Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La vita (privata) dei morti: memorie familiari e riservatezza domestica (di Luciano Olivero, Professore associato – Università degli Studi di Torino)


Chi ha il diritto di accedere agli account dei defunti? La disciplina europea non si occupa del tema, rinviando alle normative statali. Il codice privacy italiano parla, tra l’altro, di “interessi familiari meritevoli di protezione”. Prendendo spunto dalle pronunce di quattro tribunali italiani, l’articolo cerca di trovare una base legale su cui poggiare tali “interessi”. A tal fine, viene recuperata la teoria delle “memorie familiari” e viene proposta una delimitazione del livello di privacy realisticamente predicabile nei rapporti domestici, in vita e, quindi, dopo la morte.

Parole chiave: eredità digitale – diritti dei familiari – riservatezza.

The (private) life of the dead: family memories and domestic privacy

Who’s got the right to log into deceased people’s accounts? The European rules don’t deal with this topic, and they refer to the legislation of each State. The Italian privacy code, among other things, talks about “family interests worthy of protection”. Starting from the rulings of four Italian courts, the article tries to find a legal basis in support of these "interests". To this end, the paper uses the old theory of “family memories” and proposes a delimitation of the realistic level of privacy in domestic relationships, in life and, therefore, after death.

Keywords: digital inheritance – family rights – privacy.

SOMMARIO:

1. La casistica giurisprudenziale e i problemi aperti - 2. La risposta ereditaria e i suoi limiti - 3. Le memorie familiari - 4. La riservatezza affievolita nei rapporti domestici - 5. I poteri gestori naturalmente funzionali all’andamento della vita familiare - NOTE


1. La casistica giurisprudenziale e i problemi aperti

Quattro lutti improvvisi, quattro account da forzare. Quattro istanze di accesso di stretti congiunti. Tutte esaudite: una dal tribunale di Roma, a favore di una vedova decisa a recuperare dal telefono del marito immagini e video di famiglia, nell’interesse delle figliolette [1]; un’altra dal tribunale di Bologna, a beneficio di una madre ansiosa di accedere al profilo del figlio adolescente, morto suicida [2]; un’altra ancora, recentissima, dal tribunale di Milano, adito da una donna alla ricerca di foto e pensieri d’addio del coniuge defunto [3]; e l’ultima (ma prima in ordine di tempo) dallo stesso tribunale milanese, a cui si erano rivolti i genitori di un giovane chef tragicamente scomparso per recuperare le ricette archiviate nell’i-cloud del figlio e farne un libro di cucina in sua memoria [4]. Un lutto si colma come si può. Ma c’è un altro vuoto da colmare: quello lasciato dall’assenza di una disciplina puntuale per un fenomeno che da tempo fa parlare di eredità e morte “digitali” [5]: formule che evocano temi universali (giacché tutti abbiamo un account e tutti saremo un giorno de cuius), di cui però il legislatore europeo ha scelto, fin qui, di non curarsi col noto ‘considerando’ 27 del G.D.P.R., il quale dispone che: «Il presente regolamento non si applica ai dati personali delle persone decedute». Poco importa, ora, discettare se ciò dipenda dal rispetto per le discipline successorie statali [6], dalla fiducia riposta nei familiari quali protettori naturali dei dati dei defunti, o dall’indifferenza verso chi, non potendo più consumare, non va più difeso perché non sarà più incalzato ad acquistare, profilato, trattato [7]. Importa invece rimarcare che di tali dati possono occuparsi – per lo stesso ‘considerando’ – i legislatori nazionali, se vogliono. E quello italiano ha voluto. Il d.lgs. n. 101/2018, in effetti, ha inserito nel codice privacy l’art. 2-terdecies, dedicato ai diritti riguardanti le persone decedute. Erede della disposizione già abbozzata nell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 196/2003 [8], la norma più recente prevede che «i diritti di cui agli art. da 15 a 22 del Regolamento» – e cioè del citato G.D.P.R. 2016/679 [9] – «riferiti ai dati [continua ..]


