, senza prevedere la possibilità, per il giudice, di accogliere la domanda del consumatore interessato diretta all’annullamento dell’intero contratto di mutuo, quand’anche lo stesso giudice ritenga che la conservazione del contratto sia contraria agli interessi del consumatore, in particolare alla luce del rischio di cambio che quest’ultimo continuerebbe a sopportare in base ad un’altra clausola del contratto, purché in compenso il medesimo giudice, nell’esercizio del suo pieno potere discrezionale e senza che la volontà espressa dal consumatore possa prevalere su quest’ultimo, ravvisi che l’applicazione delle misure previste dalla normativa nazionale consente effettivamente di ripristinare la situazione di diritto e di fatto in cui il consumatore si sarebbe trovato in assenza di tale clausola abusiva.

 

Corte di Giustizia UE, Sez. VI, sentenza 2 settembre 2021, C-932/19

SOMMARIO:

1. Il fatto - 1.1. I finanziamenti in valuta, la trasformazione del mercato immobiliare e i costi del compromesso politico - 1.2. La soluzione “ungherese” - 1.3. Il problema della scelta del rimedio - 2. I precedenti - 2.1. La genesi della dottrina della crisi fra Banco Espańol e Kásler - 2.2. Il trittico sull’integrazione eteronoma del contratto - 3. Il “peso” della scelta in OTP: convenienza del rimedio e controllo sul ripristino dello status quo ante - 4. Status quo ante e allocazione del rischio - NOTE


1. Il fatto

La pronuncia da cui questo lavoro trae spunto [1] si colloca all’interno del filone giurisprudenziale europeo che ha analizzato le differenti sfaccettature del problema della tutela del consumatore mutuatario [2] e dei limiti alla scelta del rimedio in presenza di un intervento normativo che vesta la “nullità nuda” derivante da abusività della clausola [3].

La vicenda che dà origine alla causa ha caratteri di “serialità” tali da renderne sufficiente una rapidissima disamina. Si discorre di contratti di credito al consumo, nella specie, di un prestito personale, di uno ipotecario e di un rifinanziamento di un debito precedente, denominati in valuta estera al cambio fra fiorino ungherese e franco svizzero [4]. Sebbene la categoria del “prestito in valuta straniera” sia spesso maneggiata attribuendogli un significato ampio, inclusivo di ogni tipologia di finanziamento che implichi lato sensu il coinvolgimento di una valuta estera, esistono differenze di non poco conto tra un debito di valuta straniera, uno espresso ed uno indicizzato alla valuta straniera [5]. Senza addentrarsi eccessivamente in tecnicismi, la figura al vaglio della Corte si struttura attraverso un complicato sistema di conversione finanziaria del mutuo, per effetto della quale le parti concordano che la somma erogata a mutuo sia espressa e debba essere altresì restituita nella valuta domestica di riferimento del prenditore, ma per l’ammontare necessario ad acquistare il corrispondente capitale in moneta straniera, al cambio di mercato alle singole scadenze. Tanto, dunque, il valore complessivo del debito, quanto quello delle singole rate in ammortamento non sono prevedibili al momento dell’accensione del prestito, poiché entrambi sono fatti dipendere dall’andamento del rapporto di cambio fra la divisa domestica e quella estera al tempo di riferimento. Questo meccanismo risponde al nome di “indicizzazione” o “parametrazione” – quest’ultimo termine più familiare al civilista italiano [6].

Salvo, tuttavia, una generica censura relativa all’insufficienza delle informazioni fornite al consumatore – cui la Corte, nella sentenza in esame, non sembra peraltro dar specifico seguito –, l’assunzione in sé di un rischio di cambio per effetto del meccanismo di indicizzazione non è direttamente contestato nel ricorso, che si incentra invece sulle modalità di determinazione dei tassi di cambio. I modelli contrattuali d’uso presso gli intermediari collocatori di questi prodotti prevedono difatti che il calcolo delle rate mensili di rimborso avvenga in base al corso di vendita della valuta estera applicato dall’intermediario, mentre l’importo del prestito erogato è fissato sulla base del corso di acquisto applicato per la stessa divisa. È insita, dunque, all’interno del suddetto meccanismo differenziale la possibilità per la banca di profittare in via unilaterale delle variazioni di mercato, addossando al cliente le eventuali oscillazioni dovute all’apprezzamento della valuta estera rispetto a quella nazionale.

Proprio l’esistenza di quest’ultima clausola “differenziale” era stata motivo del ricorso, avendo il consumatore domandato al giudice di prima istanza la nullità dei tre contratti per abusività del meccanismo di cambio. Ritenuta infondata in primo grado, la pretesa è stata poi avanzato in appello, nel contesto del quale il giudice adito ha proposto il rinvio pregiudiziale alla Corte relativamente alla compatibilità del diritto interno ungherese (§I.2.) con l’art. 6, § 1, direttiva 93/13 (UCTD), poiché il primo trova applicazione quand’anche il consumatore leso abbia espresso una volontà contraria.

Dopo una breve disamina delle ragioni dietro alla diffusione dei prodotti in valuta nel mercato immobiliare est-europeo (I.1.) e della reazione del legislatore ungherese per limitare i costi per i consumatori (I.2.), lo scritto si incentrerà sul problema oggetto del rinvio alla Corte: quello dell’ampiezza e dei limiti del potere di scelta del rimedio da parte del consumatore (I.3.). La vicenda dei mutui in valuta rappresenta difatti uno dei terreni in cui la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha saputo far uso, in chiave evolutiva, dei principi espressi dalla UCTD (II-II.1.), attraverso un percorso che ha stabilito i contorni dell’integrazione eteronoma di un contratto espunto di clausole essenziali (II.2). La pronuncia in commento (III) fissa un nuovo tassello nella definizione dei limiti che il consumatore incontra nello scegliere il rimedio della “nullità nuda” in presenza di un intervento legislativo che abbia già vestito il contratto spogliato di una sua clausola essenziale. L’obiettivo, in particolare, è quello di discutere l’applicazione del criterio dello status quo ante in riferimento alle clausole che regolino il riparto del rischio (IV).


1.1. I finanziamenti in valuta, la trasformazione del mercato immobiliare e i costi del compromesso politico

Il caso all’attenzione della Corte presenta connotati del tutto analoghi a migliaia di ricorsi ricevuti dalle corti di merito di diverse aree europee. Da circa metà degli anni 2000, rapporti di questo tipo si sono difatti diffusi in larghissima parte degli ordinamenti dell’area continentale europea – in particolar modo, in quelli dell’area est-europea e balcanica, dove hanno persino raggiunto un volume superiore all’80% dell’ammontare totale di finanziamenti erogati [7]. La possibilità di avvalersi di queste tipologie di finanziamenti ha favorito, come sottolineato in una molteplicità di studi [8], una radicale transizione del mercato immobiliare nei paesi appartenenti al blocco dell’ex Unione Sovietica, da un sistema a prevalenza pubblica, ad uno basato sugli incentivi all’householding privato. Specie per le fasce medie di reddito della popolazione, le possibilità di avvalersi di canali di finanziamento a basso costo rappresentava, alle porte del nuovo millennio, il viatico quasi esclusivo per l’acquisto di immobili da adibire a prima casa. In particolare, in Ungheria, dopo una prima fase connotata dall’erogazione di consistenti sussidi pubblici a programmi di finanziamento (2000-2004), l’insostenibilità di tali esborsi per le casse dello Stato spinsero all’affidamento di queste politiche, durante la seconda fase (2005-2008), al mercato del credito privato. Gli elevati tassi di interesse applicati dalla Banca Nazionale Ungherese alle riserve in fiorini rendevano oltremodo più conveniente la scelta orientata verso home equity loans indicizzati al cambio con valute più stabili, come il dollaro, lo yen giapponese e, per l’appunto, il franco svizzero: già nel 2008, circa il 63% dell’ammontare totale di finanziamenti prima casa appartenevano difatti al ramo FX-lending [9].

Seguendo il proverbiale aforisma “not all that glitters is gold”, questo sistema celava in realtà una contropartita, consistente nell’accumulo di un rischio finanziario legato alle oscillazioni di valore tra la divisa domestica e quella estera, che avrebbe difatti inciso in modo determinante sull’ammontare dell’importo dovuto in ammortamento del mutuo e della sua eventuale estinzione anticipata. L’eventualità di un default – anche ove fosse nota agli esperti di settore – era tuttavia relegata al mondo della astratta possibilità, data l’euforia irrazionale che aleggiava attorno alla solidità e alla crescita del mercato mobiliare [10].

