Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Per una definizione di impresa femminile, tra disciplina vigente e proposte legislative. Alcune considerazioni a margine del progetto di legge AC 3250 (di Andrea Caprara, Professore associato di Diritto commerciale – Università degli Studi di Verona)


Lo studio si sofferma sulla nozione di “impresa femminile” nel quadro normativo italiano.

Parole chiave: impresa femminile.

About the definition of female entrepreneurship. Remarks on the draft law ac 3250)

The work addresses the definition of “female entrepreneurship” in the Italian law framework.

SOMMARIO:

1. Il crescente interesse per l’impresa femminile: l’oggetto e le finalità dell’indagine - 2. La proposta di legge AC 3250 nel complesso quadro delle recenti iniziative legislative proposte e attuate - 3. Una conclusione intermedia: la disorganicità degli interventi attuati e proposti e la conseguente esigenza di coordinamento - 3.1. Rilievi con riguardo al diritto vigente: le due nozioni di impresa femminile riconducibili al Codice pari opportunità e, rispettivamente, alla disciplina dell’autoimprenditorialità. Tendenze ricavabili dall’attuazione del PNRR - 3.2. Rilievi sulle proposte di legge - 4. La proposta di legge AC 3250 come concreta opportunità di delineare un quadro giuridico organico e generale dell’impresa femminile a cui ricondurre le speciali declinazioni settoriali - 4.1. La definizione di imprenditrice e di impresa femminile anche in relazione alla modalità di esercizio (individuale o collettiva) dell’attività - 4.1.1. Segue. L’impresa femminile in forma di società per azioni e società a responsabilità limitata - 4.1.2. Il disegno di legge AC 3250 come risposta all’esigenza di una disciplina generale dell’impresa femminile. Il tema delle fattispecie atipiche: dai contratti di rete di imprese femminili all’azienda coniugale e all’impresa familiare femminile - 4.2. L’istituzione della sezione speciale nel registro delle imprese per l’individuazione delle imprese femminili legittimate ad accedere ai benefici - 4.3. Le modalità di supporto all’impresa femminile - 4.4. L’impresa femminile: tra cultura e valore d’impresa - 5. Considerazioni conclusive: più luci che ombre - NOTE


1. Il crescente interesse per l’impresa femminile: l’oggetto e le finalità dell’indagine

Gli artt. 52-55 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246, d.lgs. n. 198/2006 (di seguito anche: Codice pari opportunità), che compongono il Capo I Azioni positive per l’imprenditoria femminile della Parte II dedicata alle Pari opportunità nell’esercizio dell’attività d’impresa, non offrono una definizione di impresa femminile, ma si limitano ad individuare alcuni “soggetti” a cui si rivolgono i “principi in materia di azioni positive per l’imprenditoria femminile”. L’art. 53, in particolare, dà un’indicazione generica e imprecisa dalla quale emerge, tra l’altro, che, nell’esercizio collettivo dell’impresa, la partecipazione femminile debba essere rappresentata in modo consistente tanto nel capitale quanto nella gestione [1].

Peraltro, anche a livello europeo manca una nozione generale e condivisa di impresa femminile [2], con la conseguenza che le risorse stanziate a sostegno dell’imprenditoria femminile dall’UE saranno in concreto assegnate alle imprese che il singolo Stato qualifica come impresa femminile, creando, quindi, un potenziale spazio per una concorrenza tra ordinamenti.

È quindi urgente disporre di una fattispecie generale che consenta di orientare l’allocazione delle risorse in modo razionale e adeguato. Se, sul piano statistico, si registra una contrazione della crescita delle imprese femminili che è stata fortemente accentuata dalla crisi sanitaria [3], sul piano finanziario, la l. n. 178/2020, art. 1, comma 97-106 (legge di bilancio 2021) – seguendo lo stesso percorso segnato dalla l. n. 160/2019, art. 1, comma 25 ss. (legge finanziaria 2020) [4] – ha stanziato 20 milioni di euro per l’anno 2021 e altrettanti per il 2022. Si è infatti istituito l’apposito “Fondo a sostegno dell’impresa femminile” presso il Ministero dello Sviluppo economico per “promuovere e sostenere l’avvio e il rafforzamento dell’imprenditoria femminile, la diffusione dei valori dell’imprenditorialità e del lavoro tra la popolazione femminile e massimizzare il contributo quantitativo e qualitativo delle donne allo sviluppo economico e sociale del Paese”. Con tale fondo potrà essere finanziata una serie di iniziative [5], adottando specifici interventi di supporto [6].

A ciò si aggiunga che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) [7], ha previsto risorse aggiuntive per il citato Fondo nell’ambito del programma di investimento M5-C1-I.1.2 Creazione di imprese femminili, per ulteriori 400 milioni di euro.

L’esigenza di disporre di un quadro giuridico adeguato spiega altresì il fermento normativo che è testimoniato non solo da provvedimenti che si rifanno all’imprenditoria femminile, ma anche da plurime proposte di legge che hanno ad oggetto o prevedono specifiche tutele per agevolare l’avvio e lo sviluppo di imprese femminili. A partire dal 2019 – come si è anticipato – sono stati introdotti, e in parte attuati, da un lato, interventi di sostegno a favore dell’impresa agricola amministrata e condotta da donne (art. 1, comma 504 ss., l. n. 160/2019) [8] e, dall’altro, proposte legislative che riguardano sia l’impresa agricola femminile che la più generale fattispecie a cui si rivolge il Codice pari opportunità.

Tra le diverse iniziative in campo, merita particolare attenzione la proposta di legge AC 3250, recante Modifiche al capo I del titolo II del libro III del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, in materia di azioni positive per l’imprenditoria femminile, assegnata alla X Commissione Attività produttive in sede Referente l’11 ottobre 2021. Diversamente dalle altre iniziative legislative, qui si propone una nozione di impresa femminile che si connota per un tendenziale svilimento del criterio della detenzione di quote di capitale sociale rispetto alla partecipazione alla gestione dell’impresa.

In questa premessa si spiegano non solo l’oggetto ma anche le finalità dell’indagine che è diretta a verificare la rilevanza sistematica della proposta di legge AC 3250 e, quindi, il ruolo che la stessa potrebbe assumere anche alla luce delle richiamate disposizioni e sollecitazioni di carattere settoriale.


2. La proposta di legge AC 3250 nel complesso quadro delle recenti iniziative legislative proposte e attuate

La l. 25 febbraio 1992, n. 215 disciplinava l’imprenditoria femminile nell’ambito delle azioni positive [9]. Il Codice pari opportunità riordina quel materiale normativo collocandolo negli artt. 52-55. Il testo oggetto della proposta di legge AC 3250, che ambisce a novellare parte di questi ultimi articoli, è quindi una misura di diritto speciale non tanto per la fonte che lo introduce, quanto per le finalità che persegue. Da questa prima considerazione si possono già trarre talune direttrici interpretative. In particolare, si può affermare che la proposta di legge AC 3250:

i) riguarda tutte le imprese a prescindere dalla natura dell’attività (commerciale, industriale, agricola e sociale) e dallo schema organizzativo prescelto (impresa individuale o collettiva nelle figure delle società di persone, di capitali e cooperative);

ii) non ha carattere eccezionale perché, pur selezionando caratteri e strumenti per perseguire specifiche finalità, si radica in due principi cardine enunciati già oggi nell’art. 52 Codice pari opportunità, ossia “l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra uomini e donne nell’attività economica e imprenditoriale”;

iii) ha una valenza speciale: l’aggettivo “femminile” non è diretto a qualificare l’attività, ma – come accade per l’impresa “giovanile” – a individuare il soggetto a cui la stessa è imputabile e, quindi, il destinatario delle tutele [10]. Volendo favorire il pieno esercizio della libertà d’impresa (non solo femminile) tutelata nell’art. 41 Cost. e proclamata anche dall’art. 16 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, viene in considerazione l’esigenza di tutelare imprese che abbiano reali possibilità di confrontarsi nel tempo e con strumenti adeguati nel mercato competitivo [11]. In altri termini, dovrebbero considerarsi illegittimi gli interventi a supporto di imprese che si connotano solo per il fatto di avere un capitale sociale sottoscritto da donne e/o perché la gestione è affidata a donne. È sempre necessario, quindi, che le azioni di supporto si ricolleghino, da un lato, ad una serie di attività finanziabili e, dall’altro, a strumenti per la realizzazione delle stesse. La libertà di impresa va intesa, infatti, come “garanzia di tutela, nell’ordinamento, di quel particolare tipo di organizzazione sociale che è l’impresa (capitalistica), con le sue esigenze di efficienza, che devono essere rispettate da tutti coloro che, nell’ambito di questa organizzazione, si trovino ad operare, in vari ruoli” [12]. L’obiettivo, in conclusione, è che tutti, anche le persone socialmente svantaggiate, siano poste nella condizione di scegliere liberamente se esercitare l’impresa [13];

iv) razionalizza gli obiettivi di intervento. L’art. 1 della proposta di legge AC 3250 novella l’art. 52 Codice pari opportunità elidendo il richiamo al “favorire la qualificazione imprenditoriale e la gestione delle imprese familiari da parte di donne” (art. 52 lett. d), testo vigente). Si tratta di una finalità, quella indicata nel testo vigente che, per un verso, è di scarso significato giuridico se riferita alla reale portata dei fenomeni socio-economici a cui allude[14] e, per l’altro, fa riaffiorare, ma sotto una luce completamente diversa, la tipologia di azioni ammesse a sostegno dell’impresa femminile con riguardo alla diffusione della cultura imprenditoriale nel contesto dei passaggi generazionali (così l’auspicato novellato art. 54, comma 3, lett. b, Codice pari opportunità).

