La pronuncia del Consiglio di Stato in commento, dopo aver ribadito l’importanza dell’accertamento del mercato rilevante ed aver affermato la sua piena sindacabilità da parte del giudice amministrativo, ha definitivamente riconosciuto Moby S.p.a. e CIN S.p.a. colpevoli di condotte qualificabili quale “boicottaggio diretto”, suscettibili di configurare un abuso di posizione dominante. Alla luce di ciò, si prospettano in favore delle imprese, vittime dell’abuso, i rimedi previsti dal private enforcement antitrust, con particolare riferimento non solo alla tutela risarcitoria, bensì anche alla tutela inibitoria e, nello specifico, all’inibitoria definitiva, la quale – pur non essendo direttamente prevista dall’art. 33 della legge antitrust – potrebbe forse ricavarsi in via interpretativa da altre norme dell’ordinamento.
Parole chiave: Abuso di posizione dominante – mercato rilevante – boicottaggio diretto – private enforcement antitrust – inibitoria definitiva.
The related decision of the Council of State, besides having reaffirmed the importance of the assessment of the relevant market and its full jurisdiction by the administrative judge, has definitively declared Moby S.p.a. and CIN S.p.a. guilty of conducts qualifiable as “direct boycott”, capable of configuring an abuse of dominant position. In light of all this, the companies victims of the aforementioned abuse will be allowed to the remedies provided by the private enforcement antitrust system, with particular reference not only to the damage compensation, but also to the protection by injunctions and, in particular, to the definitive injunction, which – although not directly mentioned in the art. 33 of the italian antitrust law – could perhaps be derived in an interpretative way from other norms of the legal system.
Keywords: Abuse of dominant position – relevant market – direct boycott – private enforcement antitrust – definitive injuction.
L’esigenza di individuare un mercato rilevante si pone, nondimeno, quale presupposto indefettibile per determinare se la condotta indagata abbia la capacità di alterare “in maniera consistente il gioco della concorrenza” e, nel caso specifico di cui all’art. 3 l. n. 287/1990, al fine di accertare l’esistenza di una posizione dominante e le eventuali caratteristiche abusive di un determinato comportamento. Ne deriva che l’identificazione di un mercato di riferimento è funzionale alla stessa individuazione delle restrizioni della concorrenza vietate dagli articoli 2 e 3 della surrichiamata legge.
Il sindacato di questo giudice sui provvedimenti dell’AGCM si estende pure a quei profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne la legittimità. Ove questi includano valutazioni ed apprezzamenti che presentino un oggettivo margine di opinabilità (com’è per la definizione di mercato rilevante), lo scrutinio di legittimità s’invera in un controllo di logicità, coerenza e ragionevolezza di tale giudizio e nella verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità.
Costituiscono abuso di posizione dominante i comportamenti idonei ad incidere sulla struttura di un mercato rilevante dove, per effetto della presenza della dominante, il livello della concorrenza è già debole e che consistono non solo nell’effettivamente impedire, ma anche soltanto nel tentare di impedire, con mezzi diversi da quelli dell’ordinaria e proporzionata competizione in prodotti o servizi, che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo.
Non può farsi discendere da mere presunzioni ovvero da elementi probatori indiretti la dimostrata correlazione tra una condotta caratterizzata da una forte propensione alla scontistica e la qualificazione anticoncorrenziale ed escludente (delle altre imprese operanti nel mercato di riferimento) della condotta caratterizzata dalla pratica di offrire sconti fidelizzanti.
L’applicazione della entry fee per le ipotesi più gravi di illecito antitrust è indipendente dalla durata dell’infrazione e dagli effetti della condotta accertata.
Consiglio di stato, sez. vi, sent. 1 aprile 2021, n. 2727
1. Il caso - 2. L’accertamento dell’abuso di posizione dominante nella giurisprudenza eurounitaria e interna - 3. La decisione del Consiglio di Stato - 4. I possibili scenarî futuri sotto il profilo del private enforcement - NOTE
La controversia da cui origina la pronuncia in commento prende le mosse da una serie di denunce e segnalazioni che nell’anno 2016 pervengono all’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (di séguito anche Autorità garante, Autorità o AGCM), da parte di alcune società di logistica operanti in Sardegna (segnatamente la Trans Isole S.r.l. e la Nuova Logistica Lucianu S.r.l.) e dalla compagnia di navigazione Grimaldi Euromed S.p.a. (d’ora in poi Grimaldi). Tali denunce e segnalazioni evidenziavano una serie di condotte poste in essere dalle società Moby S.p.a., Compagnia Italiana di Navigazione S.p.a. (di séguito CIN) e Onorato armatori S.p.a. (successivamente fusa per incorporazione alla società Moby), consistenti – tra le altre cose – nell’ingiustificato rifiuto di accettare prenotazioni e di imbarcare automezzi, nonché nel recesso unilaterale dagli accordi commerciali e nel peggioramento delle condizioni economiche e commerciali applicate fino a quel momento, nei confronti delle società di logistica segnalanti. Il motivo di siffatte condotte viene ricollegato all’ingresso, a partire dal settembre del 2015, della compagnia Grimaldi nel mercato dei trasporti marittimi di merci da e per la Sardegna, attraverso l’inaugurazione della nuova rotta Palermo-Cagliari, con la successiva estensione su altre rotte. In effetti, il fatto che le società di logistica summenzionate avevano trasferito una parte delle proprie merci sulle navi di Grimaldi aveva scatenato la «reazione» della Moby (inclusa l’Onorato armatori, successivamente incorporata) e della CIN, le quali allora avevano intrapreso una serie di misure allo scopo di dissuadere tutte le società di logistica operanti sul mercato sardo dall’utilizzare i servizi della compagnia Grimaldi, in modo da ostacolarne la permanenza nel mercato. Così, se da un lato nei confronti delle imprese di logistica che si erano avvalse dei servizî della nuova concorrente Grimaldi, ritenute «traditrici», la Moby e la CIN avrebbero attuato le misure «punitive» di cui sopra, al contrario, in favore delle imprese di logistica «fedeli», avrebbero applicato una serie di misure «premianti», attraverso la concessione di sconti e condizioni favorevoli a fronte dell’utilizzo, in via esclusiva, dei loro servizî di trasporto.
Alla luce delle suddette segnalazioni, l’AGCM apriva in data 6 aprile 2016 un procedimento istruttorio per possibile abuso di posizione dominante, ai sensi dell’art. 102 TFUe. Dopo aver delimitato ed individuato i mercati rilevanti nei tre principali fasci di rotte tra la Sardegna e la penisola, ossia le rotte del comparto Nord Sardegna-Nord Italia (NS-NI), quelle del comparto Nord Sardegna– Centro Italia (NS-CI) e, infine, quelle del comparto Sud Sardegna-Centro Italia (SS-CI), l’Autorità rinveniva in esse una posizione dominante delle imprese Moby e CIN, a causa soprattutto delle rilevanti quote di mercato dalle stesse detenute. Inoltre, le condotte poste in essere da queste ultime, qualificate dall’Autorità come boicottaggi diretti (in relazione a quelle sopra definite condotte «punitive») e indiretti (in relazione a quelle sopra definite condotte «premianti»), venivano considerate anticoncorrenziali e, per l’effetto, integranti l’abuso della riconosciuta posizione dominante, ex art. 102 TFUe, in quanto dirette a realizzare «un’unica e articolata strategia tesa all’esclusione dei concorrenti, attuali e potenziali, nei mercati rilevanti, intenzionalmente realizzata tramite un’azione di boicottaggio diretto e indiretto nei confronti delle imprese di logistica che si erano rivolte ai concorrenti, per scoraggiarle dall’avvalersi dei loro servizi di trasporto marittimo» . Conseguentemente, anche in applicazione della entry fee prevista dalle linee guida dell’AGCM, avente lo scopo di aumentare l’effetto dissuasivo della sanzione, l’Autorità – con provvedimento n. 27053 del 28 febbraio del 2018 – irrogava in solido alla CIN e alla Moby una sanzione amministrativa pecuniaria pari a 29.202.673,73, da corrispondere entro il termine di novanta giorni dalla notificazione del provvedimento, oltre ad ordinare l’immediata cessazione delle condotte illecite accertate.
Avverso il provvedimento dell’AGCM presentavano ricorso al Tar del Lazio le stesse CIN e Moby.
Il Tribunale amministrativo, con la sentenza n. 7175 del 4 giugno 2019, pur confermando sostanzialmente l’impianto istruttorio del provvedimento dell’Autorità, per quanto riguarda la determinazione del mercato rilevante, l’affermazione di una posizione dominante delle ricorrenti e la configurazione dell’abuso di tale posizione, accoglieva parzialmente il ricorso presentato, nella parte relativa alla misura della sanzione irrogata, annullando la relativa statuizione prevista nel provvedimento dell’Autorità e rinviando a quest’ultima per una nuova e concreta quantificazione, in diminuzione, della sanzione. Il Tribunale giustificava inoltre la necessità di una riduzione della sanzione sulla base di un duplice rilievo. In primo luogo, si evidenziava il mancato approfondimento, da parte dell’Autorità, in sede di istruttoria, delle ragioni dirette a dimostrare l’effettiva portata anticoncorrenziale delle condotte rientranti nel c.d. «boicottaggio indiretto», con particolare riferimento all’applicazione della scontistica a favore dei clienti «fedeli». In secondo luogo, si contestavano le modalità di irrogazione della sanzione, sia sotto il profilo della carenza di giustificazione per l’applicazione della entry fee di cui alle Linee guida dell’AGCM [1], che prevedono, allo scopo di aumentare l’effetto deterrente della sanzione imposta dall’Autorità, la possibilità di imporre un incremento della sanzione sulla base di una somma compresa tra il 15 e il 25% del valore dei beni o servizî oggetto dell’infrazione, ma esclusivamente in riferimento «alle più gravi restrizioni della concorrenza». Proprio in relazione alla richiesta gravità dell’infrazione il Tribunale interpellato rilevava come – nel caso di specie – l’Autorità si fosse limitata ad una mera petizione di principio, senza motivare effettivamente al riguardo. Inoltre, il Tar rilevava come anche l’individuazione del parametro base della sanzione, rinvenuto dall’AGCM nella percentuale del 9% delle vendite (solamente un punto percentuale inferiore rispetto alla misura massima prevista dall’art. 15 della l. n. 287/1990), fosse criticabile e dovesse essere rivista al ribasso, considerando la carenza motivazionale, da parte dell’Autorità, circa la perduranza delle infrazioni fino al momento dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio, con necessità dunque della riduzione dell’arco temporale delle stesse.
Nei confronti della sentenza di primo grado ha proposto appello, innanzi al Consiglio di Stato, l’AGCM, la quale ha chiesto la riforma della stessa, nella parte in cui accoglieva parzialmente il ricorso di Moby e CIN. Allo stesso modo, con sette distinti motivi di appello, hanno presentato ricorso avverso la sentenza di primo grado anche Moby e CIN. Infine, ha presentato appello anche la società Grendi Trasporti Marittimi S.p.a., la quale era intervenuta medio tempore nel corso del procedimento di vigilanza svolto dall’Autorità, con richiesta del 10 febbraio 2017, accolta con atto del 14 marzo 2017.
Prima di soffermarci sull’analisi della pronuncia del Consiglio di Stato, qui commentata, è necessario premettere brevemente, al fine di un loro inquadramento generale, taluni cenni in relazione ad importanti concetti quali quello di «mercato rilevante», quello di «posizione dominante» e quello di «abuso» di una tale situazione, alla luce delle principali pronunce giurisprudenziali, sia eurounitarie, sia nazionali.
Nel procedimento volto all’accertamento di un abuso di posizione dominante, il primo passo da compiere è certamente quello dell’individuazione e delimitazione del mercato rilevante, posto che questo rappresenta senz’altro il presupposto necessario della stessa posizione di dominanza [2], la quale risulta essere «intrinsecamente dipendente» [3] dal concetto qui analizzato. L’essenziale funzione della delimitazione del mercato rilevante è dunque quella di delineare lo scenario, o meglio ancora il perimetro concorrenziale [4], all’interno del quale collocare l’impresa che si suppone avere una posizione dominante nel medesimo, al fine di verificare, concretamente e caso per caso, se effettivamente essa goda al suo interno di una posizione di dominio. Il concetto di mercato rilevante può essere scomposto a sua volta in due ulteriori articolazioni: il mercato del prodotto rilevante e il mercato geografico rilevante, compiutamente definite dalla Commissione delle Comunità europee nella sua comunicazione del 9 dicembre 1997 [5]. La corretta delimitazione del mercato rilevante passa necessariamente da una esatta definizione e dalla combinazione delle sue componenti, come sopra specificate. Così, una volta delineata, nella prospettiva del mercato geografico, la «determinata area geografica nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee» [6], all’interno della quale i consumatori orientano la propria domanda verso il prodotto economicamente più vantaggioso, è possibile individuare – nella prospettiva del mercato del prodotto – le imprese che in concreto possono porsi in concorrenza con quella indagata [7], le quali non necessariamente devono vendere lo stesso prodotto dell’impresa sospettata di detenere una posizione dominante, essendo sufficiente – in base al rilevante principio della sostituibilità del prodotto, sia sul lato della domanda [8], sia sul lato dell’offerta [9] – che questo sia sostituibile o intercambiabile dai consumatori con quelli offerti dai concorrenti. Così, all’esito del processo di delimitazione del mercato rilevante viene individuato quello che la giurisprudenza ha più volte definito «il più piccolo contesto» [10] all’interno del quale può sussistere una concorrenza effettiva tra i prodotti che ne fanno parte, ciò proprio in virtù dell’intercambiabilità degli stessi.
Una volta individuato e delimitato il mercato rilevante è possibile stabilire se, in esso, l’impresa indagata detenga o meno una posizione dominante. Tuttavia, in assenza, nell’art. 102 TFUe (e nella corrispettiva norma di diritto interno, l’art. 3 della l. n. 287/1990), di una specifica definizione normativa della posizione di dominio in uno specifico mercato, la relativa nozione deve essere ricavata aliunde. In proposito, un ruolo decisivo è assolto dalla giurisprudenza eurounitaria, che ha elaborato la tradizionale nozione di «posizione dominante», definendola come «una posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione, ed ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei concorrenti, dei clienti e, in ultima analisi, dei consumatori» [11]. L’elemento centrale della nozione giurisprudenziale di cui sopra non risiede tanto nell’assenza di concorrenza in sé, la quale dunque può anche sussistere, salvo una conformazione assolutamente monopolistica del mercato, quanto piuttosto nella condizione di indipendenza [12] in cui si trova l’impresa dominante rispetto alle altre imprese che agiscono nel medesimo mercato e degli stessi consumatori [13].
L’attività di accertamento della posizione di dominio su uno specifico mercato rilevante si presenta particolarmente complessa e difficoltosa, in quanto si fonda su un concetto, quello della sostanziale indipendenza dell’impresa dominante, rispetto ai concorrenti (attuali o potenziali), che si caratterizza per un’eccessiva indeterminatezza [14], non essendo chiaro quale sia il livello di indipendenza ritenuto sintomatico di una posizione di dominanza. A tal fine, sono state individuate due categorie di criterî utili nell’accertamento in discorso: si tratta dei criterî c.d. strumentali e di quelli c.d. comportamentali. La prima categoria è sicuramente la più importante, posto che – secondo le indicazioni della giurisprudenza eurounitaria [15] – è ad essi che si deve ricorrere in prima battuta nel processo di accertamento della posizione dominante. Tra i criterî strutturali, il principale è sicuramente quello relativo alla quota di mercato detenuta dall’impresa indagata [16], la quale dovrà valutarsi avendo riguardo soprattutto «del fatturato realizzato nel mercato comune, sia dall’impresa in esame, che dai suoi concorrenti» [17]. In presenza di una quota di mercato particolarmente elevata (uguale o superiore al 50% del mercato complessivo), infatti, l’impresa titolare della stessa si presume essere, salvo prova contraria [18], e salvo circostanze eccezionali, in posizione dominante in quello specifico mercato rilevante [19], senza alcuna necessità di vagliare la posizione dei concorrenti.
