Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La vita (privata) dei morti: memorie familiari e riservatezza domestica (di Luciano Olivero, Professore associato – Università degli Studi di Torino)


Chi ha il diritto di accedere agli account dei defunti? La disciplina europea non si occupa del tema, rinviando alle normative statali. Il codice privacy italiano parla, tra l’altro, di “interessi familiari meritevoli di protezione”. Prendendo spunto dalle pronunce di quattro tribunali italiani, l’articolo cerca di trovare una base legale su cui poggiare tali “interessi”. A tal fine, viene recuperata la teoria delle “memorie familiari” e viene proposta una delimitazione del livello di privacy realisticamente predicabile nei rapporti domestici, in vita e, quindi, dopo la morte.

Parole chiave: eredità digitale – diritti dei familiari – riservatezza.

The (private) life of the dead: family memories and domestic privacy

Who’s got the right to log into deceased people’s accounts? The European rules don’t deal with this topic, and they refer to the legislation of each State. The Italian privacy code, among other things, talks about “family interests worthy of protection”. Starting from the rulings of four Italian courts, the article tries to find a legal basis in support of these "interests". To this end, the paper uses the old theory of “family memories” and proposes a delimitation of the realistic level of privacy in domestic relationships, in life and, therefore, after death.

Keywords: digital inheritance – family rights – privacy.

SOMMARIO:

1. La casistica giurisprudenziale e i problemi aperti - 2. La risposta ereditaria e i suoi limiti - 3. Le memorie familiari - 4. La riservatezza affievolita nei rapporti domestici - 5. I poteri gestori naturalmente funzionali all’andamento della vita familiare - NOTE


1. La casistica giurisprudenziale e i problemi aperti

Quattro lutti improvvisi, quattro account da forzare. Quattro istanze di accesso di stretti congiunti. Tutte esaudite: una dal tribunale di Roma, a favore di una vedova decisa a recuperare dal telefono del marito immagini e video di famiglia, nell’interesse delle figliolette [1]; un’altra dal tribunale di Bologna, a beneficio di una madre ansiosa di accedere al profilo del figlio adolescente, morto suicida [2]; un’altra ancora, recentissima, dal tribunale di Milano, adito da una donna alla ricerca di foto e pensieri d’addio del coniuge defunto [3]; e l’ultima (ma prima in ordine di tempo) dallo stesso tribunale milanese, a cui si erano rivolti i genitori di un giovane chef tragicamente scomparso per recuperare le ricette archiviate nell’i-cloud del figlio e farne un libro di cucina in sua memoria [4].

Un lutto si colma come si può. Ma c’è un altro vuoto da colmare: quello lasciato dall’assenza di una disciplina puntuale per un fenomeno che da tempo fa parlare di eredità e morte “digitali” [5]: formule che evocano temi universali (giacché tutti abbiamo un account e tutti saremo un giorno de cuius), di cui però il legislatore europeo ha scelto, fin qui, di non curarsi col noto ‘considerando’ 27 del G.D.P.R., il quale dispone che: «Il presente regolamento non si applica ai dati personali delle persone decedute». Poco importa, ora, discettare se ciò dipenda dal rispetto per le discipline successorie statali [6], dalla fiducia riposta nei familiari quali protettori naturali dei dati dei defunti, o dall’indifferenza verso chi, non potendo più consumare, non va più difeso perché non sarà più incalzato ad acquistare, profilato, trattato [7]. Importa invece rimarcare che di tali dati possono occuparsi – per lo stesso ‘considerando’ – i legislatori nazionali, se vogliono. E quello italiano ha voluto.

Il d.lgs. n. 101/2018, in effetti, ha inserito nel codice privacy l’art. 2-terdecies, dedicato ai diritti riguardanti le persone decedute. Erede della disposizione già abbozzata nell’art. 9, comma 3, d.lgs. n. 196/2003 [8], la norma più recente prevede che «i diritti di cui agli art. da 15 a 22 del Regolamento» – e cioè del citato G.D.P.R. 2016/679 [9] – «riferiti ai dati personali concernenti persone decedute possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione». A meno che – precisa il comma 2 – tale esercizio sia escluso dalla legge o sia stato vietato in vita dal diretto interessato, con una dichiarazione scritta presentata al titolare del trattamento, da cui emerga una proibizione non equivoca e puntuale (comma 3); la quale è sempre modificabile (comma 4), e non può comunque «produrre effetti pregiudizievoli per l’esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell’interessato nonché del diritto di difendere in giudizio i propri interessi» (comma 5 e ultimo).

Occorre premettere che in nessuna delle quattro vicende in esame era emerso un simile divieto [10], e neppure l’esistenza di una qualche forma di pianificazione successoria, sia tradizionale che digitale, da parte dei defunti (anche a causa della loro giovane età e delle modalità dei decessi, sopraggiunti per una disgrazia o all’esito di malattie fulminati) [11]; sicché l’attenzione dei giudici ha potuto concentrarsi sull’accertamento di un “interesse proprio” o di una “ragione familiare” in grado di sorreggere le pretese dei ricorrenti. Ma quali sono gli interessi e le ragioni di cui parla l’art. 2 terdecies? La norma, più allusiva che prescrittiva, non lo chiarisce. Così come non chiarisce molti altri punti, a partire dal dilemma se i diritti “riguardanti” il defunto vengano acquistati dai terzi mortis causa o spettino loro iure proprio [12]. L’accenno alla legittimazione di «chi ha un interesse proprio» potrebbe deporre per la seconda ipotesi. Il richiamo ai «diritti patrimoniali che derivano dalla morte» evoca invece una successione all’antica. Resta nondimeno incerto il perimetro di questi diritti patrimoniali; e si può anzi dubitare che un perimetro esista davvero, vista la dilagante mercificazione delle informazioni quale larvato compenso dei servizi erogati via web, che rende in teoria ogni dato suscettibile di valutazione economica [13].

Benché lasci indefiniti molti contorni – e, anzi, proprio grazie all’ampiezza di certe sue formule – l’art. 2-terdecies si rivela perfettamente acconcio a risolvere vicende come quelle portate all’attenzione dei nostri giudici, tanto più quando la tutela invocata sia, come nella specie, di tipo cautelare. I familiari, infatti, non hanno faticato granché a rappresentare l’esistenza di un periculum in mora, consistente nel rischio della perdita definitiva dei dati a causa dell’inattività protratta dell’account. Mentre per il fumus boni iuris ai giudici è bastato rilevare che, nei luttuosi frangenti in cui si erano attivati, i ricorrenti avevano agito spinti da valide «ragioni familiari», bene o male ricondotte all’idea di un conforto al dolore cercato rovistando nei cassetti virtuali del defunto, nella speranza di trovarvi ricordi e messaggi capaci di ristabilire un contatto troppo presto e troppo bruscamente interrotto da una morte improvvisa.

La dimensione emotiva dei casi concreti mostra così tutto il suo peso, esercitato sia nell’orientare la decisione favorevole dei giudici, sia nel distogliere le società convenute da atteggiamenti inutilmente ostili. Va infatti rilevato che l’iniziale ritrosia degli operatori ad accedere alle richieste dei ricorrenti, più che segnare l’avvio di aspre contese giudiziarie come quelle talvolta registrate all’estero [14], era servita soltanto a spingere i familiari a rivolgersi ai tribunali, essendo l’emissione di un ordine giudiziale indispensabile per le policy aziendali delle stesse convenute [15]. Le quali, va da sé, non si erano poi opposte alla pronuncia dei provvedimenti invocati, né avevano risparmiato attestati di vicinanza ai familiari dei loro clienti defunti. Col che si potrebbe pensare a vicende chiuse in un clima di mestizia, certo, ma di concorde presa d’atto del quadro giuridico di riferimento, senza dubbi e senza lasciare problemi aperti. Non è così, perché le maggiori incognite, teoriche e pratiche, iniziano proprio lì dove si fermano i provvedimenti citati, nei quali si riflettono le stesse ambiguità già riscontrate nella norma su cui poggiano.