Ebbene, lo sviluppo storico è purtroppo ben noto, e l’effetto contagio prodotto dalla crisi americana non ha tardato a manifestare le sue conseguenze nell’ambito di cui ci occupiamo [11]. Le principali valute di riferimento impiegate per l’indicizzazione dei prestiti hanno subìto un consistente e duraturo apprezzamento rispetto alle valute più deboli degli ordinamenti afferenti e non all’area euro, determinando così il levitare dei costi sopportati dai consumatori e, in molti casi, l’impossibilità di far fronte agli impegni contrattualmente assunti.

Il legislatore euro-unitario – su stimolo del neonato Comitato Europeo per il Rischio Sistemico [12] – è intervenuto nel cercare di dettare una disciplina di contorno applicabile ai mutui in valuta estera nel contesto della direttiva sui mutui immobiliari ai consumatori (art. 23, Direttiva 2014/17/EU) [13]. Nell’unica previsione che il regolatore europeo dedica alla figura si legge che il prestatore ha l’obbligo di comunicare al consumatore le variazioni di valore dell’importo totale o delle rate periodiche residue a suo carico, quando esse superino il 20 % del valore che si avrebbe se si applicasse il tasso di cambio tra la valuta del contratto di credito e la valuta domestica al tempo della conclusione del contratto di credito (art. 23, § 4, dir. 14/17). Questa comunicazione è funzionale all’esercizio da parte del consumatore del diritto alla conversione del finanziamento nella propria valuta domestica di riferimento, al cambio attuale o a quello diversamente stabilito all’interno del contratto (art. 23, § 1, dir. 14/17). Il rimedio della conversione si ispira in modo evidente alla esigenza di garantire la sopravvivenza del rapporto, controllando l’aumento dell’esposizione al rischio nel corso della sua esecuzione e consentendo così, al superamento di determinate soglie, di trasformare il rapporto in finanziamento domestico [14].

Così confezionato, il rimedio non risponde – né, d’altra parte, sembrava essere questa l’intenzione del legislatore europeo [15] – al bisogno di tutela ingenerato dal contenzioso pregresso. Questi rapporti sono, da un lato, esplicitamente esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva, che disciplina unicamente i finanziamenti accesi dopo il 21 marzo 2016 (art. 43, dir. 14/17) [16]. Dall’altro – ed il rilievo vale esclusivamente pro-futuro – è ragionevole dubitare dell’effettiva portata dissuasiva del rimedio della conversione, non tanto per l’astratta inidoneità di questo strumento a contenere il rischio di cambio in rapporti in valuta straniera, quanto piuttosto per la sua concreta modulazione all’interno dell’anzidetta disposizione. La direttiva, con un’opzione di policy del tutto peculiare in ambito di disciplina di protezione del consumatore, stabilisce che “se un consumatore ha il diritto di convertire il contratto di credito in una valuta alternativa […] gli Stati membri garantiscono che il tasso di cambio al quale avviene la conversione sia il tasso di mercato applicabile il giorno della domanda di conversione, salvo se diversamente precisato nel contratto di credito” (art. 23, § 3, dir. 14/17) [17]. L’esperienza in commento ha difatti evidenziato come il vero impasse del meccanismo di conversione non stia tanto nell’assenza del relativo diritto del consumatore, quanto nella sua concreta determinazione, poiché una conversione a tasso sfavorevole non costituisce una opzione effettivamente praticabile per il mutuatario per evitare l’insorgere di una situazione di sovraindebitamento [18].


1.2. La soluzione “ungherese”

Orbene, gli ordinamenti più direttamente interessati dalle implicazioni sistemiche delle crisi da sovraindebitamento dei mutuatari sono ricorsi ad interventi pubblici di riduzione ad equità dei rapporti più controversi [19].

In particolare, spinta delle aperture manifestate della Corte Europea, l’Ungheria aveva adottato nel corso del 2014 alcuni provvedimenti di conformazione dei finanziamenti in franchi svizzeri convenuti sul territorio nazionale. In quest’ottica, le clausole differenziali discusse nel § I. e oggetto di attenzione della Corte in JZ c. OTP, rappresentavano il modello di indicizzazione più diffuso sul territorio nazionale ed erano ritenute, di conseguenza, le più problematiche da parte del legislatore ungherese.

Gli anzidetti interventi sono meglio noti con il nome di leggi DH1, DH2 e DH3 [20].

In sintesi, si prevede che, nei contratti conclusi con i consumatori tra il 1° maggio 2004 e la data di entrata in vigore della legge [2014], “è nulla – a meno che non si tratti di una condizione contrattuale oggetto di negoziato individuale – la clausola in virtù della quale l’istituto di credito decide di applicare il tasso di acquisto al momento dell’erogazione dei fondi destinati all’acquisto del bene oggetto del mutuo o del leasing finanziario, mentre al rimborso si applica il tasso di vendita, o qualsiasi altro tasso di cambio di tipo diverso da quello fissato al momento dell’erogazione dei fondi”. Il vuoto così creato viene però colmato dalla previsione successiva, secondo cui “la clausola viziata da nullità […] è sostituita da una disposizione che prevede l’applicazione del tasso di cambio ufficiale fissato dalla Banca nazionale [di Ungheria] per la valuta corrispondente, sia per quanto riguarda l’erogazione dei fondi sia per quanto riguarda il rimborso (compreso il pagamento delle rate mensili e di tutti i costi, le spese e le commissioni espressi in valuta).

A bene vedere, dunque, tale meccanismo non opera una conversione del finanziamento in senso stretto, ossia non trasforma un prestito in valuta straniera in uno corrispondente in valuta domestica. Fatto salvo il meccanismo di indicizzazione al cambio tra fiorino ungherese e franco svizzero, ad essere colpita con la nullità è la sola clausola che distingue il tasso di erogazione da quello del rimborso, poiché è attraverso di essa che viene a realizzarsi un’allocazione asimmetrica del rischio fra le parti. La volontà del regolatore ungherese di lasciar inalterata la natura di rapporto in valuta domestica emerge, d’altronde, dalla sostituzione della clausola nulla – che, se nuda, avrebbe compromesso il funzionamento stesso del contratto – con un diverso, e più equo, meccanismo di suddivisione del rischio di cambio. Dal punto di vista della determinazione del “prezzo” [21], il costo del denaro continua così ad essere parametrato al cambio con una valuta estera, seppur ad un tasso che dipende da quello correntemente applicato dalla Banca nazionale di Ungheria, al momento della maturazione della rata, ovvero dell’esercizio del diritto all’estinzione anticipata. Da quello, invece, del “rischio”, la sostituzione del meccanismo differenziale con una clausola di indicizzazione “semplice” comporta un sostanziale riequilibrio nella posizione delle parti, entrambe le quali saranno dunque soggette all’im­patto assunto, rispettivamente, dalle oscillazioni positive o negative del mercato.


1.3. Il problema della scelta del rimedio

Riepilogando. Dal menù rimediale a disposizione del consumatore ungherese andrà anzitutto escluso il diritto alla conversione previsto dalla direttiva 2014/17/UE, poiché al di fuori dell’ambito di applicazione ratione temporis della disciplina europea e, in ogni caso, inutile, perché i rapporti si erano già conclusi. L’unico rimedio applicabile parrebbe, dunque, quello della sostituzione ex lege della clausola differenziale abusiva con un meccanismo di parametrazione semplice al cambio, in conformità alla legge ungherese; rimedio che tuttavia, lo ripetiamo, non sgrava il consumatore dagli oneri che sottendono al meccanismo di cambio fra valute.

Vi è però un aspetto ulteriore da tenere in considerazione.

A fianco dei rimedi “specifici” sul controllo del rischio appena esaminati, il consumatore gode altresì dell’apparato rimediale “generale” delineato dalla UCTD, che riconosce la non vincolatività delle clausole abusive nei contratti stipulati fra professionisti e consumatori (art. 6, § 1 UCTD). Una non vincolatività le cui conseguenze pratiche – è noto – dipendono dall’appartenenza della clausola ai “core”, ovvero agli “ancillary” terms dell’accordo [22]. Nel primo caso – e solo in presenza di vizi che abbiano inficiato la chiarezza e la comprensibilità della clausola (art. 4, § 2 UCTD) – il venir meno della convenzione che definisce l’oggetto principale del contratto trascina dietro di sé le sorti dell’intero accordo. Diversamente, quando la clausola definisca un aspetto accessorio del contratto, la non vincolatività avrà, di regola, la forma di una nullità parziale, purché l’accordo possa restare in piedi in assenza della convenzione abusiva [23].