Qualora, invece, la quota di mercato imputabile all’impresa sotto esame si assesti tra il 40 e il 50% del mercato complessivo, tale circostanza non sarà di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di una posizione dominante, ma dovrà essere valutata esclusivamente in rapporto alla forza e al numero delle imprese concorrenti [20]. Infine, al di sotto della soglia di rilevanza del 40%, l’impresa tendenzialmente non sarà considerata in posizione dominante, ferma restando la possibilità per l’organo di controllo antitrust di esaminare eventualmente, in taluni casi specifici, il comportamento tenuto sul mercato da imprese che, pur detenendo una quota inferiore alla soglia di rilevanza, si mostrano del tutto indipendenti rispetto ai concorrenti, i quali non riescono a contrastare il suo potere [21].
Ad ogni modo, affinché possa riconoscersi effettivamente in capo all’impresa indagata una posizione di dominio nel mercato rilevante, oltre alla detenzione di una quota di mercato di una certa entità occorre altresì che la stessa abbia carattere durevole [22].
Per quanto riguarda, invece, la seconda categoria sopraindicata, ossia quella dei criterî comportamentali, si è accennato come questi – almeno secondo il maggioritario orientamento giurisprudenziale [23] – assumano un carattere sussidiario rispetto ai criterî relativi alla struttura del mercato, con la conseguenza che i primi non andranno considerati alternativi, rispetto ai secondi, quanto piuttosto aggiuntivi rispetto ai medesimi, avendo la funzione di confermare ed avvalorare i risultati raggiunti per il tramite dell’analisi strutturale del mercato, ovvero di implementarli, là dove la suddetta analisi non fornisse una soluzione univoca [24].
Infine, per quanto riguarda il concetto di abuso della posizione dominante, la sua importanza ai fini della configurazione della fattispecie di illecito concorrenziale è assolutamente decisiva, posto che – ad essere vietato – non è la detenzione di una posizione di dominio nel mercato, quanto piuttosto lo sfruttamento abusivo della stessa [25]. Anche in relazione all’abuso manca, nella normativa antitrust, un’espressa definizione, anche se è presente nell’art. 102 TFUe (e, in àmbito interno, nell’art. 3 della l. n. 287/1990) un elenco, non tassativo quanto piuttosto meramente esemplificativo [26], di condotte considerate abusive. In assenza di una definizione normativa, è stata la giurisprudenza, specialmente eurounitaria, ad operare uno sforzo in ordine alla ricostruzione di un siffatto concetto. Un punto fermo in proposito è stato posto dalla citata pronuncia Hoffman La Roche, la quale ha chiarito come «la nozione di sfruttamento abusivo è una nozione oggettiva che riguarda il comportamento dell’impresa in posizione dominante atto a influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio in virtù del fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di ostacolare […] la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza» [27].
Si afferma dunque la concezione c.d. oggettiva [28] dell’abuso, in base alla quale è da considerarsi abusivo ogni comportamento dell’impresa dominante idoneo a produrre, anche solo potenzialmente [29], effetti pregiudizievoli in relazione al regime concorrenziale, a prescindere dalla ricorrenza di una effettiva volontà, in tal senso, da parte della stessa [30]. Il carattere oggettivo riconosciuto all’abuso si fonda sulla c.d. speciale responsabilità gravante – secondo l’opinione comune [31] – sull’impresa in posizione dominante, che le imporrebbe di agire in modo da non compromettere, con il suo comportamento, lo svolgimento di una concorrenza effettiva e non falsata.
Peraltro, la condotta posta in essere dall’impresa dominante non potrà considerarsi abusiva là dove sussista una giustificazione economica-commerciale obiettiva per la stessa, come – ad esempio – la presenza di una situazione di pericolo per gli interessi commerciali dell’impresa [32], ovvero la necessità di reagire ad una aggressione, purché la reazione sia proporzionata alla minaccia, che rendano la condotta potenzialmente abusiva «obiettivamente necessaria» [33].
A seconda degli effetti anticoncorrenziali che la condotta abusiva è potenzialmente in grado di produrre, nonché delle finalità perseguite dall’impresa in posizione dominante, generalmente si suole distinguere [34] tra abusi di esclusione (o escludenti, o ancora da impedimento) [35] e abusi di sfruttamento [36].
La suddetta distinzione, ancorché meramente descrittiva [37], è piuttosto utile nell’individuazione dei criterî di accertamento dell’abusività della condotta. Così, per l’accertamento di un abuso di sfruttamento potrà farsi ricorso al principio di proporzionalità [38], mentre – al contrario – in presenza di un abuso escludente (o da impedimento, ovvero preclusivo), dovrebbe piuttosto verificarsi se la condotta dell’impresa dominante sia diretta a realizzare un’efficienza concorrenziale superiore, ovvero se costituisca manifestazione di una tendenza volta ad offrire maggiori garanzie di soddisfacimento dei bisogni della clientela, posto che in entrambi i casi rileverebbe una giustificazione oggettiva economico-commerciale tale da rendere lecita una condotta che altrimenti dovrebbe ritenersi illecita e, dunque, abusiva.
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopraindicati, in ordine all’accertamento dell’abuso di dipendenza economica, è possibile analizzare compiutamente la pronuncia in esame, al fine di verificare come il Consiglio di Stato abbia, nella decisione in commento, fatto applicazione dei principî concorrenziali espressi nel corso degli anni dagli organi giurisdizionali.
Preliminarmente, occorre chiarire come in ordine alla delimitazione e individuazione del mercato rilevante, l’accertamento dell’esistenza di una posizione dominante in capo a Moby e CIN, nonché alla qualificazione delle condotte di queste ultime come abusive, il Consiglio di Stato aderisce in linea di massima alle prospettazioni dapprima formulate dall’AGCM e successivamente ribadite dal Tribunale amministrativo. Difatti, come anche ribadito nella pronuncia in esame, è pacifico che la delimitazione del mercato rilevante sia di competenza, in via esclusiva, dell’Autorità garante, nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica. Tale operazione è comunque suscettibile di essere sindacata, tanto dai giudici dei tribunali amministrativi regionali, quanto da quelli del Consiglio di Stato. Tuttavia, i giudici amministrativi possono sostituirsi all’AGCM esclusivamente qualora – nella ricostruzione operata da quest’ultima – ravvisino vizî di travisamento dei fatti, vizî logici e violazioni di legge [39]. Quest’ultimo passaggio necessita un breve approfondimento. In via generale, si ritiene che i provvedimenti sanzionatorî emessi dall’Autorità garante siano soggetti al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, ciò in ossequio ai principî espressi dalla giurisprudenza della CEDU [40] che, nelle ipotesi di sanzioni c.d. «quasi-penali», tra le quali sono pacificamente riconducibili quelle antitrust [41], affermano il diritto del soggetto punito di avvalersi di una successiva fase di piena giurisdizione (full jurisdiction), che consenta un sindacato completo sulla sanzione applicata [42]. D’altronde, in tema di discrezionalità tecnica può considerarsi definitivamente attribuito al giudice amministrativo il potere di operare un controllo che non si limita più ad una mera valutazione estrinseca circa la logicità, la congruità, la ragionevolezza e la corretta motivazione dell’atto [43], ma che si estende intrinsecamente al fatto, nonché alle modalità e all’iter seguiti dall’Autorità indipendente per il suo accertamento. Tuttavia, un limite [44] al suddetto sindacato giurisdizionale può profilarsi nel caso in cui l’Autorità, esercitando la propria discrezionalità tecnica, sia chiamata – nella fase della c.d. applicazione e concretizzazione di «concetti giuridici indeterminati» [45] – ad una verifica o valutazione di aspetti a carattere tecnico che presentino obiettivi margini di opinabilità. In uno scenario del genere, infatti, stante l’opinabilità in discorso, un controllo di tipo intrinseco del giudice, fondato su presupposti e principî riferibili a scienze inesatte e potenzialmente equivoche come quelle economiche [46], non potrebbe essere concepito in senso sostitutivo, perché ciò vorrebbe dire affermare il potere del giudice amministrativo di sostituire, alla valutazione opinabile compiuta dall’Autorità, la propria valutazione altrettanto opinabile.
Si configurerebbe allora un sindacato intrinseco non sostitutivo che, sfuggendo alla classica contrapposizione tra sindacato debole e sindacato forte, ritenuta tra l’altro ormai superata dalla giurisprudenza [47], è stato definito come un «sindacato di attendibilità tecnica» [48]. Per tali motivi, si ritiene che in ipotesi siffatte, tra le quali rientra certamente anche la definizione del mercato rilevante, che coinvolge nel suo accertamento parametri economici non certo univoci, il sindacato giurisdizionale debba limitarsi a valutare la plausibilità dell’impostazione adottata dall’Autorità indipendente, verificando che, nel rispetto dei criterî generali di logicità, attendibilità e adeguatezza dell’istruttoria, la stessa non abbia esorbitato il margine di opinabilità [49] nell’esame di profili tecnici. Tale conclusione, a ben vedere, risulta essere del tutto coerente, dal punto di vista logico, con il principio di autonomia delle Autorità in discorso, alle quali è riconosciuta una specifica competenza tecnica.
Delineati, in generale, i limiti entro i quali l’individuazione del mercato rilevante compiuta dall’Autorità può essere sindacata dal giudice amministrativo, è d’uopo evidenziare come nel caso di cui al presente commento i giudici non solo abbiano ritenuto che l’iter ricostruttivo, compiuto dall’AGCM nell’individuazione del mercato rilevante, fosse del tutto scevro da profili di illogicità, irragionevolezza, inadeguatezza istruttoria e di illegittimità, ma abbiano altresì evidenziato come lo stesso fosse svolto adottando criterî di individuazione del mercato rilevante ritenuti conformi al procedimento valutativo considerato corretto nella giurisprudenza eurounitaria e nazionale.
Nello specifico, anche nella pronuncia in commento – conformemente all’orientamento giurisprudenziale maggioritario – viene evidenziata l’importanza che, nel processo di accertamento di un abuso di posizione dominante, assume l’individuazione e la delimitazione del mercato rilevante, nonostante ciò non sia espressamente prescritto dalle norme concorrenziali (in particolare dagli artt. 2 e 3 della l. n. 287/1990), posto che – si evidenzia – «la definizione del mercato, sotto il profilo merceologico e geografico, è necessaria per individuare l’ambito nel quale le imprese interessate sono in concorrenza tra loro e le pressioni concorrenziali alle quali le stesse sono sottoposte, in termini di sostituibilità dell’offerta, sostituibilità della domanda e concorrenza potenziale» [50]. In altri termini, l’importanza di una siffatta delimitazione è ricondotta al ruolo di «presupposto indefettibile» in relazione alla complessiva operazione di accertamento della condotta anticoncorrenziale, costituendo una delle sue più importanti «fasi funzionali». Viene così offerta dal Consiglio di Stato una definizione minimale del mercato rilevante, da intendersi – nel solco della giurisprudenza pronunciatasi sul punto [51] – «come il più piccolo contesto (in termini di prodotti e di area geografica) in cui, se si creassero condizioni di monopolio, il monopolista potrebbe profittevolmente fissare un prezzo significativamente superiore a quello concorrenziale e mantenerlo per un certo periodo di tempo». Si accede dunque all’impostazione affermatasi nella giurisprudenza eurounitaria che affida alla definizione del mercato rilevante il compito di definire il perimetro all’interno del quale operare la valutazione diretta a verificare se l’impresa indagata sia in grado di tenere condotte indipendenti non solo rispetto ad eventuali concorrenti, ma anche nei confronti dei suoi clienti e dei consumatori [52]. Tuttavia, nello specifico àmbito dei servizî di trasporto, la delimitazione del mercato rilevante non è data – come invece sostenuto in via generale dalla giurisprudenza eurounitaria – dalla combinazione del mercato geografico e del mercato del prodotto rilevante, poiché in esso la dimensione geografica appare intrinseca, rendendo così irrilevante la distinzione tra dimensione geografica e del prodotto. Così, il mercato del trasporto globalmente inteso viene ad essere frazionato in una pluralità di rotte (o fasci di più rotte, quando tra le stesse si ritenga vi sia un alto grado di sostituibilità) che legano uno o più punti di partenza, con uno o più punti di destinazione, delineando così singoli e specifici mercati rilevanti [53].
Alla luce di quanto sopra, il Consiglio di Stato, come in precedenza il Tar, ha confermato l’impostazione dell’AGCM, diretta a delimitare – nel caso di specie – il mercato rilevante ai tre fasci di rotte [54]: i) Nord-Sardegna-Nord-Italia (NS-NI), costituito dalle rotte Olbia-Genova (e viceversa), Porto Torres-Genova (e viceversa) e Porto Torres-Savona (e viceversa); ii) Nord Sardegna-Centro Italia (NS-CI), comprendente le rotte Olbia-Civitavecchia (e viceversa), Olbia-Livorno (e viceversa), Olbia-Piombino (e viceversa), Golfo Aranci-Livorno (e viceversa), Porto Torres-Civitavecchia (e viceversa); Sud Sardegna-Centro Italia (SS-CI), di cui fanno parte le rotte Cagliari-Civitavecchia (e viceversa), Cagliari-Livorno (e viceversa), Cagliari-Marina di Carrara (e viceversa).
Anche per ciò che concerne il concreto accertamento della posizione dominante, la pronuncia in esame non si discosta dai principali arresti maturati nella giurisprudenza interna e eurounitaria. Così, il Consiglio di Stato aderisce alla ricostruzione dell’AGCM, già confermata in primo grado, che individua una posizione di dominio in capo alla Moby e alla CIN attraverso il ricorso, in primo luogo al fondamentale criterio delle quote di mercato. Come evidenzia il Consiglio, infatti, se è vero che l’esistenza di una posizione dominante «può risultare da diversi fattori che, considerati isolatamente, non sarebbero necessariamente determinanti», non si può negare che, salvo circostanze eccezionali, «quote di mercato estremamente elevate costituiscono di per sé la prova dell’esistenza di una posizione dominante» [55].
Nello specifico, l’Autorità garante, con l’avallo del Tar prima e del Consiglio di Stato poi, ritiene che le società in esame detenessero, al momento dei fatti contestati e successivamente all’ingresso nel mercato dell’impresa concorrente, una quota di mercato, relativamente ai fasci di rotte Nord Sardegna-Centro Italia (NS-CI) e Sud Sardegna-Centro Italia (SS-CI), oscillante tra il 60 e il 70%, mentre si trovava, in relazione ai fasci di rotte Nord-Sardegna-Nord-Italia (NS-NI), in una posizione sostanzialmente monopolistica. Si vede dunque come non soltanto la soglia di rilevanza (del 40%) fosse abbondantemente superata, ma anche il limite del 50% del mercato rilevante, che consentirebbe – in base a quanto detto in precedenza – di presumere ex se l’esistenza di una posizione dominante in capo all’impresa, a prescindere dalle quote di mercato detenute dalle concorrenti, risulta essere grandemente oltrepassato. Cionondimeno, il Consiglio, e ancor prima l’AGCM, non si sottraggono comunque ad un giudizio relazionale, ravvisando come la quota di mercato detenuta dall’impresa concorrente (ossia Grimaldi) fosse inferiore, nell’ordine, di due o tre volte rispetto a quelle delle imprese considerate dominanti.
Un altro rilevante aspetto preso in considerazione dal Supremo Consesso amministrativo, nella determinazione circa l’esistenza, in capo alle ricorrenti, di una posizione dominante, è quello relativo alla convenzione di servizio pubblico [56] stipulata tra lo Stato italiano e CIN il 18 luglio 2012 per la realizzazione della continuità territoriale nel trasporto di passeggeri e merci, attraverso collegamenti marittimi da e verso le isole maggiori e minori, in vigore al momento dei fatti contestati. Nonostante Moby e CIN abbiano, nei loro atti difensivi, affermato come tale convenzione si sia in concreto tradotta in una serie di svantaggi economici e concorrenziali, i giudici di Palazzo Spada, aderendo all’impostazione del Tribunale amministrativo adito in primo grado, si sono mostrati di avviso contrario, ritenendo che la titolarità della stessa portasse alla stipulante indubbi vantaggi competitivi, non solo per la previsione dei meccanismi di riequilibrio economico finanziario e delle clausole di flessibilità (che consentono alle ricorrenti la disapplicazione dei vincoli tariffari nei periodi estivi, quando le rotte sono più redditizie), ma anche (e soprattutto) perché la convenzione in oggetto «si traduce in una “barriera” all’entrata capace di ostacolare l’ingresso di concorrenti sul mercato».