In effetti, il diritto che essi accordano ai familiari non è la proprietà dei beni digitali né il subingresso nel contratto facente capo al defunto (secondo la soluzione accolta, ad esempio, dalla giurisprudenza tedesca) [16], bensì l’accesso ai suoi dati personali; e tale accesso dovrebbe tradursi nel log-in all’account orfano, attraverso “la consegna delle credenziali” (come indicato dal tribunale romano) o la messa a disposizione di un account “clone”, in cui riversare i contenuti di quello originario (secondo la soluzione prospettata dall’ordi­nanza bolognese) [17]. In un modo o nell’altro, però, simili accessi dovrebbero esaurirsi nella presa d’atto dei contenuti, nella conoscenza degli elementi salienti del trattamento (finalità, categorie di dati trattati, destinatari a cui saranno comunicati, tempo di conservazione e simili), nella richiesta di cancellazione dei dati obsoleti o erronei e al più nella richiesta di una copia, come prevede l’art. 15 G.D.P.R. al par. 3. Ma tutto ciò dovrebbe lasciare impregiudicata la questione dell’appartenenza di quanto rinvenuto negli spazi virtuali del defunto [18].

Tocca invece constatare che nei provvedimenti in esame il confine tra conoscenza e appartenenza svapora e la «richiesta di accesso» coincide, di fatto, col «diritto di acquisire i dati riferibili al defunto» (così l’ordinanza romana; ma la situazione non è diversa nelle altre, nelle quali l’assistenza chiesta al gestore per entrare nell’account risulta inscindibilmente diretta a «recuperare» tutto quanto vi è contenuto, per poi disporne a piacere [19]. In questo modo il discorso si sposta dal piano della legittimazione all’accesso al piano della titolarità dei beni e dei dati rinvenuti negli account, dovendosi stabilire se e per quale ragione i soggetti di cui discutiamo (riconducibili – si ripete – ai membri stretti della famiglia nucleare) vantino una pretesa che si traduce nell’appropriazione e, quindi, in una sorta di diritto dominicale sulle foto, i messaggi e le altre memorie lì custodite. Detto altrimenti, si tratta di dare una base legale meno vaga a quell’«interesse proprio» e a quelle «ragioni familiari meritevoli di protezione» a cui si rifà l’art. 2-terdecies e che i provvedimenti in commento lasciano a loro volta nel vago; e anzi relegano – come già detto – su un piano che attiene più alla pietà che al diritto, esaurendosi nell’idea di un conforto al dolore cercato alla rinfusa nei ricordi del defunto [20].


2. La risposta ereditaria e i suoi limiti

Una prima risposta alla ricerca di questa base legale potrebbe trovarsi nella qualità di eredi legittimi che avevano, in tutti i casi, gli attori. Dell’eredità, in effetti, possono far parte anche i beni immateriali [21]; e la dottrina si è impegnata da tempo a declinare casi e modi in cui può aversi il subingresso degli eredi nei contenuti digitali riferibili al de cuius [22]. Il che non sorprende, se solo si pensa a quanti beni, anche di primaria rilevanza economica, potrebbero celarsi in un account (dall’inedito di un libro di un autore famoso alla password di un conto corrente on line). Ma non si tratta solo di questo. Gli interpreti, rileggendo in termini critici i principi di unitarietà e patrimonialità della successione [23], si sono infatti spinti a evidenziare che anche i diritti extrapatrimoniali, come i diritti della personalità o i dati personali intesi quali beni mobili sui generis, potrebbero essere oggetto di successione a causa di morte. Certo, una successione governata da principi speciali e da regole adattate alla peculiare natura dei beni in esame, che inducono a parlare – in Italia e non solo – di vocazioni “anomale”  [24].

Si deve però considerare che in diversi casi è la risposta ereditaria in sé a rivelarsi problematica. Intanto perché certi beni digitali – come si fa notare [25] – non diventano mai propriamente “vacanti” alla morte del titolare, come invece avviene nella fisiologia della successione mortis causa. A quest’ultima, inoltre, si procede per quote, e le quote si fanno sulla scorta del valore dei beni; mentre quando parliamo di foto, lettere, memorie il valore oggettivo è del tutto oscurato da considerazioni di tipo morale. E tali considerazioni, almeno in alcuni frangenti, si oppongono alla divisione di certi insiemi di beni. Infine, e soprattutto, per molti di questi “beni” appare implausibile un passaggio di mano. Si pensi ai messaggi scambiati dal defunto con terzi: si può ipotizzare che gli eredi subentrino in tali conversazioni? [26]. Al più, come si è già detto, potrebbero succedere nel contratto col gestore, ma le conversazioni del de cuius resterebbero “sue”: oggetto di affetto e curiosità, magari; ma non di eredità in senso proprio. E ancor più irragionevole appare una devoluzione delle mere cronologie di navigazione e dei download [27], perché esse, che pure hanno un valore di scambio per le ragioni già ricordate, morto l’interessato perdono, di norma, tale qualità e regrediscono a quello che erano in partenza: puri dati che fotografano fatti. Fatti che, ancora una volta, si può avere la curiosità (forse legittima) di conoscere, ma non il diritto di ereditare.

Proprio il caso delle cronologie mette bene in luce come molte delle incertezze che si agitano intorno al tema in esame originino da un dualismo irrisolto tra due entità che s’intrecciano e si compenetrano, ma non si esauriscono per intero l’una nell’altra: il “dato personale” e il “bene digitale”. L’uno posto a fondamento dalla disciplina della privacy, quale «ultima e più importante barriera allo straripare della società digitale» [28]. L’altro impiegato dagli interpreti per riempire di contenuto il concetto di “eredità digitale”: «formula ellittica, brachilogica e meramente descrittiva» di una realtà eterogenea [29], che è a sua volta il mezzo per recuperare alle regole del diritto successorio almeno una parte della galassia dei dati personali prodotti persona quand’era in vita.

Esiste però una terza prospettiva, che rischia di essere schiacciata tra diritto successorio e disciplina della privacy, ed è quella che induce a guardare a questi problemi secondo i principi del diritto di famiglia e le regole di buon senso morale che molto spesso li animano e che affiorano, per paradosso, proprio dalla stringatezza delle argomentazioni dei provvedimenti in esame e dalla convergenza di valutazioni che li accomunano. Oggetto di tale convergenza sono due punti di fondo su cui può essere utile svolgere qualche breve riflessione. Essi rappresentano l’implicito logico dei quattro provvedimenti e possono così fissarsi: a) il carattere condiviso e familiare, anzi “familiarissimo” di certi beni si ripercuote necessariamente sul regime di appartenenza e circolazione degli stessi; b) l’intimità della vita domestica su cui si fonda la famiglia nucleare si ripercuote necessariamente sulla privacy che si può ragionevolmente predicare tra stretti congiunti, sia in vita sia, dunque, dopo la morte.


3. Le memorie familiari

Rispetto al primo punto, occorre rimarcare con la dottrina che molti dei beni digitali che si trovano sui nostri account, sugli i-cloud, nelle memorie di un cellulare sono “condivisi” [30]; e non di rado sono condivisi – va aggiunto – proprio con altri familiari: si pensi alle foto e ai video della vicenda romana, che ritraevano il papà defunto insieme alle figliolette. Anche quando non sono condivisi, essi potrebbero implicare in altro modo i familiari, ad esempio indirizzandosi a loro (si pensi all’eventuale lettera d’addio cercata dalla moglie dell’ultima decisione milanese). Più in generale, anche quando non sono apertamente condivisi o indirizzati ad altri congiunti, questi beni possono includere un valore affettivo, simbolico, commemorativo e, più in generale, appunto “familiare” che per una regola spontanea ed antica, che non saprei definire altrimenti se non consuetudinaria [31], li sottrae alle regole ordinarie: sono le cosiddette “memorie di famiglia”, o “souvenirs de famille” per dirla coi francesi, a cui si deve con tutta probabilità il maggior numero di contributi e riflessioni sul tema a partire da alcune celebri vicende (come il lascito della spada di Napoleone) [32] e da un fortunato lavoro di René Demogue [33], seguito negli anni da molti altri articoli e da una giurisprudenza singolarmente continua e relativamente copiosa [34].