2. La risposta ereditaria e i suoi limiti

Una prima risposta alla ricerca di questa base legale potrebbe trovarsi nella qualità di eredi legittimi che avevano, in tutti i casi, gli attori. Dell’eredità, in effetti, possono far parte anche i beni immateriali [21]; e la dottrina si è impegnata da tempo a declinare casi e modi in cui può aversi il subingresso degli eredi nei contenuti digitali riferibili al de cuius [22]. Il che non sorprende, se solo si pensa a quanti beni, anche di primaria rilevanza economica, potrebbero celarsi in un account (dall’inedito di un libro di un autore famoso alla password di un conto corrente on line). Ma non si tratta solo di questo. Gli interpreti, rileggendo in termini critici i principi di unitarietà e patrimonialità della successione [23], si sono infatti spinti a evidenziare che anche i diritti extrapatrimoniali, come i diritti della personalità o i dati personali intesi quali beni mobili sui generis, potrebbero essere oggetto di successione a causa di morte. Certo, una successione governata da principi speciali e da regole adattate alla peculiare natura dei beni in esame, che inducono a parlare – in Italia e non solo – di vocazioni “anomale”  [24]. Si deve però considerare che in diversi casi è la risposta ereditaria in sé a rivelarsi problematica. Intanto perché certi beni digitali – come si fa notare [25] – non diventano mai propriamente “vacanti” alla morte del titolare, come invece avviene nella fisiologia della successione mortis causa. A quest’ultima, inoltre, si procede per quote, e le quote si fanno sulla scorta del valore dei beni; mentre quando parliamo di foto, lettere, memorie il valore oggettivo è del tutto oscurato da considerazioni di tipo morale. E tali considerazioni, almeno in alcuni frangenti, si oppongono alla divisione di certi insiemi di beni. Infine, e soprattutto, per molti di questi “beni” appare implausibile un passaggio di mano. Si pensi ai messaggi scambiati dal defunto con terzi: si può ipotizzare che gli eredi subentrino in tali conversazioni? [26]. Al più, come si è già detto, potrebbero succedere nel contratto col gestore, ma le conversazioni del de cuius resterebbero “sue”: oggetto di affetto e curiosità, magari; ma non di eredità in senso proprio. E ancor più irragionevole [continua ..]


3. Le memorie familiari

Rispetto al primo punto, occorre rimarcare con la dottrina che molti dei beni digitali che si trovano sui nostri account, sugli i-cloud, nelle memorie di un cellulare sono “condivisi” [30]; e non di rado sono condivisi – va aggiunto – proprio con altri familiari: si pensi alle foto e ai video della vicenda romana, che ritraevano il papà defunto insieme alle figliolette. Anche quando non sono condivisi, essi potrebbero implicare in altro modo i familiari, ad esempio indirizzandosi a loro (si pensi all’eventuale lettera d’addio cercata dalla moglie dell’ultima decisione milanese). Più in generale, anche quando non sono apertamente condivisi o indirizzati ad altri congiunti, questi beni possono includere un valore affettivo, simbolico, commemorativo e, più in generale, appunto “familiare” che per una regola spontanea ed antica, che non saprei definire altrimenti se non consuetudinaria [31], li sottrae alle regole ordinarie: sono le cosiddette “memorie di famiglia”, o “souvenirs de famille” per dirla coi francesi, a cui si deve con tutta probabilità il maggior numero di contributi e riflessioni sul tema a partire da alcune celebri vicende (come il lascito della spada di Napoleone) [32] e da un fortunato lavoro di René Demogue [33], seguito negli anni da molti altri articoli e da una giurisprudenza singolarmente continua e relativamente copiosa [34]. Il contenuto morale di cui questi beni sono “saturi” – scriveva appunto Demogue – si oppone a che essi soggiacciano al regime di proprietà individuale, alle normali regole di successione, divisione, esecuzione forzata, inadatte a onorare l’essenza di tali ricordi. Essi vanno invece ricondotti ad una «propriété collective de famille» [35], ossia ad un regime di pluriappartenenza ai familiari in quanto tali. O, secondo la teoria più classica, alla famiglia quale associazione, libera di conferire, di volta in volta, a questo o a quel suo componente la «garde» dei beni. Beni rigorosamente mobili e di valore essenzialmente morale (o rispetto ai quali «la valeur symbolique et morale supplante la valeur vénale» [36]), il cui connotato saliente è appunto quello di evocare, in modo speciale, la storia della famiglia e dei suoi membri, delle loro vicende grandi e piccole, [continua ..]