Già da queste considerazioni preliminari emerge la particolare rilevanza che la proposta di legge AC 3250 ambisce ad assumere sul piano sistematico, aspirando a porsi come fonte di una disciplina di vertice per l’attuazione dei principi costituzionali ed europei per la promozione e lo sviluppo dell’impresa femminile mediante azioni positive [15]. Un ruolo che merita di essere particolarmente sottolineato rispetto ai recenti interventi normativi introdotti o in discussione in Parlamento che per lo più si caratterizzano – se si esclude il già richiamato art. 1, commi 97-106, l. n. 178/2020 – per un approccio solo settoriale. Infatti, con riguardo alla disciplina vigente:

i) l’art. 1, comma 504, l. 27 dicembre 2019, n. 160, al fine di favorire lo sviluppo dell’imprenditoria femminile in agricoltura prevede che siano stabiliti, con decreto ministeriale, i criteri e le modalità di concessione di mutui a tasso zero per importi e tempi definiti “in favore di iniziative finalizzate allo sviluppo o al consolidamento di aziende agricole condotte da imprenditrici (...)”. Il d.m. del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, 9 luglio 2020, Misure in favore dell’imprenditoria femminile in agricoltura (in attuazione della l. n. 160/2019) circoscrive i citati benefici alle imprese che, tra l’altro, siano “amministrate e condotte da una donna, in possesso della qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella gestione previdenziale agricola ovvero, nel caso di società, […] composte, per oltre la metà numerica dei soci e delle quote di partecipazione, ed amministrate, da donne, in possesso della qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella gestione previdenziale agricola” (art. 2, lett. c), d.m. 9 luglio 2020, cit.);

ii) il d.l. 25 maggio 2021, n. 73 (recante Misure urgenti connesse all’emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali), convertito con modificazioni dalla l. 23 luglio 2021, n. 106, con l’art. 68, comma 9, apporta modifiche all’art. 10-bis, lett. c), d.lgs. n. 185/2000, prevedendo una estensione dell’ambito di applicazione degli interventi ivi previsti al “fine di favorire l’imprenditoria femminile in agricoltura”;

iii) l’art. 1, comma 523, lett. b, l. n. 234/2021 novella l’art. 10-bis, lett. c), d.lgs. n. 185/2000 dedicato agli incentivi all’autoimprenditorialità nella stessa direzione intrapresa dal d.l. n. 73/2021 e precisa – con l’art. 1, comma 523, lett. a) – la piena parificazione, a livello di principi, tra impresa giovanile e femminile.

Circa le proposte di legge in discussione si segnalano due iniziative dirette ad introdurre leggi delega:

i) il disegno di legge recante delega al Governo per la modifica del codice delle pari opportunità tra uomo e donna in materia di sostegno all’imprenditoria femminile, presentato il 23 febbraio 2022 (Atto Senato n. 2541) e assegnato alle commissioni riunite 1ª (Affari Costituzionali) e 10ª (Industria, commercio, turismo) in sede referente il 29 marzo 2022. La proposta, che riprende alcuni punti forti della proposta AC3250 su cui ci si soffermerà in seguito (quali la definizione di impresa femminile e di imprenditrice, nonché l’istituzione di un’apposita sezione del registro delle imprese) detta i seguenti principi e criteri direttivi:

“a) promuovere l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità per donne e uomini nell’attività economica e imprenditoriale mediante lo sviluppo dell’imprenditoria femminile, la formazione imprenditoriale e la professionalità delle donne imprenditrici nonché l’accesso al credito per le imprese a prevalente partecipazione o conduzione femminile;

b) favorire la presenza delle imprese a prevalente partecipazione o conduzione femminile, con specifica attenzione ai comparti più innovativi dei diversi settori produttivi;

c) definire la figura dell’imprenditrice e lo status – ossia una condizione accidentale (e quindi revocabile) e differenziale (anche rispetto all’imprenditore tout court) che giustifica l’applicazione di conseguenze giuridiche[16] – di impresa femminile ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2082 del codice civile nonché della raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003;

d) istituire presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura un’apposita sezione speciale del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 del codice civile;

e) definire le azioni positive finanziate dal Fondo nazionale per l’imprenditoria femminile, di cui all’arti­colo 3, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 215, per sostenere l’avvio dell’attività, gli investimenti e il rafforzamento della struttura finanziaria e patrimoniale delle imprese femminili; per la realizzazione di programmi di formazione e di orientamento finalizzati al riequilibrio di genere nell’ambito dei processi di trasformazione tecnologica e digitale nonché di promozione del valore dell’impresa nelle istituzioni pubbliche e private, comprese quelle scolastiche e universitarie;

f) istituire il Comitato nazionale per l’imprenditoria femminile per il supporto alle azioni in materia di imprenditorialità femminile e in generale sui temi relativi alla presenza femminile nell’impresa e nell’eco­nomia”;

ii) il Disegno di legge nel testo unificato recante Disposizioni per la promozione del lavoro e dell’im­prenditoria femminile nel settore dell’agricoltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura (XIII Commissione Permanente, Agricoltura)[17]. Lo stesso contiene una delega al Governo per disciplinare, tra l’altro, la predisposizione, con cadenza triennale, di un Piano nazionale di interventi, finalizzato, per quanto pertinente all’imprenditoria femminile, a:

– “favorire la creazione e l’attività delle imprese a conduzione femminile” (art. 2, lett. a), “promuovere il ruolo femminile nell’agricoltura multifunzionale, basata su un modello gestionale in cui sia rilevante l’apporto del lavoro e nel quale il reddito derivi anche da un complesso di attività connesse a quelle agricole (...)” (art. 2, lett. b), “sostenere le imprese e il lavoro femminili (...)” (art. 2, lett. c), “tutelare la maternità e la genitorialità delle lavoratrici e delle imprenditrici agricole nonché (...) garantire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro attraverso la creazione di servizi alle famiglie e di politiche di welfare (...)” (art. 2, lett. d), “potenziare l’offerta formativa e l’aggiornamento professionale delle imprenditrici e delle lavoratrici agricole e sostenere la formazione del capitale umano nel quadro dello sviluppo di agricoltura 4.0 (...)” (art. 2, lett. g), “rafforzare i servizi di assistenza sanitaria e di cura nei territori rurali e costieri periferici, anche attraverso la realizzazione di strutture agrosanitarie (...)” (art. 2, lett. i), “promuovere l’installazione e l’utilizzo della banda larga e ultralarga nelle zone rurali, in particolare prevedendo agevolazioni fiscali per le imprese agricole femminili che utilizzano infrastrutture digitali” (art. 2, lett. m), “favorire l’economia agricola e ittica circolare in un’ottica di sostenibilità integrale dell’attività economica, di valorizzazione della biodiversità e del recupero di pratiche agro-ecologiche nelle imprese femminili” (art. 2, lett. n), “incentivare l’aggregazione dell’offerta agricola anche attraverso il sostegno e la creazione di reti di imprese femminili, di cui all’articolo 3 del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, e di distretti del cibo, di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 maggio 2001 n. 228” (art. 2, lett. o), “promuovere la partecipazione delle donne all’impresa agricola familiare (...)” (art. 2, lett. p);

– istituire un ufficio per la promozione del lavoro, della formazione e dell’imprenditoria femminile nel settore dell’agricoltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura (art. 3) e la ricostituzione dell’Osser­vatorio nazionale per l’imprenditoria ed il lavoro femminile in agricoltura (art. 4);

– agevolare la costituzione e l’aggregazione di imprese a conduzione femminile nel settore del­l’agricoltura, della silvicoltura, dell’itticoltura e dell’acquacoltura (art. 5) e le disposizioni per l’attuazione del principio della parità di genere “in sede di rinnovo delle cariche degli enti strumentali agricoli e delle società non quotate in mercati regolamentati controllate, ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e operanti nel settore agricolo (...)” (art. 6).

La suestesa rassegna dei testi normativi conferma, da un lato, la prevalente settorialità degli interventi, essendo le discipline (vigenti e in via di discussione in Parlamento) dirette a sostenere e favorire l’impren­ditoria femminile per lo più nel limitato contesto dell’impresa agricola e, dall’altro, l’ambizione della proposta unificata Disposizioni per la promozione del lavoro e dell’imprenditoria femminile nel settore dell’agri­coltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura di porsi come disciplina autonoma, sganciata dalla cornice del Codice pari opportunità che – salvo un fugace richiamo nell’art. 6 della proposta stessa – non viene nemmeno citato.


3. Una conclusione intermedia: la disorganicità degli interventi attuati e proposti e la conseguente esigenza di coordinamento

Alla luce dell’analisi sin qui condotta si possono formulare delle prime considerazioni su due versanti: del diritto vigente e delle proposte di legge.


3.1. Rilievi con riguardo al diritto vigente: le due nozioni di impresa femminile riconducibili al Codice pari opportunità e, rispettivamente, alla disciplina dell’autoimprenditorialità. Tendenze ricavabili dall’attuazione del PNRR

Nel quadro normativo vigente sembra possibile disegnare un duplice scenario connotato da diverse nozioni di impresa femminile. Il primo trova le sue radici nella definizione ricavabile dal Codice pari opportunità, il secondo è riconducibile alla indicazione dei beneficiari delle misure previste dalla disciplina dell’autoimprenditorialità.

In particolare, nella prima direzione si colloca la l. n. 178/2020 (legge di stabilità 2021), commi 97-106, che istituisce il fondo a sostegno dell’imprenditoria femminile (fondo impresa femminile). L’impresa femminile, ai sensi dell’art. 1, lett. c), d.m. del Ministro dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia del 30 settembre 2021, è l’impresa “a prevalente partecipazione femminile, intesa come impresa che, in funzione della tipologia imprenditoriale, presenta le seguenti caratteristiche: i. la società cooperativa e la società di persone in cui il numero di donne socie rappresenti almeno il 60 per cento dei componenti la compagine sociale; ii. la società di capitale le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore ai due terzi a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i due terzi da donne; iii. l’impresa individuale la cui titolare è una donna”. Pur non richiamando il Codice pari opportunità, la definizione che il d.m. 30 settembre 2021 offre è sostanzialmente sovrapponibile a quella presente nell’art. 53 del Codice.