Il contenuto morale di cui questi beni sono “saturi” – scriveva appunto Demogue – si oppone a che essi soggiacciano al regime di proprietà individuale, alle normali regole di successione, divisione, esecuzione forzata, inadatte a onorare l’essenza di tali ricordi. Essi vanno invece ricondotti ad una «propriété collective de famille» [35], ossia ad un regime di pluriappartenenza ai familiari in quanto tali. O, secondo la teoria più classica, alla famiglia quale associazione, libera di conferire, di volta in volta, a questo o a quel suo componente la «garde» dei beni. Beni rigorosamente mobili e di valore essenzialmente morale (o rispetto ai quali «la valeur symbolique et morale supplante la valeur vénale» [36]), il cui connotato saliente è appunto quello di evocare, in modo speciale, la storia della famiglia e dei suoi membri, delle loro vicende grandi e piccole, eccezionali oppure ordinarie. E ciò perché i “souvenirs” – la cui prima elaborazione dovette avvenire in ambiente gentilizio e apparire un tutt’uno con le prerogative che gli usi assegnavano alla primogenitura [37] – assai presto ha preso a includere non solo gli oggetti gloriosi dei casati blasonati (decorazioni, diplomi, ritratti), ma anche i beni ordinari di gente semplice («une modeste médaille accordée au de cujus, une correspondance entre deux personnes peu connues hors de leur milieu») [38]. Così com’è degno di nota che la flessibilità della categoria le abbia permesso, in tempi recenti, di offrire un quadro giuridico a tipologie di beni originariamente non inclusi in essa, come le urne cinerarie [39].

Trovo utile precisare che tale categoria non ha mancato di fare capolino anche in Italia [40]; e proprio in Italia trova un addentellato (oltre che nella disciplina dei sepolcri di famiglia), nell’art. 93 della legge sul diritto d’autore, il quale, per la pubblicazione di corrispondenze epistolari e memorie familiari e personali del defunto, esige «il consenso del coniuge e dei figli o, in loro mancanza, dei genitori» (e, in ulteriore subordine, dei fratelli e delle sorelle o, infine, dei parenti fino al 4° grado). Dunque – si direbbe – dei familiari in quanto tali in ordine di prossimità; e non in quanto specifici proprietari di quelle carte. Le quali parrebbero perciò cadute in una sorta di comunione, non così lontana dalla «propriété collective» evocata dai francesi, secondo meccanismi che – descrittivamente – ricordano la comunione de residuo tra coniugi. Nel senso che una foto di famiglia memorizzata sul cellulare può essere cancellata dal proprietario del dispositivo, perché egli ne è l’autore e, finché vive, ne ha la piena disponibilità (come il coniuge in comunione ha la disponibilità dei propri redditi da lavoro); e lo stesso può ripetersi per un video postato on-line o per i contenuti di una mail. Ma se alla morte quella foto o quel video ancora esistono; se quell’epistolario elettronico non è stato cancellato; e se tali beni attengono alla sfera privata e il loro valore confidenziale e affettivo è tale da sommergere il valore economico pur assegnabile ad una foto ben riuscita o ad una ricetta di cucina; se tutte queste condizioni sono soddisfatte, allora tali beni – che già lo erano in potenza – sono attratti definitivamente nella categoria dei ricordi di famiglia.

Bisogna inoltre convenire che le regole per gestire tali beni – che appartengono al costume e sono più facili da intuire che descrivere col metro di norme puntuali [41] – sembrano trovare in un ambiente digitale modalità più fluide di attuazione, capaci di sveltire le farraginosità collegate alla gestione corale di un bene. In effetti, se il depositario dei souvenirs – per riprendere ancora il modello francese – li deve conservare e ne deve assicurare il libero accesso ai congiunti [42], non è difficile immaginare accorgimenti per condividere tra più legittimati una cartella di file. Non solo, ma proprio la natura dei beni digitali e la loro facile replicabilità potrebbe dare nuovo corso a soluzioni già abbozzate e poi dismesse; come quella escogitata nel 1846 dal tribunale della Senna in una decisione divenuta celebre, allorché ordinò ai tre eredi Devilliers – che si disputavano i ritratti di famiglia – di commissionare a un pittore due copie per ciascun dipinto; di formare tre lotti con una miscellanea di copie e di originali; e di tirarseli a sorte [43].

In tutti i casi, un primo dato utile appare acquisito ai nostri fini: poiché è quasi fisiologico che nella memoria di un pc o di un cellulare si trovino beni ascrivili alla categoria dei beni familiari, sarà appunto la loro ricerca, finalizzata all’estrazione, a fornire una base giuridica a quell’«interesse proprio» e a quelle «ragioni familiari» da cui siamo partiti e che valorizzano la qualifica di congiunto in quanto tale, anche a prescindere dal titolo di erede. E però – si potrebbe obiettare – non tutto ciò che si trova dietro la porta di una password, nella memoria di un pc o di un cellulare, può ascriversi alla categoria delle “memorie”, la quale, per non diventare inservibile, non può essere dilatata oltremisura. Esiste, allora, un titolo ulteriore che giustifichi non solo l’accesso, ma il diritto di prendere conoscenza di tutti i contenuti dell’account, anche se non si tratti di memorie di famiglia? Il quesito ci porta al secondo dei temi prima indicati, e cioè al grado di riservatezza che è sensato pretendere nei rapporti di famiglia. E giunti a questo punto la questione si fa terribilmente semplice e complicata. Quale livello di privacy esiste, realisticamente, tra coniugi, tra uniti civilmente, tra genitori e figli?


4. La riservatezza affievolita nei rapporti domestici

Se si vuole cercare una risposta, occorre partire dai rapporti tra vivi; perché sarebbe implausibile immaginare che da morti si abbia verso i congiunti una riservatezza maggiore di quella che si aveva in precedenza. E poi si deve partire dall’ovvio, perché se il proprietario di un dispositivo può rifiutarsi di ostendere chat e messaggi, se può cancellare le cronologie di navigazione e fare di tutto per escludere il coniuge dalla propria vita privata, è altrettanto certo che il suo atteggiamento non resterà senza effetti nei rapporti di coppia. Il suo rifiuto sistematico potrebbe, in effetti, rappresentare una violazione dei doveri di lealtà e trasparenza, impliciti tra le voci tipiche degli obblighi coniugali. Così come, a rovescio, il continuo ficcanasare di una parte può diventare, per l’altra, motivo di irritazione; e l’irritazione può sfociare nell’intollerabilità della convivenza. Anche se qui è più difficile immaginare la violazione di uno specifico dovere; a meno che l’eccesso di curiosità non traligni in angherie e nella pretesa di soffocare la personalità altrui in un rapporto di coppia non fondato sul rispetto, ma sulla prevaricazione, com’era fisiologico nei tempi andati della potestà maritale.

Molto prima che si iniziasse a parlare di privacy, in effetti, i poteri di direzione domestica assegnati al marito avevano portato a riconoscergli una serie di poteri di sorveglianza sulla vita privata della moglie, che si traducevano, ad esempio, nella possibilità di controllarne sistematicamente la corrispondenza epistolare e telefonica e anche nel diritto di vietarle certe frequentazioni e le attività extradomestiche (a lui) sgradite [44]. A maggior ragione, simili forme di controllo apparivano naturali nei riguardi dei figli, in nome dei poteri di educazione dei genitori e dello ius corrigendi del padre. È quasi inutile dire che tali regole operative, specie nei rapporti con la moglie, dovevano entrare in aperta collisione col principio di eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi dell’art. 29 Cost.; anche se – com’è a tutti noto – si dovrà attendere la riforma del diritto di famiglia del 1975 per veder cadere, insieme al marito-capo, la giustificazione di ogni possibile ingerenza oppressiva di un coniuge sulle attività dell’altro; così da permettere alla famiglia di aprirsi – è stato scritto – all’«applicazione dello ius commune in tema di riservatezza e tutela della vita privata» [45], senza possibilità di estendere bidirezionalmente i poteri di ingerenza prima accordati al solo marito [46].

Occorre nondimeno rilevare che, al di là di tutto, anche dopo il ‘75 ha continuato a valere un dato in sé innegabile: e cioè che una cosa è leggere una lettera indirizzata al coniuge e tutt’altra è aprire la corrispondenza di un estraneo; e che oltre un certo limite sarebbe falsificante predicare gli stessi standard di alterità e segretezza valevoli verso i terzi all’interno di una compagine fisiologicamente votata alle forme di più esclusiva intimità [47]. Per quali ragioni sposarsi, dopotutto, se non per rinunciare a buona parte della propria riservatezza? Quale che sia la risposta, è indubbio che anche le posizioni più rigide a sostegno della privacy devono deflettere – almeno in parte – quando dalla fisiologia della vita di coppia si passa ad analizzarne la patologia; e soprattutto si compulsa la giurisprudenza in tema di addebito. La quale ammette come prove anche i risultati di indagini condotte sulla vita privata dell’altro (ad esempio le fotografie di un’agenzia investigativa o i tabulati telefonici) [48], o le confessioni maldestramente postate sui social [49]; oppure ancora afferma – senza mezzi termini – che la prova dell’adulterio del coniuge può fondarsi su messaggi rinvenuti «casualmente» (sic) dall’altro sul suo cellulare, essendo l’inviolabilità della corrispondenza «recessiva» rispetto al diritto di difesa in giudizio [50].