Per quanto riguarda, invece, l’accertamento dell’abuso, il Consiglio di Stato, dopo aver ribadito come oggetto del divieto posto dalla normativa antitrust non è tanto la detenzione, di per sé, di una posizione di dominio nel mercato rilevante, quanto piuttosto lo sfruttamento abusivo della medesima [57], offre una definizione di abuso pienamente conforme alla giurisprudenza maggioritaria espressasi sul punto, riconducendolo a quei «comportamenti idonei ad incidere sulla struttura di un mercato rilevante dove, per effetto della presenza della dominante, il livello della concorrenza è già debole e che consistono non solo nell’effettivamente impedire, ma anche soltanto nel tentare di impedire, con mezzi diversi da quelli dell’ordinaria e proporzionata competizione in prodotti o servizi, che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo» [58]. Pur aderendo ad una concezione oggettiva dell’abuso, testimoniato dal riferimento alla speciale responsabilità che si ritiene gravare sull’impresa in posizione dominante [59], il Consiglio di Stato si sofferma sul rilievo da attribuire all’intento anticoncorrenziale dell’impresa dominante, sottolineando come «se si dimostra che lo scopo perseguito dal comportamento di un’impresa dominante è di restringere la concorrenza, un tale comportamento è di per sé pregiudizievole, in quanto può anche comportare tale effetto» [60]. In sostanza, secondo i giudici di Palazzo Spada, non solo il suddetto intento varrebbe quale indizio, da considerare unitamente ad altri elementi di fatto, per l’accertamento di un’ipotesi di abuso [61], bensì addirittura da esso si potrebbe ricavare direttamente l’abuso, poiché – anche in assenza di concreti effetti restrittivi – una siffatta condotta, posta in esser con intento escludente o in generale distorsivo, renderebbe chiara la sua portata potenzialmente anticoncorrenziale. Sul punto, la pronuncia in esame si discosta in misura rilevante rispetto all’orientamento giurisprudenziale tradizionale. Difatti, se non si può dubitare – come si afferma nella pronuncia, anche attraverso il richiamo alla giurisprudenza eurounitaria [62] – che per integrare l’abuso non sia strettamente necessario il prodursi di effetti restrittivi del regime concorrenziale, essendo a ciò sufficiente la mera potenzialità [63] dannosa della condotta, nel caso di specie il Consiglio non ritiene necessario dimostrare l’astratta vis anticoncorrenziale della condotta, in quanto la pericolosità della stessa, che giustificherebbe l’azionamento della tutela antitrust, risiederebbe direttamente nell’intento dell’impresa dominante, ritenuta in sé e per sé «idonea a turbare il suo funzionamento corretto e in esso la libertà stessa del mercato» [64]. Questa nuova tendenza, emersa recentemente nella giurisprudenza, troverebbe giustificazione in particolare in relazione a quelle condotte per le quali mancano sedimentate valutazioni di dannosità, ovvero per quelle dove potrebbe rinvenirsi facilmente una spiegazione alternativa lecita [65]. Tuttavia, come evidenziato in dottrina [66], procedendo in tal senso si correrebbe il rischio di sanzionare falsi positivi, con ciò che ne consegue in punto di certezza giuridica. Pertanto, sarebbe auspicabile una maggiore armonizzazione della tendenza in discorso con il tradizionale principio che afferma la natura oggettiva della nozione di abuso di posizione dominante, in modo da evitare accertamenti di condotte illecite fondati in via esclusiva sull’intento anticoncorrenziale dell’impresa dominante [67].
Premesso quanto sopra, il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato come l’art. 102 TFUe (ma lo stesso vale, ovviamente, anche per l’art. 3 della l. n. 287/1990) si limiti ad esplicitare un elenco esemplificativo e non certo tassativo di pratiche considerate abusive, si concentra sulle condotte concretamente poste in essere da Moby e CIN. Tali condotte, aderendo all’impostazione adottata già dall’AGCM e, successivamente, dal Tribunale amministrativo, vengono distinte in condotte integranti «boicottaggio diretto» e condotte integranti «boicottaggio indiretto». Per quanto concerne il c.d. boicottaggio diretto, in questo vengono incluse quelle condotte consistenti in mancati imbarchi, in recessi unilaterali anticipati dai rapporti commerciali in atto, nonché nell’applicazione di condizioni economiche e commerciali svantaggiose nei confronti dei caricatori infedeli. Si evidenzia, riprendendo il contenuto della sentenza di primo grado, come a partire dall’autunno 2015 «le ricorrenti avrebbero “ripetutamente” rifiutato l’imbarco a tali clienti “traditori”, i quali, sempre a fini ritorsivi, sarebbero pure stati destinatari di ulteriori penalizzazioni economiche e commerciali, sostanzialmente consistite in recessi contrattuali anticipati e peggioramento delle condizioni commerciali concernenti le modalità e i termini di pagamento». Tali condotte erano già state considerate dal giudice di prima istanza idonee non soltanto ad arrecare un rilevante pregiudizio economico per le imprese di logistica considerate traditrici, in quanto determinavano un sostanziale peggioramento delle condizioni di accesso alle rotte su cui Moby e CIN avevano una posizione dominante, bensì anche a causare un pregiudizio sia alla concorrenza (obbligando nei fatti Grimaldi ad aprire un’ulteriore rotta al fine di consentire ai proprî clienti di far fronte al sostanziale monopolio delle imprese dominanti nelle tratte NS-NI), sia ai consumatori dei beni oggetto di trasporto Vengono così integrati, secondo i giudici di primo grado, i presupposti dell’abuso, con particolare riferimento alla lett. b) (limitazione della produzione, degli sbocchi e dello sviluppo tecnico a danno dei consumatori) e alla lett. c) (applicazione nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando per questi uno svantaggio nella concorrenza), dell’art. 102 TFUe. Il Consiglio di Stato aderisce completamente a tale impostazione, negando in via assoluta la presenza di una giustificazione economico-commerciale oggettiva suscettibile, come detto, di escludere il carattere di abusività delle condotte, ritenendo le giustificazioni addotte dalle appellanti «inattendibili», oppure «flebili», «generiche», ma anche «indimostrate».
Discorso diverso, invece, deve essere fatto per quanto riguarda il c.d. boicottaggio indiretto, che avrebbe avuto inizio – secondo la ricostruzione dell’AGCM – nel gennaio 2016, attraverso l’attribuzione alle imprese fedeli di vantaggi economici, «consistenti in sconti su tutte le rotte, svincolati dalle caratteristiche delle medesime, dai volumi trasportati e dai ricavi generati dal servizio, anche questi finalizzati alla penalizzazione dei “traditori”, vittime anche di un’attività di sottrazione di clientela da parte delle imprese “fedeli”, consapevoli della strategia escludente e attivamente coinvolte nella stessa». L’applicazione di una siffatta scontistica costituiva, per l’Autorità garante, parte di una strategia escludente a valenza anticompetitiva, posta in essere da Moby e CIN, posto che tali sconti «servivano infatti ad incrementare il sistema di penalizzazioni che Moby/CIN infliggeva ai caricatori traditori ogni volta che questi avevano la necessità di viaggiare su una direttrice di traffico in cui la concorrenza era assente», traducendosi così in un ingiustificato vantaggio competitivo e discriminatorio a vantaggio delle imprese fedeli e a discapito di quelle ritenute traditrici.
Il Consiglio di Stato, dopo essersi soffermato sulla principale giurisprudenza eurounitaria [68] e nazionale [69] in tema di abuso di posizione dominante realizzato per il tramite di pratiche di prezzi e di scontistiche, rileva tuttavia una carenza istruttoria dell’AGCM, confermando in ciò la posizione già assunta dal Tribunale amministrativo nel precedente grado di giudizio. In particolare, il Collegio evidenzia come non sia stato adeguatamente approfondito dall’Autorità garante «il contributo procedimentale che le due società hanno messo a disposizione dell’Autorità con riferimento al contestato “boicottaggio indiretto” legato alla messa in campo di un aggressivo metodo di scontistica che tendeva ad escludere, nel tempo, dai servizi offerti le c.d. imprese “infedeli” o “traditrici”». Evidenziano i giudici come tale difetto istruttorio risulti essere alquanto importante, posto che – in base alla giurisprudenza pronunciatasi in materia – affinché la propensione alla scontistica dell’impresa dominante possa ritenersi finalizzata alla previsione di sconti fidelizzanti, con conseguente qualificazione in termini di abuso escludente, nei confronti di altri eventuali concorrenti operanti nel medesimo mercato di riferimento, non è sufficiente il ricorso a mere presunzioni o a elementi probatorî indiretti, bensì è necessaria una accurata valutazione istruttoria, che nel caso di specie viene del tutto a mancare, al contrario di quanto accade per altri profili delle condotte contestate, su cui – come rileva il Consiglio di Stato – l’AGCM si è invece prodigata in un’indagine puntuale.
Infine, anche per quanto riguarda l’applicazione dell’aggravamento della sanzione, per il tramite della c.d. entry fee, i giudici di Palazzo Spada, dopo aver richiamato i precedenti della Sezione in materia [70], che affermano l’assoluta necessità di una adeguata motivazione per l’applicazione dell’incremento dell’importo sanzionatorio, ravvisano come nel caso di specie il requisito della specifica motivazione [71] viene a mancare, posto che «le indicazioni che costituirebbero l’ossatura della motivazione dell’aggravamento dell’entità della sanzione inflitta appaiono solo enunciate, con una elencazione dei singoli elementi di gravità dell’infrazione (e quindi delle condotte messe in campo e degli effetti delle stesse), senza però approfondire puntualmente, come sarebbe stato necessario, gli aspetti di maggior rigore che meritano i singoli comportamenti […], al fine di poter dimostrare la gravità della condotta anticoncorrenziale, tale da far fuoriuscire il caso in esame dall’ambito di applicazione ordinaria delle modalità di calcolo della sanzione da irrogare». Ne deriva, pertanto, in piena adesione a quanto statuito dai giudici di prime cure, l’inapplicabilità della suddetta entry fee e, più in generale, la riduzione del parametro base su cui calcolare la sanzione, alla luce della citata riduzione dell’arco temporale di durata delle condotte contestate.
La pronuncia in commento, se mette un punto definitivo alla vicenda sotto il profilo pubblicistico, tuttavia non esaurisce le possibili ulteriori conseguenze per ciò che concerne l’enforcement privatistico. Difatti, come è noto, il procedimento antitrust si compone di due tipologie di enforcement, quello pubblicistico (c.d. public enforcement) e quello privatistico (c.d. private enforcement), le quali configurano però due diverse modalità, non già alternative bensì complementari [72], di un unico sistema, che necessitano di un coordinamento in quanto dirette verso il medesimo risultato, ossia un’effettiva applicazione del diritto della concorrenza [73]. Mentre il public enforcement, ossia il procedimento amministrativo-pubblicistico di applicazione del diritto della concorrenza è affidato, a livello eurounitario, alla Commissione europea e a livello nazionale all’AGCM, ai quali spetta di accertare le infrazioni alle regole concorrenziali ed infliggere le relative sanzioni, il private enforcement – che tutela gli interessi giuridicamente rilevanti di tutti coloro che abbiano subìto un pregiudizio a causa della violazione di norme antitrust – è invece affidato ai giudici ordinarî nazionali. In particolare, il private enforcement trova il proprio fondamento nella celebre sentenza Courage c. Crehan [74], dove la Corte di Giustizia, pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale, ha affermato che l’effetto utile del divieto stabilito all’art. 101, §1, TFUe, potrebbe subire una sostanziale limitazione là dove non si consentisse pienamente ai soggetti danneggiati di agire in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni causati da un comportamento idoneo a restringere o falsare il gioco della concorrenza. In quest’ottica, secondo la Corte, le azioni risarcitorie proposte innanzi alle giurisdizioni nazionali sarebbero in grado di contribuire in misura sostanziale al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità, consentendo pertanto una più efficace applicazione delle norme di cui agli artt. 101 e 102, TFUe, nonché 2 e 3, l. n. 287/1990 [75]. Nell’ordinamento interno, invece, rileva su tutte la sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, del 4 febbraio 2005, n. 2207 [76] che, in primo luogo, ha affermato come la l. n. 287/1990 non debba intendersi quale legge dei soli imprenditori, bensì come una legge che, essendo diretta a tutelare un bene giuridico più ampio del mero pregiudizio causato ai concorrenti, si pone l’obiettivo di tutelare l’interesse ultra-individuale della libertà contrattuale e la struttura concorrenziale del mercato, con la conseguenza che, ad essere tutelati, risultano tutti i soggetti che operano in questo, ivi compresi i consumatori [77]. Per ciò che concerne l’attuazione dell’enforcement privatistico nel nostro ordinamento, rileva in particolare l’art. 33 della l. n. 287/1990, il quale prevede che l’azione risarcitoria debba essere promossa innanzi al tribunale presso cui è istituita la sezione specializzata in materia di impresa territorialmente competente [78].
Alla luce di quanto sopra, dunque, è ragionevole pensare che le imprese di logistica (Trans Isole e Nuova Logistica Lucianu), in quanto destinatarie dirette della condotta abusiva posta in essere da Moby/CIN, nonché la stessa Grimaldi [79], destinataria dell’abuso escludente, possano decidere di adire, in un prossimo futuro, il giudice ordinario competente, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subìti in virtù dell’illecito antitrust [80]. D’altronde, la decisione definitiva del Consiglio di Stato, qui in commento, assumerebbe un peso specifico notevole in un ipotetico futuro giudizio civile per il risarcimento del danno antitrust, rendendo così più agevole alle parti interessate l’eventuale decisione di ricorrere agli strumenti del private enforcement. Difatti, la direttiva 2014/104/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio [81], del 26 novembre 2014, attuata con il citato d.lgs. 19 gennaio 2017 n 3, prevede una serie di misure a vantaggio di coloro che, a fronte di un illecito anticoncorrenziale, volessero agire davanti al giudice ordinario nazionale al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente [82]. In particolare, si intende far riferimento, innanzitutto, all’art. 9 della citata direttiva (e al più ampio art. 7, d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3) che regolano, per quanto qui d’interesse, l’efficacia della decisione dell’AGCM nel successivo giudizio risarcitorio. Il citato art. 7, infatti, prevede espressamente che «Ai fini dell’azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell’autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’autorità garante della concorrenza e del mercato […] non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato» [83]. Ne discende che chi volesse intraprendere la strada del giudizio risarcitorio, a séguito di una pronuncia dell’AGCM ormai definitiva [84] (o di una pronuncia, come nel caso di specie, di uno dei giudici del ricorso, in primo o in secondo grado, passata in giudicato) che abbia positivamente [85] accertato un illecito antitrust, non sarà gravato dall’onere di dimostrare, davanti al giudice ordinario, la violazione delle norme poste a tutela della concorrenza. Pertanto, in tale sede, all’attore sarà sufficiente dimostrare il danno patito, nonché il nesso di causalità tra questo e la condotta anticoncorrenziale [86].
A ciò si aggiunga, inoltre, come – in generale – l’onere probatorio posto in capo all’attore nel giudizio risarcitorio può dirsi notevolmente alleggerito, grazie alla previsione, nella citata direttiva e nel d.lgs. che la attua, dei c.d. ordini di esibizione in relazione alle prove considerate rilevanti, i quali possono rivolgersi – nei limiti e secondo le modalità prescritte dalla legge – non soltanto alla controparte o a un terzo, in riferimento a quelle prove che risultano essere nella loro disponibilità, bensì anche all’AGCM, alla quale si può ordinare di esibire prove rilevanti contenute nel fascicolo del procedimento svoltosi innanzi ad essa, quando risulti che né le parti, né i terzi siano ragionevolmente in grado di fornirle.
Ad ogni modo, se l’eventuale azione risarcitoria innanzi al giudice ordinario non pone particolari problemi, ma anzi risulta essere certamente incentivata alla luce delle suddette misure introdotte dalla direttiva 2014/104/UE (e recepite nel nostro ordinamento con in d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 3), la situazione si mostra affatto diversa là dove – in particolare – le società di logistica interessate volessero eventualmente agire al fine di far cessare le condotte abusive poste in essere, nel caso di specie, da Moby e CIN nei loro confronti [87]. Difatti, rileva in proposito l’assenza, nell’impianto del private enforcement nazionale del diritto antitrust, di un espresso fondamento normativo per l’azione inibitoria finale (o di merito) [88], limitandosi l’art. 33, l. n. 287/1990 – attraverso il richiamo ai «provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV» della medesima legge – a prevedere un’inibitoria essenzialmente cautelare, tendenzialmente riconducibile ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. [89]. Si tratta, dunque, di provvedimenti ad efficacia provvisoria e limitata, destinati a cadere una volta pronunciata la successiva decisione di merito.