Rispetto dunque alla sostituzione ex lege del meccanismo differenziale sembrerebbe porsi, alla luce delle disposizioni della UCTD, anche l’ulteriore possibilità per il consumatore di far valere la nullità “nuda”, ossia svestita da una qualunque forma di integrazione della clausola di indicizzazione al cambio.

Sennonché il problema – e di qui l’uso del termine “scelta del rimedio” – sembrerebbe così spostarsi sull’identificazione dei limiti che il consumatore incontra nel proporre una domanda di annullamento integrale del contratto, quando il legislatore nazionale sia già intervenuto nel porre rimedio alla situazione di squilibrio generata dalla clausola; e, specularmente, se il giudice debba ritenersi obbligato a sostituire la clausola in conformità della previsione normativa, anche ove egli reputi che la conservazione del contratto risulterebbe contraria agli interessi del consumatore. Osservando la vicenda nella prospettiva pratica della soluzione maggiormente conveniente per il consumatore, è indubbio che la radicale invalidità del rapporto recherebbe un vantaggio ben maggiore – i.e. si elimina il rischio del contratto – di quello che deriva dalla espunzione della sola clausola differenziale e della sua integrazione ex lege i.e. si elimina quel rischio, ma non ogni rischio.

Si comprende così il rovesciamento di prospettiva che la vicenda impone di adottare.

Da un lato, quella di riconoscere una facoltà – e, conseguentemente, dei limiti – per il consumatore nel saggiare la convenienza di un rimedio, eventualmente optando per la soluzione ablativa anche ove il legislatore sia intervenuto per far cessare l’inserzione della clausola preservando la sopravvivenza del rapporto. Dall’altro lato, quella di interrogarsi se l’intervento con il quale il legislatore abbia rimediato all’abusività di una clausola sia o meno suscettibile di un controllo giudiziale circa la adeguatezza e l’efficacia dei mezzi impiegati (art. 7, § 1, UCTD), nella prospettiva di una sua conformità al portato dell’art. 6, § 1, UCTD, quantomeno secondo la lettura datane dalla Corte di Giustizia. Nessun dubbio si porrebbe infatti in tutti quei casi in cui la nullità parziale fosse comunque l’alternativa più conveniente rispetto alla caducazione integrale dell’accordo. Il tema si pone invece con tutta evidenza quando l’intervento normativo che dispone l’integrazione del contratto miri a realizzare un bilanciamento fra il canone di maggior tutela per il consumatore [24] e la garanzia della stabilità del sistema finanziario avverso le conseguenze a cascata di una pronuncia di vessatorietà di clausole seriali [25].


2. I precedenti

La comprensione del percorso argomentativo seguito dalla Corte presuppone il confronto con alcune tappe intermedie di un itinerario che aveva già condotto i giudici del Lussemburgo a ridiscutere i contorni di un sindacato che non può tener conto della vessatorietà di clausole che definiscano l’oggetto principale e l’equilibrio economico del contratto [26].

Gli stretti margini concessi dall’art. 4, § 2, UCTD hanno infatti imposto alla Corte l’adozione di taluni escamotages nella formulazione di giudizi relativi a clausole che definissero la struttura portante e le caratteristiche finanziarie di un rapporto di credito, come quelle di indicizzazione. Anzitutto, quello dell’inter­pretazione pretoria che estende l’obbligo di chiarezza e comprensibilità fino a ricomprendervi un dovere implicito dell’intermediario di informare il consumatore, non solamente sui meccanismi di funzionamento, ma altresì delle conseguenze economiche derivanti dalla conclusione del contratto [27]. In secondo luogo, quello di distinguere le clausole che costituiscono il regime di determinazione del compenso per il godimento del denaro (definendo i core terms dell’accordo) [28] – sia esso espresso in valuta nazionale, ovvero con riferimento al cambio con quella straniera – da quelle che trasferiscono fra le parti i rischi finanziari sottesi all’opera­zione, quali il tasso di interesse, o quello di cambio (i cd. ancillary terms). Infine, quello della valutazione dei presupposti e dei margini dell’integrazione eteronoma di un accordo espunto da sua una previsione essenziale.

Su quest’ultimo tragitto intenderei focalizzare l’attenzione. A ben vedere, esso è determinante per la lettura della soluzione adottata dalla Corte nel caso in esame. Vi è tuttavia un punto di osservazione con il quale sembra opportuno intraprendere questo tragitto, segnatamente quello del rilievo della “convenienza” per il consumatore nell’interpretazione del canone della effettività della tutela.


2.1. La genesi della dottrina della crisi fra Banco Espańol e Kásler

La genesi di un ripensamento sulla sanabilità di una nullità consumeristica si riporta alla notissima pronuncia Árpád Kásler [29]. È questa decisione che segna, a ben vedere, una prima tappa fondamentale nel percorso di affermazione di un regime di post-vessatorietà che ammetta anche un intervento integrativo dell’autonomia privata.

Eppure, il nuovo percorso inaugurato in Kásler si presentava come tutt’altro che scontato, se si considera la chiusura con la quale la Corte, solo pochi anni prima, si era opposta alla revisione giudiziale delle clausole abusive, anche laddove il legislatore nazionale avesse approntato dei meccanismi diretti a ricostituire l’equilibrio fra il consumatore ed il professionista (Banco Español[30]. Pur conscia del fatto che l’art. 6, § 1 UCTD riconosca un certo margine di autonomia agli Stati Membri nella definizione della disciplina applicabile alla clausola vessatoria, la giurisprudenza della Corte pareva difatti ferma nell’interpretare la “non vincolatività” della convenzione abusiva alla stregua di una nullità nuda, nell’ottica del più generale principio di dissuasività per il professionista. A detta della Corte – forte, probabilmente, dell’influenza prodotta dalla netta posizione assunta dall’Avvocato Generale nelle conclusioni [31] – l’eventualità di una integrazione giudiziale della clausola abusiva attenuerebbe fortemente la deterrenza della sanzione nei confronti del professionista, che – worst case scenario – conterebbe comunque sulla sopravvivenza di un rapporto rimodulato a condizioni di equità fra le parti.

Sennonché – come correttamente si osserva in Kásler – il principio di dissuasività deve essere letto anche nella direzione inversa, stante il rischio che una interpretazione che obblighi il giudice a procedere all’annullamento integrale del contratto in presenza di una clausola abusiva dissuaderebbe, stavolta sì, il consumatore dell’esperimento di un rimedio a lui sconveniente. Una pronuncia di invalidità che investa la clausola di indicizzazione nella sua interezza (core term) comprometterebbe – a differenza di quanto osservato in Banco Español [32] – il funzionamento stesso del contratto, impedendone così la sopravvivenza ed obbligando il consumatore alla restituzione immediata della somma per l’intero [33]. Questo argomento completa così il quadro tratteggiato in Banco Español, precisando che l’art. 6, § 1 UCTD non sia affatto incompatibile con una regola di diritto nazionale che supplisca alla nullità di una clausola essenziale, sostituendo all’equilibrio formale che il contratto determina tra diritti ed obblighi delle parti quello volto a ristabilirne l’eguaglianza reale.


2.2. Il trittico sull’integrazione eteronoma del contratto

Orbene, la non automatica equiparazione fra “non vincolatività” della clausola economica ed invalidità integrale del contratto dischiude una serie di scenari che implicano di far chiarezza su fonti e limiti del processo di integrazione della clausola abusiva. Sull’apertura di Kásler, la Corte è difatti tornata in più di un’occasione, restituendo una lettura dell’art. 6, §1 che può essere articolata, sinteticamente, attraverso tre proposizioni.

La prima è che la possibilità di sostituzione della clausola essenziale abusiva, in quanto ipotesi che fa eccezione al regime di parziarietà della invalidità, opera unicamente in presenza di disposizioni interne che troverebbero applicazione in mancanza di un accordo delle parti sul punto: il presupposto è quello per cui solo disposizioni legislative o regolamentari suppletive riflettono l’equilibrio che il legislatore ha stabilito fra diritti ed obblighi delle parti in un caso specifico [34]. Quest’affermazione esclude, di conseguenza, ogni riferimento a disposizioni che non abbiano siffatta natura, quali quelle di carattere generale, riferibili a norme di convivenza sociale, principi d’uso, consuetudini. La Corte non lo dice espressamente (Dziubak), ma il limite è chiaro ed emerge bene dalle conclusioni dell’Avvocato Generale: quello di un intervento “creativo” del giudice che, facendo leva su clausole generali e sul richiamo al principio di equità, alteri l’equilibrio di interessi voluto dalle parti, comprimendone in misura eccessiva l’autonomia o persino alterando la natura dell’accordo originario [35].