Nella seconda direzione, la nozione di impresa femminile si “ricompone” a seguito dei ripetuti interventi normativi. In sostanza, l’impresa femminile si ricava per partenogenesi della definizione di impresa giovanile nel quadro normativo della disciplina dell’autoimprenditorialità. Il riferimento normativo iniziale è, infatti, il d.lgs. n. 185/2000 che contempla gli Incentivi all’autoimprenditorialità e all’autoimpiego. Nella sua versione storica, il d.lgs. cit. non fa cenno all’impresa femminile, ma, nell’art. 1, dedicato ai principi generali, vuole promuovere “l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra uomini e donne nell’attività economica e imprenditoriale” (art. 1, comma 1) e “la formazione imprenditoriale e la professionalità delle donne imprenditrici” (art. 1, comma 2, lett. e). Maggior attenzione è dedicata all’impresa giovanile che, oltre ad essere richiamata nei principi dell’art. 1 [18], è definita tra i soggetti beneficiari come l’impresa in forma societaria (anche cooperativa) “compost[a] esclusivamente da soggetti di età compresa tra i 18 ed i 35 anni, ovvero compost[a] prevalentemente da soggetti di età compresa tra i 18 ed i 29 anni che abbiano la maggioranza assoluta numerica e di quote di partecipazione, che presentino progetti per l’avvio di nuove iniziative nei settori” specificati dalla legge [19].

Con l’art. 2 del d.l. n. 145/2013 (poi ulteriormente modificato con il d.l. n. 34/2019) si novellano varie disposizioni del d.lgs. n. 185/2000 e, in particolare per quanto qui interessa, l’art. 1, prevedendo che le “disposizioni del presente Capo [riguardante le “Misure in favore della nuova imprenditorialità nei settori della produzione dei beni e dell’erogazione dei servizi”, nda] sono dirette a sostenere in tutto il territorio nazionale la creazione di micro e piccole imprese a prevalente o totale partecipazione giovanile o femminile e a sostenerne lo sviluppo attraverso migliori condizioni per l’accesso al credito” (corsivo nostro). Inoltre, nell’art. 3 d.lgs. n. 185/2000, tra i soggetti beneficiari, alla lett. d), si indicano le imprese “in cui la compagine societaria sia composta, per oltre la metà numerica dei soci e di quote partecipazione, da soggetti di età compresa tra i 18 ed i 35 anni ovvero da donne”. In sostanza, si va componendo nel corso del tempo una nozione di impresa femminile che – essendo appiattita su quella dell’impresa giovanile – è basata esclusivamente sulla maggioranza femminile (a prescindere dall’età) in termini numerici o di partecipazione al capitale. La tendenza non solo è confermata, ma per certi versi, portata a sistema con la l. n. 160/2019 (legge di stabilità 2020) e la l. n. 234/2021 (legge di stabilità 2022). La prima, all’art. 1, comma 90, lett. d), ha introdotto la possibilità di integrare i finanziamenti agevolati contemplati tra le “Misure in favore della nuova imprenditorialità nei settori della produzione dei beni e dell’erogazione dei servizi” (Capo 01 del d.lgs. n. 185/2000), con una quota a fondo perduto. In sostanza (anche) le imprese femminili che rientrano nella definizione che fa perno sulla partecipazione prevalente (numerica o al capitale) di donne potranno beneficiare di un contributo aggiuntivo a fondo perduto [20]. La seconda, la l. n. 234/2021 (l. stabilità 2022), con l’art. 1, comma 523, lett. a ha disposto la modifica dell’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 185/2000 (dedicato ai principi), con il quale si apre il capo dedicato alle “Misure in favore dello sviluppo dell’imprenditorialità in agricoltura e del ricambio generazionale”, come novellato dal d.l. n. 91/2014, con l’aggiunta delle parole “o femminile” che seguono, nella individuazione dei soggetti a cui è finalizzato l’intervento normativo, la locuzione “a prevalente o totale partecipazione giovanile”. Il farraginoso percorso di emersione della nozione di impresa femminile, si completa con l’ulteriore modifica dell’art. 10-bis, lett. c), del d.lgs. n. 185/2000 (prima, come detto, ampliato nella sua portata a favore delle donne dall’art. 68, comma 9, d.l. n. 73/2021 e poi) integralmente novellato dall’art. 1, comma 523, lett. b), l. n. 234/2021. Con il fine di “favorire l’imprenditoria femminile in agricoltura”, si prevede, infatti, che i beneficiari delle misure agevolative riservate alle imprese che “subentrino nella conduzione di un’intera azienda agricola” siano “amministrate e condotte da un giovane imprenditore agricolo di età compresa tra i 18 e i 40 anni o da una donna o, nel caso di società, siano composte, per oltre la metà delle quote di partecipazione, da giovani di età compresa tra i 18 e i 40 anni o da donne” (corsivo nostro). L’impresa a prevalente partecipazione femminile è parificata all’impresa a prevalente partecipazione giovanile in tutti i campi di intervento del d.lgs. n. 185/2000.

Sul duplice scenario (e sulle relative nozioni di impresa femminile) ora tratteggiato di sviluppa la disciplina delle misure attuative del PNRR. Con riguardo alle disposizioni relative all’impresa femminile occorre rilevare che le stesse non si limitano ad implementare le risorse nel contesto degli scenari normativi esistenti, ma operano una (forse indebita) compressione del primo scenario con un conseguente scivolamento delle relative fattispecie verso il secondo. Per convincersene è sufficiente prendere in considerazione la Circolare MISE 4 maggio 2022, n. 168851, recante Attuazione dell’Investimento 1.2 “Creazione di imprese femminili” previsto nella Missione 5 “Inclusione e coesione”, Componente 1 “Politiche per l’occupazione”, del Piano nazionale di ripresa e resilienza nell’ambito delle misure «Nuove imprese a tasso zero» e «Smart&Start Italia». La circolare ricorda che il PNRR per sostenere gli investimenti nell’impresa femminile opera su entrambi i versanti fin qui considerati: quelli che hanno come punto di riferimento la l. n. 178/2020 (che, all’art. 1, comma 97 ss., istituisce il fondo a sostegno dell’impresa femminile) e quello composito previsto dal più volte modificato d.lgs. n. 185/2000. Versanti che, come si è visto, fanno capo a due diverse nozioni di impresa femminile. Eppure la Circolare 168851/2022, nell’art. 2, dedicato alle definizioni, per impresa femminile, alla lettera b, intende “l’impresa a prevalente partecipazione femminile, come individuata per la misura ON – Nuove imprese a tasso zero dall’articolo 5, comma 1, lettera d), del decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, 4 dicembre 2020, vale a dire l’impresa in cui la compagine societaria sia composta, per oltre la metà numerica dei soci e di quote di partecipazione, da donne”. In sostanza, le due diverse linee definitorie si vanno ricomponendo con l’appiattimento verso quella che si connota per l’utilizzo di un criterio (la prevalenza numerica o nella partecipazione al capitale), senza peraltro formalmente modificare la nozione prevista dal Codice pari opportunità. Ne consegue che quest’ultimo resta svuotato di significato, così come il d.m. MISE, del 30 settembre 2021, emanato di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, in attuazione della l. n. 178/2020 (l. stabilità 2021), che, come si è visto, all’art. 1, lett. c), sostanzialmente si rifaceva a quella nozione del Codice pari opportunità.

Si possono delineare, in conclusione, due rilievi critici che operano:

i) nell’ambito della relazione tra i due filoni di norme che fanno capo alle distinte definizioni di impresa femminile supra delineate;

ii) sul piano sistematico, con riguardo al rapporto tra la disciplina dell’impresa femminile in agricoltura e che emerge dal PNRR.

Nel primo senso si deve rilevare che non solo vi sono definizioni che si compongono su criteri diversi (la sola partecipazione al capitale sociale piuttosto che degli organi di gestione) e modulano lo stesso criterio (la partecipazione al capitale) su soglie differenti, ma altresì che, con la Circolare MISE 4 maggio 2022, n. 168851, si agisce consapevolmente su un terreno (quello delineato dalla l. n. 178/2020) già attuato attingendo a strumenti definitori diversi. Infatti, nelle premesse 1.2 della Circolare si precisa che dal “punto di vista strumentale, il PNRR prevede, al fine di sostenere gli investimenti per l’imprenditoria femminile, l’utilizzo del nuovo Fondo a sostegno dell’impresa femminile istituito dall’articolo 1, comma 97, della legge 30 dicembre 2020, n. 178”; fondo per il cui accesso, tuttavia, il d.m. MISE 30 settembre 2021, cit. aveva previsto requisiti diversi e più stringenti coerenti con la definizione di impresa femminile ricavabile dall’art. 53 Codice pari opportunità. Sorgono quindi dubbi sulla legittimità della circolare che è attuativa dell’art. 4 del d.m. MISE di concerto con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia del 24 novembre 2021. Quest’ultimo d.m. non introduce norme a modificazione del d.m. 30 settembre 2021, né, in particolare, introduce modifiche ai requisiti di accesso al fondo a sostegno dell’impresa femminile. Infatti, il d.m. 24 novembre 2021, cit. si limita semplicemente a richiamare, nelle premesse, tanto il “Fondo a sostegno dell’impresa femminile”, istituito dall’art. 1, comma 97, della l. 30 dicembre 2020, n. 178 come strumento distinto dalle altre misure già esistenti “Nuove imprese a tasso zero” e “Smart&Start Italia” (primo “considerato”), quanto il decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, del 30 settembre 2021 (settimo “visto”) che dà attuazione alla disciplina legislativa. Ne consegue che la omogeneizzazione dei requisiti per l’accesso alle misure contemplate dalla Circolare MISE 4 maggio 2022, n. 168851 con appiattimento verso i più ampi parametri previsti per l’accesso alle misure previste dal d.lgs. n. 185/2000 conduce nei fatti a ricomporre indebitamente i due scenari che fanno capo alle distinte definizioni di impresa femminile che si sono in precedenza segnalate.