Non di meno, parte della dottrina ha comunque ritenuto che potesse desumersi, dal riconoscimento dell’inibitoria provvisoria, il fondamento del potere inibitorio finale del giudice competente in materia antitrust, poiché – è stato sostenuto – non sarebbe affatto logico attribuire al giudice il potere di inibire provvisoriamente un determinato comportamento, se questo non può essere definitivamente inibito con la decisione di merito [90]. Tuttavia, un’impostazione del genere sovvertirebbe completamente il principio della strumentalità necessaria del giudizio cautelare rispetto a quello di merito, assumendo quale punto di riferimento la tutela cautelare, da cui ricavare in via interpretativa quella finale, operando in questo modo un’inversione logica [91]. Nella difficoltà, allora, di rinvenire nella stessa disciplina antitrust il fondamento normativo di un’inibitoria finale applicabile agli illeciti anticoncorrenziali, sarebbe auspicabile percorrere altre vie.
In primo luogo, si evidenzia come i medesimi effetti di un’inibitoria finale potrebbero essere conseguiti anche attraverso il ricorso all’inibitoria provvisoria di cui al citato art. 33. Con l’introduzione del regime di strumentalità attenuata [92], infatti, non è più necessaria l’instaurazione del giudizio di merito in séguito alla concessione di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. Secondo la giurisprudenza [93], il medesimo regime opererebbe anche in relazione ai provvedimenti d’urgenza antitrust. Ne discende, allora, che se la vittima di un illecito antitrust, agendo innanzi al giudice ordinario competente al fine di richiedere il risarcimento del danno, domandasse cautelativamente un provvedimento d’urgenza diretto a far cessare (in via provvisoria) le condotte abusive, qualora il giudizio di merito non venisse poi concretamente instaurato il provvedimento inibitorio cautelare diverrebbe comunque definitivo, producendo – nella sostanza – i medesimi effetti dell’inibitoria finale [94]. Una tale impostazione, tuttavia, pur consentendo di inibire definitivamente le condotte dannose per il futuro, incide negativamente sull’esigenza di ottenere quanto prima possibile il risarcimento dei danni provocati anteriormente alla presentazione della domanda cautelare, in quanto non farebbe altro che dilatare le relative tempistiche, ponendosi così in contrasto con quello che appare lo scopo primario del private enforcement. Inoltre, una differenza di non poco momento riguarda la fase attuativa dell’inibitoria. Difatti, mentre l’inibitoria finale viene pronunciata con sentenza di condanna [95], potendo costituire pertanto titolo esecutivo suscettibile di dar luogo ad esecuzione forzata, al contrario, l’inibitoria cautelare, assoggettata al rito cautelare uniforme, viene pronunciata con ordinanza e la sua attuazione, anche quando la stessa diviene definitiva per mancata instaurazione del giudizio di merito, è lasciata «al giudice che ha emanato il provvedimento cautelare», come stabilito dall’art. 669-duodecies c.p.c.
Alternativamente, è stato proposto di colmare la lacuna insita nell’art. 33 della legge antitrust ricorrendo all’inibitoria finale prevista dall’art. 2599 c.c., di cui allora si prospetta un’applicazione in via diretta [96], ovvero in via analogica [97], alla materia antitrust. D’altronde, come segnalato recentemente, «non sembrano in effetti sussistere valide ragioni per riservare alla normativa antitrust una tutela diversa – e segnatamente più debole – rispetto a quella che il Codice civile già da tempo riconosce alle imprese che subiscono atti di concorrenza sleale, le quali possono chiedere al giudice di far cessare tali comportamenti sia in sede cautelare che all’esito di un giudizio di merito» [98].
Allo stesso modo, si potrebbe prospettare – nel caso di specie – il ricorso all’inibitoria definitiva che sembrerebbe essere prevista dall’art. 9, l. n. 192/1998 [99], per far fronte all’abuso di dipendenza economica. Difatti, come ha osservato attenta dottrina «se è vero che non ogni situazione di dipendenza economica fa presumere o dimostra che il soggetto del corrispondente potere sia in posizione dominante sul mercato, l’esistenza di una posizione dominante dimostra o, quanto meno, fa presumere che le controparti commerciali dell’impresa dominante ne siano dipendenti e siano potenzialmente vittime di un abuso» [100]. Inoltre, le condotte concretamente poste in essere da Moby e CIN nei confronti delle imprese di logistica, quanto meno quelle qualificate nel provvedimento dell’AGCM quali boicottaggio diretto, risultano essere sovrapponibili a quelle esemplificativamente indicate nello stesso art. 9 della legge sulla subfornitura quali ipotesi di condotte abusive. Così, l’ingiustificato rifiuto di accettare le prenotazioni proposte può essere ricondotto al «rifiuto di vendere e di comprare» (e più in generale al rifiuto di contrarre), l’ingiustificato recesso unilaterale dagli accordi commerciali configura una «interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto», mentre infine il peggioramento delle condizioni economiche e commerciali delinea l’«imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie». Tuttavia, aderendo ad una siffatta impostazione, verrebbe meno la vincolatività del provvedimento AGCM nei confronti del giudice ordinario, di cui al citato art. 7, d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 3, con la conseguenza che il giudice ordinario, adito per l’inibitoria, dovrà accertare in concreto l’esistenza di un abuso di dipendenza economica.
Concludendo, non si può non rilevare come in ogni caso le prestazioni cui sarebbero condannate, per il tramite dell’inibitoria, Moby e CIN fanno capo ad obblighi di fare infungibili [101] che, in ossequio al principio espresso nel brocardo latino nemo ad factum praecise cogi potest [102], non possono per loro natura essere soggetti ad esecuzione forzata. Pertanto, gli unici strumenti offerti dall’ordinamento per conseguire una coercizione, ancorché indiretta, di tali obblighi sono quelli contemplati all’art. 614-bis c.p.c. (rubricato appunto «mezzi di coercizione indiretta»), per mezzo dei quali il giudice è chiamato a fissare una somma di denaro che l’obbligato dovrà corrispondere «per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento» [103].
[1] Cfr. l’art 17 della Delibera AGCM 22 ottobre 2014, n. 25152 – Linee Guida sulla modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90, in agcm.it.
[2] Sulla delimitazione del mercato rilevante quale presupposto necessario per l’accertamento della posizione di dominio sul mercato si veda, da ultimo, C. giust. Ue 30 gennaio 2020, in causa C-307/18, Generics (UK) Ltd. e altri c. Competition and Markets Authority, in curia.europa.eu, par. n. 127, la quale evidenzia appunto l’imprescindibile necessità di definire il perimetro all’interno del quale esaminare la questione se l’impresa sia in grado di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti e dei consumatori. Meno recente ma altresì importante C. giust. Ce 21 febbraio 1973, causa C-6/72, Europemballage Corporation e Continental Can Company Inc. c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 1973-00215, 247, par. n. 32, dove viene messo in evidenza che «Ai fini della valutazione […] della posizione dominante […] ha importanza essenziale la delimitazione del mercato di cui trattasi, poiché le possibilità di concorrenza non possono essere valutate se non in funzione delle caratteristiche dei prodotti di cui trattasi, grazie alle quali detti prodotti sarebbero particolarmente atti a soddisfare bisogni costanti e non sarebbero facilmente intercambiabili con altri prodotti».
Nella giurisprudenza nazionale, nel medesimo senso, cfr. Cons. St. 8 aprile 2014, n. 1673, nonché Tar Lazio 25 luglio 2016, nn. 8499, 8500, 8502, 8504, e 8506, entrambe in giustizia-amministrativa.it.
In dottrina, invece, si vedano per tutti G. Bruzzone, L’individuazione del mercato rilevante nella tutela della concorrenza, in Temi e problemi, a cura dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roma, 1995, 9 ss., secondo cui il concetto di mercato rilevante rappresenterebbe proprio il presupposto logico e giuridico di ogni analisi antitrust; C. Osti, voce Abuso di posizione dominante, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2011, 3, per il quale «solo sulla base di un mercato delineato […] può stabilirsi se una o più imprese detengano una posizione dominante ovvero acquistino o rafforzino tale posizione»; L. Cerroni, G. Zanchi, La rilevanza della posizione dominante nel codice civile e nel diritto della concorrenza, in Riv. dir. priv., I, 2011, 86, dove si afferma che «al fine di verificare se un’impresa si trovi in una posizione di dominanza economica è necessario preliminarmente individuare il mercato rilevante che costituisce il principale parametro di riferimento di ogni valutazione volta a misurare l’egemonia dell’impresa stessa e la liceità del comportamento in esame […]».
[3] In questo senso si veda F. Ghezzi, G. Olivieri, Diritto antitrust, II ed., Torino, 2019, 187.
[4] Cfr. da ultimo in questo senso M. Carpagnano, Il mercato rilevante, in AA.VV., Diritto antitrust, a cura di A. Catricalà, C.E. Cazzato, F. Fimmanò, Milano, 2021, 80.
[5] Cfr. comunicazione della Commissione Ce del 9 dicembre 1997 sulla definizione del mercato rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza, 97/C 372/03, in GUCE, del 9 dicembre 1997, C/372, ai parr. 7-8. In particolare, la Commissione ricomprende nel mercato del prodotto rilevante «tutti i prodotti e/o servizi che sono considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso al quale sono destinati», mentre per mercato geografico rilevante intende «l’area nella quale le imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e che può essere tenuta distinta dalle zone geografiche contigue perché in queste ultime le condizioni di concorrenza sono sensibilmente diverse».
[6] Così Cass. 12 novembre 2019, n. 29237, con nota di A. Pistilli, Il caso Ryanair come paradigma dell’abuso di posizione dominante nel trasporto aereo. La centralità del city-pair method ai fini del corretto accertamento del mercato rilevante, in Dir. ind., 2020, 5, 417 ss.
[7] In proposito si veda L. Nonne, Contratti tra imprese e controllo giudiziale, Torino, 2013, 216, il quale chiarisce come la delimitazione del mercato rilevante presupponga «l’individuazione delle imprese che possono efficacemente opporsi ad una condotta in astratto limitativa della concorrenza […]».
[8] Per la determinazione della sostituibilità sul versante della domanda, il principale criterio impiegato è quello del c.d. price test, o meglio dello SSNIP («small but significant and non-transitory increase of price»), che consiste nell’ipotizzare un piccolo ma significante aumento permanente del prezzo del prodotto in esame (nell’ordine del 5-10%), al fine di verificare se in virtù di tale aumento la domanda dei consumatori si orienti o meno verso prodotti concorrenti, così da ricomprendere nel mercato (del prodotto) rilevante tutti gli ulteriori prodotti alternativi verso i quali si rivolge la domanda dei consumatori all’aumento del prezzo del prodotto considerato. Tuttavia, è stato rilevato che lo SSNIP, essendo un test econometrico formale, non sempre si mostra pienamente affidabile, soprattutto quando il prezzo di partenza è già un prezzo monopolistico e non concorrenziale (per questo rilievo si veda M. Carpagnano, Il mercato rilevante, cit., 83 ss.). Per tale motivo, la Commissione Europea, pur continuando ad utilizzare in via prevalente lo SSNIP test, in quanto comunque ritenuto lo strumento maggiormente in grado di eliminare incertezze e valutazioni soggettive, non si sottrae all’impiego di ulteriori dati empirici che consentano di delimitare il mercato rilevante sotto il profilo della sostituibilità della domanda.
[9] Per ciò che concerne la sostituibilità sul versante dell’offerta, invece, ciò che rileva è la possibilità che imprese non attive nel mercato del prodotto rilevante, fino al momento preso in considerazione, possano – a fronte di piccole e permanenti variazioni dei prezzi del prodotto considerato – decidere di entrare, per il futuro, nel mercato del prodotto rilevante. Pertanto, sotto questo specifico profilo, la definizione del mercato rilevante si sofferma essenzialmente sull’analisi di eventuali barriere all’entrata nel mercato, ossia alla presenza di «ostacoli e impedimenti che possono assumere varia natura, da vincoli normativi e regolamentari, a vincoli economici relativi ai mercati a valle, ad esempio legati alla necessità di compiere investimenti specifici nel processo produttivo che presentano costi sommersi, quali costi di riqualificazione del personale o dei macchinari, o che risultano particolarmente rischiosi». Così M. Carpagnano, Il mercato rilevante, cit., 86.
[10] Su tutte cfr. Cons. St. 15 febbraio 2002, n. 150, nonché Tar Lazio 20 febbraio 2008, n. 1542, in giustizia-amministrativa.it, dove in tema di intese si afferma che «In sostanza, il mercato rilevante è il più piccolo contesto (insieme di prodotti ed area geografica), nel cui ambito sono possibili, tenuto conto delle esistenti possibilità di sostituzione, intese che comportino restrizioni consistenti della concorrenza».
[11] Cfr. C. giust. Ce 14 febbraio 1978, causa C-27/76, United Brands c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 1978-00207, 207. La medesima nozione è ripresa, successivamente, in molte altre pronunce come, ad esempio, C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, in Racc. giur. C. giust., 1979 –00461, 464 ss., ove si rinviene una rilevante distinzione tra il concetto di posizione dominante e quello di monopolio, evidenziando come la mera situazione di dominio «[…] a differenza di una situazione di monopolio o di quasi monopolio, non esclude l’esistenza di una certa concorrenza, ma pone l’impresa che la detiene in grado, se non di decidere, almeno di influire notevolmente sul modo in cui si svolgerà detta concorrenza e, comunque, di comportarsi sovente senza doverne tenere conto e senza che, per questo, simile condotta le arrechi pregiudizio» (par. n. 39). Si vedano, inoltre, sul punto: C. giust. Ce 9 novembre 1983, causa C-322/81, NV Nederlandsche Banden-Industrie Michelin c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 1983 –03461, 3466 ss.; C. giust. Ce 3 ottobre 1985, causa C-311/84, CBEM, in Racc. giur. C. giust., 1985-03261, 3261; C. giust. Ce 24 giugno 1986, causa C-53/85, Akzo, in Racc. giur. C. giust., 1986 –01965, 1965 ss.; C. giust. Ce 4 maggio 1988, causa C-30/87, Bodson, in Racc. giur. C. giust., 1988 –02479, 2479. Nella giurisprudenza interna, invece, si veda da ultimo Tar Lazio 17 maggio 2021, n. 5801, in giustizia-amministrativa.it.
Anteriormente alla sopracitata pronuncia della Corte di Giustizia nel caso United Brands, un tentativo di definizione della posizione dominante era stato avanzato dal Memorandum della Commissione sul problema delle concentrazioni nel Mercato comune del 1965, in Riv. soc., 1966, 1200 ss., secondo cui si avrebbe una posizione di dominio sul mercato «[…] quando una o più imprese possano influire in maniera sostanziale sulle decisioni di altri agenti economici mediante una strategia indipendente, in modo che una concorrenza praticabile e sufficientemente efficace non possa svolgersi né mantenersi su tale mercato […]. La nozione di concorrenza praticabile corrisponde a una nozione realistica. Si ammette che esista concorrenza sufficientemente efficace quando le imprese non limitano in modo eccessivo o artificiale la vendita o la produzione, quando esse soddisfano la domanda facendo partecipare equamente i consumatori ai vantaggi che risultano dal progresso tecnico ed economico». L’orientamento espresso nel Memorandum ha poi trovato taluni riscontri nelle decisioni della Commissione Ce (si veda, ad es., Comm. Ce, 9 dicembre 1971, in GUCE, del 8 gennaio 1972, Continental Can Company – IV/26811, L7, 25 ss.).
[12] La condizione di indipendenza che caratterizza l’impresa in posizione dominante sottrae la stessa ad un livello concorrenziale tale da condizionare le sue strategie e i risultati prefissati (in questo senso si veda A. Pappalardo, voce Concorrenza, intese, concentrazioni, posizioni dominanti nel diritto comunitario, in Dig. disc. priv., sez. comm., III, 1988, 372), ciò che le consentirebbe pertanto di comportarsi senza tenere in alcun modo in considerazione un’eventuale reazione dei concorrenti e dei clienti, causando in questo modo una rilevante alterazione del regime concorrenziale. Cfr. in proposito E.A. Raffaelli, Il divieto di abuso di posizione dominante nel diritto comunitario, in Foro it., 1988, IV, 83; A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, IV ed., Torino, 1996, 216.
