Il contributo analizza, con originalità di metodo e di soluzioni l’antico tema della pena privata e quello, molto attuale, dei c.d. danni punitivi.
Nel contesto delle suddette tematiche vengono affrontate problematiche specifiche, come ad es. quelle del danno in re ipsa e del risarcimento del danno non patrimoniale.
L’argomento principale del volume è comunque quello delle «prestazioni pecuniarie sanzionatorie», la cui funzione – secondo l’A. - «risiede nella deterrenza e nella punizione dell’atto illecito tipizzato dalle norme che lo contemplano».
Parole chiave: pene private – danni punitivi.
The article analyses, with originality as to method and solutions, the ancient subject of private penalty and the very topical one of so-called punitive damages.
In the context of the aforementioned subject matters, specific issues are addressed, such as those of damages in re ipsa and compensation for non-pecuniary damage.
The main topic of the volume is however that of «punitive pecuniary obligations», whose function - according to the author - «lies in the deterrence and punishment of the illicit act typified by the rules that contemplate it».
1. Caratteristiche e contenuti del volume di Carlotta De Menech - 2. Origini e definizione della pena privata - 3. La funzione dei danni punitivi - 4. Danno in re ipsa e danni punitivi. L’insegnamento di Cesare Massimo Bianca - 5. La tesi centrale del volume su «Le prestazioni pecuniarie sanzionatorie» - 6. Una breve conclusione su danni punitivi e pena privata
Nelle occasioni in cui vengo invitato a commentare i volumi dei giovani studiosi rifletto sulle caratteristiche che l’opera deve possedere per essere considerata un utile contributo alla nostra disciplina. Rilevano certamente l’ampiezza della ricerca, la ricchezza e la precisione delle informazioni, la chiarezza del dettato, la capacità di argomentare nonché quella di analizzare il «sistema» movendo da una problematica specifica. Le suddette caratteristiche si riscontrano nel volume di Carlotta De Menech su «Le prestazioni pecuniarie sanzionatorie. Studio per una teoria dei “danni punitivi”», opera da collocare temporalmente nel segmento finale di una lunga serie di contributi dedicati all’antico tema della pena privata ed a quello – estremamente attuale – dei c.d. danni punitivi. Alla luce del contenuto, mi sembra peraltro che il sottotitolo del libro, con maggiore precisione, avrebbe potuto essere «Studio per una categoria delle pene pecuniarie private». La costruzione della suddetta categoria appare infatti come il principale programma dell’autrice, la quale esclude altre sanzioni che non presentano carattere pecuniario.
Molti studiosi – come è noto – si sono occupati negli ultimi decenni della pena privata e dei c.d. danni punitivi ed i loro contributi sono presi in esame nella parte iniziale del volume con vigorosa analisi critica delle diverse tesi, in particolare riguardo alla «equivalenza» di fattispecie punitive previste dal diritto italiano con l’istituto di common law dei punitive damages nonché alla possibilità di recepire i c.d. danni punitivi nel nostro ordinamento, soprattutto alla luce della nota sentenza della Corte di cassazione redatta dal presidente D’Ascola. Studiando a Stanford per il mio libro su Famiglia e responsabilità civile, alla fine degli anni Settanta, mi ero imbattuto nella pena privata in connessione con i torts subiti da un componente di un gruppo familiare e della reazione di quest’ultimo che, al fine di evitare la «vendetta», chiedeva una prestazione, avente appunto carattere punitivo, al gruppo familiare a cui apparteneva l’autore dell’illecito. La «pena» non era considerata privata perché si realizzava nell’ambito del diritto privato (il fatto dannoso, invero, configurava sovente un reato) ma perché nasceva e veniva determinata in un rapporto tra privati. Anni dopo, incaricato da Rodolfo Sacco di redigere la voce «Pena privata» per la quarta edizione del Digesto, ho notato un ampliamento del concetto, nell’esperienza di molti ordinamenti giuridici, che ha condotto ad una definizione della figura in termini di sanzione comminata da un giudice a favore di un privato. La «pena», pertanto, non è stata definita privata perché decisa da privati ma in quanto destinata a determinare un vantaggio (patrimoniale) a privati. D’altra parte – come ha insegnato Cesare Massimo Bianca – negli ordinamenti moderni si prevedono limiti al potere dei privati, ad esempio nell’ambito delle associazioni, di stabilire sanzioni a carico di altri privati, poiché si potrebbero configurare inammissibili espressioni di «autorità private».