Nel secondo senso, anche in considerazione di quanto precede, si profila una possibile e ingiustificata disparità di trattamento nella messa a disposizione delle risorse e degli strumenti per le imprese, specie se collettive, in cui le donne hanno una presenza determinante nel capitale e nella gestione in relazione alla tipologia di attività esercitata (agricola o meno). Nel d.m. del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, 9 luglio 2020, Misure in favore dell’imprenditoria femminile in agricoltura, che dà attuazione l’art. 1, comma 504, della l. 27 dicembre 2019, n. 160 con cui si è istituito nello «stato di previsione del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del capitolo n. 7723 “Fondo rotativo per favorire lo sviluppo dell’imprenditoria femminile in agricoltura”», si fa riferimento ad una nozione ancora più ristretta di impresa femminile. L’art. 2, lett. c), richiede, infatti, che si tratti di imprese “amministrate e condotte da una donna, in possesso della qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella gestione previdenziale agricola ovvero, nel caso di società, essere composte, per oltre la metà numerica dei soci e delle quote di partecipazione, ed amministrate, da donne, in possesso della qualifica di imprenditore agricolo o di coltivatore diretto come risultante dall’iscrizione nella gestione previdenziale agricola” (corsivi nostri). In altri termini, questa nozione di impresa femminile, oltre ad introdurre un ulteriore requisito (l’amministrazione affidata a donne) rispetto a quelli richiesti dal d.lgs. n. 185/2000, art. 9 ss. (che riguardano solo la maggioranza numerica o di quote di capitale, salvo che si tratti di impresa individuale in cui si richiede, ovviamente, che l’impresa sia condotta da donne) [21] si colloca parzialmente fuori dal perimetro delle risorse a disposizione del PNRR. Infatti, nel d.m. del Ministro dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia del 30 settembre 2021, all’art. 9, si considerano ammissibili le agevolazioni dirette a sostenere iniziative che prevedono “programmi di investimento per la costituzione e l’avvio di una nuova impresa femminile, relativi: a) alla produzione di beni nei settori dell’industria, dell’artigianato e della trasformazione dei prodotti agricoli; b) alla fornitura di servizi, in qualsiasi settore; c) al commercio e turismo”. In altri termini, da un lato, solo le imprese che si occupano “della trasformazione dei prodotti agricoli” [22], non le imprese agricole femminili tout court, possono accedere alle risorse del PNRR e, dall’altro, solo le imprese agricole (femminili) che “presentino progetti per lo sviluppo o il consolidamento di aziende agricole, attraverso investimenti nel settore agricolo e in quello della trasformazione e commercializzazione di prodotti agricoli”, ma che esercitano “esclusivamente l’attività agricola ai sensi dell’art. 2135 del codice civile” [23], possono accedere al fondo rotativo previsto dalla l. n. 160/2019 art. 1, comma 504 (art. 2 d.m. del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, 9 luglio 2020, Misure in favore dell’imprenditoria femminile in agricoltura, corsivi nostri).


3.2. Rilievi sulle proposte di legge

Sul piano delle proposte di legge, affiorano criticità, ma anche opportunità. Circa le criticità emergenti dalla proposta di testo unificato del 30 novembre 2021 sull’impresa femminile in agricoltura si segnala:

i) la mancanza di coordinamento tra le proposte riguardanti l’impresa e il lavoro femminile in agricoltura e le vigenti regole in materia di azioni positive per l’impresa femminile;

ii) a parte le previsioni dirette a dare attuazione all’art. 48 Codice pari opportunità, la portata della l. 12 luglio 2011, n. 120 (la c.d. “legge Golfo-Mosca”) e del d.P.R. 30 novembre 2012, n. 251 è limitata alle sole società “controllate, ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e operanti nel settore agricolo”. Tale disposizione appare, per un verso, ridondante (v. art. 3, l. n. 120/2011) e, per l’altro, ingiustificatamente riduttiva, considerato che un simile intervento deve riguardare anche le società controllate da altri Ministeri;

iii) il riferimento alle “reti di imprese femminili”, come forme di aggregazione di imprese, è totalmente sfornito di definizione con le intuibili criticità che tale concetto rischia di generare, anche in considerazione delle già note problematiche che pone la nozione di contratto di rete in agricoltura [24];

iv) la perdurante carenza di attenzione circa i profili già messi in rilievo con riguardo ai precedenti progetti di legge in materia come, ad esempio, la previsione di realizzare strutture agrosanitarie e, più in generale, attuare iniziative attinenti alle materie di competenza concorrente Stato-regioni (art. 117 Cost.) [25].

D’altro canto non vanno trascurate le opportunità che possono derivare dal coordinamento tra la proposta di legge AC 3250 e la proposta unificata in materia di impresa femminile in agricoltura, costruendo, tra i due provvedimenti, un rapporto da genere a specie [26]. In questo ordine di idee ha poco senso, ad esempio, caricare la disciplina di settore (impresa femminile in agricoltura) dell’onere di recepire discipline europee di carattere generale, come la direttiva 210/41/EU del 7 luglio 2010 sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, che si estende addirittura oltre il confine dell’impresa, includendo il lavoro autonomo, trascurando, invece, la Comunicazione della Commissione, Una visione a lungo termine per le zone rurali dell’UE: verso zone rurali più forti, connesse, resilienti e prospere entro il 2040, del 30 giugno 2021, COM(2021) 345 final.

Dalle superiori considerazioni trova conferma l’esigenza di disporre non solo di una definizione di impresa femminile che abbia portata generale per tutte le iniziative dirette ad agevolare la rimozione degli ostacoli che pregiudicano la piena parità di genere e la piena libertà di esercizio dell’impresa, ma anche un approccio legislativo unitario, coerente e sistematicamente soddisfacente. Un’esigenza a cui potrebbe – e perciò dovrebbe – rispondere il Codice pari opportunità e, quindi, la proposta di novella AC 3250.


4. La proposta di legge AC 3250 come concreta opportunità di delineare un quadro giuridico organico e generale dell’impresa femminile a cui ricondurre le speciali declinazioni settoriali

La proposta di legge AC 3250 ambisce a riscrivere la cornice giuridica generale nel frastagliato e disorganico quadro normativo sull’impresa femminile. Fissati i principi ispiratori e le finalità di tutela – come già nel vigente Codice pari opportunità – la proposta di legge AC 3250 segue una tecnica regolatoria e di impostazione originale, offrendo una dettagliata indicazione degli elementi che connotano l’impresa femminile. Inoltre, sul piano del metodo per l’attribuzione delle risorse, si supera la logica “soggettiva” per accedere ad un approccio oggettivo, coerente con la disciplina del mercato, diretto a favorire il corretto orientamento delle risorse pubbliche per favorire determinate tipologie di attività mediante precisi strumenti di intervento (v. infra § 4.3). In sostanza, i profili di maggior rilievo su cui la proposta di legge AC 3250 va ad incidere e su cui ci si dovrà intrattenere riguardano:

i) la definizione di impresa femminile e di imprenditrice;

ii) l’istituzione di una apposita sezione nel registro delle imprese;

iii) la definizione (con un elenco non tassativo) degli strumenti e della tipologia degli interventi che possono essere utilizzati a sostegno dell’iniziativa economica femminile;

iv) la promozione della cultura d’impresa come motore per l’avvio e lo sviluppo di attività economiche che ambiscano ad operare durevolmente nel contesto competitivo.


4.1. La definizione di imprenditrice e di impresa femminile anche in relazione alla modalità di esercizio (individuale o collettiva) dell’attività

L’art. 53 Codice pari opportunità, nella formulazione vigente, si limita ad indicare i destinatari delle azioni positive, ossia, innanzitutto, “le società cooperative e le società di persone, costituite in misura non inferiore al 60 per cento da donne, le società di capitali le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore ai due terzi a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i due terzi da donne, nonché le imprese individuali gestite da donne, che operino nei settori dell’industria, dell’ar­tigianato, dell’agricoltura, del commercio, del turismo e dei servizi” (art. 53, lett. a), Codice pari opportunità).

Possono inoltre beneficiare delle risorse per realizzare le azioni positive “le imprese, o i loro consorzi, le associazioni, gli enti, le società di promozione imprenditoriale anche a capitale misto pubblico e privato, i centri di formazione e gli ordini professionali che promuovono corsi di formazione imprenditoriale o servizi di consulenza e di assistenza tecnica e manageriale riservati per una quota non inferiore al settanta per cento a donne” (art. 53, lett. b), Codice pari opportunità).

L’art. 2 della proposta di legge AC 3250, che dovrebbe novellare l’art. 53 del Codice pari opportunità, opera su un duplice piano: definitorio e pubblicitario. Definitorio, enunciando le nozioni di imprenditrice e di impresa femminile, declinando le stesse alla luce dei modelli organizzativi adottati per l’esercizio (individuale o collettivo) dell’attività economica. Pubblicitario, istituendo una sezione speciale del registro delle imprese a cui le imprese che possono definirsi femminili debbono iscriversi per accedere alle provvidenze concesse dalla legge (v. infra § 4.2).

In particolare si precisa che l’imprenditrice è “la donna che svolge attività imprenditoriale ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2082 del codice civile, che possieda i requisiti indicati dal comma 2 del presente articolo e che sia iscritta nella sezione speciale del registro delle imprese di cui al comma 3 del presente articolo”.

Per impresa femminile si intende “l’attività economica organizzata ai sensi dell’art. 2082 del codice civile che, in forma individuale o collettiva, possieda i requisiti indicati dal comma 2 del presente articolo e che sia iscritta nella sezione speciale del registro delle imprese di cui al comma 3 del presente articolo”.

Le definizioni di impresa femminile e di imprenditrice sono poi articolate – oltre che con riferimento al profilo dimensionale, dovendo trattarsi di piccole e medie imprese [27] – in relazione allo schema legale utilizzato per l’esercizio dell’impresa: dalle cooperative, alle società di persone e di capitali. I criteri (partecipazione al capitale e allo scambio mutualistico, nonché potere di assumere decisioni in merito alle scelte di impresa), solo abbozzati nel testo vigente dell’art. 53 Codice pari opportunità, vengono tratteggiati nella proposta di legge AC 3250 in modo puntuale.