Ricordo, in verità, che la prevalenza sulla privacy del diritto alla difesa ancora non risolve tutti i problemi, dovendosi prima sciogliere il dilemma se certi modi (più o meno “casuali”…) di reperire prove, poi riversate in un processo di separazione o divorzio, rendano le acquisizioni stesse inservibili in nome di un principio generale che non si rassegna a pensare che ciò che è stato male captum possa poi essere bene retentum [51]. Tuttavia, è proprio sul perimetro della prova illecita che occorre intendersi. In effetti, non è detto che una prova illegalmente acquisita in un procedimento civile tra estranei, lo sia altrettanto se entrano in gioco i rapporti tra coniugi (e lo stesso potrebbe ripetersi per l’unione civile e in parte per la convivenza) [52]. E ciò – appunto – perché la comunanza di vita può determinare «un affievolimento della sfera di riservatezza di ciascun coniuge e la creazione di un ambito comune nel quale vi è un’implicita manifestazione di consenso alla conoscenza di dati e comunicazioni di natura anche personale», con la conseguenza che la scoperta di messaggi su un cellulare lasciato incustodito o di e-mail, chat e immagini, presenti su un PC della casa familiare, sprovvisto di password, non potrebbe ritenersi illecita» [53].

Il punto, come dicevo, è della massima importanza; e non solo perché tratteggia l’effettività dei rapporti di coppia in modo assai più realistico di quanto non facciano gli algidi schemi della disciplina della privacy. È la privacy – questo è il tema – ad assumere un carattere “recessivo” fin dalla fisiologia della vita familiare, e quindi a prescindere da ogni esigenza di difesa in procedimenti che già appartengono alla sua crisi. Se ciò è vero, e se dunque esiste in famiglia uno spazio per la condivisione dei propri dati riservati e per la loro permeabilità al cospetto dei congiunti, allora una permeabilità non minore deve ammettersi dopo la morte: sia nei rapporti tra le parti che componevano la coppia, sia nei rapporti tra genitori e figli (e ulteriori parenti) secondo l’ordine di prossimità desumibile, anche qui, dall’art. 93 legge aut. inteso quale punta di emersione di un principio generale sotteso. Il quale trova poi conferma in quelle linee evolutive del diritto di famiglia che, sia pure in contesti diversi, evidenziano la cedevolezza della privacy alla morte dell’interessato dinanzi ai controinteressi dei vivi (si pensi al diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, e alla giurisprudenza che in tema di parto anonimo ammette l’accesso alle informazioni relative alla madre quando costei sia ormai morta e non possa più essere interpellata per dare o negare il proprio assenso) [54].


5. I poteri gestori naturalmente funzionali all’andamento della vita familiare

Tuttavia, si potrebbe sollevare ancora un’obiezione per quanto riguarda i rapporti interni alla famiglia, a partire da quelli tra coniugi. Se la disponibilità alla trasparenza è una manifestazione particolare della lealtà e la lealtà è la formula che racchiude buona parte dei diritti-doveri nascenti dal matrimonio, tali doveri e diritti, e quindi la lealtà e la trasparenza, non potrebbero sopravvivere allo scioglimento del vincolo che la morte invariabilmente determina. E qualcosa di simile potrebbe replicarsi cercando di ancorare la trasparenza tra genitori e figli a qualcuno dei precetti legali a cui sono formalmente tenuti a obbedire, come il dovere di assistenza dei primi verso i secondi o il dovere di rispetto dei secondi verso i primi.

Una simile obiezione, tuttavia, riprecipiterebbe il discorso nei formalismi da cui si è cercato di uscire allorché si è evidenziato come la privacy, nella famiglia nucleare, debba necessariamente plasmarsi secondo le peculiarità di una comunità unita da stretti legami di coabitazione e affetto. In questo senso, anche il suo affievolimento appare l’esito di quella maggiore compenetrazione tra le sfere giuridiche che naturalmente si realizza tra congiunti che hanno consuetudine di vita, e che si manifesta in una fitta serie di poteri di amministrazione (in senso lato), i quali si collocano a metà strada tra una vera rappresentanza e una sorta di gestione d’affari (al contempo propri e altrui). Tali poteri si trovano a volte espressi in norme puntuali (si pensi all’art. 8 cod. civ. che consente di agire in giudizio anche a chi non porta il nome contestato o indebitamente usato, ma ha un interesse alla sua difesa per ragioni familiari), e altre volte emergono sottotraccia grazie all’interpretazione, come il potere di assumere obbligazioni nell’interesse della famiglia, impegnando, a date condizioni, anche gli altri componenti; o come i mille rivoli attraverso cui i familiari di un malato possono essere coinvolti nel processo di cura, e così concorrere a far emergere il suo consenso informato e, più in generale, a rendere superflua l’apertura di misure di protezione. La stessa privacy dei morti e i problemi dell’eredità digitale, dopotutto, possono essere affrontati con gli schemi della rappresentanza (si pensi al cosiddetto mandato post mortem e al “mandatario” di cui parla il citato art. 2-terdecies del codice privacy) [55].

Riesce difficile, in conclusione, immaginare la famiglia priva di questa fitta rete di poteri gestori e di minute ingerenze reciproche che rappresentano la sua essenza quotidiana, anche se il loro perimetro non può tracciarsi con un compasso preciso, ma solo con l’ausilio di alcune norme sparse, lette secondo lo spirito delle relazioni familiari quale si evince dal sistema e dalla realtà dei rapporti sociali. Di tale reticolo di poteri e interferenze la morte fa solo parzialmente tabula rasa, e lascia al contempo emergere nuove forme di ingerenza e cogestione. Di alcune si è detto nelle pagine che precedono (dai cimeli di famiglia ai poteri previsti dalla legge sul diritto d’autore) [56], ma molte altre sono sparse nel sistema (dalla legittimazione a presentare querela per le offese alla memoria del defunto [57] al diritto di reclamare i plichi a lui indirizzati presso gli uffici postali [58]); e tutte insieme rappresentano la naturale appendice di interessi che già erano comuni, e la cui cura continua, dopo la morte, in forme diverse.


NOTE

[1] Trib. Roma, ord. 9/10 febbraio 2022, in www.civile.it con segnalazione di V. Spataro nonché in dirittodiinternet.it con segnalazione di G. Cassano. Si veda altresì il commento di D. Bianchi, Privacy e defunti: le ‘ragioni familiari’ prevalgono sul contratto del gestore web, in D&G, 2022, f. 39, 1 ss.

[2] Trib. Bologna, 25 novembre 2021, per esteso nelle banche dati De Jure; ordinanza edita altresì in www.osservatoriofamiglia.it, con segnalazione di V. Cianciolo. Si veda altresì il commento di M. Feleppa, L’accesso ai dati del defunto conservati su smartphone: soluzioni emergenti e problemi aperti, in Dir. inform., 2022, 1, 25 ss.

[3] La notizia di tale provvedimento (https://www.ansa.it/amp/lombardia/notizie/2022/07/07/eredita-digitale-alla-moglie-password
-marito-defunto_7e73f44a-bc70-4f50-9dbf-920415ea08d9.html
) è giunta quando queste pagine erano ormai pressoché ultimate. In attesa di leggere le motivazioni della decisione, di essa si sa quanto riportato dai siti di informazione: una moglie, agendo anche nell’interesse dei figli minori, aveva chiesto al tribunale di Milano l’autorizzazione ad ottenere da Apple, Microsoft e Meta Platform (in riferimento al sistema di messagistica WhatsApp) le password di accesso del marito defunto, allo scopo di recuperare le foto dei bambini insieme al loro papà ed eventuali pensieri e lettere d’addio di quest’ultimo. Tale istanza, in linea con la giurisprudenza inaugurata dallo stesso tribunale ambrosiano, è stata accolta. Cfr. M. Savini, L’eredità è anche digitale: le password degli account vanno agli eredi, in www.rainews.it del 7 luglio 2022.