La seconda proposizione si lega, anch’essa, al carattere eccezionale della sostituibilità della clausola abusiva. Le clausole che riproducono, in conformità dell’art.1, §. 2 UCTD, disposizioni nazionali sono sottratte al sindacato di vessatorietà, ma solo per la parte in cui vi sia una effettiva corrispondenza con la disposizione legislativa in esame. D’altronde, la stessa natura eccezionale dell’indice negativo di vessatorietà ex art. 1, par. 2 UCTD, ne implica una lettura in chiave restrittiva (Ilyés-Kiss[36]. Se, dunque, un legislatore nazionale ha inteso colpire un preciso meccanismo di allocazione del rischio fra le parti, sostituendo allo statuto privato un assetto regolato da una norma pubblica, la sottrazione dal sindacato di vessatorietà coprirà unicamente la sola clausola presa in considerazione dall’intervento legislativo. Nelle ipotesi – come quella appena considerata della legislazione ungherese – in cui la norma lasci comunque uno spazio alla regolazione privata nella determinazione e allocazione del rischio, sarà pertanto nelle facoltà del giudice di sindacarne eventuali profili di vessatorietà ai sensi dell’art. 4, § 2, UCTD.

La terza proposizione è quella con una portata più innovativa nell’impianto regolato dalla direttiva sulle clausole abusive. L’esclusione dal giudizio di vessatorietà di clausole che riproducano disposizioni legislative o regolamentari di carattere imperativo si giustifica per il fatto che tali clausole, ai sensi della direttiva, godono di una presunzione di non abusività, che discende dal fatto che il legislatore nazionale abbia stabilito, a monte, il giusto equilibrio tra diritti ed obblighi delle parti. Maggiormente problematica è parsa, invero, la natura di questa presunzione. Gli art. 6 e 7, UCTD non chiariscono difatti se residui in capo al giudice del merito la facoltà di sindacare l’adeguatezza della misura con la quale il legislatore abbia provveduto a rendere “non vincolante” la clausola per il consumatore – la presunzione sarebbe, allora, relativa –, ovvero se l’intervento normativo esaurisca ogni ulteriore margine di valutazione – la presunzione sarebbe, in quel caso, assoluta. Inoltre, accedendo alla prima fra le opzioni delineate, rimarrebbe da precisare la direttrice lungo la quale il giudice sarebbe ammesso a valutare l’impatto dell’intervento normativo sulle garanzie di tutela ex art. 6, UCTD e quale peso assuma, a questo proposito la scelta del rimedio da parte del consumatore [37].

A questo dilemma ha dato voce la Corte, statuendo che anche laddove il legislatore nazionale abbia inteso provvedere a ristabilire l’equilibrio tra le parti salvaguardando, in linea di principio, la validità del rapporto, ciò non toglie che il suo intervento debba comunque rispettare i requisiti imposti dall’art. 6, UCTD (Dunai[38]. La ratio della norma – attraverso il riferimento alla non vincolatività della clausola abusiva – induce la Corte ad una ricostruzione in chiave obiettiva dei requisiti in parola, consistenti nel ripristino dell’e­quilibrio fra le parti, salvaguardando al contempo – e ove possibile – la validità del contratto nel suo complesso [39]. Ciò vale a dire che spetterà al giudice del rinvio il compito di verificare se la normativa in parola consenta di ripristinare, in fatto e in diritto, la situazione in cui il consumatore si sarebbe trovato in assenza della clausola reputata abusiva (Sziber[40].


3. Il “peso” della scelta in OTP: convenienza del rimedio e controllo sul ripristino dello status quo ante

L’ultimo tassello di questo itinerario va ad inserirsi con la pronuncia in commento che – è interessante notarlo – affronta il problema in modo diametralmente opposto a quello appena esaminato.

Se, difatti, si è fin d’ora partiti dal presupposto per cui l’interesse del consumatore – in presenza di una norma suppletiva – si proiettasse necessariamente verso la conservazione del rapporto, il caso OTP pone la Corte di fronte al problema più ampio del perimetro effettivo di siffatta facoltà di scelta e, segnatamente, se essa possa altresì includere la rinuncia ad avvalersi del “rimedio legislativo”, a favore della più radicale opzione della caducazione integrale del rapporto (vedi infra § I.3). Il punto – lo si è detto – è quello di comprendere quale peso assuma il criterio della convenienza per il consumatore nell’alternativa fra il mantenimento del contratto rettificato (comunque rischioso) e la totale liberazione del mutuatario dagli oneri relativi al meccanismo di cambio fra valute.

Orbene, alla Corte non sfugge che il principio guida dell’effettività del rimedio includa altresì la facoltà di rinunciare a diritti derivanti dal sistema di tutela contro l’uso di clausole abusive da parte del professionista [41]. Lo stesso distinguo fra rilevabilità ex officio della nullità e diritto di opposizione del consumatore evidenzia, d’altronde, come la consapevolezza del carattere non vincolante di una clausola abusiva, possa dar luogo ad un consenso libero ed informato di quest’ultimo ad accettare le condizioni dettate dal regolamento contrattuale [42]. Ciò, con maggior evidenza, nei casi in cui la caducazione della clausola obbligherebbe il giudice ad invalidare il contratto nel suo complesso, esponendo il consumatore al pregiudizio – già discusso – del rimborso integrale e immediato della somma concessagli a prestito.

Vale tuttavia la pena di domandarsi – anche se la Corte non lo fa espressamente – se sia corretto parlare di “rinuncia” quando ci si confronti con un intervento normativo che supplisca ad uno squilibrio del regolamento privato, attraverso un riassetto delle rispettive posizioni delle parti. Riassetto che muove – lo si è detto – dalla ponderazione di interessi diversi e non necessariamente paralleli fra loro, quali quello alla tutela della posizione individuale del consumatore, con le logiche di garanzia di stabilità del sistema finanziario e di riparto di rischi e costi delle attività finanziarie. D’altra parte, questa logica sembra compatibile con lo stesso dettato della direttiva che si limita a prevedere la “non vincolatività” della clausola abusiva, lasciando dunque ai singoli ordinamenti nazionali non solo il compito di tradurre questo lemma nelle specifiche categorie interne, ma anche di stabilirne i contorni effettivi e la sua modulazione in concreto [43].

Così ragionando, sembra potersi suggerire che la sussistenza di un intervento normativo che supplisca alla iniquità di clausole essenziali nei rapporti fra consumatori e professionisti sposti, in realtà, i termini del problema dalla dialettica della scelta a quella del controllo.

Un conto è difatti riconoscere al giudice la facoltà di saggiare l’adeguatezza della norma suppletiva a rendere non vincolante la clausola vessatoria per il consumatore (controllo), altro conto è considerare invece la soluzione legislativa alla stregua di una fra le opzioni nel menù rimediale, cui il consumatore possa liberamente decidere se e come accedere (scelta). Solo seguendo questa seconda direzione parrebbero, invero, concretizzarsi quei timori di subiettivizzazione delle sorti del contratto paventati da parte della dottrina [44] ed esclusi categoricamente alla Corte stessa, poiché si legittimerebbe una scelta, in fin dei conti, basata sul maggior vantaggio finale di ciascuna soluzione per il consumatore.

Ciò, tuttavia, non esenta l’intervento normativo da ogni possibilità di controllo.

Alla luce di queste considerazioni, la Corte opta difatti per una ricostruzione del regime rimediale in chiave oggettiva, riconoscendo nell’idoneità del provvedimento normativo al ripristino dello status quo ante il discrimine fra la necessaria accettazione del contratto “rettificato” ed il margine di opzione per la caducazione integrale del rapporto [45]. Il criterio della convenienza assume dunque il suo peso – torna, per così dire, a riespandersi – solo nella misura in cui l’intervento normativo non sia in grado di ripristinare la situazione in fatto e in diritto che si sarebbe avuta in assenza della clausola. Ove, invece, l’intervento normativo assicuri il pieno ripristino dello status quo ante, il maggior vantaggio individuale è destinato a cedere di fronte alla logica d’insieme recata dalla legislazione nazionale.


4. Status quo ante e allocazione del rischio

Quanto detto trova piena riprova nel contesto della regolazione del rischio e nell’applicazione della regola dello status quo ante alle clausole sul cambio fra valute.