[13] Il concetto di consumatore, impiegato nell’àmbito della disciplina eurounitaria della concorrenza, risulta essere molto più esteso rispetto alla tradizionale definizione di consumatore, inteso quale controparte non professionale di un contratto. Difatti, se il concetto di consumatore, inteso – tanto nell’ordinamento nazionale che in quello sovranazionale – quale parte «debole» del rapporto contrattuale, titolare di una propria specifica tutela, ricomprenderebbe in via esclusiva «[…] le persone fisiche che agiscono al di fuori della loro attività commerciale, industriale, artigianale o professionale» (si veda sul punto, da ultimo, la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, in GUCE del 22 novembre 2011, L 304, 66, considerando n. 17, dove si specifica, tuttavia, che «nel caso di contratti con duplice scopo, qualora il contratto sia concluso per fini che parzialmente rientrano nel quadro delle attività commerciali della persona e parzialmente ne restano al di fuori e lo scopo commerciale sia talmente limitato da non risultare predominante nel contesto generale del contratto, la persona in questione dovrebbe altresì essere considerata un consumatore»), il concetto di consumatore, inteso in senso concorrenziale, «comprende tutti gli utilizzatori, diretti o indiretti, dei prodotti interessati dal comportamento, compresi produttori intermedi che utilizzano i prodotti come fattore di produzione, nonché i distributori e i consumatori finali sia del prodotto immediato che di prodotti forniti da produttori intermedi. Qualora gli utilizzatori intermedi siano concorrenti effettivi o potenziali dell’impresa dominante, la valutazione si concentra sugli effetti del comportamento sugli utilizzatori più a valle». Cfr. in proposito, ad esempio, la comunicazione della Commissione Ce n. 2009/C 45/02, Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del trattato CE al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti, in GUCE, del 24 febbraio 2009, C 45/7, 7 ss., spec. 10, par. n. 19, nota n. 2.
[14] In questo senso cfr. L. Cerroni, G. Zanchi, La rilevanza della posizione dominante nel codice civile e nel diritto della concorrenza, cit., 86, le quali rilevano appunto come il concetto di indipendenza risulti essere «strettamente legato al grado di pressione concorrenziale esercitata sull’impresa», in modo che quest’ultima possa considerarsi in posizione dominante esclusivamente nell’ipotesi in cui le citate pressioni concorrenziali non siano sufficientemente efficaci, consentendole di esercitare un rilevante potere sul mercato.
[15] Su tutte si veda, in particolare, C. giust. Ce 14 febbraio 1978, causa C-27/76, United Brands c. Commissione delle Comunità europee, cit., 282, par. n. 67, dove si afferma che, per stabilire se un’impresa sia in posizione dominante sul mercato di riferimento «occorre esaminare anzitutto la sua struttura, indi la situazione concorrenziale su detto mercato».
[16] Evidenziano la decisiva importanza del criterio de quo, tra gli altri, A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 221, nonché L. Cerroni, G. Zanchi, La rilevanza della posizione dominante nel codice civile e nel diritto della concorrenza, cit., 90.
Nella giurisprudenza eurounitaria l’importanza attribuita al criterio delle quote di mercato è desumibile da C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, cit., 464 ss., spec. 520, par. n. 39, dove la Corte, dopo aver ribadito quanto espresso in un suo celebre precedente (il citato caso United Brands), specifica che «la detenzione di cospicue quote di mercato è molto significativa», chiarendo però che tale detenzione – di per sé valevole come elemento comprovante l’esistenza di una posizione dominante – «non è un dato assoluto, e la sua importanza varia da mercato a mercato a seconda della struttura dei medesimi, specie per quel che riguarda la produzione, l’offerta e la domanda», ferma restando l’impossibilità di negare che «quote molto alte costituiscano di per sé, e salvo circostanze eccezionali, la prova dell’esistenza di una posizione dominante».
Nella giurisprudenza interna, più di recente, cfr. Tar Lazio 23 settembre 2008, n. 8481, Bernabei/Liquori/Italaquae, in giustizia-amministrativa.it, dove viene confermato che, nell’accertamento di una posizione dominante, «la quota di mercato rappresenta il principale indicatore della potenza economica di un’impresa o di un gruppo di imprese e della capacità di queste ultime di determinare la propria condotta in modo sensibilmente indipendente dai loro concorrenti e, in ultima analisi, dai consumatori finali dei loro prodotti o servizi».
[17] Così A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 221, i quali – inoltre – sottolineano come, ai fini del calcolo delle quote di mercato, dovranno considerarsi non soltanto i concorrenti che operino all’interno del mercato comune, ma anche le imprese ubicate in Stati terzi che esportino prodotti nel mercato interno. Così, se per un dato prodotto vi è un’unica impresa produttrice nel mercato comune, questa non potrà comunque considerarsi in posizione dominante se le importazioni per quello stesso prodotto costituiscano una grossa quota di mercato.
[18] Il carattere iuris tantum della presunzione è stato ribadito a più riprese dalla giurisprudenza eurounitaria e nazionale. Cfr. in proposito C. giust. Ce 24 giugno 1986, causa C-53/85, Akzo, cit., par. n. 60, nonché la recente Tar Lazio 26 luglio 2017, n. 8945, Aspen c. AGCM, in giustizia-amministrativa.it.
[19] Così C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, cit., spec. parr. nn. 40-42, dove si evidenza come «quote molto alte costituiscano di per sé, e salvo circostanze eccezionali, la prova dell’esistenza di una posizione dominante […]».
[20] Cfr. C. giust. Ce 14 febbraio 1978, causa C-27/76, United Brands c. Commissione delle Comunità europee, cit., 287, par. n. 110. Sul punto si veda l’esempio riportato da S. Bastianon, L’abuso di posizione dominante, Milano, 2001, 44, secondo il quale – nell’ipotesi in cui l’impresa indagata possegga una quota di almeno il 40% del mercato – quest’ultima potrà ritenersi, alternativamente, essere o meno in posizione dominante, a seconda dell’entità delle quote del medesimo mercato nel contempo detenute dalle imprese concorrenti. Così, nell’esempio citato, se la residua quota del 60% sarà ripartita, in parti uguali, tra due imprese concorrenti, allora l’impresa in oggetto, con la sua quota del 40% non potrà considerarsi detentrice di una posizione dominante. Viceversa, se la medesima quota del 60% del mercato fosse, per ipotesi, ripartita tra sei imprese concorrenti, ciascuna titolare di una quota pari al 10% del mercato, allora l’impresa sotto esame, con il suo 40% potrà essere considerata detentrice di una posizione dominante.
[21] Si veda F. Ghezzi, G. Olivieri, Diritto antitrust, cit., 194.
[22] Cfr. C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, cit., 521, par. n. 41, dove si parla di «periodi di una certa entità». In dottrina si è fatto riferimento alla «solidità del possesso» in relazione alla posizione dominante, indicando in questo modo quella situazione che impedisce, alle imprese concorrenti, di reagire in tempi brevi alle condotte poste in essere dall’impresa dominante, mentre ai consumatori di orientarsi verso prodotti alternativi. Così, ad esempio, F. Denozza, Antitrust, Bologna, 1988, 50.
[23] Tuttavia, in senso contrario, cfr. il citato Memorandum della Commissione sul problema delle concentrazioni nel Mercato comune, dove la Commissione attribuisce un rilievo primario ai c.d. criterî comportamentali, affermando che «il dominio del mercato non può essere unicamente definito partendo dalla quota di mercato che detiene un’impresa o da altri elementi quantitativi di una determinata struttura del mercato. Si tratta innanzitutto di un potere economico, cioè la facoltà di esercitare sul funzionamento del mercato un’influenza notevole e in linea di principio prevedibile per l’impresa dominante. Questa facoltà economica di un’impresa dominante influisce sul comportamento e sulle decisioni di altre imprese, a prescindere dal fatto che sia o meno utilizzata in senso determinato. Un’impresa che può, quando lo desidera, soppiantare le altre imprese concorrenti sul mercato può già disporre di una posizione dominante e determinare in modo decisivo il comportamento delle altre imprese, anche se la propria quota di mercato è ancora relativamente debole» (III parte, n. 22).
Nella giurisprudenza, invece, si veda la recente Tar Lazio 23 gennaio 2017, n. 1188, in giustizia-amministrativa.it, la quale ha evidenziato come la situazione di dominanza non debba essere ridotta ad un mero dato matematico, apprezzabile sotto forma di percentuale di mercato, bensì come «situazione di fatto in cui, per diverse e variegate ragioni, un soggetto può esercitare un potere di condizionamento di un determinato mercato».
[24] In questo senso si veda S. Bastianon, L’abuso di posizione dominante, cit., 79.
Viene dunque a definirsi un sistema di accertamento integrato, dove la dimensione strutturale e quella comportamentale si combinano insieme, in base al quale assumeranno decisiva importanza – ai fini della valutazione di una posizione dominante – i comportamenti indipendenti posti in essere da un’impresa che abbia un rilevante potere di mercato. Per quest’ultima prospettiva cfr. A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 228, i quali evidenziano come «Il contrasto tra i due metodi è più apparente che reale, tenuto conto delle strette interferenze che esistono tra comportamento e struttura, che fanno sì che un comportamento indipendente si può concepire soltanto se chi l’adotta possiede una posizione sufficientemente importante sul mercato».
[25] Con riferimento alla normativa antitrust interna si veda, da ultimo, Cass. 18 aprile 2018, n. 9579, in Riv. dir. ind., 2018, 6, II, 425, secondo cui «L’art. 3 della legge n. 287 del 1990, nel vietare l’abuso, non mira ad impedire la conquista di una posizione dominante ovvero di una posizione di monopolio (obiettivo questo, se mai, delle norme che disciplinano le concentrazioni), bensì ad impedire che tali posizioni, una volta raggiunte, tolgano competitività al mercato, ledendo la sua essenziale struttura concorrenziale e, quindi, il diritto degli altri imprenditori a competere con il dominante: la posizione dominante è, dunque, abusiva (secondo la citata norma) quando viene esercitata per ostacolare l’effettiva concorrenza […]».
[26] Sul punto si veda, tra tutte, C. giust. Ce 21 febbraio 1973, causa C-6/72, Europemballage Corporation e Continental Can Company Inc. c. Commissione delle Comunità europee, cit., 217 ss., spec. 245, par. n. 26, dove si afferma espressamente che l’ex art. 86 CEE, ora 102 TFUe «[…] elenca un certo numero di pratiche abusive ch’esso vieta. Si tratta di una enumerazione esemplificativa, nella quale non sono compresi tutti i modi di sfruttamento abusivo di posizione dominante vietati dal trattato».
[27] Così C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, cit., 541, par. n. 91.
[28] Il carattere oggettivo dello sfruttamento abusivo, infatti, era già stato affermato dalla Commissione fin dalla sua prima decisione di applicazione dell’art. 86 CEE, nel caso GEMA (Comm. CE, 2 giugno 1971, Gema, in GUCE, del 20 giugno 1971, L 134, 26, parte II, c. 6), dove si specifica che «la discriminazione costituisce una fattispecie obiettiva che ricorre anche in mancanza dell’elemento soggettivo».
[29] Generalmente, infatti, si considera l’illecito antitrust un illecito di pericolo, pertanto – al fine di salvaguardare l’effetto utile del diritto antitrust si rende necessario anticipare la soglia della tutela al danno concorrenziale potenziale. Si veda in proposito, ad esempio, C. giust. Ce 14 novembre 1996, causa C-333/94 P, Tetra Pack c. Commissione delle Comunità Europee, in Racc. giur. C. giust., 1996 I-05951, 5987 ss., spec. 6013, dove nell’indicare, quale obiettivo perseguito, «quello di preservare una concorrenza non falsata», si ritiene che ciò «non consente di aspettare che una strategia […] pervenga all’effettiva eliminazione dei concorrenti», ma anche Trib. Ue 9 settembre 2010, causa T-155/06, Tomra Systems ASA e altri c. Commissione europea, in GUCE, del 23 ottobre 2010, C 288/31, 4370 ss., spec. 4452, secondo cui «[…] non è necessario dimostrare che il comportamento abusivo di cui trattasi abbia avuto un effetto concreto sui mercati considerati. È a questo proposito sufficiente dimostrare che il comportamento abusivo delle imprese in posizione dominante mira a restringere la concorrenza o, in altri termini, che è tale da avere o che può avere un simile effetto». Nella giurisprudenza interna, invece, cfr. Cons. St. 8 aprile 2014, n. 1673, cit., secondo cui «non è necessario, a integrare l’illecito, attendere che la concorrenza sia stata indebitamente alterata dalla concotta anticoncorrenziale perché l’ordinamento reagisca», nonché Cons. St. 19 luglio 2002, n. 4001, in giurisprudenza-amministrativa.it, la quale è chiara nell’affermare che «la fattispecie illecita […] si caratterizza per la potenziale lesività e non per la concreta realizzazione della riduzione del grado di concorrenza ancora esistente, con la conseguenza che non è necessario l’accertamento di tale riduzione».
[30] Tutt’al più, l’intento dell’impresa dominante potrà avere un valore meramente indiziario dell’abuso, nel concorso con altri elementi di fatto. Si veda in proposito C. giust. Ue 19 aprile 2012, causa C-549/10 P, Tomra Systems ASA e altri c. Commissione europea, in curia.europa.eu, spec. par. n. 20, dove si chiarisce come «L’esistenza di un eventuale intento anticoncorrenziale costituisce quindi solo una delle numerose circostanze di fatto che possono essere prese in considerazione per accertare un abuso di posizione dominante».
[31] La prima apparizione del concetto di speciale responsabilità (o anche responsabilità particolare) dell’impresa in posizione dominante si ritrova nella pronuncia C. giust. Ce 9 novembre 1983, causa C– 322/81, NV Nederlandsche Banden-Industrie Michelin c. Commissione delle Comunità europee, cit., spec. 3511, par. n. 57, dove si afferma che l’impresa in posizione dominante, indipendentemente dalle cause di tale posizione, «è tenuta in modo particolare a non compromettere col suo comportamento lo svolgimento di una concorrenza effettiva e non falsata nel mercato comune».
Più recentemente, a conferma di un orientamento ormai consolidato, si vedano anche: C. giust. Ce 2 aprile 2009, causa C-202/07 P, France Télécom c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 2009 I-02369, 2369 ss., spec. par. n. 105, nonché C. giust. Ue 17 febbraio 2011, causa C-52/09, Konkurrensverket c. TeliaSonera Sverige AB, in Racc. giur. C. giust., 2011 I-564, 575, par. n. 24, dove viene ribadito che «[…] Se, infatti, l’art. 102 TFUe non vieta ad un’impresa di conquistare grazie ai suoi meriti una posizione dominante su un dato mercato e se, a maggior ragione, la constatazione dell’esistenza di tale posizione non comporta di per sé alcuna censura nei confronti dell’impresa interessata, ciò non toglie che, secondo una giurisprudenza costante, è all’impresa che detiene una posizione dominante che incombe la responsabilità particolare di non pregiudicare, con il suo comportamento, una concorrenza effettiva e leale nel mercato interno». Il concetto è stato ripreso anche nella giurisprudenza nazionale, si veda da ultimo – ad esempio – Cons. St. 13 gennaio 2020, n. 315, Estra s.p.a., in giustizia-amministrativa.it.
[32] Su tutte si veda Cons. St. 20 dicembre 2010, n. 9306, causa ENI-TTPC, in giustizia-amministrativa.it, secondo la quale «[…] si può giustificare, da parte dell’incumbent, una condotta difensiva dei propri interessi economici, quando vi sia una situazione concreta e attuale che metta in pericolo detti interessi». In questo senso, allora, è stata considerata giustificata la condotta dell’impresa dominante diretta ad interrompere l’interruzione della fornitura nei confronti di clienti insolventi. Si veda in proposito Comm. Ce, 29 luglio 1987, BBI/Boosey & Hawkes: provvedimenti provvisori, in GUCE, del 9 ottobre 1987, L 286/36, 36 ss.