[4] Trib. Milano, ord. 9/10 febbraio 2021, per esteso nelle banche dati Foro it. (ove l’ordinanza è però datata 16 febbraio). Per un commento all’ordinanza cfr. S. Occhipinti, Esiste un’eredità digitale dei dati custoditi in cloud?, in www.altalex.com e A. Spangaro, La successione digitale: la permanenza post mortem di aspetti della personalità, in Giur. it., 2022, 1365 ss.

[5] Molti sono i contributi che la dottrina italiana ha dedicato al tema. Tra quelli consultati per comporre queste note si vedano, oltre a quelli già citati, C. Camardi, L’eredità digitale. Tra reale e virtuale, in Dir. inform., 2018, 1, 65 ss.; M. Cinque, La successione nel “patrimonio digitale”: prime considerazioni, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 2, 645 ss.; Ead., L’”eredità digitale” alla prova delle riforme, in Riv. dir. civ., 2020, 1, 72 ss.; S. Delle Monache, Successione mortis causa e patrimonio digitale, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 2, 460 ss.; A. Magnani, Il patrimonio digitale e la sua devoluzione ereditaria, in Vita not., 3, 2019, 1281 ss.; A. Maniaci, A. d’Arminio Monforte, L’eredità digitale tra silenzio della legge ed esigenze di pianificazione negoziale, in Corr. giur., 2020, 11, 1367 ss.; A.A. Mollo, Il diritto alla protezione dei dati personali quale limite alla successione “mortis causa” nel patrimonio digitale, in questa Rivista, 2020, 2, 430 ss.; G. Resta, La “morte” digitale, in Dir. inform., 2014, 6, 891 ss.; V. Spatuzzi, Patrimoni digitali e vicenda successoria, in Not., 2020, 4, 402 ss.; S. Stefanelli, Destinazione “post mortem” dei diritti sui propri dati personali, in MediaLaws, 2019, 1, 136 ss.; M. Tescaro, La tutela postmortale della personalità morale e specialmente dell’identità personale, in questa Rivista, 2014, 10, 316 ss.; F. Trolli, La successione mortis causa nei dati personali del defunto e i limiti al loro trattamento, ivi, 2019, 4, 313 ss.; A. Vesto, Successione digitale e circolazione dei beni on line. Note in tema di eredità digitale, ESI, 2020; A. Zaccaria, La successione mortis causa nei diritti di disporre di dati personali digitalizzati, in Studium iuris, 2020, 11, 1368 ss. Per una prospettiva non giuridica: D. Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, 2018.

[6] Cfr. F. Trolli, op. cit., 318.

[7] Personalmente, trovo più convincente questa spiegazione disincanta. Sul punto v. altresì T. Pertot, Successione digitale e dati personali, relazione presentata nel quadro dei Colloqui torinesi di diritto civile, in data 16 giugno 2022 al Campus Einaudi di Torino.

[8] Prima ancora si veda l’art. 13, comma 3, della l. n. 675/1996 (su cui Trolli, La successione mortis causa nei dati personali, cit., 319. In base a tale disposizione, i diritti riferiti ai dati di persone decedute potevano essere esercitati «da chiunque vi ha interesse». Sarà appunto il d.lgs. n. 196/2003 – nota ancora F. Trolli, op. cit., 320 – a introdurre apertamente, tra i legittimati ad accedere ai dati del defunto, i portatori di “ragioni familiari meritevoli di protezione”.

[9] Vale a dire i diritti di: accesso, rettifica, oblio, limitazione di trattamento, notifica, portabilità, opposizione, non sottoposizione a processo decisionale automatizzato. Per una breve rassegna cfr. F. Trolli, La successione mortis causa nei dati personali, cit., 328.

[10] La storia, anche giurisprudenziale, non è avara di precedenti in cui si è discusso della liceità di pubblicazioni post mortem di carte private di personaggi pubblici i quali, in vita, avevano espresso il desiderio di non dare in pasto al pubblico i loro scritti. Cfr. M. Ricca-Barberis, Pubblicazione vietata dal defunto, nota a Trib. Torino, 16 novembre 1956, in Foro it., 1957, I, 684 ss. (la vicenda riguardava il contratto di edizione per la pubblicazione delle lettere del maresciallo De Bono, il cui testamento conteneva però un espresso divieto al riguardo: «Desidero che mai i miei scritti siano resi pubblici»). Oltre al mondo politico, anche quello dell’arte, e della letteratura in specie, è una miniera di spunti. «Mère, Vève – scrisse il poeta Mallarmé, la notte stessa in cui morì, alla moglie Marie (Mére) e alla figlia diletta Geneviève (Vève) su di un foglio intitolato “Recommandations quant à mes Papiers” – il terribile spasmo che pocanzi m’ha quasi soffocato potrebbe ripresentarsi nella notte e avere la meglio su di me. Non stupitevi, dunque, se penso alla pila dei miei appunti ammonticchiati in mezzo secolo, che diventerà per voi solo una seccatura […]. Bruciate tutto, dunque, piccole mie […] e sottraetelo ad ogni ingerenza di amici o di curiosi» (il testo integrale si può leggere in AAVV, La dernière lettre – Anthologie des derniers mots des grands hommes, Seuil, 2017). Le donne, tuttavia, disubbidirono al poeta. Non è, peraltro, un caso isolato: si dice che anche Virgilio, non potendo portare a perfezione l’Eneide prima di morire, avesse chiesto ai suoi amici di bruciarla. E così pure Fenoglio, sul letto di morte, avrebbe inutilmente chiesto la distruzione di tutti i suoi scritti, ad eccezione di un paio di racconti. Cfr. G. Ziccardi, Il libro digitale dei morti, Utet, 2017, che ricorda anche i casi di Bulgakov, Hemingway e Kafka: in tutte e tre le ipotesi gli eredi preservarono i documenti dei tre scrittori. Riporto, in particolare, le inequivoche volontà espresse da Franz Kafka all’amico Max Brod, suo esecutore testamentario: «Carissimo Max, la mia ultima richiesta: tutto ciò che lascio dietro di me in termini di diari, manoscritti, lettere (miei e altrui), schizzi e così via, [deve] essere bruciato e non letto» (https://blog
philosophica.wordpress.com/2021/11/19/kafka-der-prozess/
). Come anticipato, l’amico non obbedì. Si direbbe che – almeno per gli scrittori – la via più sicura sia il fai-da-te, evitando di mettersi nelle mani dei vivi: come decise, purtroppo, Gogol, quando gettò nel fuoco la seconda parte delle “Anime morte”, privandocene per sempre.

[11] Secondo una casistica tipica dei casi di successione digitale, che anche sotto questo punto di vista – come osserva M. Cinque, L’”eredità digitale”, cit., 74 – impone un rovesciamento di prospettiva rispetto al paradigma della successione tradizionale, legata a un patrimonio fisico lasciato da un de cuius (sempre più) anziano.

[12] Così anche Spangaro, La successione digitale, cit., 1369 in riferimento all’ordinanza milanese del 2021. Rileva con divisibilmente l’autrice che la disciplina dell’art. 2-terdecies, non facendo alcun riferimento agli “eredi”, ma evocando l’esistenza di interessi propri o familiari o la qualità di mandatario della persona defunta, sembra allontanarsi dal modello proprietario e adottare «una prospettiva che dunque si fa più fiduciaria che successoria» (ivi, 1368). Ad una dimensione “fiduciaria”, legata alla comunione di vita e di affetti connessa al rapporto di parentela, si richiama nondimeno anche chi ammette l’acquisizione mortis causa dei diritti personali e personal-patrimoniali: v. A. Zaccaria, Diritti extrapatrimoniali e successione. Dall’unità al pluralismo nelle trasmissioni per causa di morte, Cedam, 1988, 92.