Come si è anticipato, la preferenza del consumatore verso il rimedio ablativo si giustificava alla luce della prospettiva di evitare la sopportazione di ogni onere attribuibile alla dinamica di indicizzazione al cambio con la valuta estera, non solamente a quelli (maggiori) dovuti per effetto della clausola che distingue il tasso applicabile alla vendita da quello all’acquisto. Lo statuto del rischio (vedi, infra § I) si componeva difatti di due distinte previsioni, l’una – quella di indicizzazione al cambio – dedicata all’an della variabilità finanziaria, l’altra – quella differenziale – al quantum sopportato da ciascuno dei contraenti. Il meccanismo di indicizzazione semplice – vale la pena ricordarlo – opera difatti in misura neutra fra le parti, assoggettando la determinazione di una delle prestazioni all’oscillazione di una variabile finanziaria [46]: ciò significa che, seppur le dinamiche successive di mercato possano concretamente avvantaggiare l’una o l’altra parte, in astratto entrambi i contraenti sopportano in misura eguale il rischio al momento iniziale del contratto [47]. Diversamente operano gli accordi di trasferimento del rischio [48] – a cui appartiene la clausola differenziale – che definiscono fin dall’inizio la misura con la quale ciascuna delle parti sopporterà (o meno) le conseguenze prodotte dai diversi scenari [49].

L’esistenza di un effetto aggiuntivo – i.e. quello della allocazione asimmetrica del rischio – non deve tuttavia indurre nell’errore di qualificare la clausola differenziale fra le convenzioni ancillari del rapporto. Quello fra clausola di indicizzazione e clausola differenziale, più che di genere/specie – sì che il venir meno di una parte dell’una consentirebbe al contratto di operare comunque in funzione dell’altra – è un rapporto fra due modalità diverse di determinazione dell’entità della prestazione. Il venir meno della clausola differenziale non comporta infatti né l’automatica trasformazione del contratto in finanziamento domestico, né tantomeno la riconduzione ad equità di un finanziamento in valuta: comporta più semplicemente la caducazione integrale del rapporto, per venir meno del meccanismo determinativo del tasso di interesse. L’intervento normativo sub § I.2. muove proprio dal proposito di sostituire – una volta dichiarata la vessatorietà della clausola differenziale – al meccanismo di indicizzazione contrattuale (iniquo), un diverso sistema di indicizzazione (equo), ancorato al tasso di cambio ufficiale stabilito dalla Banca Nazionale Ungherese. Così facendo, il legislatore ungherese non ha difatti inteso trasformare il rapporto in un finanziamento di diversa natura – i.e. uno “domestico”, in cui l’espressione di capitale, interessi e somme dovute a titolo di rimborso avvengono alla valuta nazionale del consumatore –, bensì di operare una redistribuzione del rischio complessivo sotteso allo strumento finanziario, da un onere gravante esclusivamente sul mutuatario, ad uno sopportato da entrambe le parti contrattuali. In altre parole, poiché l’intervento normativo assicura il ripristino della situazione di fatto e di diritto in cui il consumatore si sarebbe trovato in assenza della clausola differenziale, non è ammissibile per quest’ultimo optare per una soluzione – quella della eliminazione totale del rischio – che anticipi la protezione oltre la linea temporale dello status quo ante. A diversa soluzione – benché nella medesima logica – si potrebbe accedere nella sola ipotesi in cui la struttura stessa del finanziamento e del meccanismo di indicizzazione al cambio sia frutto di una informazione non resa secondo i tradizionali canoni della chiarezza e comprensibilità. In questo diverso caso, la restaurazione dello status quo ante non guarderebbe difatti al negozio già concluso (a condizioni inique), ma al negozio da concludersi, legittimando il venir meno dell’intero sistema di indicizzazione al cambio – data, per l’appunto, la natura essenziale della clausola.


NOTE

[1] CGUE, Sesta Sezione, 2 settembre 2021, JZ contro OTP Jelzálogbank Zrt. e a., C-932/19.

[2] La peculiarità che caratterizzano la posizione del consumatore mutuatario rispetto ai meccanismi di funzionamento della Direttiva 93/13 (UCTD) sono oggetto, da qualche tempo, di un’attenta disamina in dottrina. Si vedano, senza pretesa di esaustività, gli studi di S. Pagliantini, L’effettività della tutela consumeristica in stile rococò: massimo e minimo di deterrenza rimediale tra una Corte di giustizia epigona di Dedalo e delle sez. un. 19597/20 sotto scacco, in Foro. it, 2021, 5, c. 0275 ss.; Id., Armonizzazione ed il canone della “maggior tutela” per il consumatore: spigolature critiche (e chiarimenti) sulla cumulabilità elettiva dei rimedi, in G. D’Amico, S. Pagliantini (a cura di), L’armonizzazione degli ordinamenti dell’Unione europea tra principi e regole. Studi, Giappichelli, 2018, 117 ss.; P. Iamiceli, Credito al consumo, nullità parziale e integrazione del contratto: la sorte dei tassi moratori tra vessatorietà della clausola e disciplina anti-usura, in I Contr., 2021, 102 ss.; M. Lamicela, Valutazione di abusività ed effetti della nullità di protezione del consumatore: la strategia della deterrenza e l’effettività delle tutele, in questa rivista, 2020, 1532 ss.; L. Albanese, Credito in valuta estera: sindacato di vessatorietà e incidenza del rischio di cambio, in Resp. Civ. Prev., 2020, 761 ss.; A. Barba, Consumo e sviluppo della persona, Giappichelli, 2017; F. Azzarri, Nullità della clausola abusiva e integrazione del contratto, in Oss. Dir. Civ. Comm., 2017, 41 ss.; A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e “massimo effetto utile per il consumatore”: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, in I Contr., 2013, 16 ss.; M. Barcellona, I nuovi controlli sul contenuto del contratto e le forme della sua eterointegrazione: Stato e mercato nell’orizzonte europeo, in Eur. Dir. Priv., 2008, 33 ss.

[3] L’espressione è impiegata da P. Iamiceli, Nullità parziale e integrazione del contratto nel diritto dei consumatori tra integrazione cogente, nullità ‘nude’ e principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle tutele, in Giust. civ., 2020, 713 ss.; A. D’Adda, Giurisprudenza comunitaria, cit., 16 ss., e S. Pagliantini, Post-vessatorietà ed integrazione del contratto nel decalogo della CGUE, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 561 ss.

[4] D. Maffeis, Direttiva 2014/17/UE: rischio di cambio e di tasso e valore nella componente aleatoria nei crediti immobiliari ai consumatori, in Banca borsa e titoli di credito, 2016, I, 190 ss.; F. Azzarri, I «prestiti in valuta estera» nella direttiva 2014/17/UE sui «contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali», in Oss. dir. civ. e comm., 2015, 200 ss. Ampia è inoltre la letteratura straniera, in particolare est-europea, sulla figura del foreign currency-linked loans, fra cui v. R. Mańko, Unfair terms in Swiss franc loans. Overview of European Court of Justice case law, European Parliamentary Research Service, March 2021, PE 689.361; E. Mišćenić, Currency Clauses in CHF Credit Agreements: A ‘Small Wheel’in the Swiss Loans’Mechanism, in EuCML, 2020, 226 ss.

[5] Il distinguo è chiarito da F. Caputo Nassetti, Le clausole di indicizzazione nei finanziamenti e nei leasing, in Giur. comm., 2016, I, 352 ss. Per un approfondimento, sia consentito il rinvio a F. Pistelli, Finanziamenti in valuta e rimedi: oltre la conversione, in Oss. dir. civ. e comm., in corso di pubblicazione.

[6] A, Asquini, Clausole parametriche nelle obbligazioni pecuniarie e mora del debitore, in Scritti giuridici, III, Cedam, 1961, 392 ss.; R. Pardolesi, Indicizzazione contrattuale e risoluzione per eccessiva onerosità, in Foro.it, 1981, I, c. 2145 ss.; P. Tartaglia, L’adeguamento del contratto alle oscillazioni monetarie, Giuffrè, 1987; G. Carli, Vicende monetarie, obbligazioni pecuniarie e garanzie, in F. Mastropaolo (a cura di), I contratti di garanzia, Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, E. Gabrielli, Utet, 2006, 291 ss.

[7] Il dato è riportato da J. Hegedűs et al., National Report for Hungary TENLAW: Tenancy Law and Housing Policy., in Multi-level Europe, 12, consultabile in http://www.tenlaw.uni-bremen.de/reports/HungaryReport_09052014.pdf); per una panoramica sulla situazione complessiva del mercato immobiliare in Ungheria e sulle risposte normative di contrasto alla crisi, A. Fejős, Mortgage credit in Hungary, in EuCML, 2017, 139 ss.