[33] Cfr. in proposito C. giust. Ue 27 marzo 2012, causa C-209/10, Post Danmark A/S c. Konkurrencerådet, in Racc. dig. della giurisprudenza, 2012, 172 ss., spec. parr. nn. 40-41. Tuttavia, le corti nazionali non hanno ritenuto giustificata la reazione dell’impresa dominante ad un illecito proveniente da un concorrente, stante la possibilità per la prima di avvalersi degli strumenti di reazione che l’ordinamento garantisce sia davanti al giudice ordinario, si innanzi all’Autorità di controllo antitrust. In proposito si veda Cons. St. 20 aprile 2011, n. 2438, caso Telecom Italia, in giustizia-amministrativa.it, dove si afferma chiaramente che «Non vi è dubbio, invero, che, in astratto, a fronte di un illecito antitrust da parte di un concorrente, non è invocabile, in funzione esimente, la teoria della meeting competition defence per giustificare condotte analogamente anticompetitive dirette a sortire effetti pregiudizievolmente escludenti rispetto ai terzi, l’operatore assuntamente danneggiato dal primo illecito potendo solo denunciare l’abuso alla competente Autorità antitrust ed eventualmente azionare pretese risarcitorie di tipo civilistico».
[34] Circostanza certamente conosciuta nell’ordinamento tedesco, dove si suole distinguere tra c.d. abuso di sfruttamento (Ausbeutungsmissbrauch) e c.d. abuso di impedimento, o da preclusione (Behinderungsmissbrauch). Cfr. B.P. Paal, Medienvielfalt und Wettbewerbsrecht, Tübingen, 2010, 231 ss.
[35] Gli abusi escludenti si riferiscono a quelle condotte dell’impresa dominante che, con lo scopo di ledere i suoi concorrenti, mirano ad impedirne l’accesso al mercato, nonché ad escluderli dal medesimo alterando così la struttura stessa dell’impianto concorrenziale. Il fondamento normativo degli abusi escludenti può essere rinvenuto nel citato art. 102, lett. b), TFUe (e nel corrispettivo interno art. 3, lett. b), l. n. 287/1990), là dove si riconduce l’illiceità alla limitazione della produzione, degli sbocchi o dello sviluppo tecnico, a danno dei consumatori. In questo senso si veda Così A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., 251.
[36] Gli abusi di sfruttamento, invece, contemplerebbero quelle condotte per il tramite delle quali l’impresa dominante sfrutta il proprio potere sul mercato rilevante, allo scopo di massimizzare i profitti, ledendo così in via diretta i consumatori. Tale tipologia di abuso troverebbe fondamento nelle lettere a) e c) dell’art. 102 TFUe (e, nella normativa antitrust interna, del citato art. 3), dove si prevede rispettivamente l’abusività dell’imposizione, diretta o indiretta, di prezzi d’acquisto o di vendita e più in generale di condizioni di transazione non eque, nonché dell’applicazione, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni contrattuali o commerciali diverse per prestazioni equivalenti, causando a questi ultimi uno svantaggio concorrenziale. Secondo una diversa impostazione, gli abusi discriminatorî farebbero categoria a sé, non essendo riconducibili alla più ampia categoria degli abusi di sfruttamento. In questo senso si veda, da ultimo, F.M. Balestra, Gli abusi di posizione dominante. Gli elementi costitutivi della fattispecie, in AA.VV., Diritto antitrust, a cura di A. Catricalà, C.E. Cazzato, F. Fimmanò, cit., 378.
[37] Difatti, una medesima condotta può assumere i tratti dell’abuso di sfruttamento, ovvero dell’abuso escludente a seconda del soggetto al quale si vuole riferire. Così, limitandoci ad un esempio conferente al caso qui esaminato, la condotta di un’impresa in posizione dominante, che si esplica nell’imposizione di condizioni contrattuali o commerciali svantaggiose e discriminatorie nei confronti di coloro che decidono di approvvigionarsi dal o dai concorrenti, può considerarsi un abuso di sfruttamento nei confronti dei destinatarî diretti della condotta (i clienti a cui sono applicate le condizioni svantaggiose e discriminatorie), ma è suscettibile di integrare anche un abuso escludente (posto che la condotta è potenzialmente in grado di determinare la fuoriuscita dal mercato dei concorrenti, qualora i clienti dell’impresa dominante – dissuasi dalla condotta illecita dell’impresa dominante – decidessero di smettere di approvvigionarsi dai suoi concorrenti, alterando così la struttura stessa del regime concorrenziale).
[38] Cfr. in proposito, ad esempio, C. giust. Ce 14 febbraio 1978, causa C-27/76, United Brands c. Commissione delle Comunità europee, cit., 293, par. n. 159, nella quale si specifica che una condotta può ritenersi giustificata solamente nell’ipotesi in cui «non crei ostacoli le cui conseguenze vadano oltre il risultato da raggiungere», aggiungendo poi (parr. nn. 189-190) che, pur riconoscendosi all’impresa dominante il diritto di tutelare i proprî interessi commerciali, quando siano insidiati, la reazione «[…] deve essere proporzionata alla minaccia, tenuto conto della potenza economica delle imprese coinvolte».
[39] In proposito i richiami giurisprudenziali sono plurimi. Si vedano Cons. St. 3 marzo 2020, n. 1547, caso Taxi Torino, in giustizia-amministrativa.it, dove si specifica che «[…] Per vero, l’individuazione del mercato rilevante, che identifica e delimita il contesto socioeconomico in cui opera l’impresa coinvolta nel procedimento innanzi all’AGCM, è riservata ad essa e, di massima, questo Giudice non vi si può sostituire, salvo che l’operato dell’Autorità presenti vizi di travisamento dei fatti, vizi logici e vizi di violazione di legge»; nel medesimo senso anche Cons. St. 14 ottobre 2016, n. 4266, in giustizia-amministrativa.it.
[40] Su tutte cfr. Corte EDU 4 marzo 2014, n. 18640/10, Grande Stevens e altri c. Italia, in giustizia.it.
[41] Per un approfondimento sul tema si veda, da ultimo, M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro … e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, in Federalismi.it, 2019, 21, 6 ss.
[42] Il concetto di full jurisdiction implica il potere/dovere del giudice nazionale di esaminare in maniera compiuta tutti i profili concretamente contestati, senza che si possa invoca la discrezionalità tecnica o amministrativa dell’amministrazione. In questo senso si veda M. Roffi, Sindacato giurisdizionale e provvedimenti sanzionatori dell’AGCM, nota a Cons. St. 28 marzo 2019, n. 2979, in Giur. it., 2019, 11, 2503 ss., spec. 2509.
[43] Vedi in proposito, tra molte, Cons. St. 14 marzo 2000, n. 1348, in giustizia-amministrativa.it, secondo cui «il giudice, nell’ambito del suo sindacato, circoscritto alla sola legittimità dell’atto, e non esteso al merito delle scelte amministrative, può solo verificare se il provvedimento impugnato appaia logico, congruo, ragionevole; correttamente motivato e istruito, ma non può anche sostituire proprie valutazioni di merito a quelle effettuate dall’Autorità, e a questa riservate».
[44] Si chiarisce come il termine limite, riferito alla giurisdizione del giudice amministrativo, sia qui impiegato in senso lato. Tuttavia, l’introduzione dell’art. 7 del d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 3, «Attuazione della direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea», in Gazzettaufficiale.it., potrebbe indurre a pensare che un limite alla giurisdizione sia stato effettivamente previsto ex lege. Infatti, il primo comma della norma citata sancisce espressamente che «Il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità», il che – ragionando a contrario – varrebbe a dire che i profili tecnici, caratterizzati da un oggettivo margine di opinabilità siano escluse dal sindacato giurisdizionale amministrativo. Ad ogni modo, una siffatta interpretazione non ha trovato appoggio nella dottrina, dove anzi si tende ad escludere l’impossibilità, per la parte interessata, di dedurre in giudizio prospettazioni tecniche alternative rispetto a quelle avanzate dall’AGCM, fermo restando che si dovrà dimostrare in giudizio (e ciò non appare certamente semplice) che le prime abbiano un grado di maggiore attendibilità rispetto alle seconde, le quali dunque sono messe in discussione. In questo senso si veda, su tutti, M. Lipari, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014-104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017): le valutazioni tecniche opinabili riservate all’AGCM, in Federalismi.it, 2018, 8, spec. 27.
[45] Infatti, Il procedimento amministrativo di accertamento dell’illecito antitrust potrebbe suddividersi in quattro distinte fasi: Secondo M. Roffi, Sindacato giurisdizionale e provvedimenti sanzionatori dell’AGCM, cit., 2507 queste sarebbe: una prima fase di accertamento dei fatti, una seconda di contestualizzazione dei c.d. «concetti giuridici indeterminati», una terza di confronto dei fatti accertati con il parametro normativo contestualizzato ed infine un’ultima fase di applicazione della sanzione alla luce della disciplina vigente. Similmente anche M. Lipari, Il sindacato pieno del giudice amministrativo sulle sanzioni secondo i principi della CEDU e del diritto UE. Il recepimento della direttiva n. 2014-104/EU sul private enforcement (decreto legislativo n. 3/2017): le valutazioni tecniche opinabili riservate all’AGCM, cit., 29, per il quale il procedimento si suddividerebbe nelle seguenti fasi: «a) Acquisizione del fatto materiale; b) Contestualizzazione dei concetti indeterminati rilevanti nella vicenda; c) Confronto tra il fatto concreto e il concetto indeterminato così espresso; d) Quantificazione e applicazione della sanzione».
[46] Così M. Roffi, Sindacato giurisdizionale e provvedimenti sanzionatori dell’AGCM, cit., 2507.
[47] Cfr., recentemente, Cons. St. 14 ottobre 2016, n. 4266, cit.
[48] In questo senso, da ultimo, M. Cappai, Il problema del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti dell’AGCM in materia antitrust: un passo in avanti, due indietro … e uno in avanti. Una proposta per superare l’impasse, cit., 6.
[49] Si veda in particolare Cass., sez. un., 20 gennaio 2014 n. 1013, con nota di B. Giliberti, Sulla pienezza del sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi. Annotazioni a Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 20 gennaio 2014, n. 1013, in Dir. proc. amm., 2014, p. 1057 ss., la quale ha affermato il principio di diritto secondo cui «Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità – come nel caso della definizione di mercato rilevante nell’accertamento di intese restrittive della concorrenza – detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini».
[50] A questo proposito il Consiglio di Stato, nella decisione in commento, richiama espressamente il precedente Cons. St. 13 marzo 2020, n. 1832, caso Aspen, in giustizia-amministrativa.it.
[51] Si vedano, in proposito, le sopracitate Cons. St. 15 febbraio 2002, n. 150 e Tar Lazio 20 febbraio 2008, n. 1542.
[52] Da ultimo si veda C. giust. Ue 30 gennaio 2020, causa C-307/18, Generics (UK) Ltd. e altri c. Competitions and Market Authority, in Racc. dig. della giurisprudenza, 2020, par. n. 127; nel medesimo senso si veda anche C. giust. Ce 9 novembre 1983, causa C-322/81, NV Nederlandsche Banden-Industrie Michelin c. Commissione delle Comunità europee, cit., 3503, par. n. 30.
[53] Così, ad esempio, nel mercato del trasporto aereo di passeggeri il mercato rilevante è individuato attraverso il c.d. metodo city-pair, altrimenti nominato metodo delle coppie di origine e destinazione («O&D»), che consiste appunto nel rinvenire uno specifico mercato rilevante in ogni coppia di città o aeroporti di partenza e di destinazione, in quanto questi non sarebbero sostituibili dal punto di vista della domanda (fermo restando che il singolo mercato rilevante non necessariamente è ridotto al solo collegamento tra i due estremi della rotta, potendo includere anche i collegamenti tra aeroporti che coinvolgano il medesimo bacino di utenza). In proposito si veda, tra le altre, Cass. 12 novembre 2019, n. 29237, cit., spec. 417 e 421.
[54] A tale conclusione l’AGCM è giunta considerando innanzitutto la diversità degli specifici bacini di utenza serviti, rispettivamente, dai porti del Nord e quelli del Sud della Sardegna e ravvisando, inoltre, come la distanza chilometrica tra il bacino di utenza servito e il porto di partenza e/o arrivo delle merci rappresentava un aspetto preponderante. Difatti, alla luce del costo del trasporto su strada nel territorio sardo, poteva ritenersi preferibile, per le imprese di logistica, percorrere una traversata marittima più lunga, partendo però da un porto territorialmente più vicino che una traversata più breve e veloce, ma partendo da un porto più lontano. In questo modo, pertanto, vengono isolate dall’Autorità le tre distinte direttrici che, a suo parere, comportavano soluzioni logistiche tra loro alquanto diverse. Cfr. in proposito Tar Lazio 4 giugno 2019, n. 7175, Moby e CIN c. AGCM, con nota di A. Terranova, Il boicottaggio diretto e indiretto di un’impresa in posizione dominante e la conseguente violazione dell’art. 102 TFUE, in Dir. mar., 2020, 1170 ss. Per una critica ai parametri utilizzati dall’AGCM nella definizione del mercato rilevante nel caso di specie si veda invece M. Percoco, Mercato rilevante nel servizio di trasporto merci via mare. Una nota sul provvedimento Agcm n. A487 del 23 marzo 2018, in Mercato, concorrenza, regole, 2018, 3, 547 ss.
[55] Il riferimento diretto è a Trib. Ce 8 ottobre 1996, T-24/93, in Racc. giur. C. giust., 1996 II-01201, 1207 ss. Nel medesimo senso cfr. C. giust. Ce 3 luglio 1991, causa C-62/86, Akzo Chemie BV c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 1991 I-03359, par. n. 60 e prima ancora C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa 85/76, Hoffmann-La Roche, cit., parr. 40 e 41.
[56] Come evidenzia G. Benelli, Continuità territoriale marittima per le merci: alcuni spunti di riflessione, in AA.VV., La continuità territoriale della Sardegna. Passeggeri e merci, low cost e turismo, a cura di M.M. Comenale Pinto, Roma, 2015, 212 le convenzioni di servizio pubblico risultano essere, a legislazione comunitaria vigente, «lo strumento privilegiato […] per conciliare le esigenze del libero mercato con quelle economiche e sociali che le sole regole della concorrenza non riuscirebbero a soddisfare».
[57] In questo senso viene richiamata, da ultimo, la decisione Trib. Ue 9 aprile 2019, causa T-371/17, Qualcomm, Inc. e Qualcomm Europe, Inc. c. Commissione europea, reperibile, in lingua inglese, su curia.europa.eu.
[58] Cfr. in particolare Cons. St. 15 maggio 2015, n. 2479, Telecom, in giustizia-amministrativa.it, par. n. 6. Si veda altresì, nella giurisprudenza eurounitaria, C. giust. Ue 17 febbraio 2011, causa C-52/09, Konkurrensverket c. TeliaSonera Sverige AB, cit., par. n. 27, secondo cui «lo sfruttamento abusivo di posizione dominante vietato da tale disposizione è una nozione obiettiva riguardante i comportamenti di un’impresa in posizione dominante, i quali, su un mercato in cui, proprio in conseguenza della presenza dell’impresa in questione, il livello della concorrenza è già indebolito, abbiano l’effetto di impedire, mediante il ricorso a mezzi diversi da quelli che reggono una normale competizione fra i prodotti o i servizi in base alle prestazioni degli operatori economici, il mantenimento del livello di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo della medesima».
[59] Si veda il par. n. 18 della decisione in commento, dove i giudici affermano che «[…] il medesimo riguardo all’effettività dell’ordinamento di tutela della concorrenza impone anche di considerare che la posizione di impresa dominante in un mercato rilevante genera speciali doveri concorrenziali, realisticamente legati al suo particolare potere di mercato e alla conseguente particolare sensibilità del mercato rilevante alle sue operazioni anticoncorrenziali». A sostegno, viene richiamato il precedente Cons. St. 13 settembre 2012, n. 4873, RDB s.p.a. c. AGCM, su giustizia-amminstrativa.it, par. n. 6.2, nonché della citata C. giust. Ce 9 novembre 1983, causa C-322/81, NV Nederlandsche Banden-Industrie Michelin c. Commissione delle Comunità europee, cit., 3511, par. n. 57.
[60] In questo senso si veda, in particolare, Trib. Ue 29 marzo 2012, causa T– 336/07, Télefonica c. Commissione europea, in Racc. dig. della giurisprudenza, 2012, 1 ss., nonché Trib. Ce 30 settembre 2003, causa T-203/01, Michelin c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 2003 II-04071, 4082 ss.
[61] Ciò che invece è affermato dalla giurisprudenza eurounitaria maggioritaria. Si veda in proposito supra la nota n. 35.
[62] Su tutte si veda Trib. Ce 17 dicembre 2003, causa T-219/99, British Airways c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 2003 II-05917, 5925 ss., spec. 5998, par. n. 297, per la quale «qualora un’impresa in posizione dominante ponga effettivamente in essere una pratica che produca un effetto preclusivo nei confronti dei propri concorrenti, la circostanza secondo cui il risultato voluto non sia stato raggiunto non è sufficiente ad escludere la sussistenza di un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 82 CE».