[13] Come scrive R. Caterina, Le persone fisiche, Giappichelli, 2020, 151 «le nuove tecniche di profilazione pubblicitaria […] rendono i dati personali dei naviganti una risorsa preziosissima, tanto che come è noto spesso non è previsto il pagamento di un corrispettivo da parte degli utenti: i fornitori dei servizi infatti fondano il proprio business model sulla commercializzazione di attività di profilazione dell’utenza». Il fenomeno induce a riflettere sul rischio di consensi frettolosamente prestati sotto la preoccupazione di non accedere ai servizi on line e, quindi, sul basso grado di libertà e consapevolezza con cui gli utenti autorizzano il trattamento dei propri dati: situazione che mette a nudo i limiti della stessa «logica del consenso» quando entra in gioco il diritto alla riservatezza collegato ai dati personali scambiati in rete: sul punto rinvio alle riflessioni di M. Franzoni, Lesione dei diritti della persona, tutela della privacy e intelligenza artificiale, in questa Rivista, 2021, 1, 9. La cessione dei dati s’inquadra nella più generale tendenza alla “commodification”, ossia alla riduzione di ogni bene a merce di scambio, che a suo modo offre un argomento a sostegno della successione mortis causa negli stessi diritti della personalità: e ciò perché – scrive M. Tescaro, La tutela postmortale, cit., 323 – «anche qualora si continuasse a considerare la successione un fenomeno strettamente patrimoniale, si dovrebbe finire per estenderne sempre più i confini». In generale, sul libero flusso delle informazioni in base al diritto europeo, e sui modelli contrattuali inerenti ai dati (personali e non) sviluppatisi grazie alle nuove tecnologie v., per tutti, C. Perlingieri, Data as the object of a contract and contract epistemology, in The Italian Law Journal, 2019, 2, 613 ss.

[14] Si pensi al caso del giovane marine morto in Iraq e alla causa che, negli Stati Uniti, oppose Yahoo e i genitori del ragazzo per l’accesso alla sua casella di posta elettronica. Il caso è ricordato, tra gli altri, da G. Resta, La “morte” digitale, cit., 897 ss. e da M. Cinque, La successione nel “patrimonio digitale”, cit., 648.

[15] In effetti, solo la prima delle ordinanze del tribunale di Milano, quella del caso del giovane cuoco, è stata emessa nella contumacia di Apple; mentre nelle successive procedure la costituzione in giudizio delle società convenute si è accompagnata alla “non opposizione” all’adozione del provvedimento richiesto nei loro riguardi. A ben vedere, data l’esistenza dell’art. 2 terdecies e di una interpretazione sempre più univoca in ordine ai diritti degli stretti congiunti, la pretesa che costoro si muniscano di un ordine giudiziario appare un inutile aggravio, di cui i tribunali dovrebbero tenere conto in sede di liquidazione delle spese processuali, evitando troppo ecumeniche compensazioni. Come nota giustamente Bianchi, Privacy e defunti, cit. (in riferimento ad Apple; ma la situazione appare simile per gli altri gestori), la richiesta di un provvedimento giudiziale è avanzata per «sbloccare» i limiti che il gestore stesso si è auto-imposto con le condizioni generali di contratto, e dunque sarebbe più lineare consentire ai familiari l’accesso senza bisogno di tale “autorizzazione”. Piuttosto, si direbbe che la pretesa di un ordine giudiziale miri a disincentivare in partenza un certo numero di domande di accesso. Sotto questo punto di vista, restano condivisibili le osservazioni di M. Cinque, La successione, cit., 649, allorché osservava, con particolare riguardo alle politiche di Yahoo e dei provider di posta elettronica, che la resistenza a dare corso alle richieste degli eredi «è determinata più da interessi propri, che dal desiderio di tutelare la privacy degli utenti defunti; infatti, prevedere – come regola – il diritto degli eredi di accedere all’account, o di ottenere copia delle email del defunto, comporterebbe costi aggiuntivi, come quello di destinare dipendenti al controllo della documentazione che attesta la morte del titolare dell’account e la legittimazione di chi presenta domanda».

[16] Cass. civ. tedesca, 12 luglio 2018, n. 183/17, su cui si veda R. Mattera, La successione nell’account digitale. Il caso tedesco, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 703 ss. Il caso riguardava la richiesta dei genitori di accesso all’account di una giovane, tragicamente deceduta nella metropolitana di Berlino. La Corte tedesca, aderendo all’impostazione accolta in primo grado ma sconfessata in appello, accoglie la richiesta dei genitori: anche i beni immateriali e i dati personali entrano a comporre il patrimonio di una persona e sono dunque trasmissibili in via ereditaria; così come sono trasmissibili i diritti di fonte contrattuale. Tra questi, quelli derivanti dal contratto col gestore del social network. Subentrando come parti contrattuali – ragionano i giudici tedeschi – gli eredi hanno perciò il diritto di accedere all’account e a tutti i suoi contenuti digitali.

[17] Trib Bologna, 25 novembre 2021, cit. il quale ordina ad Apple di fornire tutta l’assistenza necessaria per il recupero dei dati, «anche creando un nuovo account Apple ID e trasferendo su questo nuovo account i dati del sig. S. disponibili su iCloud, fornendo le password di questo nuovo account alla odierna ricorrente».

[18] In effetti, come rileva giustamente Spatuzzi, Patrimoni digitali e vicenda successoria, cit., 406, «consentire l’accesso ad una risorsa fisica od online non necessariamente equivale ad intervenire sui rapporti giuridici, dominicali o d’altra natura, di cui sono oggetto i materiali che la risorsa stessa custodisce».

[19] Va detto che tale commistione è rafforzata dalla compresenza, tra i diritti che l’art. 2 terdecies estende ai terzi, di pretese che implicano un potere dispositivo che sfocia in una signoria sul dato (si pensi al diritto all’oblio esercitato attraverso la sua cancellazione, oppure si pensi alla portabilità dei dati: cfr. artt. 17 e 20 G.D.P.R. rispettivamente). Ma un conto, si ripete, è l’accesso finalizzato a pendere atto dei contenuti digitali lasciati dal defunto. Altro è accedere alle foto o alle ricette o a «quant’altro presente sul cellulare» (come si legge in uno dei provvedimenti citati) al fine di scaricarlo e di usarlo a piacere, uti dominus.

[20] In altri termini: si tratta di trovare una norma o un principio latente su cui poggiare queste “ragioni familiari”; e magari vedere se, invertendo il binomio, la “familiarità” in sé sia una “ragione” per ingerirsi, entro certo limiti, nelle questioni personali dello stretto congiunto.

[21] Lo ricorda, tra gli altri, Magnani, Il patrimonio digitale e la sua devoluzione ereditaria, cit., 1281.

[22] Si veda, in particolare, C.M. Bianca, Diritto civile, II-2, Le successioni, Giuffrè, 2022, 164 ss., che distingue tra documenti digitali, dati digitali e contenuti digitali. Per i documenti e i contenuti memorizzati nell’hard disk di un dispositivo di proprietà del defunto – rileva l’autore – non si pongono particolari problemi ad ammettere il trasferimento agli eredi. Più complicato è il caso in cui i documenti, i dati e i contenuti digitali siano accessibili mediante un operatore terzo: se si tratta di dati, documenti e contenuti di carattere non strettamente personale, può aversi il subingresso degli eredi nei relativi contratti; mentre tale soluzione – conclude Bianca – non è predicabile nel caso in cui si tratti di contratti strettamente personali, i cui contenuti possono presentare profili di riservatezza e segretezza, come, in particolare i contratti aventi a oggetto un indirizzo di posta elettronica o un profilo su un social network.

[23] Sulla crisi del dogma della patrimonialità della successione v., ad esempio, M. Tescaro, La tutela postmortale, cit., 322.

[24] In Italia resta fondamentale lo studio di A. Zaccaria, Diritti extrapatrimoniali e successione. Dall’unità al pluralismo nelle trasmissioni per causa di morte, cit. Sulle tipologie di successioni anomale secondo la dottrina francese, v. ad esempio C. Vernières, Succession anomales, in Droit patrimonial de la famille, Dalloz, 2021, cap. 235, 551 ss. Benché ogni successione anomala sia regolata in modo peculiare, sarebbero comunque delineabili alcuni principi generali; e, tra questi, quello «che riserva l’esercizio del diritto ai familiari (con la specificazione che le facoltà positive debbono essere esercitate congiuntamente»: così, ancora, A. Zaccaria, La successione mortis causa nei diritti di disporre di dati personali digitalizzati, cit., 1370.

[25] Lo rileva S. Delle Monache, Successione mortis causa e patrimonio digitale, cit., 468.