[8] Su tutti, le ricostruzioni di F. Roy, Mortgage Markets in Central and Eastern Europe – a review of past experiences and future perspectives, in European Journal of Housing Policy, 2008, 8(2), 133-160; R. Barrell, E.F. Davis, F. Fic, A. Orazgani, Household Debt and Foreign Currency Borrowing in New Member States of the EU, Working Paper No. 09-23, Brunell University West London, Department of Economics and Finance, 2009; D. Bohle, Post-Socialist Housing Meets Transnational Finance: Foreign Banks, Mortgage Lending, and the Privatization of Welfare in Hungary and Estonia, in Review of International Political Economy, 2013, 21(4): 913–48; A. Csizmady, J. Hegedüs, D. Vonnak, A housing regime unchanged: The rise and fall of foreign-currency loans in Hungary, in Corvinus Journal of Sociology and social policy, 2019, 10, 3-34, DOI: 10.14267/CJSSP.2019.2.1.

[9] Il dato è riportato da A. Csizmady, J. Hegedüs, D. Vonnak, A housing regime, cit., 12.

[10] Il termine è quello impiegato nella notissima opera del premio Nobel per l’economia R. Shiller, Irrational Exuberance, Princeton University Press, 2000, edito in Italia da Il Mulino, 2009, con il titolo “Euforia irrazionale. Alti e Bassi di Borsa”. Anche se con riferimento alla bolla dot.com delle azioni tecnologiche di inizio 2000 in America, Shiller offre una chiara ricostruzione delle dinamiche che conducono alla sopravvalutazione nei mercati finanziari, approfondita poi nei riguardi della crisi del mercato immobiliare 2007-2008 con le edizioni successive del volume.

[11] Nella fluviale letteratura economica che ha analizzato cause ed effetti della propagazione, un contributo fondamentale in questo specifico caso di studio è quello di D. Gros, Bubbles in Real Estate, A Longer-Term Comparative Analysis of Housing Prices in Europe and the US, CEPS Working Document, No. 239, 2006. L’autore confronta l’andamento storico dei prezzi del mercato immobiliare, stabilendo che l’andamento reale del mercato europeo abbia seguito da vicino quello americano, con gap temporali progressivamente più ridotti.

[12] Raccomandazione del Comitato Europeo per il Rischio Sistemico del 21 settembre 2011 sui prestiti in valuta estera (CERS/2011/1). In particolare, al considerando 4 si legge che “è opportuno adottare misure con riferimento ai prestiti in valuta estera al fine di: 1) limitare le esposizioni ai rischi di credito e di mercato, potenziando così la capa­ cità di tenuta del sistema finanziario; 2) controllare la crescita eccessiva del credito in valuta estera ed evitare bolle dei prezzi delle attività; 3) contenere i rischi di finanziamento e di liquidità, circoscrivendo quindi al massimo tale canale di contagio; 4) creare incentivi al miglioramento dei meccanismi di determinazione del prezzo del rischio associato ai prestiti in valuta estera; 5) contrastare l’elusione delle misure nazionali conseguita attraverso l’arbitraggio normativo.”

[13] Direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 febbraio 2014, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010, OJ L 60, 28.2.2014, 34-85. Fra i molteplici commenti alla Direttiva, si veda, M. Semeraro, Informazioni adeguate e valutazione del merito creditizio: opzioni interpretative nel credito ai consumatori, in Riv. dir. civ., 2021, 687 ss.; P. Sirena, G. Carriero, I mutui ipotecari nel diritto comparato e nel diritto europeo: commentario alla direttiva 2014/17/UE, Fondazione Italiana del Notariato, 2016; E. Pellecchia, La direttiva 2014/17/UE sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, 206 ss.; S. Pagliantini, I misteri del patto commissorio, le precomprensioni degli interpreti e il diritto europeo della direttiva 2014/17/UE, in Nuove leggi civ. comm., 2015, II, 181 ss.; F.P. Patti, L’educazione finanziaria e la direttiva 2014/17/UE (sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali), in Contr. e impr., 2015, 1423 ss.; F. Azzarri, I prestiti in valuta estera nella direttiva 2014/17/UE sui contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali, in Oss. Dir. civ. comm., 2015, 1, 187 ss.; D. Maffeis, Direttiva 2014/17/UE: rischi di cambio e di tasso e valore della componente aleatoria nei crediti immobiliari ai consumatori, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, I, 190 ss. Uno studio trasversale sull’impatto della direttiva nei principali ordinamenti europei è stato condotto da E.A. Amayuelas, M. Anderson, The impact of mortgage credit directive in Europe, Europa Law Publishing, 2017.

[14] Sul difficile bilanciamento fra esigenze di garanzia del singolo e tutela del mercato, si veda l’introduzione di E. Capobianco al volume AA.VV., Contratti bancari, a cura di E. Capobianco, Wolter Kluwer, 2021, 37 ss. Sulle implicazioni sistemiche della conversione dei finanziamenti in valuta si veda il recente studio di, A.M. Fischer, P. Yeşin, Foreign currency loan conversions and currency mismatches, in Journal of International Money and Finance, 122, Aprile 2021.

[15] Le difficoltà del compromesso su questo intervento normativo erano già state esplicitate nel White Paper che precedeva la proposta di regolazione dei mutui immobiliari, v., Frequently Asked Questions (FAQs) sul “White Paper on the Integration of EU Mortgage Credit Markets” (2007), “Commission did not consider it appropriate to propose a directive to regulate the mortgage market due to the political sensitivity of this issue, and the complexity of finding an appropriate level of harmonisation”.

[16] Il compromesso politico sulla natura irretroattiva delle disposizioni della Direttiva MCD emerge altresì all’interno del già citato art. 23 sui mutui in valuta estera. Una volta definito il rimedio minimo per la copertura del rischio di cambio, la direttiva stabilisce – secondo una progressione tipica delle disposizioni di armonizzazione minima – che gli Stati Membri “possono disciplinare ulteriormente i prestiti in valuta estera, a condizione che tale regolamentazione non sia applicata retroattivamente” (art. 23, § 5). Questa disposizione sembrerebbe di fatto escludere la legittimità di quegli interventi normativi che, come nel caso che tratteremo a breve dell’Ungheria, prevedano una conversione forzosa dei rapporti con efficacia retroattiva. Curiosamente, non risulta però che siffatti interventi siano stati censurati per contrarietà all’anzidetta disposizione.

[17] Il corsivo è aggiunto.

[18] Il diritto alla conversione non è difatti l’unico strumento astrattamente a disposizione del consumatore per limitare l’espo­sizione al rischio di cambio nel futuro. Già con il Decreto Bersani (convertito da legge n. 40 del 2 aprile 2007) era stata difatti prevista la possibilità per il mutuatario di procedere all’estinzione anticipata del rapporto, senza sostenere penali o costi aggiuntivi (art. 40 TUB). Questo meccanismo, pensato per limitare l’esposizione al rischio su tasso in ipotesi di finanziamenti con interesse variabile, potrebbe senz’altro operare in contenimento del rischio di cambio, limitando i maggiori costi che sarebbero sostenuti dal mutuatario per effetto delle oscillazioni fra valute durante il periodo di ammortamento. Sennonché, si estende anche alla estinzione anticipata il medesimo discorso relativo alla conversione del rapporto, poiché la sua convenienza per il consumatore dipende in tutto e per tutto dal tasso al quale avviene il rimborso della somma concessa a mutuo.

[19] Lo scritto, data l’origine della vicenda all’attenzione della Corte, dedicherà spazio unicamente all’intervento normativo adottato in Ungheria. Si badi tuttavia al fatto che analoghe previsioni sono state adottate anche in Polonia, Romania, Croazia, Cipro, Montenegro e Serbia.

[20] Sulla loro analisi si veda, diffusamente, G. D’Amico, La Corte di Giustizia e la vicenda (ungherese) dei mutui in valuta estera stipulati con un consumatore, in Contr., 2020, 5 ss.