4. La riservatezza affievolita nei rapporti domestici

Se si vuole cercare una risposta, occorre partire dai rapporti tra vivi; perché sarebbe implausibile immaginare che da morti si abbia verso i congiunti una riservatezza maggiore di quella che si aveva in precedenza. E poi si deve partire dall’ovvio, perché se il proprietario di un dispositivo può rifiutarsi di ostendere chat e messaggi, se può cancellare le cronologie di navigazione e fare di tutto per escludere il coniuge dalla propria vita privata, è altrettanto certo che il suo atteggiamento non resterà senza effetti nei rapporti di coppia. Il suo rifiuto sistematico potrebbe, in effetti, rappresentare una violazione dei doveri di lealtà e trasparenza, impliciti tra le voci tipiche degli obblighi coniugali. Così come, a rovescio, il continuo ficcanasare di una parte può diventare, per l’altra, motivo di irritazione; e l’irritazione può sfociare nell’intollerabilità della convivenza. Anche se qui è più difficile immaginare la violazione di uno specifico dovere; a meno che l’eccesso di curiosità non traligni in angherie e nella pretesa di soffocare la personalità altrui in un rapporto di coppia non fondato sul rispetto, ma sulla prevaricazione, com’era fisiologico nei tempi andati della potestà maritale. Molto prima che si iniziasse a parlare di privacy, in effetti, i poteri di direzione domestica assegnati al marito avevano portato a riconoscergli una serie di poteri di sorveglianza sulla vita privata della moglie, che si traducevano, ad esempio, nella possibilità di controllarne sistematicamente la corrispondenza epistolare e telefonica e anche nel diritto di vietarle certe frequentazioni e le attività extradomestiche (a lui) sgradite [44]. A maggior ragione, simili forme di controllo apparivano naturali nei riguardi dei figli, in nome dei poteri di educazione dei genitori e dello ius corrigendi del padre. È quasi inutile dire che tali regole operative, specie nei rapporti con la moglie, dovevano entrare in aperta collisione col principio di eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi dell’art. 29 Cost.; anche se – com’è a tutti noto – si dovrà attendere la riforma del diritto di famiglia del 1975 per veder cadere, insieme al marito-capo, la giustificazione di ogni possibile ingerenza oppressiva di un coniuge sulle attività [continua ..]


5. I poteri gestori naturalmente funzionali all’andamento della vita familiare

Tuttavia, si potrebbe sollevare ancora un’obiezione per quanto riguarda i rapporti interni alla famiglia, a partire da quelli tra coniugi. Se la disponibilità alla trasparenza è una manifestazione particolare della lealtà e la lealtà è la formula che racchiude buona parte dei diritti-doveri nascenti dal matrimonio, tali doveri e diritti, e quindi la lealtà e la trasparenza, non potrebbero sopravvivere allo scioglimento del vincolo che la morte invariabilmente determina. E qualcosa di simile potrebbe replicarsi cercando di ancorare la trasparenza tra genitori e figli a qualcuno dei precetti legali a cui sono formalmente tenuti a obbedire, come il dovere di assistenza dei primi verso i secondi o il dovere di rispetto dei secondi verso i primi. Una simile obiezione, tuttavia, riprecipiterebbe il discorso nei formalismi da cui si è cercato di uscire allorché si è evidenziato come la privacy, nella famiglia nucleare, debba necessariamente plasmarsi secondo le peculiarità di una comunità unita da stretti legami di coabitazione e affetto. In questo senso, anche il suo affievolimento appare l’esito di quella maggiore compenetrazione tra le sfere giuridiche che naturalmente si realizza tra congiunti che hanno consuetudine di vita, e che si manifesta in una fitta serie di poteri di amministrazione (in senso lato), i quali si collocano a metà strada tra una vera rappresentanza e una sorta di gestione d’affari (al contempo propri e altrui). Tali poteri si trovano a volte espressi in norme puntuali (si pensi all’art. 8 cod. civ. che consente di agire in giudizio anche a chi non porta il nome contestato o indebitamente usato, ma ha un interesse alla sua difesa per ragioni familiari), e altre volte emergono sottotraccia grazie all’interpretazione, come il potere di assumere obbligazioni nell’interesse della famiglia, impegnando, a date condizioni, anche gli altri componenti; o come i mille rivoli attraverso cui i familiari di un malato possono essere coinvolti nel processo di cura, e così concorrere a far emergere il suo consenso informato e, più in generale, a rendere superflua l’apertura di misure di protezione. La stessa privacy dei morti e i problemi dell’eredità digitale, dopotutto, possono essere affrontati con gli schemi della rappresentanza (si pensi al cosiddetto mandato post mortem e al [continua ..]


NOTE
Fascicolo 5 - 2022