[63] In proposito si rimanda a quanto detto supra alla nota n. 33.
[64] In questo senso, la posizione assunta dal Consiglio di Stato, nella decisione in esame, sembra distaccarsi addirittura da quanto previsto dal Tribunale amministrativo nella pronuncia di primo grado (cfr. Tar Lazio 4 giugno 2019, n. 7175, Moby e CIN c. AGCM, cit., 1175a ss.) dove si afferma che «se è vero che la prova della volontaria finalizzazione delle condotte dell’impresa ad un intento escludente assume, in presenza di una ricostruzione economica che individui un meccanismo comportamentale astrattamente idoneo a produrre un effetto anticoncorrenziale, una importante valenza interpretava dei fatti, è altrettanto vero che la prova dell’intento lesivo, in assenza di una necessaria analisi fattuale, non può assumere, da sola, la funzione di sorreggere l’intero impianto accusatorio», ma anche dalla stessa pronuncia eurounitaria che il Consiglio pone alla base del proprio ragionamento (ancorché erroneamente indicata nella data e nel numero della causa), ossia C. giust. Ue 19 aprile 2012, causa C-549/10 P, Tomra Systems ASA e altri c. Commissione europea, cit., 1 ss. Difatti, se i giudici di Palazzo Spada citano, ancorché non direttamente, il par. n. 68 della decisione eurounitaria, nella parte in cui prevede che «[…] per accertare un abuso di posizione dominante ai sensi dell’articolo 102 TFUe, è sufficiente dimostrare che il comportamento abusivo dell’impresa in posizione dominante mira a restringere la concorrenza o che è tale da avere o da poter avere un simile effetto», pare trascurare del tutto il par. n. 20 della medesima decisione, là dove si specifica invece che «L’esistenza di un eventuale intento anticoncorrenziale costituisce […] solo una delle numerose circostanze di fatto che possono essere prese in considerazione per accertare un abuso di posizione dominante».
L’impostazione adottata dal Consiglio di Stato, nel caso de quo, sembra piuttosto conformarsi ad un orientamento minoritario che ha comunque trovato riscontri sia nella giurisprudenza dell’Unione (si veda ad esempio Trib. Ce 30 gennaio 2007, causa T-340/03, France Télécom c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 2007 II-00107, 117 ss., spec. par. n. 195, secondo cui «[…] se si dimostra che il comportamento di un’impresa in posizione dominante ha lo scopo di restringere la concorrenza, detto comportamento sarà anche idoneo a produrre un effetto di tal genere»), ma anche in proprî precedenti (su tutti si veda Cons. St. 8 aprile 2014, n. 1673, cit., dove si evidenzia come «[…] la prova dell’oggetto e quella dell’effetto anticoncorrenziale si confondono tra loro: se si dimostra che lo scopo perseguito dal comportamento di un’impresa dominante è di restringere la concorrenza, un tale comportamento è di per sé pregiudizievole, in quanto può anche comportare tale effetto».
[65] La quale può essere ipotizzata anche dal giudice amministrativo in sede di impugnazione del provvedimento dell’AGCM, soprattutto là dove rinvenga un difetto di istruttoria, ovvero una carenza motivazionale, dell’Autorità in ordine a quella che si presume essere la causa dell’abuso. Si veda, ad esempio, seppur nell’àmbito contiguo ancorché distinto del divieto di intese anticoncorrenziali, Tar Lazio 7 maggio 2014, Grandi Navi Veloci S.p.a. c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in Dir. mar., 2014, 709-a ss., con nota di A. Dasara, L’aumento uniforme delle tariffe dei traghetti, in assenza di ulteriori elementi di prova, non dimostra il cartello degli armatori, ivi, 702 ss.
[66] In questo senso si veda F.M. Balestra, Gli abusi di posizione dominante. Gli elementi costitutivi della fattispecie, cit.,370.
[67] Cfr. F.M. Balestra, Gli abusi di posizione dominante. Gli elementi costitutivi della fattispecie, cit., 370 s.
[68] Si veda in particolare, tra le tante, C. giust. Ce 13 febbraio 1979, causa C-85/76, Hoffmann-La Roche, cit., 540, par. n. 90, sulla natura abusiva dei premî fedeltà; C. giust. Ce 3 luglio 1991, causa C– 62/86, Akzo Chemie BV c. Commissione delle Comunità europee, cit., dove si ritiene abusiva qualsiasi condotta che induca il cliente di un’impresa in posizione dominante ad approvvigionarsi esclusivamente presso di questa, senza necessità dunque che sia imposto un esplicito obbligo in tal senso e a prescindere dai mezzi impiegati per raggiungere un tale risultato; più di recente C. giust. Ce 15 marzo 2007, causa C-95/04 P, British airways c. Commissione delle Comunità europee, in Racc. giur. C. giust., 2007 I-02331, 2373 ss., dove si afferma che gli sconti o i premî concessi alle controparti commerciali da parte di un’impresa in posizione dominante non sono sempre necessariamente abusivi (par. n. 84), dovendosi escludere l’abusività in presenza di una giustificazione economica che deve effettuarsi «sulla base dell’insieme delle circostanze della fattispecie» (par. n. 86) e che può condurre ad escludere l’abuso qualora «l’effetto preclusivo […] svantaggioso per la concorrenza, possa essere controbilanciato, o anche superato, da vantaggi in termini di efficienza che vadano anche a beneficio del consumatore» (par. n. 86); Trib. Ce 17 dicembre 2003, causa T-219/99, British Airways c. Commissione delle Comunità europee, cit., 5987, par. n. 248, dove si specifica che «[…] ogni sistema di sconti che presenti un “effetto fedeltà” applicato da un’impresa in posizione dominante tende ad impedire alla clientela di rifornirsi presso imprese concorrenti, violando in tal modo l’art. 82 CE, indipendentemente dalla questione se il sistema di sconti sia o meno discriminatorio. Lo stesso ragionamento si applica ad un sistema di premi di produzione caratterizzato da un “effetto fedeltà”, praticato da un acquirente in posizione dominante nei confronti dei propri prestatori di servizi»; Trib. Ce 30 settembre 2003, causa T-203/01, Michelin c. Commissione delle Comunità europee, cit., par. n. 240, secondo cui occorre «valutare tutte le circostanze e, in particolare, i criteri e le modalità di concessione degli sconti, e accertare se gli sconti mirino, mediante un vantaggio non basato su alcuna prestazione economica che li giustifichi, a sopprimere o limitare la possibilità dell’acquirente di scegliere la fonte di rifornimento, a chiudere l’accesso del mercato ai concorrenti, ad applicare a controparti commerciali condizioni dissimili per prestazioni equivalenti o a rafforzare la posizione dominante mediante una concorrenza falsata», ma anche il precedente par. n. 100, dove si evidenzia la necessità di una «contropartita economicamente giustificata» per gli sconti concessi da un’impresa in posizione dominante, dovendosi altrimenti ritenere la condotta abusiva.
[69] Cfr., ex multis, Cons. St. 19 luglio 2002, n. 4001, cit., par. n. 5.2, dove si evidenzia come «Per la giurisprudenza comunitaria, […], gli “sconti target” o “sconti obiettivo” costituiscono un abuso di posizione dominante, quando siano idonei a fidelizzare i soggetti destinatari, sottraendoli di fatto ai concorrenti e riducendo il residuo grado di concorrenza conseguente alla presenza della impresa dominante».
[70] Cfr. Cons. St. 2 settembre 2019, n. 6030, caso Argenta s.p.a. e altri c. AGCM, in giustizia-amministrativa.it.
[71] L’obbligo di motivazione, nei provvedimenti emessi dall’AGCM (e, più in generale, dalle Autorità amministrative indipendenti) è particolarmente pregnante. Si pensi, infatti, che essi derogano addirittura l’art. 3, comma 2, della l. n. 241/1990 nella parte in cui esclude dall’obbligo motivazionale gli atti normativi e quelli a contenuto generale. Secondo G. Cocozza, Autorità amministrative indipendenti e ruolo della motivazione come fondamento dei poteri ad esse conferiti, in amministrativ@mente, 2020, 4, 31 ss., spec. 40 s. le Autorità amministrative indipendenti necessiterebbero di giustificare la propria indipendenza e neutralità rinvenendo un fondamento di tali peculiarità «dal basso», ciò si tradurrebbe «nell’esigenza di assicurare le garanzie del giusto procedimento con un correlato controllo in sede giurisdizionale». Dunque, secondo l’Autore, non soltanto la motivazione consentirebbe all’Autorità di esercitare legittimamente i proprî poteri, ma questa «tende[rebbe] ad assumere il ruolo di fondamento per la loro stessa operatività nel sistema, con l’esercizio dei poteri regolativi di cui sono dotate» (p. 41).
[72] Sulla complementarità tra le due modalità di enforcement si veda, in particolare, il reg. Ce n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, in GUCE, del 4 gennaio 2003, L 1, 2, considerando n. 7, dove si afferma che «Le giurisdizioni nazionali svolgono una funzione essenziale nell’applicazione delle regole di concorrenza comunitarie. Esse tutelano i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle controversie fra privati, in particolare accordando risarcimenti alle parti danneggiate dalle infrazioni. Le giurisdizioni nazionali svolgono sotto questo aspetto un ruolo complementare rispetto a quello delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri». In dottrina, ad esempio, la complementarità tra le due forme di enforcement, allo scopo di edificare un sistema misto sull’esempio dell’esperienza statunitense, è stata con forza sostenuta da M. Libertini, Il ruolo necessariamente complementare di “public” e “private enforcement” in materia antitrust, in AA.VV., Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, a cura di A. Zoppini, M. Maugeri, Bologna, 2009, 171 ss. D’altronde non di rado è stata affermata l’insufficienza della sola azione di public enforcement, soprattutto in quanto questa si dispiega «a campione», concentrandosi esclusivamente su quelli che appaiono i casi più rilevanti, oltre al fatto che le sanzioni pubblicistiche non paiono idonee a compensare gli ingenti profitti che possono ricavarsi da condotte poste in violazione delle norme antitrust, nonché dei conseguenti danni cagionati alle vittime di tali condotte. In questo senso, si veda, recentemente, V. Meli, Introduzione al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, di attuazione della Dir. 2014/104/UE sul risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust, in Nuove l. civ. comm., 2018, 1, 125 s.
Si veda però anche Cons. St. 29 settembre 2014, n. 4773, in giustizia-amministrativa.it, la quale chiarisce comunque come private e public enforcement operino su piani autonomi e distinti. Tuttavia, la supposta autonomia tra le due suddette modalità può oggi essere revocata in dubbio, come si vedrà a breve, alla luce dell’art. 9 della direttiva 2014/104/UE (e, a livello interno, dell’art. 7 del d.lgs. 19 gennaio 2017 n. 3/2017 che l’ha recepita), dove si prevede che una violazione del diritto della concorrenza accertata con decisione definitiva dell’Autorità nazionale garante della concorrenza deve considerarsi «definitivamente accertata» ai fini dell’azione di risarcimento del danno proposta davanti ai giudici nazionali. Viene affermandosi così quel regime di interdipendenza tra public e private enforcement auspicato da taluni autori anche anteriormente alla direttiva 2014/104 UE. Su tutti cfr. A. Nicita, Deterrenza, sanzioni e mercato. Una riflessione economica, in AA.VV., Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, a cura di A. Zoppini, M. Maugeri, cit., 27 ss., 53 ss.
[73] Cfr. sul punto R. Chieppa, Coordination betweeen private and public antitrust enforcement in Italy and in the EU. Due modalità di un sistema bilanciato di enforcement, in AA.VV., Il private antitrust enforcement in Italia e nell’Unione Europea: scenari applicativi e le prospettive del mercato, a cura di G.A. Benacchio, M. Carpagnano, Atti del VII Convegno Antitrust di Trento, 11-13 aprile 2019, Trento, 2019, 31 ss.
[74] C. giust. Ce 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage Ltd. c. Bernard Crehan e Bernard Crehan c. Courage Ltd. e altri – Domanda pregiudiziale, in Racc. giur. C. giust., 2001 I-06297, 6314 ss., spec. 6323, parr. nn. 26-27.
[75] Per tale prospettiva si veda, ad esempio, M. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Milano, 2014, 454 ss., nonché G. A. Benacchio, Il private enforcement del diritto europeo antitrust: evoluzione e risultati, in AA.VV., Dizionario sistematico del diritto della concorrenza, a cura di L. Pace, Napoli, 2013, 17, il quale sottolinea come l’enforcement privatistico è uno strumento nato per favorire il rispetto delle norme concorrenziali comunitarie e non come strumento civilistico diretto a tutelare posizioni giuridiche soggettive.
[76] Cass., sez. un. 4 febbraio 2005, n. 2207, in Foro it., 2005, I, cc. 1014 ss. Orientamento poi consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, si veda ad es. Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305, in Corr. giur., 2007, 641 ss., con nota di S. Bastianon, nonché Cass. 26 maggio 2011, n. 11610, in Giust. civ. Mass., 5, 2011, c. 808.
[77] Per questo rilievo cfr. V. Buonocore, Contratto e mercato, in Riv. dir. comm., 2007, I, 379 ss., spec. 406.
[78] Il d.lgs. n. 3/2017 ha ulteriormente ristretto la competenza in materia antitrust esclusivamente in favore delle sezioni specializzate in materia di impresa istituite presso i tribunali di Napoli, Roma e Milano, allo scopo di ottenere una maggiore specializzazione dell’organo giurisdizionale. Sul punto si veda V. Meli, Introduzione al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, di attuazione della Dir. 2014/104/UE sul risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust, cit., spec. 130 s., nonché S. Lopopolo, Il recepimento italiano della direttiva 2014/104/UE sul private enforcement antitrust, in Federalismi.it, 23, 2017, 1 ss., spec. 7, la quale – oltre alla ratio di una più effettiva specializzazione dei giudici, richiama anche esigenze di una maggiore celerità, prevedibilità ed uniformità delle decisioni.
[79] In questo senso si veda l’articolo apparso su Milano finanza, numero 79, del 23 aprile 2021, 17, a firma di Achille Milanesi e dal titolo «Grimaldi, 100 milioni di cause a Moby», secondo cui appunto la Grimaldi starebbe pensando di intentare causa alla Moby e a CIN al fine di ottenere il risarcimento di una somma pari, all’incirca, a 100 milioni di euro.
[80] La natura plurioffensiva dell’illecito antitrust presuppone che debbano essere risarciti tutti i danni eziologicamente riconducibili alla medesima condotta illecita. Ciò pertanto induce ad escludere la necessità di un’assoluta coincidenza tra il destinatario immediato della condotta e destinatario diretto del illecito. Per questo rilievo cfr. E. Camilleri, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, in Nuove l. civ. comm., 1, 2018, 147.
[81] V. Dir. 2014/104/UE, del 26 novembre 2014, «relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea», in GUCE, del 5 dicembre 2014, L 349, 1 ss. Come evidenzia G. Muscolo, La prova nelle azioni di risarcimento dei danni antitrust, in Analisi Giuridica dell’Economia, 2, 2017, 391 ss., spec. 392, lo scopo della direttiva in oggetto sarebbe proprio quello di incentivare il private enforcement.
[82] Misure che, almeno per quanto riguarda quelle qui esaminate, hanno – tra gli altri – lo scopo di neutralizzare o quantomeno limitare l’asimmetria di informazioni sussistente tra la parte che commette l’illecito e quella che lo subisce. Difatti, tale asimmetria renderebbe più complesso alla vittima della condotta anticoncorrenziale dar prova dell’illecito, ciò che si tradurrebbe in un disincentivo per la stessa ad agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni. In proposito si veda, ad esempio, E. Camilleri, An overview of the Private Enforcement of Competition Law in Italy, in Jus civile, 2, 2020, 351 ss., spec. 363, il quale evidenzia come la vincolatività della decisione (definitiva) dell’Autorità garante della concorrenza, in ordine alla sussistenza dell’illecito antitrust, nell’eventuale e successivo giudizio risarcitorio innanzi al giudice ordinario promette di essere lo strumento più efficace per superare la suddetta asimmetria, quantomeno per quanto riguarda le azioni c.d. follow-on, ossia appunto quelle precedute da un preventivo accertamento positivo dell’Autorità garante della concorrenza.