[21] Nel dibattito tedesco, le clausole di questo tipo appartengono alla categoria delle cosiddette “Preisänderungsklauseln” (lett., clausole di variazione del prezzo), o anche “Wertsicherungsklauseln” (clausole di assicurazione del valore), v., BGH v. 30.10.1974, in BGHZ 63, 132; vgl. Hentschel, Anpassung von Preis und Vertrag im deutschen und französischen Zivilrecht, 8 ss. Recentemente sono state definite come “Klauseln, die die nachträgliche Bestimmung eines Preises oder dessen Änderung ermöglichen, können insofern unter einem Oberbegriff zusammengefasst werden, als es im Ergebnis keinen Unterschied macht, ob der Preis bei Vertragsschluss offen gelassen und später bestimmt oder bei Vertragsschluss festgelegt und dann abgeändert wird” (Le clausole che permettono la determinazione successiva di un prezzo o la sua modifica possono essere raggruppate in una categoria comune, non facendosi differenza, in punto di risultati, tra il caso in cui il prezzo sia lasciato aperto al momento della conclusione del contratto e determinato successivamente, e quello in cui il prezzo è fissato immediatamente al momento della conclusione del contratto ed è quindi modificato), v., L. Gutkin, Die Europäisierung der AGB-Kontrolle von Preisänderungsklauseln, Duncker & Humblot, 2018, 39. Il riferimento al prezzo invece che al rischio si giustifica, all’interno dell’ordinamento tedesco, al fine di sottoporre queste convenzioni al cd. Inhaltskontrolle sulle clausole generali (AGB-Kontrolle).

[22] La distinzione fra core e ancillary terms costituisce una delle tematiche più complesse del diritto europeo dei consumatori.

Vi è chi ha intravisto, nell’utilizzo da parte della Corte della nozione di “essential obligations of the contractual scheme”, una ripresa della definizione romanistica degli “essentialia negotii”, v., E. Miscenic, Uniform Interpretation of Article 4(2) of UCT Directive in the Context of Consumer Credit Agreements: Is it Possible?, in Revue du droit de l’Union européene, 127 ss. Secondo taluno, appartengono alla nozione di ancillay price terms, “terms laying out the formula or manner for calculating the price, terms providing for variations in price depending on certain future contingencies or periods of time, would not qualify in that sense as determining the characterizing, essential obligation of the consumer, and would be subject, as such, to unfairness assessment”, v., F. Gómez Pomar, Core versus Non-Core Terms and Legal Controls over Consumer Contract Terms: (Bad) Lessons from Europe?, in ERCL, 2019, 188. Un inquadramento particolare è quello con il quale la Corte di Giustizia ha giudicato la vessatorietà della clausola floor. Invocata in ordine alla possibilità per un giudice nazionale di graduare l’effetto retroattivo di una nullità, la Corte non smentisce la ricostruzione operata dal Pleno del Tribunal Supremo Spagnolo (9 maggio 2013, n. 241) che aveva ascritto la clausola suelo nella categoria dei core terms del rapporto. Proprio in virtù del suo carattere di clausola vertente sull’oggetto principale, la convenzione del floor non era difatti ritenuta abusiva per il suo contenuto, bensì per le circostanze che ne avevano accompagnato la negoziazione, in assenza di una adeguata informazione al consumatore (CGUE, Grande sezione, 21 dicembre 2016, Francisco Gutiérrez Naranjo e Ana María Palacios Martínez c. Cajasur Banco e Banco Bilbao Vizcaya Argentaria SA (BBVA), cause riunite C-154/15 e C-307/15, in Contr., 11 ss., con nota di S. Pagliantini, La non vincolatività (delle clausole abusive) e l’interpretazione autentica della Corte di Giustizia.

[23] Sul regime delle nullità speciali, l’analisi di riferimento è quella, pur risalente, di G. Passagnoli, Nullità speciali, Milano, 1995.

[24] T. Dalla Massara, La “maggior tutela” del consumatore: ovvero del coordinamento tra codice civile e codice del consumo dopo l’attuazione della direttiva 2011/83/UE, in Contr. e impr., 2016, 743 ss.

[25] Sulla non assolutezza del principio di tutela del consumatore la Corte si è più volte espressa, di recente nei casi Banco Primus, C-421/14, § 47 e Erste Bank, C-483/16, § 50.

[26] Il punto è discusso ed approfondito da M. Lamicela, Valutazione di abusività ed effetti della nullità di protezione nei contratti del consumatore: la strategia della deterrenza e l’effettività delle tutele, cit., 1535 ss. Sul punto anche, N. Jansen, Unfairness of Terms, in N. Jensen, R. Zimmerman (a cura di), Commentaries on European Contract Law, Oxford University Press, 2018, 928 ss.

[27] L’interpretazione del binomio trasparenza-obbligo di informazione emerge con evidenza in Árpád Kásler (§ 70, a sua volta richiamando RWE Vertrieb AG, C-92/11, § 44). A supporto della non piena riconducibilità dell’intrasparenza alla vessatorietà della clausola si veda, G. D’Amico, Mancanza di trasparenza di clausole relative all’oggetto principale del contratto e giudizio di vessatorietà (Variazioni sul tema dell’armonizzazione minima), in G. D’Amico, S. Pagliantini (a cura di), L’armonizzazione, cit., 96 ss. In senso critico dell’estensione fatta dalla Corte al principio di trasparenza si veda, M. Campagna, Contratto di credito e trasparenza: recenti orientamenti della Corte di Giustizia, in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 502 ss., che parla di vero e proprio “abuso dell’obbligo di trasparenza”.

[28] La Corte si riferisce a questa categoria di convenzioni il più delle volte definendola come “clausola economica”, ossia come convenzione che fissa la prestazione caratterizzante il contratto. Sulla interpretazione in senso restrittivo della nozione di clausola economica la Corte si è pronunciata in una pluralità di occasioni, fra cui, CGUE, Nona Sezione, 26 febbraio 2015, Matei c. SC Volksbank Romania SA, C-143/13; CGUE, Seconda Sezione, 20 settembre 2017, Ruxandra Paula Andriciuc ed altri c. Banca Romaneasca, C-186/16.

[29] CGUE, Quarta Sezione, 30 aprile 2014 (C-26/13), con commento di S. Pagliantini, L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale e ABF: “il mondo di ieri o un trompe l’oeil concettuale?, in Contr., 853 ss.; A. D’Adda, Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, in Dir. civ. cont., 2014. In letteratura straniera, D. Berlin, Obscurité des clauses contractuelles… et de la directive, in La Semaine Juridiqueédition générale, 2014, n. 19, 957; R. Sik-Simon, Missbräuchliche Klauseln in Fremdwährungskreditverträgen – Klauselersatz durch dispositive nationale Vorschriften, in Zeitschrift für Europäisches Unternehmens– und Verbraucherrecht, 2014, 256 ss.; J. Fazekas, The consumer credit crisis and unfair contract terms regulation – Before and after Kásler, in Journal of European Consumer and Market Law, 2017 99 ss.

[30] Su tutte, CGUE, Prima Sezione, 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito SA c. Joaquín Calderón Camino, C-618/10.

[31] Conclusioni dell’Avvocato Generale Verica Trstenjak presentate il 14 febbraio 2012, Causa C-618/10, secondo cui “La prospettiva che i motivi d’inefficacia del contratto siano sanati e l’esiguità dei rischi incorsi dal professionista potrebbero produrre un effetto contrario a quello voluto dal legislatore europeo. Tali fattori potrebbero indurre il professionista semplicemente a «tentare la fortuna» inserendo nel contratto quante più clausole abusive possibile, nella speranza che gran parte di esse sfuggano all’attenzione del giudice nazionale […] in ultima analisi il professionista potrebbe vivere una situazione giuridica del genere come una sfida, tanto più che non avrebbe nulla da perdere a tentare di imporre le sue clausole al consumatore. Questi esempi mostrano che la possibilità di adeguamento successivo del contratto da parte del giudice non solo attenuerebbe l’effetto deterrente prodotto dall’articolo 6 della direttiva, ma addirittura produrrebbe l’effetto contrario. Risulterebbe così vanificato il perseguimento degli obiettivi della direttiva 93/13”.

[32] Il principio di diritto nel caso Banco Español de Crédito si comprende alla luce delle caratteristiche specifiche del rapporto controverso, ben distinte da quelle in Kásler. Nel primo si discorreva difatti di un rapporto di finanziamento a tasso variabile, in cui la clausola controversa non era quella che determinava la misura dell’interesse corrispettivo, bensì quella sul moratorio. In Spagna l’accertamento della natura usuraria di un tasso moratorio applicato in un contratto del consumatore legittima il giudice, nel dichiarare la nullità della clausola, ad integrare il contatto moderando diritti ed obblighi delle parti in conformità a buona fede (v., art. 83 Real Decreto Legislativo 1/2007 por el que se aprueba el texto refundido de la Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios y otras leyes complementarias e art. 1258 codigo civil). La Corte, nel censurare un intervento manutentivo del giudice in ipotesi di usurarietà del tasso, sembra dunque configurare un sistema in cui il contratto di finanziamento rimane comunque in vita per il consumatore, il quale non sarà tenuto a corrispondere alcun interesse a titolo di mora (allineandosi così alla soluzione italiana della gratuità del rapporto di credito). La diversa logica della preferenza per la “nullità nuda” di fronte a clausole vessatorie che regolano le conseguenze sanzionatorie per inadempimento del consumatore è chiarita da P. Iamiceli, Nullità parziale e integrazione del contratto nel diritto dei consumatori tra integrazione cogente, nullità ‘nude’ e principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle tutele, cit., 745, secondo cui «In tutte queste ipotesi la nullità nuda serve a privare il professionista del beneficio abusivamente acquisito mediante l’imposizione della clausola: la penale eccessiva, l’interesse moratorio sproporzionato, la risoluzione a fronte di un inadempimento di scarsa o scarsissima importanza. In questi casi, inibire la revisione delle clausole significa essenzialmente che le parti (e in particolare chi ne ha approfittato) sono definitivamente private di tutti i benefici derivanti dall’esercizio dell’autonomia altrimenti riconosciuta ai contraenti in questi ambiti e non solo della parte di essi eccedente la regola di equità.