Se per l’impresa individuale ci si rimette ad un criterio formale di imputazione dell’impresa per il quale è imprenditore colui al quale è riferibile l’attività in relazione a quanto indicato nel registro delle imprese (art. 53, comma 2, lett. e, nel testo novellato dalla proposta di legge AC 3250), per le cooperative si è dato peso non tanto al capitale, quanto alla figura del socio che scambia con la cooperativa (il socio cooperatore) [28] e alla composizione dell’organo amministrativo. Si considerano, infatti, imprese femminili “le società cooperative che abbiano tra i soci cooperatori almeno il 51 per cento di donne, ovvero siano amministrate da un consiglio di amministrazione la cui maggioranza sia costituita da donne” (art. 53, comma 2, lett. a), nel testo novellato dalla proposta di legge AC 3250). Il primo requisito diventa rilevante anche per favorire operazioni societarie dirette a salvaguardare il valore dell’impresa. Si pensi, ad esempio, in caso di crisi di un’impresa con un elevato tasso di occupazione femminile, alla possibilità, da parte delle dipendenti, di rilevare l’azienda, avvalendosi delle misure di sostegno previste, in particolare, dalla l. n. 49/1985. Riguardo all’organo amministrativo, lo stesso dovrà essere composto, ai sensi dell’art. 2542 cod. civ., da almeno tre soggetti, la maggioranza dei quali dovrà essere altresì socio cooperatore o persona fisica indicata dai soci cooperatori persone giuridiche (art. 2542, commi 2 e 3, cod. civ.).

Nelle società di persone, per definirsi impresa femminile, si richiede il ricorrere congiunto di tre condizioni [29], ossia che:

i) il capitale sociale sia, per almeno il 51 per cento, detenuto da donne;

ii) tra gli amministratori vi sia almeno una donna;

iii) sia previsto, nell’atto costitutivo, che almeno il 51 per cento degli utili sia destinato a soci di sesso femminile.

La combinazione dei tre requisiti consente di collocare le donne nei punti nevralgici delle scelte di impresa, senza per questo imporre che i requisiti si realizzino in capo alle stesse persone. Nulla esclude, ad esempio, che l’amministratrice sia una socia che – come subito si vedrà – non ha effettuato un conferimento di capitale.

Si può tuttavia introdurre una riflessione. La partecipazione come socio illimitatamente responsabile sembra, in tal caso, ricollegarsi alla rilevanza della compartecipazione della donna al rischio di impresa in sé, piuttosto che al potere, in quanto socio illimitatamente responsabile, di incidere con riguardo all’assunzione di scelte gestorie. Si prevede infatti, da un lato, che la maggioranza del capitale sia sottoscritto da donne illimitatamente responsabili e, dall’altro, che l’amministrazione spetti ad almeno una donna (che necessariamente sarà socia illimitatamente responsabile) [30].

Questa sensazione va, almeno in parte, fugata rileggendo congiuntamente i requisiti. In particolare, la partecipazione agli utili è valorizzata come criterio della quota di interesse nell’esercizio della gestione [31]. Come è noto, infatti, in caso di amministrazione disgiuntiva, che è la regola se non diversamente previsto nell’atto costitutivo (art. 2257 cod. civ.) [32], sull’eventuale opposizione rispetto ad una decisione di amministrazione decidono i soci a maggioranza calcolata in relazione alla partecipazione agli utili. Pertanto, anche laddove vi fosse una sola amministratrice donna, in caso di operazioni decise dal singolo amministratore che agisce non declinando l’interesse delle socie in maniera coerente con le aspirazioni delle stesse, l’opposizione tempestiva di un qualsiasi amministratore devolverà la decisione sull’opposizione alla comunità dei soci che decideranno in base alla partecipazione agli utili [33]. Quest’ultimo è quindi il criterio per la decisione sull’opposi­zione e, quindi, per la risoluzione delle controversie tra amministratori sulle scelte di gestione. In sostanza, si sono volute probabilmente favorire quelle imprese a prevalente partecipazione femminile dove le donne contribuiscono con il lavoro manuale nell’impresa, esentando tutte le socie dall’assumere necessariamente anche ruoli direttamente gestori.

Questa conclusione non risolve tuttavia tutte le criticità e consente di proporre una soluzione alternativa. Con riguardo alle criticità, occorre rilevare che la formulazione attuale della proposta di legge non tiene conto del caso in cui i soci non effettuino conferimenti di capitale, ma solo d’opera o servizi [34]: soci illimitatamente responsabili e, quindi, aventi diritto di amministrare, salvo pattuiscano la limitazione di responsabilità [35] o comunque l’esclusione dall’amministrazione. Nella formulazione attuale, potrebbero probabilmente considerarsi femminili le imprese collettive in cui le donne detengano la maggioranza del capitale sociale o siano, in caso di soli conferimenti di opera o servizi o misti, numericamente maggioranza [36], fermi, in ogni caso, gli ulteriori requisiti previsti dalla norma in merito alla partecipazione all’ammini­strazione e agli utili.

Una proposta alternativa al testo oggi depositato potrebbe essere quella di dare maggior peso alla donna nelle scelte di gestione. In altri termini, nelle società di persone, si potrebbe forse abbandonare definitivamente il requisito della partecipazione al capitale sociale, dando rilievo alla sola partecipazione femminile nell’amministrazione (che presuppone, a sua volta, la qualità di socio a responsabilità illimitata) [37] e la maggioranza della partecipazione alla divisione degli utili. In tal modo, valorizzando la contiguità tra l’impresa individuale e le società di persone come già propose un’importante dottrina [38], si semplificherebbe la definizione dei requisiti e si supererebbe la questione della tipologia di conferimento nonché il tema della responsabilità limitata o illimitata dei soci [39].


4.1.1. Segue. L’impresa femminile in forma di società per azioni e società a responsabilità limitata

Riguardo alle società di capitali, nel 2003 è stata introdotta una disciplina – totalmente trascurata dal Codice pari opportunità – profondamente diversa rispetto a quella fino ad allora vigente che consente, da un lato, nelle s.p.a. di adottare modelli alternativi di amministrazione e controllo e, dall’altro, di contrapporre la s.p.a. alla s.r.l. come modello più flessibile e aperto alle soluzioni anche fortemente personalistiche che l’autonomia privata può adottare. È quindi apprezzabile che nel progetto di legge AC 3250 si siano modellati in termini autonomi le definizioni di impresa femminile con riguardo tanto alla s.p.a. quanto alla s.r.l.

Nel caso di società per azioni, sono considerate imprese femminili quelle in cui solo la maggioranza del 51 per cento del capitale sia sottoscritta da donne, alle quali spetti altresì una posizione di potere in ordine alla organizzazione e/o alla gestione della società. È quindi femminile la s.p.a. in cui, ferma la detenzione della maggioranza del capitale, anche alternativamente [40], le donne:

– abbiano la maggioranza del diritto di voto sulle materie di competenza dell’assemblea ordinaria;

– siano numericamente maggioranza negli organi di amministrazione o sia donna l’amministratore delegato (o la maggioranza nel comitato esecutivo) o l’amministratore unico oppure il direttore generale;

– siano numericamente maggioranza nel consiglio di gestione o nel consiglio di sorveglianza se a questo sono state attribuite competenze di alta amministrazione (art. 2409-terdecies, lett. f-bis), cod. civ.).

Circa il diritto di voto è evidente si sia voluto evitare che fosse consentito all’autonomia statutaria di disancorare la partecipazione al capitale dall’effettivo esercizio (del potere organizzativo) dell’impresa. Nella formulazione attuale, la previsione ha quindi solo un significato negativo, ossia di limite alla libertà statutaria [41] di rimodulare il diritto di voto in termini tali da consentire ai soci di genere maschile, detentori di una quota di minoranza, di disporre della maggioranza dei voti nelle materie in cui l’assemblea è chiamata ad assumere decisioni rilevanti per la sorte dell’impresa. All’assemblea ordinaria compete, infatti, tra l’altro, l’approvazione del bilancio, la nomina, la revoca e la promozione dell’azione di responsabilità contro gli amministratori (art. 2364 cod. civ.).

Tuttavia si sarebbe potuto accentuare, anche in questo caso, la partecipazione all’impresa da parte delle donne, abbandonando il requisito della partecipazione al capitale sociale o rendendo indifferente la misura di partecipazione allo stesso. In tal modo, riconoscendo un significato anche positivo (e non solo negativo) all’autonomia statutaria, si potrebbe agevolare, altresì in ordine ai passaggi generazionali, il progressivo inserimento delle donne nella gestione attiva delle imprese senza l’attribuzione alle stesse della partecipazione minima necessaria al capitale sociale [42]. Il riferimento al “diritto di voto” attribuito alle socie, “anche attraverso apposite clausole statutarie”, se slegato dalla partecipazione minima al capitale sociale, potrebbe consentire, infatti, di dare valore pieno e decisivo alla titolarità del diritto di voto, mediante la costituzione di categorie di azioni che consenta un rafforzamento, in sede di assunzione della delibera, del peso del genere femminile nella formazione della volontà sociale, ovvero, specularmente, che un depotenziamento dell’inci­denza della volontà dei soci di genere maschile con l’attribuzione a questi ultimi di azioni senza diritto di voto o con diritto di voto limitato o scaglionato ex art. 2351 cod. civ. Naturalmente tali prescrizioni potranno avere riflesso altresì sulla previsione di apposite limitazioni alla circolazione delle partecipazioni a titolo oneroso e gratuito [43].

Tornando alla proposta di legge AC 3250, a maggior ragione saranno imprese femminili quelle in cui – ferma la partecipazione al capitale sociale del 51 per cento e a prescindere dall’esercizio del diritto di voto – l’organo che assume decisioni di (gestione e/o di amministrazione di) impresa sia prevalentemente composto da donne. In tal modo si vuole valorizzare non tanto la presenza di donne nei consigli di amministrazione (a cui è dedicata – come subito si vedrà – una apposita disciplina), quanto la centralità delle donne nei momenti decisionali che attengono ai profili strategici e operativi dell’impresa collettiva. Infatti, diversamente da quanto prevede la l. n. 120/2011 [44], con la quale si obbligano le società a controllo pubblico e le società quotate ad inserire donne nei consigli di amministrazione, nel progetto di legge in commento l’impresa può dirsi femminile se il potere di assumere scelte d’impresa spetta a donne. Ecco quindi l’importanza di avere la maggioranza dei voti negli organi collegiali in cui sono assunte scelte di impresa, ossia il consiglio di amministrazione o il consiglio di gestione, ma anche nel consiglio di sorveglianza – in caso di attribuzione allo stesso di decisioni in materia di operazioni strategiche e di piani industriali e finanziari (art. 2409-terdecies, lett. f-bis), cod. civ.) – o ancora nel comitato esecutivo o sia donna l’amministratore delegato. In mancanza di un organo di amministrazione collegiale, sarà sufficiente che sia donna l’amministratore unico o il direttore generale perché si possa parlare di impresa femminile.