[26] Sul tema G. Resta, La “morte” digitale, cit., 912, il quale mette in guardia contro la tentazione di una frettolosa equiparazione tra la disciplina della corrispondenza tradizionale e i messaggi di posta elettronica: «la mole delle informazioni personali acquisibili attraverso il controllo della corrispondenza elettronica di un individuo non è per nulla comparabile alla ben limitata invasività della posta cartacea. La posta elettronica svolge oggi una funzione per molti aspetti assimilabile quella del telefono, permettendo un rapido e continuo scambio di opinioni tra molteplici interlocutori e dando vita, quindi, a un fitto flusso di informazioni in entrata e in uscita. Tali informazioni possono essere pertinenti alla sfera professionale, ma possono anche toccare gli aspetti più intimi della personalità, rivelando profili dell’identità o della vita relazionale che l’individuo vorrebbe mantenere celati, anche e in taluni casi soprattutto nei confronti dei propri eredi».

[27] Sul problema della ereditabilità dei dati digitali generati dai rapporti on line cfr. C. Camardi, L’eredità digitale, cit., sub § 3.2.

[28] Così F. Pizzetti, Privacy e diritto europeo alla protezione ei dati personali. Dalla Direttiva 95/46 al nuovo Regolamento europeo, I, Giappichelli, 2016, 8.

[29] Così A. Maniaci, A. d’Arminio Monforte, L’eredità digitale, cit., 1370.

[30] Cfr. V. Zeno-Zencovich, La «comunione» di dati personali. Un contributo al sistema dei diritti della personalità, in Dir. inform., 2009, 5 ss. nonché G. Resta, La “morte” digitale, cit., 912 s.

[31] Agli “usages” è solita richiamarsi la dottrina francese citata più avanti nel testo. Anche i legislatori, nei casi in cui si sono cimentati nella disciplina delle memorie familiari, non hanno mancata di riferirsi agli usi. Cfr. l’art. 613 c.c. svizzero, i cui commi 2 e 3 recitano: “Gli scritti e gli oggetti che rappresentano ricordi di famiglia non possono essere alienati senza l’accordo di tutti gli eredi. In caso di disaccordo fra i coeredi, l’autorità competente decide se e come le dette cose debbano essere alienate od attribuite, con o senza imputazione, tenuto calcolo dell’uso locale, e in difetto di questo, delle condizioni personali degli eredi”.

[32] Celebre fu la questione della spada di Napoleone, che l’imperatore morente a Sant’Elena affidò in custodia ad alcuni compagni d’esilio, perché a sua volta la lasciassero al figlio, Napoleone II, il c.d. “Re di Roma”. Morto anzitempo anche costui, nacque la questione se tale bene mobile appartenesse alla nazione francese, alla madre di Napoleone II, Maria Luisa d’Asburgo Lorena, e quindi all’odiata Austria oppure ai parenti superstiti dell’imperatore, “selon l’usage” in quanto “souvenirs de famille”. La vicenda è narrata in F.-M. Patorni, L’Épée de Napoléon, mémoire à consulter, Imprimerie Herhan, 1833.

[33] R. Demogue, Les souvenirs de famille et leur condition juridique, in Revue trim. droit civ., 1928, 27 ss.

[34] Si vedano, ad esempio, i seguenti lavori e gli ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza a cui rimandano: J. Robichez, Les critères de qualification de la notion de souvenir de famille, in Recueil Dalloz, 1999, 624 ss.; J. Patarin, Règles dérogatoires applicables aux souvenirs de famille: opposition à un acte de disposition de l’héritier détenteur, retour aux règles dérogatoires après application du droit commun, in RTD civ., 1995, 663 ss.; M. Grimaldi, Les souvenirs de famille peuvent ne pas être soumis aux règles habituelles du partage, in Recueil Dalloz, 1993, 222 ss.; F. Ringel, E. Putman, Après la mort…, in Recueil Dalloz, 1991, 241 ss.; S. D’Huart, Une intéressante jurisprudence à propos des papiers de famille, in La Gazette des archives, 1971, 195 ss.

[35] Ancora R. Demogue, op. cit. Di «véritable copropriété indivise familiale» parla C. Vernières, Successions anomales, cit., 567.

[36] Così C. Brenner, Partage: droit commun, in Répertoire droit civil, Dalloz, ottobre 2020, sub n. 76.

[37] È infatti plausibile che la regola originaria, di natura consuetudinaria, devolvesse automaticamente carte e titoli di famiglia al figlio maschio primogenito: v. S. D’Huart, Une intéressante jurisprudence à propos des papiers de famille, cit., 195. Si trattava di una particolare declinazione del principio del maggiorascato, in linea con le tradizioni delle famiglie nobili, al cui interno si era evidentemente posta da subito la questione della trasmissione dei venerati cimeli del casato. Come si precisa nel testo, tuttavia, secondo la dottrina e la giurisprudenza attuali le memorie di famiglia non si esauriscono nei fondi d’archivio e nei ritratti degli avi delle famiglie blasonate. In assenza di discipline puntuali, le regole operative fatte proprie dalla giurisprudenza francese sottraggono tali beni «aux règles de la dévolution successorale et de partage établies par le code civil pour être remis à celui des membres de la famille que les tribunaux estiment le plus qualifié»: così Brenner, Partage, cit., e giurisprudenza ivi citata.

[38] Demogue, op. loc. cit.

[39] Sulle spoglie mortali come possibile oggetto di comproprietà familiare secondo la giurisprudenza sui souvenirs de famille: X. Labbé, La dévolution successorale des restes mortels, in AJ Famille, 2004, 123 ss.

[40] Sul punto rinvio, per una trattazione più approfondita, a quanto riportato da M.N. Bembo, Carte, documenti, ritratti, ricordi di famiglia, in Trattato dir. successioni e donazioni, a cura di G. Bonilini, I, La successione ereditaria, Giuffrè, 2009, 782 s. Ciò che emerge è che, senza arrivare a personificare il gruppo familiare, anche da noi vi è chi ha sostenuto teorie che sono pervenute a risultati non dissimili da quelle affermatesi Oltralpe. Ispirandosi alla disciplina dei sepolcri familiari, si è infatti sostenuto – e il riferimento è all’insegnamento di F. Santoro Passarelli – che i ricordi di famiglia andrebbero ricondotti ad una sorta di comunione collettiva; con l’effetto che alla morte di uno dei partecipanti non si avrebbe propriamente una vocazione ereditaria, ma semplicemente l’estinzione della quota del defunto e l’accrescimento di quelle dei superstiti. Mentre chi ha affrontato la questione in chiave successoria, non ha potuto comunque esimersi dal considerare che i ricordi di famiglia, a causa della loro connotazione personale, ed anzi personal-patrimoniale, sfuggono alla disciplina ordinaria del libro II del codice civile, dando vita ad una vocazione anomala (su cui cfr. retro al punto 9), di cui beneficerebbero solo i familiari, a prescindere dalla circostanza di essere al contempo eredi: per tale posizione v. per tutti, A. Zaccaria, Diritti extrapatrimoniali e successione, cit., 236 ss. Sul regime di vocazione anomala dei ricordi di famiglia secondo il modello compendiato dall’art. 93 legge aut., v. altresì G. Resta, op. cit., 906.

[41] In realtà, questo è vero anche al di fuori dei particolari beni qui considerati. Il regime giuridico dei beni mobili all’interno della famiglia, specie quando il loro valore economico è modesto e si tratta di beni di consumo, segue regole spontanee che appare a volte artificioso inquadrare nella disciplina codicistica della proprietà privata. Ma davvero sulla bottiglia d’acqua posta al centro del tavolo, qualcuno dei familiari, ancorché in regime di separazione dei beni, potrebbe un giorno a pranzo pretendere di esercitare le facoltà di godimento pieno ed esclusivo di cui parla l’art. 832 c.c.?

[42] Di «libre accès» agli altri membri della famiglia parla C. Vernières, op. cit., 567.

[43] Trib. de la Seine, 25 febbraio 1846, in Jour. Palais, 1846, 2, 716. La ricorda R. Demogue, op. cit., 35.

[44] Su queste ipotesi di ingerenza del marito nella sfera di riservatezza della moglie cfr. P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, nel Trattato di dir. privato, diretto da P. Rescigno, III-2, Utet, 1982, 50 (nota 44) e 54 ss.

[45] Ivi, 54.

[46] Ivi, 55.