[33] Sul punto, in particolare § 83-84 Kásler.

[34] La proposizione emerge in CGUE, Terza Sezione, 3 ottobre 2019, Dziubak c. Raiffeisen Bank International AG, C-260/18 (in particolare, §§ 59-60) e, più di recente, nonché più esplicitamente, CGUE, Settima Sezione, 18 novembre 2021, M.P., B.P. c. altri, C-212/20 (in particolare, §§ 68-69).

[35] Conclusioni dell’Avvocato Generale Giovanni Pitruzzella, presentate il 14 maggio 2019, Causa C-260/18, Dziubak c. Raiffeisen Bank International AG.

[36] CGUE, Seconda Sezione, 20 settembre 2018, OTP Bank Nyrt., OTP Faktoring Követeléskezelő Zrt. c. Teréz Ilyés, Emil Kiss, C-51/17, § 66 ss.

[37] I termini di questa alternativa sono ben colti da S. Pagliantini, L’effettività della tutela, cit., c. 0275 ss.

[38] CGUE, Terza sezione, 14 marzo 2019, Zsuzsanna Dunai c. ERSTE Bank Jungary Zrt., C-118/17, §§ 38 ss.

[39] In questo senso, anche, CGUE, Prima sezione, 15 marzo 2012, Jana Pereničová e Vladislav Perenič c. SOS financ spol. s r. o., C-453/10).

[40] CGUE, Seconda sezione, 31 maggio 2018, Zsolt Sziber c. ERSTE Bank Hungary Zrt., C-483/16.

[41] La portata e i contorni di questo principio sono oggetto di una pluralità di recenti lavori, fra i quali si ricordano, senza pretesa di esaustività, G. Vettori, Effettività fra legge e diritto, Giuffrè, 2020, 105; P. Iamiceli, Effettività delle tutele e diritto europeo. Un percorso di ricerca per e con la formazione giudiziaria, Quaderni dell’Università di Trento, 2020; D. Imbruglia, Effettività della tutela e ruolo del giudice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 978; E. Navarretta, Costituzione, Europa e diritto privato, Giappichelli, 2017, 35; N. Reich, General Principles of EU Civil Law, Cambridge University Press, 2013, 89; N. Trocker, L’Europa delle Corti sovranazionali: una storia di judicial activism tra tutela dei singoli ed integrazione degli ordinamenti giuridici, in Annuario di diritto comparato e studi legislativi, 2011, 110. Sulla declinazione dei principi di effettività, proporzionalità e dissuasività come criteri guida della moderazione giudiziale della nullità dei contratti dei consumatori, v., P. Iamiceli, Nullità parziale e integrazione del contratto nel diritto dei consumatori tra integrazione cogente, nullità ‘nude’ e principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle tutele, cit., 753, secondo cui «Se, dunque, effettività, proporzionalità e dissuasività sono ormai comunemente applicate tanto alle sanzioni quanto ai rimedi, il loro uso dovrebbe essere correlato alla natura e alla funzione primaria di ciascuna misura disposta dal giudice. Nel caso della nullità parziale, ciò significa garantire che, attraverso il rimedio, la parte protetta dalla nullità sia in grado di recuperare effettivamente le utilità perdute, di liberarsi dagli oneri o i rischi ingiustamente assunti; non invece che, in ragione di una funzione deterrente del rimedio, consegua arricchimenti ingiustificati o vada esente da responsabilità proprie».

[42] CGUE, Settima sezione, 1 giugno 2021, ordinanza, UP c. Banco Santander SA, C-268/19.

[43] Le difficoltà nel bilanciamento fra i diversi interessi in gioco emergono con evidenza dall’opinions che la Banca Centrale Europea fornisce su iniziativa degli Stati Membri in ambiti afferenti alle sue competenze, ai sensi degli artt. 127, par. 4 e 282, par. 5 Trattato sul Funzionamento dell’UE. In particolare, nell’Opinion relativa alla proposta di legge in Polonia, la BCE sottolinea che “in the case of Poland, risks associated with foreign currency loans do not, at present, appear to be of a systemic nature for the financial system and are not seen as representing a particular risk from a financial stability perspective […] The ECB notes that implementation of the draft law may entail significant financial costs for the banking sector. […] introducing measures with retroactive effect may also have some negative impact on the Polish economy if it leads to deterioration in foreign investor sentiment due to a perceived increase in legal uncertainty and country risk”, v., Opinion of the European Central Bank of 24 March 2017 on foreign exchange-linked loans (CON/2017/9).

[44] M. Lamicela, Valutazione di abusività ed effetti della nullità di protezione del consumatore: la strategia della deterrenza e l’effettività delle tutele, cit., 1557.

[45] CGUE, Seconda sezione, 31 maggio 2018, Zsolt Sziber contro ERSTE Bank Hungary Zrt, C-483/16, §§ 53-54.

[46] Diffusamente su questo meccanismo, G. Capaldo, Contratto aleatorio e alea, Milano, 2004.

[47] La tecnica dell’indicizzazione “semplice” ha natura, come si è anticipato, neutra, ed il caso dei finanziamenti a tasso variabile ne è un esempio. L’utilizzo di un benchmark per la determinazione del tasso di interesse che sia in grado di esprimere il costo medio al quale le banche “comprano” il denaro che concedono a prestito (i.e. EURIBOR, LIBOR, EONIA, €STER etc.) rappresenta un classico esempio di risk sharing: laddove l’intermediario goda di condizioni di funding più favorevoli, il meccanismo di indicizzazione consentirà anche al prenditore di denaro di beneficiarne, corrispondendo alla controparte un tasso di interesse in misura più ridotta. Ove, invece, il costo del denaro per la banca aumenti, il mutuatario sarà tenuto ad indennizzare la controparte sostenendo oneri maggiori per il finanziamento. In economia, il meccanismo di indicizzazione viene definito, a questo proposito, come strumento di giustizia distributiva, M. Friedman, Monetary correction. A proposal for escalator clauses to reduce the costs of ending inflation, London, Institut for Economic Affair, 1974, 74.

[48] A questa categoria possono annoverarsi tanto clausole che impongono barriere all’oscillazione del parametro (floor, cap, collar, corridor), quanto clausole che riconoscono facoltà di modifica unilaterale del profilo di rischio ad nutum (clausola di estinzione anticipata), ovvero al ricorrere di determinate condizioni (ius variandi, conversione, fall-back, etc.). Una panoramica più completa è offerta da, L. Gutkin, Die Europäisierung, cit.

[49] Questo aspetto concorre, a parere di chi scrive, a distinguere fra accordi di condivisione del rischio (o risk sharing) e accordi di trasferimento del rischio (risk transfering). Nel primo caso (risk sharing), a variare può essere la probabilità di verificazione dei singoli scenari (cd. scenari di probabilità), mentre l’incidenza che essi assumono sul valore delle prestazioni contrattuali rimane equamente distribuita fra le parti. Ad esempio, la probabilità che un EURIBOR allo 0% aumenti fino all’1% può essere maggiore, minore o uguale a quella per cui diminuisca fino al –1%; tuttavia, entrambe le parti sopporteranno le conseguenze della salita o la discesa del parametro, in termini di variazione di valore della prestazione contrattuale. Nel secondo caso (risk transfering), la variazione prodotta da alcuni scenari può essere sopportata solo da una delle parti, attraverso una diversa allocazione del rischio internalizzato attraverso il meccanismo di indicizzazione. Nell’esempio appena fatto, se le parti hanno convenuto la stipulazione di un floor allo 0%, le variazioni del benchmark inferiori a quella soglia non graveranno sulla parte beneficiaria del floor (nel caso del finanziamento, la banca).