Nel caso di adozione del modello normativo della s.r.l., l’impresa potrà qualificarsi come femminile se, ferma la condizione che la maggioranza del capitale sia posseduto da donne, si preveda (“in ogni caso”) nell’atto costitutivo che “l’organo amministrativo sia composto da un unico amministratore donna o in maggioranza da donne, che l’amministratore delegato sia una donna, che la maggioranza del comitato esecutivo sia costituita da donne o che il direttore generale sia una donna ovvero che, in caso di previsione dell’atto costitutivo che introduca modelli decisori collettivi diversi dal consiglio di amministrazione, alle donne spetti il consenso determinante in caso di decisioni su operazioni straordinarie e piani industriali” (art. 53, comma 2, lett. d, nel testo novellato dal progetto di legge AC 3250).

Il riferimento all’autonomia statutaria consente di mettere in evidenza due profili.

Innanzitutto, la proposta di legge, se ci si limita al dato testuale, introduce meccanismi diretti ad irrigidire la governance della s.r.l. rispetto alla s.p.a., poiché mentre nella disciplina di quest’ultima, al tempo del rinnovo delle cariche sociali, i soci saranno liberi di nominare un organo amministrativo composto da sole persone di genere maschile (ancorché ciò determini la perdita dello status di impresa femminile), nel caso delle s.r.l. tale scelta implicherebbe, a monte, una modifica dell’atto costitutivo. La ratio del diverso trattamento potrebbe forse rintracciarsi nella circostanza che, mentre nelle s.p.a. la nomina è in ogni caso di durata limitata (massimo tre esercizi ai sensi dell’art. 2383, comma 2, cod. civ.), nelle s.r.l. la nomina dell’ammi­nistratore è, salvo diversamente disposto nell’atto costitutivo, senza limiti di tempo (v. art. 2475 cod. civ.). Peraltro, tale argomento appare – sul piano sistematico – piuttosto fragile e non sembra giustificato alla luce delle relazioni che il diritto societario pone tra i tipi sociali della s.p.a. e della s.r.l. Inoltre, la previsione della costituzione di un’apposita sezione nel registro delle imprese (su cui si tornerà infra § 4.2) è diretta a introdurre un meccanismo per assicurare la flessibilità nella attribuzione dello status di impresa femminile. In altri termini, la sezione speciale consente di decidere di essere, ai fini dell’accesso alle provvidenze di legge, temporaneamente e non strutturalmente impresa femminile.

Si potrebbe allora tentare di suggerire una diversa interpretazione del testo normativo proposto con il progetto di legge AC 3250 per rendere lo stesso più coerente con la duttilità della s.r.l. rispetto alla s.p.a. La chiave di volta, anche in questo caso, è costituita dalla svalutazione della rilevanza di una soglia di partecipazione al capitale sociale da parte delle donne. Il testo proposto consente di sviluppare un duplice ordine di considerazioni. Si potrebbe, infatti:

i) sganciare e porre come alternativa la partecipazione femminile al capitale piuttosto che alla gestione. In altri termini, si potrebbe considerare impresa femminile quella in cui il capitale sia detenuto per almeno il 51 per cento da donne “e, in ogni caso”, ossia anche a prescindere dalla partecipazione al capitale o comunque da una soglia minima di partecipazione, quella in cui le donne abbiano ruoli organizzativi e gestionali determinanti per le scelte di impresa. In questo caso si giustificherebbe l’inserimento di una “rigidità” statutaria che compensi la possibilità di avere società che possano qualificarsi come imprese femminili anche in assenza di partecipazione di donne al capitale sociale. Peraltro occorre anche ricordare che nella s.r.l. i soci possono interagire nelle scelte di gestione pur rimanendo estranei all’organo amministrativo. L’art. 2479 cod. civ. attribuisce infatti a uno o più amministratori o a un terzo dei soci il potere di devolvere ai soci le decisioni di competenza degli amministratori. È chiaro quindi che i soci che avessero la maggioranza del capitale sociale potrebbero non solo attribuirsi statutariamente la competenza a decidere su talune questioni rilevanti per la gestione, ma anche sottrarre agli amministratori il potere gestorio, intervenendo direttamente nella decisione di questioni strategiche decisive per l’impresa. Occorre tuttavia rilevare che, innanzitutto, una sistematica o non solo occasionale devoluzione ai soci delle competenze gestorie sarebbe da intendersi quale comportamento abusivo[45]. In secondo luogo, è possibile prevenire il fenomeno della devoluzione a favore dei soci delle decisioni gestorie con rigidi filtri statutari che limitino o eliminino tale potere devolutivo[46];

ii) estendere la fattispecie facendo leva sui particolari diritti dei soci. Ai sensi dell’art. 2468, comma 3 e 4, cod. civ. è possibile prevedere che un socio si riservi particolari diritti riguardo l’amministrazione e la partecipazione agli utili. Ebbene è chiaro che se si ammette che, almeno nelle s.r.l., sia possibile, a certe condizioni, prescindere dalla partecipazione di donne ad almeno il 51 per cento del capitale sociale, potrebbe considerarsi femminile l’impresa che presenta i seguenti assetti di poteri:

a) con riguardo al versante proprietario:

– se il 51 per cento del capitale sociale è detenuto da donne;

– se anche una sola socia si è riservata nell’atto costitutivo particolari diritti che consentano di realizzare, seppur attraverso l’esercizio degli stessi, le medesime prerogative che il socio di maggioranza potrebbe realizzare. Si pensi alla nomina degli amministratori (anche se tutti di genere maschile) e alle decisioni (in particolare legate a competenze analoghe dell’assemblea ordinaria di s.p.a. (previste dall’art. 2364 cod. civ.), ma anche al diritto di attrarre a sé decisioni dei gestori ai sensi dell’art. 2479 cod. civ. [47];

b) con riguardo al versante gestorio:

– se il consiglio è composto per la maggioranza da donne, o se è donna l’amministratore delegato, l’amministratore unico o il direttore generale;

– se un socio donna si riserva il diritto di essere amministratore unico della società o direttore generale della stessa;

– non limitando l’apertura statutaria alle sole ipotesi di adozione di modelli alternativi decisori non collegiali (ossia a forme di amministrazione congiuntiva o disgiuntiva), ma a prescindere dal modello di amministrazione, se un socio donna si riserva il diritto particolare di veto in ordine alle decisioni di carattere strategico (relative cioè alle scelte di fondo che connotano l’impresa e la sua capacità di operare nella dinamica competitiva) o di approvazione del piano industriale [48].

Come si vede dalle esemplificazioni elaborate approfittando degli spazi consentiti dal dato letterale del testo normativo proposto, dando peso alla partecipazione al capitale sociale, anche nella s.r.l. si potrebbe giungere a qualificare come femminile una impresa in cui il ruolo della donna rischia di essere non particolarmente rilevante sulle scelte di impresa. Ha quindi probabilmente molto più senso altresì per le s.r.l. eliminare o svilire il riferimento alla partecipazione al capitale sociale [49] che lo stesso legislatore ha depotenziato sul piano della funzione di garanzia (potendo essere pari anche ad un solo euro) e reso modellabile su quello della funzione organizzativa, con la deroga alla proporzionalità tra valore del conferimento e misura della partecipazione e tra questa e i diritti particolari dei soci [50].

Nulla si dice, nella disciplina dedicata alla impresa femminile in forma di s.r.l., sulla possibilità di acquisire lo status in parola per effetto del riconoscimento della maggioranza dei voti in assemblea su determinate materie di competenza dei soci. Nelle s.p.a., come si è visto, è sufficiente che le donne dispongano, oltre ad almeno il 51 per cento del capitale sociale, della maggioranza del diritto di voto nell’assemblea ordinaria. Non sembra peraltro vi siano particolari ostacoli all’estensione analogica della norma, anche in considerazione della disciplina speciale che consente, nelle s.r.l. PMI, di creare categorie di quote [51]. In altri termini, pur essendo auspicabile una modifica espressa sul punto del progetto di legge AC 3250 potrebbe ipotizzarsi che possa considerarsi femminile una s.r.l. in cui, oltre alla maggioranza del capitale sociale, le donne dispongano della maggioranza dei diritti di voto su materie rilevanti per l’organizzazione e la gestione dell’impresa quali: l’approvazione del bilancio, la nomina (e la revoca) degli amministratori e l’approvazione di operazioni che comportino una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale ai sensi dell’art. 2479 n. 5 cod. civ.


4.1.2. Il disegno di legge AC 3250 come risposta all’esigenza di una disciplina generale dell’impresa femminile. Il tema delle fattispecie atipiche: dai contratti di rete di imprese femminili all’azienda coniugale e all’impresa familiare femminile

L’impostazione della disciplina contenuta nella proposta di legge AC 3250 permette di sviluppare alcuni momenti di riflessione. Innanzitutto sparisce, come si è anticipato, l’indicazione dei soggetti destinatari dell’azione positiva, facendo così cadere il limite soggettivo dell’accesso agli strumenti di supporto all’imprenditoria [52], coerentemente con il peso finalistico dell’azione positiva che tende a realizzare i principi guida della rimozione degli ostacoli alla parità e del favore verso la libertà d’impresa. Come si vedrà (infra § 4.3), diventa centrale infatti l’idoneità del progetto presentato di realizzare tali fini nell’ambito delle azioni e degli strumenti previsti, non il soggetto che lo presenta.