[83] In realtà già il reg. Ce n. 1/2003, cit., prevedeva, all’art. 16, qualcosa di simile, nella parte in cui veniva affermato l’obbligo per i giudici nazionali che si pronunciassero in ordine ad accordi, decisioni o pratiche ai sensi dell’art. 81 e 82 del Trattato (oggi artt. 101 e 102 TFUe), già oggetto di una decisione della Commissione, di non porsi in contrasto rispetto a quest’ultima.
Anteriormente all’introduzione del citato art. 7, d.lgs. n. 3/2017, la maggioritaria giurisprudenza di legittimità, pur senza giungere ad affermare la vincolatività della decisione dell’AGCM nel successivo giudizio risarcitorio, aveva comunque affermato la natura del provvedimento amministrativo (definitivo) dell’Autorità garante quale «prova privilegiata», suscettibile di provare l’esistenza dell’illecito, ciò che consentiva al giudice chiamato a pronunciarsi sull’istanza risarcitoria di aderire pressoché totalmente alle conclusioni elaborate, sul punto, dalla stessa Autorità. Si vedano in proposito Cass., ord. 4 marzo 2013, n. 5327, in Diritto e Giustizia del 5 marzo 2013 e Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640, in Riv. dir. ind., 6, II, 2009, 587 ss., dove, in riferimento alle «[…] conclusioni assunte dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, nonché le decisioni del Giudice amministrativo che eventualmente abbiano confermato o riformato quelle decisioni», la Corte ha ammesso che le stesse «costituiscano una prova privilegiata». In Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305, in Riv. dir. ind., 2, 2008, 133 ss., la Corte ha chiarito che «[…] In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare […] l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria) e il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento».
Da ultimo, però, si segnala Cass. 4 ottobre 2021, n. 26869, in DeJure, dove si specifica che «Nel giudizio instaurato ai sensi della l. n. 287 del1990, art. 33, comma 2, per il risarcimento dei danni derivanti da illeciti anticoncorrenziali, nell’ipotesi in cui il procedimento avanti all’AGCM si sia concluso con una decisione con impegni assunti dall’impresa a norma dell’art. 14-ter della stessa legge a proposito della posizione rivestita sul mercato e della sussistenza di un comportamento implicante abuso di posizione dominante, il giudice del merito, considerate le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria (e in particolare dalla sentenza 23 novembre 2017, causa C –547/16, della Corte di giustizia), non è in alcun modo limitato nelle sue valutazioni e deve anzi porre a fondamento del proprio accertamento anche gli elementi di prova acquisiti nel corso dell’istruttoria svolta; in particolare deve tener conto della valutazione preliminare della Commissione e degli elementi desumibili dalla comunicazione delle afferenti risultanze, onde considerarle quale indizio, o addirittura quale principio di prova, della natura anticoncorrenziale della condotta contestata, nel contesto di tutte le emergenze, anche di diverso tenore, acquisite in giudizio».
[84] Mentre invece, si segnala, la decisione della Commissione europea è suscettibile di vincolare il giudice ordinario nazionale anche se non sottoposta al vaglio giurisdizionale. Cfr. G. Muscolo, L’effetto delle decisioni delle autorità nazionali di concorrenza per le corti nazionali, in AA.VV., Il private antitrust enforcement in Italia e nell’Unione Europea: scenari applicativi e le prospettive del mercato, a cura di G.A. Benacchio, M. Carpagnano, cit., 37 ss., spec. 40.
[85] Difatti, l’accertamento negativo non vincola il giudice ordinario eventualmente adito per il risarcimento del danno, il quale può dunque procedere ad un accertamento di senso contrario e riconoscere così un illecito antitrust non ravvisato dall’AGCM o dai giudici amministrativi. Cfr. M. Tavassi, La realtà del private antitrust enforcement in Italia, in AA.VV., Il private antitrust enforcement in Italia e nell’Unione Europea: scenari applicativi e le prospettive del mercato, a cura di G.A. Benacchio, M. Carpagnano, cit., 16, nonché G. Muscolo, L’effetto delle decisioni delle autorità nazionali di concorrenza per le corti nazionali, cit., 43, la quale ravvisa come «il giudice potrà sempre accertare una condotta anticoncorrenziale di portata e/o durata più ampia di quella accertata dall’Autorità, e imputarla ad un numero di soggetti maggiore rispetto a quanto deciso dall’Autorità. Non potrà invece ridurre l’ambito, neanche temporale della condotta accertata da quest’ultima, né potrà ritenerne che essa non sia imputabile ai soggetti a cui è stata ascritta».
[86] Difatti, come chiarisce l’art. 7 cit., tali ultimi profili sono esclusi dall’accertamento vincolante compiuto dall’AGCM, il quale dunque è limitato alla «natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale». Sull’opportunità di una siffatta specificazione legislativa si veda G. Di Federico, Effetti delle decisioni definitive degli organi nazionali e delle decisioni definitive degli organi degli altri Stati membri, in AA.VV., Il risarcimento del danno nel diritto della concorrenza. Commento al d.lgs. n. 3/2017, a cura di P. Manzini, Torino, 2017, 65 ss. Di diverso avviso, invece, V. Meli, Introduzione al D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, di attuazione della Dir. 2014/104/UE sul risarcimento dei danni per violazione della normativa antitrust, cit., 138, nota n. 32, secondo cui, invece, tale precisazione sarebbe alquanto ovvia.
Sul punto si veda anche E. Camilleri, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorrenza: ambito di applicazione e valutazione del danno, cit., 151, ad avviso del quale la prova del nesso causale tra violazione della norma antitrust e danno potrebbe essere offerta dall’attore dimostrando, ad esempio, il peggioramento delle condizioni contrattuali a lui applicate, fatta salva la possibilità per il convenuto di provare l’interruzione del nesso eziologico.
[87] Condotte che, tuttavia, risultano essere state già inibite dall’AGCM con il provvedimento n. 27053 del 28 febbraio del 2018, ai sensi dell’art. 15, l. n. 287/1990.
[88] Sulla distinzione tra inibitoria provvisoria e inibitoria finale si veda, in particolare, A. Frignani, L’injunction nella common law e l’inibitoria nel diritto italiano, Milano, 1974, 437 ss., nonché Id., voce Inibitoria (azione), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, 562.
[89] Per l’assimilazione dei provvedimenti d’urgenza menzionati all’art. 33, comma 2, l. n. 287/1990 a quelli previsti in via generale dall’art. 700 c.p.c. si vedano, in particolare, L. Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali (art. 33, 2°comma), in Diritto antitrust italiano – commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287, vol. II (art. 8-34), Bologna, 1993, 1466 e nota n. 31; P. Comoglio, La tutela cautelare nell’azione antitrust, in Dizionario sistematico del diritto della concorrenza, cit., 247 ss., spec. 253; M. Scuffi, Orientamenti e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Riv. dir. ind., 1, 2003, 95 ss., spec. 102.
Per una diversa prospettiva, però, si veda I. Pagni, La tutela apprestata dal giudice ordinario in materia antitrust, in AA.VV., I contratti della concorrenza, a cura di A. Catricalà, E. Gabrielli, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, Torino, 2011, 540, secondo la quale l’art. 33, comma 2, l. antitrust riconoscerebbe alle sezioni specializzate in materia di impresa, competenti in materia di private enforcement, un potere cautelare generale che andrebbe oltre i provvedimenti d’urgenza atipici e residuali previsti dal suddetto art. 700, «con conseguente ammissibilità di qualsiasi provvedimento provvisorio che sia idoneo alla tutela urgente dell’interesse dell’attore».
[90] In questo senso si veda M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., I, 1998, 663.
[91] Per tale rilievo si veda, in particolare, A. Astone, L’autonoma rilevanza dell’atto illecito. Specificità dei rimedi, Milano, 2012, 132.
[92] In séguito alle modifiche apportate all’art. 669-octies c.p.c. dalla l. 14 maggio 2005 n. 80, che ha convertito con modifiche il d. l. 14 marzo 2005 n. 35, è stato aggiunto al citato articolo un sesto comma, in base al quale si esclude l’applicabilità ai provvedimenti ex art. 700 c.p.c., nonché a tutti quanti i provvedimenti cautelari c.d. anticipatorî, delle disposizioni di cui allo stesso art. 669-octies e del primo comma dell’art. 669-novies c.p.c.
In altre parole, la riforma introdotta dalla citata legge ha esteso anche ai provvedimenti anticipatorî il principio della c.d. strumentalità attenuata, con la conseguenza che per tali provvedimenti non è più necessaria l’instaurazione del successivo giudizio di merito e, pertanto, gli stessi non perdono efficacia qualora il suddetto giudizio non sia instaurato nei termini previsti dall’art. 669-octies. Si parla in tal caso di stabilità della misura cautelare anticipatoria, proprio in quanto idonea a perpetuare i suoi effetti anche in assenza dell’instaurazione del successivo giudizio di merito; ciò che però non esclude, ad esempio, che il soggetto passivo del provvedimento, non essendo più d’accordo con le statuizioni in esso contenute, possa – anche a distanza di tempo – instaurare quel giudizio di merito che in un primo momento aveva deciso di rinviare. Per tale pregnante motivo non può mai parlarsi, neanche in presenza del regime di strumentalità attenuata, di «giudicato cautelare». Sul punto si veda I. Pagni, voce Provvedimenti d’urgenza, in Il Diritto. Enciclopedia giuridica del sole 24 ore, diretta da S. Patti, XII, Milano, 2007, 480 ss., spec. 483.
[93] In questo senso App. Milano, 14 febbraio 2007, Giur. mer., 2008, 151.
[94] Per tale prospettazione si veda I. Pagni, La tutela apprestata dal giudice ordinario in materia antitrust, cit., 542 s., la quale parla di «sdrammatizzazione del problema della mancata previsione dell’inibitoria definitiva», proprio perché una volta concessa l’inibitoria cautelare, di quella definitiva «non vi sarà necessità, né sotto il profilo fattuale (avendo ottenuto il ricorrente il risultato cui sarebbe dovuta pervenire l’inibitoria di merito), né sotto il profilo giuridico (non essendo necessario incardinare alcun giudizio di merito, né per ottenere il risarcimento del danno qualora il pregiudizio, grazie al provvedimento cautelare, sia stato impedito dalla cessazione del comportamento, né per stabilizzare il risultato raggiunto in via interinale, dal momento che la pronuncia definitiva oggi non è più necessaria per sorreggere gli effetti della misura provvisoria)».
[95] Cfr. in proposito A. Frignani, L’injunction nella common law e l’inibitoria nel diritto italiano, cit., 469 ss.
[96] L’applicazione in via diretta dell’inibitoria definitiva di cui all’art. 2599 c.c. alla materia antitrust si giustifica alla luce della considerazione che la misura di cui alla norma de qua caratterizzi l’intera disciplina della concorrenza, trovando dunque un’applicazione diretta anche oltre il ristretto àmbito della concorrenza sleale. In questo senso si veda – ad esempio – F. Vessia, Tutela cautelare d’urgenza, obblighi di contrarre e competenza giurisdizionale nell’abuso di dipendenza economica, in Contr. impr., VI, 2013, 1313 s., nonché, anteriormente all’introduzione della legge nazionale antitrust anche T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 3a ed., Milano, 1960, 256.
[97] Sull’applicabilità in via analogica dell’inibitoria di merito di cui all’art. 2599 c.c. in materia antitrust si veda invece L. Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali (art. 33, 2°comma), cit., 1461 ss., spec. 1463, nonché Id., La disciplina della concorrenza. Il monopolio, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, 234, dove l’Autore, pur sottolineando che la «Repressione della concorrenza sleale e antitrust perseguono, certo, scopi molto differenti e rispondono a logiche in pari misura diversificate», sostiene però che vi sarebbe «un momento in cui coincidono […] quello in cui si attua l’interferenza illecita nella sfera di libertà del concorrente, bloccandone o pregiudicandone l’impresa che, in entrambi i casi, costituisce il bene oggetto della tutela». Sarebbe dunque proprio «l’identica conformazione del pregiudizio a garantire la legittimità di un impiego dello strumento inibitorio anche in chiave antitrust», questo in quanto «La tutela preventiva […] rappresenta la risposta più efficace al danno concorrenziale, cioè appunto alla illecita interferenza nell’altrui attività, e non vi è motivo di limitarne l’applicazione ai soli danni da concorrenza sleale» (corsivo dell’Autore).
[98] Così espressamente F. Ghezzi, G. Olivieri, Diritto antitrust, cit., 343.
[99] L’art. 9, comma 3, l. n. 192/1998, introdotto dalla l. n. 57/2001, afferma la competenza del giudice ordinario a conoscere delle azioni inibitorie. L’utilizzo del plurale, secondo parte della dottrina (in questo senso si veda, in particolare, M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, Milano, 2003, 16) implicherebbe l’intenzione del legislatore di introdurre, oltre all’inibitoria cautelare, anche quella finale. Tuttavia, in dottrina non tutti ritengono che la novella all’art. 9 l. subfornitura richiami ipotesi di inibitoria ulteriori rispetto a quelle già previste in precedenza. Si veda in proposito B. Grazzini, Abuso di dipendenza economica, in C. Berti, B. Grazzini, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive. Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192 come modificata dalla legge 5 marzo 2001, n. 57 e dal decreto legislativo, 9 ottobre 2002, n. 231, Milano, 2003, 203 s., secondo cui la citata novella si limiterebbe semplicemente a ribadire la natura civilistica dell’illecito, nonché la competenza a conoscere dello stesso da parte del giudice ordinario. Pertanto, secondo l’Autrice, «dovrebbe concludersi che le inibitorie avverso condotte abusive dell’altrui dipendenza economica siano essenzialmente quelle previste in materia di concorrenza sleale dall’art. 2599 cod. civ., oppure quelle ottenibili in via d’urgenza, anche al di fuori dei casi di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., in via strumentale ad un procedimento di merito».
[100] Così M. S. Spolidoro, Riflessioni critiche sul rapporto fra abuso di posizione dominante e abuso dell’altrui dipendenza economica, in Riv. dir. ind., I, 1999, 204 s.
[101] In questo caso l’infungibilità andrebbe intesa non in senso assoluto, bensì in relazione allo specifico rapporto e, in particolare, con riguardo all’utilità che le parti intendono perseguire. Difatti, se si considera che, nello specifico mercato considerato, Moby e CIN rivestono una posizione di dominio, ne deriva che i servizî da queste offerti assumono un carattere di infungibilità relativa, a causa dell’impossibilità o comunque dell’eccessiva onerosità per i potenziali contraenti delle imprese dominanti di rinvenire valide alternative soddisfacenti nel medesimo mercato. Cfr. in proposito A. Distaso, L’esecuzione specifica dell’obbligo legale a contrarre, in Riv. dir. comm., I, 1972, 198.
[102] Per un approfondimento relativo al principio citato si veda S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, 1978, 17 ss.
[103] L’art. 614-bis è stato introdotto nel codice di procedura civile ad opera dell’art. 49, co. 1°, della l. 18 giugno 2009 n. 69, recante «disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile». Inizialmente, l’articolo citato era rubricato «attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare» e si riferiva, in via esclusiva, a tali tipi di obblighi. In séguito, il d. l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con l. 6 agosto 2015 n. 132, ha modificato la rubrica dell’art. 614-bis c.p.c. (oggi, appunto, «misure di coercizione indiretta») e ha previsto un sostanziale ampliamento del suo àmbito applicativo fino ad estendersi a tutti gli obblighi, con la sola eccezione di quelli aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro.
In proposito si vedano, ex multis, C. Consolo – F. Godio, La “impasse” del combinato disposto degli artt. 2932-2908-2909 e l’alternativa dell’art. 614 bis c.p.c. dopo la riforma del 2015 per gli obblighi a contrarre ed anche solo a negoziare, in Corr. giur., 3, 2018, 370 ss., dove vengono esaminate le novità relative all’istituto in esame in séguito alla novella del 2015; S. Chiarloni, Le nuove misure coercitive ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., in Il libro dell’anno del diritto. Enc. giur. Treccani, Roma, 2012, 704, il quale ancor prima della novella aveva intuito la più ampia portata dell’istituto, oltre il limite del requisito dell’infungibilità; S. Mazzamuto, La comminatoria di cui all’art. 614 bis c.p.c. e il concetto di infungibilità processuale, in Eur. dir. priv., 2009, 950 ss.; C. Consolo, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. giur., VI, 2009, 737 ss., nonché 740 ss.