La «pena privata» presenta pertanto antiche origini ed ha conosciuto una complessa evoluzione, che negli ordinamenti di common law ha condotto ad un più o meno frequente ricorso alla figura dei c.d. danni punitivi. L’idea di fondo dei c.d. «danni punitivi» (e la loro funzione) è abbastanza semplice: in molti casi la funzione deterrente del risarcimento del danno non può essere soddisfatta limitandosi ad imporre il risarcimento della perdita subita dal danneggiato. Inoltre, non è sempre possibile provare l’intero pregiudizio subito oppure occorre evitare che l’autore dell’illecito conservi comunque un vantaggio economico. Appare pertanto opportuno condannare il responsabile al pagamento di una somma «ulteriore» che (non servendo a «compensare») assume carattere punitivo. L’utilità della figura è emersa chiaramente, in primo luogo negli Stati Uniti, in celebri casi nei confronti di imprese che avevano causato danni ad una moltitudine di consumatori – e non a caso la domanda del pagamento di danni punitivi si riscontra in class actions – oppure all’ambiente naturale. Certamente non sono mancate condanne «eccessive», che hanno determinato momenti di «crisi» dell’istituto e, tra l’altro, alla elaborazione di vari metodi per porre un limite al quantum dell’ammontare dei c.d. danni punitivi.
Il libro della De Menech informa adeguatamente il lettore sulla storia delle «prestazioni pecuniarie» con funzione sanzionatoria e si sofferma sulle problematiche più recenti con acutezza di analisi ed equilibrate proposte interpretative. Una delle questioni più attuali, sulle quali si confrontano (e si scontrano) i giudici della Corte di cassazione, riguarda il risarcimento del danno non patrimoniale e la sua prova. Si afferma infatti – soprattutto nelle sentenze della terza sezione – che il danno non patrimoniale non può essere considerato in re ipsa, poiché altrimenti si aprirebbe la porta ai danni punitivi, non previsti nel nostro ordinamento, e che esso deve essere provato. Si ammette tuttavia la prova mediante presunzioni (semplici), prova che di regola viene considerata fornita sulla base della mera allegazione di circostanze abitualmente presenti, ad esempio, la pacifica e armoniosa convivenza del familiare con la persona uccisa. Quasi superfluo osservare che il convenuto incontra in genere – data la sua estraneità alle vicende familiari del danneggiato – insormontabili difficoltà a contestare in modo specifico, come richiede l’art. 115 cod. proc. civ., le allegazioni di controparte. Occorre chiedersi pertanto se il principio, secondo cui non è ammesso il danno in re ipsa, basato esclusivamente sulla prova dell’evento dannoso, non sia rispettato soltanto formalmente visto che il danno conseguenza viene di regola presunto. Al riguardo, mi sembra utile ricordare il pensiero di Cesare Massimo Bianca, il quale critica la distinzione tra danno evento e danno conseguenza, sostenendo che occorre prendere in considerazione il danno evento, che ricomprende le conseguenze dannose, in quanto «è risarcibile mediante il risarcimento delle sue conseguenze pregiudizievoli» (Diritto civile, 5, La responsabilità3, Milano, 2021, 119). Si riscontra pertanto una visione unitaria che consente di far rientrare anche le conseguenze di carattere non patrimoniale nel «danno evento», escludendo aspetti «punitivi» del risarcimento del danno non patrimoniale. Ciò, del resto, appare coerente con la tesi del Maestro, secondo cui nel nostro ordinamento giuridico si applica il «principio del danno effettivo»: di conseguenza non sono ammessi i danni punitivi e, in particolare, non presenta natura punitiva il [continua ..]
La lettura del volume che presentiamo è agevole e istruttiva non soltanto per l’analisi del tema principale, ma altresì per gli innumerevoli spunti relativi a problemi connessi. A titolo meramente esemplificativo può ricordarsi la pagina dedicata allo standard di prova, ove si mette in luce che quello richiesto per la dimostrazione dei presupposti dei compensatory damages risulta in genere più tenue rispetto a quello preteso per la condanna a punitive damages, bastando nel primo caso la preponderance of evidence mentre per la condanna al pagamento di punitive damages si esige clear and convincing evidence o addirittura lo standard penalistico del beyond a reasonable doubt. Conviene altresì segnalare la riflessione relativa alla clausola penale, già a livello terminologico tradizionale terreno di indagine degli studiosi delle sanzioni private. Al riguardo, dopo un attento esame critico delle diverse tesi prospettate in dottrina e giurisprudenza, l’Autrice perviene alla qualifica della clausola penale come «conseguenza negativa tesa a rafforzare l’osservanza dell’obbligazione ed eventualmente a porre rimedio agli effetti della sua inosservanza», aggiungendo tuttavia che diversi possono essere gli obiettivi perseguiti dalle parti mediante la clausola in esame, tra cui quello punitivo. In termini generali, con riferimento alle obbligazioni pecuniarie previste nelle fattispecie normative prese in esame, l’Autrice perviene alla conclusione secondo cui «la funzione delle prestazioni in parola risiede nella deterrenza e nella punizione dell’atto illecito tipizzato dalle norme che lo contemplano». Mentre, con riguardo all’ammissibilità, in termini generali, di risarcimenti con funzione punitiva «per iniziativa pretoria», confermando l’opinione formulata all’inizio dell’indagine, ne esclude l’ammissibilità nel nostro ordinamento, e pertanto la possibilità di inquadrarli nella «categoria delle pene pecuniarie private».