In secondo luogo, concentrare l’attenzione sulla definizione di impresa femminile come attività economica esercitata dall’imprenditrice, consente di disegnare – sul piano sistematico – la figura dell’imprenditrice come di colei che assume su di sé la direzione d’impresa (art. 2086 cod. civ.) e la responsabilità (art. 2087 cod. civ.). Sarebbe coerente con tale impostazione affermare che la “proprietà”, ossia la partecipazione (minima) al capitale, non è più da considerarsi un criterio necessario per poter parlare di impresa femminile se non quando allo stesso si ricollega necessariamente il potere di gestire l’impresa, come (normalmente) accade nelle società di persone e come potrebbe accadere nelle s.r.l. che adottano una spiccata vocazione personalistica.

In terzo luogo, diversamente rispetto a quanto accade per i disegni di legge in materia di impresa femminile in agricoltura, la definizione che ricorre nell’art. 2 progetto di legge AC 3250 rafforza la centralità del Codice pari opportunità poiché lo stesso tornerebbe ad essere un punto di riferimento imprescindibile rispetto a tutte le discipline promozionali o incentivanti l’imprenditoria femminile. Inoltre, la novella realizzerebbe l’ulteriore obiettivo di tecnica legislativa di limitare il proliferare di nozioni e, quindi, le difficoltà interpretative. Si pensi, ad esempio, al significato da attribuire alla locuzione “amministrate e condotte”, con riguardo alle imprese agricole potenzialmente beneficiarie di mutui agevolati (art. 2, lett. c), d.m. 9 luglio 2020, cit.): la presenza di una definizione come quella prevista dal progetto di legge AC 3250 sarebbe un valido riferimento interpretativo senza per ciò precludere la definizione di più stringenti criteri in funzione al carattere agricolo dell’attività, laddove tale diversa nozione si giustifichi rispetto a specifiche o speciali finalità di tutela.

In quarto luogo, le definizioni di impresa femminile e di imprenditrice consentono di poter beneficiare di criteri utili per individuare la fattispecie anche in presenza di modalità organizzative non richiamate nell’art. 2 proposta di legge AC 3250. Ferma l’opportunità di integrare la proposta di legge con la definizione, ad esempio, di contratto di rete di imprese (femminile), piuttosto che di impresa (femminile) familiare o di azienda (femminile) coniugale, è comunque possibile delinearne in via interpretativa la nozione. Con riguardo al contratto di rete di imprese potrà considerarsi femminile se la maggioranza delle imprese aderenti è, ai sensi delle definizioni supra esaminate, un’impresa femminile, nonché l’organo di gestione della rete è in prevalenza composto da donne. Peraltro, a tal ultimo proposito, ci si potrebbe spingere oltre considerando femminile, similmente a quanto si è proposto con riguardo alla s.r.l., anche la rete in cui il solo organo di governo della rete sia almeno in maggioranza costituito da donne. In ogni caso, non sembra necessario, ed anzi è probabilmente controproducente, prevedere che le imprese aderenti al contratto di rete siano tutte imprese femminili, in quanto ciò potrebbe portare ad una eccessiva chiusura rispetto alle opportunità di interazioni con altre imprese. Manca infatti una massa critica, in termini numerici ma anche (salve probabilmente solo poche eccellenze legate a beni di nicchia o prodotti realizzati da imprese innovative) di copertura di una significativa quota di mercato, per promuovere un fenomeno aggregativo di sole imprese femminili. A maggior ragione ciò dovrebbe valere nel contesto agricolo dove avrebbe molto senso, per favorire la nascita e lo sviluppo di imprese femminili, agevolare la costituzione di reti femminili (v. art. 5, comma 4, testo unificato sull’im­presa femminile in agricoltura), che cumulerebbero, oltre alle azioni positive, i benefici derivanti dalla disciplina delle reti in agricoltura, in termini, ad esempio, di gestione del rapporto di lavoro subordinato (v. art. 30 e 31 all’art. 31 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) [53] e di acquisizione “a titolo originario della quota di prodotto convenuta nel contratto di rete” (v. art. 1-bis, comma 3, d.l. n. 91/2014).

Più semplice è il caso di impresa familiare: la stessa sarà femminile se il titolare indicato nel registro delle imprese è donna. Diversamente per le aziende coniugali ex art. 177, lett. d), cod. civ. potrà considerarsi femminile l’impresa in cui alla donna è delegata la gestione ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. civ.


4.2. L’istituzione della sezione speciale nel registro delle imprese per l’individuazione delle imprese femminili legittimate ad accedere ai benefici

L’istituzione della sezione speciale del registro delle imprese è strumentale a completare, sul piano della legittimazione all’accesso ai benefici di legge, la definizione dell’impresa femminile. Impresa femminile è tale se la stessa può vantare sia i connotati strutturali supra descritti che l’iscrizione nell’apposita sezione del registro delle imprese.

L’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese ha dunque efficacia normativa nel senso che, come già accade per esempio per la società start-up innovativa (art. 25 d.l. n. 179/2012), consente l’applica­zione della disciplina speciale che, in questo caso, è quella incentivante per l’avvio o il consolidamento dell’impresa. Ne consegue che lo status di impresa femminile può essere anche temporaneo e non strutturale. In tal modo, favorendo un meccanismo flessibile, si agevola la propensione ad acquisire i requisiti per l’iscrizione, consapevoli che non si tratta di una condizione irreversibile.

Si può quindi affermare che:

i) essere “impresa femminile” risponde ad una precisa volontà dell’imprenditore e si traduce in una strategia di impresa che può contare su risorse per finanziare determinate azioni. In altri termini, anche se l’impresa presenta i requisiti fattuali e giuridici richiesti per assumere lo status di femminile, tale non è in assenza di una precisa volontà che trova la sua formale e rilevante manifestazione nell’iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese. Questa soluzione sembra coerente con la considerazione che l’impresa non ha genere: la libertà d’impresa impone di mettere chiunque nella condizione di esercitare l’attività economica nel mercato competitivo, superando le differenze socio-economiche o di genere che possono precludere il pieno esplicarsi della libertà;

ii) “impresa femminile” è uno status, non una caratteristica intrinseca dell’impresa o della tipologia di attività esercitata;

iii) “impresa femminile” è una condizione che può essere anche transeunte, non necessariamente permanente;

iv) diventa agevole – grazie all’iscrizione dell’impresa femminile (altresì) in un’apposita sezione del registro delle imprese – accertare la sussistenza dei presupposti per l’accesso alle misure premiali o agevolative anche in sede di verifica ex post delle condizioni per l’erogazione della misura di sostegno pubblico;

v) il meccanismo fondato sulla autocertificazione dei requisiti espone il dichiarante a responsabilità penale per dichiarazione falsa o mendace e l’impresa alla restituzione di quanto indebitamente percepito oltre, a titolo sanzionatorio, di quanto percepito nell’anno (solare) precedente.


4.3. Le modalità di supporto all’impresa femminile

Ulteriore profilo di novità introdotto dalla proposta di legge AC 3250 è – come anticipato – il superamento dell’impostazione oggi accolta nell’art. 53 del Codice pari opportunità che si limita ad individuare i soggetti a cui si rivolgono “i principi in materia di azioni positive per l’imprenditoria femminile”. Si è preferito, dunque, dare credito, da un lato, alla individuazione (dell’imprenditrice e) dell’impresa femminile e, dall’altro, valorizzando un approccio oggettivo, a progetti relativi alle attività finanziabili. Si prevede infatti (art. 3 proposta di legge AC 3250 che novella 54, comma 2 e 3, Codice pari opportunità) un “Fondo a sostegno dell’imprenditoria femminile”, annualmente alimentato da stanziamenti a valere sia sulla legge di bilancio di previsione dello Stato (v. l. n. 178/2020, art. 1, comma 97 ss.) che sulle risorse messe a disposizione dal PNRR e, contestualmente, un elenco, da un lato, di attività finanziabili (art. 3 proposta di legge AC 3250 che novella 54, comma 1, Codice pari opportunità) e, dall’altro, di strumenti attraverso i quali il sostegno concretamente si potrà realizzare. Un modello normativo già previsto dalla l. n. 178/2020, art. 1, comma 97 ss.

Conseguenza del superamento della logica soggettiva è quella che potranno essere accolte proposte di supporto di attività finanziabili provenienti dalle stesse imprese femminili, ma anche da soggetti diversi, come gli incubatori di impresa, le organizzazioni rappresentative, ma anche le Università o i centri di ricerca pubblici o privati.

Inoltre, entrambi gli elenchi (azioni finanziabili e strumenti di supporto) non sono tassativi, come dimostra l’inciso “tra l’altro” che li introduce [54]. Le attività finanziabili e gli strumenti saranno integrabili infatti sulla base di provvedimenti normativi attuativi dei principi de “l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità tra uomini e donne nell’attività economica e imprenditoriale”.

L’importanza di ridare centralità alla definizione di impresa femminile emerge anche da un altro versante che attiene alle misure di sostegno al credito [55], piuttosto che al capitale con il Fondo di sostegno al venture capital  [56], prevedendo appositi requisiti di composizione del capitale e partecipazione alla gestione. Anche in questi casi è essenziale una disposizione di carattere generale che definisca l’impresa femminile e operi altresì come elemento di raccordo o almeno di riferimento per la disciplina speciale e settoriale.


4.4. L’impresa femminile: tra cultura e valore d’impresa

Nella proposta di legge AC 3250 vi sono due termini particolarmente significativi per comprendere la portata dell’intervento normativo: cultura e valore. La prima è richiamata con riguardo alla “diffusione di una cultura imprenditoriale” come una delle finalità perseguibili con le risorse messe a disposizione dal Fondo per il sostegno dell’imprenditoria femminile (art. 3, che novella l’art. 54, comma 1, lett. b), Codice pari opportunità e art. 21 del d.m. MISE di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze e con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia del 30 settembre 2021), mentre il secondo è contemplato tra le azioni per realizzare tali finalità, quando nel comma 3, lett. a, dello stesso articolo si parla di “promozione del valore dell’impresa nelle istituzioni pubbliche e private, comprese quelle scolastiche e universitarie”.