[47] Più realistica, anche se affidata ad una formula alquanto elastica, è la posizione della dottrina che parla di necessaria “conformazione” dei diritti della personalità, tra cui la riservatezza, per adattarli alle peculiarità del rapporto familiare. Sul punto cfr., per tutti, L. Lenti, Diritto della famiglia, Giuffrè-Francis Lefevre, 2021, 444: «Altri diritti fondamentali, in particolare la riservatezza della vita privata, sono invece conformati, piuttosto che limitati, poiché si configurano in un modo alquanto diverso che fra estranei. È fuor di dubbio che non è ammissibile un potere generale del marito di controllare le condotte della moglie o la sua corrispondenza, che il diritto previgente gli attribuiva in quanto capo della famiglia; né si può attribuire alla moglie un analogo diritto, in nome dell’eguaglianza. È proprio davanti al dovere di lealtà e sincerità accennato sopra che il generale diritto alla riservatezza viene conformato. Ciascun coniuge non solo non ha il diritto di mantenere un totale riserbo verso l’altro, ma è anche tenuto a comunicargli tutte le circostanze di importanza significativa per la vita matrimoniale; e non solo durante il matrimonio, ma anche prima, in previsione di contrarlo. Ciò pure se si tratta di dati sensibili: anzi, a maggior ragione, perché sono proprio i dati sensibili quelli che possono assumere più importanza nel rapporto matrimoniale».

[48] Cfr. Garante protez. dati personali, delibera 13 dicembre 2005, in Dir. fam. pers., 2007, 175: «La divulgazione da parte di uno dei coniugi, nelle forme della produzione nell’ambito di un procedimento civile di separazione personale, di documentazione contenente dati personali relativi all’altro coniuge, raccolta per il tramite di investigatori privati, non comporta violazione della disciplina di protezione dei dati personali, impregiudicata restando la valutazione da parte dell’a.g.o. in ordine alla validità, efficacia ed utilizzabilità della stessa nell’ambito del procedimento anzidetto». Sul punto vedi Lenti, op. ult. cit., 710 e giurisprudenza ivi citata. In materia di assegno, risultano poi fondamentali gli accertamenti reddituali. A tale riguardo si è ritenuto che un coniuge, parte di un giudizio di separazione personale, possa chiedere all’Agenzia delle entrate di accedere ai dati relativi alla situazione reddituale e patrimoniale dell’altro: Tar Campania, 2 ottobre 2018, n. 5763, in banche dati Foro it. Dalla motivazione: «Nella fattispecie, non vi è dubbio che si tratti di dati personali di un terzo (il coniuge), ciò nondimeno l’accesso si giustifica, ai sensi del comma 7 dell’art. 24 della L. n. 241 del 1990 […], dalla necessità di “curare e difendere i propri interessi giuridici”».

[49] Per un campionario (non esaustivo), si vedano le seguenti pronunce di merito, quasi tutte riferibili a Facebook e tutte consultate per esteso nelle banche dati De Jure: Trib. Rimini, 1 febbraio 2021; Trib. Palmi, 7 gennaio 2021; Trib. Bari, 6 agosto 2020; Trib. Prato, 28 ottobre 2016; Trib. Torre Annunziata, 24 ottobre 2016; Trib. Roma, 12 gennaio 2016. Di «schermate dei profili social versate in atti» ma inidonee a fondare una pronuncia di addebito, in quanto successive alla crisi coniugale v da ultimo Trib. Brescia, 20 maggio 2022.

[50] Si trattava, nella specie, di messaggi nei quali la moglie aveva dichiarato di essersi imbattuta “casualmente” venendo in possesso del telefono del coniuge. Coniuge che si era con fermezza opposto alla produzione di simili prove. Invano: Trib. Roma, 17 maggio 2017, in banche dati Foro it., con nota di richiami di G. Casaburi. Dalla motivazione: «La difesa A. ha contestato decisamente la produzione dei messaggi appena sintetizzati, ritenendoli illegittimamente acquisiti dalla moglie e come tali non utilizzabili. Va ribadito al contrario (Cass. n. 21612 del 20 settembre 2013, Foro it., Rep. 2012, voce Persona fisica, n. 96) che in tema di trattamento di dati personali il diritto all’inviolabilità della corrispondenza risulta recessivo rispetto al diritto di difesa in giudizio, in virtù del generale principio di cui all’art. 51 c.p. (riguardante l’esimente dell’esercizio di un diritto), nonché delle più specifiche norme del codice dei dati personali (art. 24 d.leg. 30 giugno 2003 n. 196) e degli art. 93 e 94 l. 22 aprile 1941 n. 633, in tema di diritto d’autore, norme queste ultime secondo cui la corrispondenza, allorché abbia carattere confidenziale o si riferisca all’intimità della vita privata, può essere divulgata senza autorizzazione quando la conoscenza dello scritto sia richiesta ai fini di un giudizio civile o penale».

[51] A tale riguardo si veda R. Marini, Tutela della privacy nel rapporto coniugale: in tema di prova dell’infedeltà coniugale, in Dir. fam. pers., 2021, 1910 ss., dichiaratamente contrario alla utilizzabilità delle prove che, pur rilevanti per l’accertamento dei fatti, siano state acquisite con mezzi illegittimi o in violazione di diritti costituzionalmente protetti. Va detto che molte delle incertezze che aleggiano intorno all’utilizzabilità di simili prove nascono dall’assenza, nel codice di procedura civile, di una norma analoga a quella (art. 191 c.p.p.) che in penale si oppone all’utilizzo delle prove acquisite illecitamente. Sicché da tale lacuna originano tesi diverse che contrappongono chi ritiene acquisibili le sole prove rispettose del principio di legalità e chi invece ammette, in assenza di espressi divieti, la producibilità dei documenti comunque ottenuti. Entrambe le tesi rischiano però di peccare di eccessivo formalismo, specialmente nei procedimenti in materia di famiglia, per le ragioni ben illustrate da A. Morace Pinelli, Infedeltà coniugale e ammissibilità delle cosiddette prove illecite, in Foro it., 2018, I, 2209.

[52] Sul tema cfr. Feleppa, L’accesso ai dati del defunto conservati su smartphone, cit., la quale si chiede se le “ragioni familiari” meritevoli di protezione ravvisate dalla giurisprudenza a favore del coniuge possano valere anche per la figura del convivente. I precedenti del Garante per la protezione dei dati personali – rileva l’autrice – parrebbero suggerire una risposta positiva.

[53] Così, in modo del tutto condivisibile, A. Morace Pinelli, op. loc. cit., il quale si richiama – nella prima parte riportata in corsivo all’interno della citazione virgolettata – ad un passaggio di Trib. Roma, 30 marzo 2016, in www.personaedanno.it. Sul tema del bilanciamento tra esigenze di giustizia e tutela dei dati personali di un defunto (in una vicenda relativa, però, all’accertamento giudiziale della paternità attraverso l’utilizzo di vetrini citologici conservati da un ospedale e oggetto di una c.t.u.) cfr. Cass., 5 maggio 2020, n. 8459 e, in riferimento ad essa, i commenti di F.P. Micozzi, Il trattamento dei dati personali per fini di giustizia “post mortem”, in Foro it., 2021, I, 273 ss.

[54] Cass., 21 luglio 2016, n. 15024 e Cass., 9 novembre 2016, n. 22838, in banche dati De Jure, le quali hanno statuito che non osta all’accoglimento della domanda del figlio diretta a conoscere le generalità della madre il fatto che costei (che si era a suo tempo avvalsa della facoltà di non essere nominata nell’atto di nascita del figlio poi dato in adozione) sia nel frattempo defunta e non abbia quindi potuto essere interpellata ai fini dell’eventuale revoca di tale dichiarazione, secondo la soluzione introdotta dalla Corte cost. con la nota decisione n. 278/2013.

[55] Sul mandato post mortem exequendum, anche per maggiori notazioni bibliografiche, v. A. Maniaci, A. d’Arminio Monforte, op. cit., 1376 s.

[56] A tale riguardo merita di essere ricordato anche l’art. 23 della l. n. 633/1941, che dopo la morte del diretto interessato conferisce ai suoi familiari la protezione dei diritti sull’opera e la difesa della personalità dell’autore.

[57] Cfr. l’art. 597 cod. pen., su cui v. V. Zeno-Zencovich, La «comunione» di dati personali, cit., 12.

[58] Cfr. l’art. 35, n. 1), lett. c), d.P.R. n. 655/1982.

Fascicolo 5 - 2022