Il riferimento alla “cultura” non è isolato: il legislatore vi ricorre in diverse occasioni [57], ma con riguardo all’imprenditoria femminile, vi sono già indicazioni, ad esempio, nella l. n. 178/2020, comma 97 ss. e nel testo unificato delle proposte di legge in materia di impresa femminile in agricoltura recante Disposizioni per la promozione del lavoro e dell’imprenditoria femminile nel settore dell’agricoltura, delle foreste, della pesca e dell’acquacoltura (art. 2, lett. g). Correlata al valore dell’impresa, la cultura assume significato specifico: l’impresa è un valore quando è esercitata in modo corretto, ossia disponendo di conoscenza e competenza. L’imprenditore deve disporre di una adeguata preparazione non solo per dialogare con i consulenti senza esserne succube, ma anche per assumere scelte gestorie connotate da un equilibrato approccio al rischio di impresa [58]. Il progetto di legge AC 3250 orienta le risorse verso le imprese che ambiscono a competere in modo durevole nel mercato anche grazie a strumenti intellettuali adeguati [59]. Nel mercato le imprese non si distinguono per genere, ma per capacità competitiva e lo Stato deve, anche con azioni positive, contribuire a rimuovere gli ostacoli (economici, ma anche culturali e sociali) che precludono alle buone imprese di nascere e operare. In altri termini, come già accade in tutt’altro contesto, ad esempio per gli appalti pubblici [60], la disciplina speciale propone – e, per determinati operatori economici, impone – schemi normativi virtuosi che dovrebbero sollecitare, in questo caso, le imprese non femminili ad adottare le medesime soluzioni organizzative per continuare a competere nel mercato. In questo senso l’impresa femminile può costituire un modello di corretta gestione di impresa a cui anche le altre imprese dovranno tendere realizzando così, mediante l’intervento pubblico, un effetto ulteriore, generale ed espansivo delle azioni positive, con un conseguente generalizzato benessere per la collettività.


5. Considerazioni conclusive: più luci che ombre

Dall’esame sin qui condotto sul testo del progetto di legge AC 3250 e dal confronto dello stesso con il vigente Codice pari opportunità e i provvedimenti normativi vigenti o anche solo integranti proposte di legge in materia di impresa agricola femminile su cui ci si è soffermati, si possono trarre alcune considerazioni di carattere generale. Innanzitutto, la proposta di legge AC 3250:

i) si colloca sistematicamente in una posizione di vertice rispetto ai provvedimenti che introducono misure di favore per l’avvio e lo sviluppo dell’impresa femminile; ne consegue che la proposta di legge AC 3250 non si pone in antitesi ad altri testi normativi settoriali, costituendo piuttosto una piattaforma giuridica suscettibile di essere declinata con provvedimenti di più accentuata specialità o settorialità. Il progetto di legge AC 3250 fissa, in sostanza, la massima dilatazione della fattispecie di impresa femminile, lasciando ai provvedimenti settoriali l’introduzione di limitazioni o criteri maggiormente restrittivi per accedere alle provvidenze via via previste. È singolare (e va superata) la povertà di riferimenti al Codice pari opportunità nei diversi provvedimenti settoriali o di portata generale sull’impresa femminile adottati o proposti negli anni più recenti;

ii) in quanto norma avente carattere generale rispetto alle finalità di rimozione degli ostacoli alla uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e al pieno esercizio della libertà d’impresa (art. 41 Cost.), le definizioni contenute nella proposta di legge AC 3250 hanno una portata interpretativa ampia che si estende anche ad altre fattispecie che perseguono finalità di tutela analoghe;

iii) poteva probabilmente spingersi oltre, legando il concetto di impresa femminile alla sola gestione dell’impresa, individuale o collettiva, non già alla partecipazione con una soglia minima necessaria al capitale sociale. In altri termini, se si vuole veramente favorire l’esercizio dell’impresa da parte di donne si dovrebbe àncorare la nozione di impresa femminile alla presenza determinante di donne nei ruoli in cui si assumono decisioni di alta amministrazione o di gestione. La partecipazione al capitale è, infatti, un dato poco significativo perché può essere recessivo rispetto alla volontà di condurre l’impresa, come nel caso, ad esempio, che derivi da una comunione incidentale.

In secondo luogo, non si deve cogliere nel timore di possibili abusi un freno all’apertura della nozione di impresa femminile. È vero che il rischio di avere imprese “maschili” che collocano le donne fittiziamente in posizione di comando è concreto, ma si tratterebbe di situazioni marginali, tutto sommato piuttosto semplici da rilevare, per lo più caratterizzanti imprese in procinto di entrare nella fase di crisi alla ricerca di risorse finanziarie a fondo perduto o a basso costo. Il modello oggettivo di accesso alle risorse, inoltre, potrebbe essere in concreto congeniato in termini da scoraggiare il rischio di abusi, attraverso una verifica del concreto utilizzo delle stesse per realizzare programmi di avvio o di supporto all’impresa idonei a consentire all’attività economica di operare in modo durevole nel mercato competitivo.

Peraltro, la disciplina che si va delineando nel diritto vigente sembra orientarsi (anche in vista dell’attua­zione del PNRR) verso una diversa soluzione per la quale diviene recessiva la rilevanza dell’assunzione di ruoli gestori da parte di donne rispetto alla mera loro numerosità o partecipazione (maggioritaria) al capitale. Questa prospettiva appare non solo poco coerente con l’idea di voler incrementare il numero delle donne che “facciano impresa”, ma altresì poco efficiente. Infatti, pur con i necessari distinguo anche all’interno della categoria delle società di capitali, la mera partecipazione in qualità di socio, per un verso, è da intendersi come un’operazione di investimento (a favore di chi assume scelte di impresa e quindi gestisce le risorse investite) più che di coinvolgimento nell’impresa e, per l’altro, si presta, questo sì, a facili abusi da parte degli imprenditori che, per accedere ai benefici, coinvolgano solo nominalmente donne mediante la semplice “intestazione” di quote del capitale delle società.

In conclusione, sarebbe un’altra occasione persa quella di non approfittare della proposta di legge AC 3250 per creare un vero e proprio “statuto dell’impresa femminile”, fissando la definizione (generale) di impresa femminile e, razionalizzando il materiale normativo esistente, le tipologie di azioni e di strumenti a supporto del progetto di impresa – comprese le forme di agevolazione per l’accesso al credito e al venture capital – per l’attuazione effettiva della parità di genere e della libertà d’impresa.


NOTE

[1] La dottrina giuscommercialistica, anche nelle sue analisi più recenti dedicate alle declinazioni della figura di imprenditore (cfr., ad esempio, E.R. Desana, L’impresa fra tradizione e innovazione, Giappichelli, Torino, 2018), ha per lo più trascurato il tema del­l’impresa femminile (e giovanile) che trova solo alcune note descrittive e minimali in opere trattatistiche (cfr. G. Bonfante, G. Cottino, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, I, diretto da G. Cottino, Cedam, Padova, 2001, 534 s.) o i contributi su temi di confine o tangenti (cfr., ad esempio, M. Tola, Donne e impresa a cent’anni dall’abolizione dell’autorizzazione maritale, in Riv. dir. comm., 2020, I, 651 ss.; Id., Disciplina dell’impresa e nuovi assetti familiari, Giuffrè, Milano, 2021). Sono invece presenti studi di carattere economico dove, ad esempio, muovendo dall’art. 53 Codice pari opportunità, si è elaborato l’“algoritmo per l’impresa femminile” (cfr. V. Marino, L’imprenditoria femminile. Analisi strutturale, condizioni di vitalità e strategie di sopravvivenza, ES, Napoli, 2011, 39 ss.) o si sono sviluppate riflessioni sulle declinazioni del tema generale (v. ad esempio: P. Paoloni, M. Valeri, Verso prospettive di consolidamento dell’imprenditoria femminile immigrata in Italia, in Esperienze d’impresa, 2016, 101 ss., N. Zito, Le BCC per l’imprenditoria femminile: il contributo del Credito cooperativo, in Credito cooperativo, 2015, 12, 23 ss.; M. Perrotta, S. Gherardi, Le forme del sapere pratico: percorso d’apprendimento nell’imprenditoria artigiana femminile, in Quaderni di ricerca sull’artigianato, 2015, 1, 25 ss.; S. Bertolini, V. Goglio, L’imprenditoria femminile come strumento di innovazione per lo sviluppo locale, in Sociologia del lavoro, 2011, 206 ss.), anche in una prospettiva di contesto territoriale (v. M.C. Cinici, T. Abbate, Imprenditorialità femminile, innovazione e radicamento al territorio: un approccio fenomenologico all’analisi del settore vitivinicolo in Sicilia, in Esperienze d’impresa, 2014, 1 79 ss.; C. Terenzi, Friuli Venezia Giulia, contributi ai progetti di imprenditoria femminile, in Finanziamenti & credito, 2012, 3, 21 ss.). Per un recente contributo nel campo del diritto dell’economia cfr. C. Golino, Prospettive per una nuova valorizzazione della libertà di iniziativa economica di giovani e donne nel framework legislativo europeo e nazionale, in Federalismi.it, 3/2018, 1 ss.

[2] Anche se non mancano tentativi in tal senso. Cfr. già la Proposta di Risoluzione del Parlamento Europeo, Sull’imprenditorialità femminile nelle piccole e medie imprese (2010/2275(INI)), del 31 maggio 2011, che, alla lettera I, definisce l’imprenditrice “come una donna che ha creato un’attività della quale possiede una quota maggioritaria e che si interessa attivamente al processo decisionale, all’assunzione del rischio e alla gestione corrente”. V., più recentemente, la Proposta di Risoluzione del Parlamento Europeo, Sulla necessità di favorire l’imprenditoria femminile (B9-0474/2021), del 21 settembre 2021, con la quale, “considerando che non risulta a livello europeo una definizione ufficiale univoca dell’imprenditoria femminile e che, pertanto, molte imprese a conduzione femminile sono svantaggiate, o addirittura impossibilitate, ad accedere a bonus, incentivi e sgravi, perdendo interessanti possibilità di finanziamento”, si “incoraggia la Commissione a definire chiaramente il concetto di imprenditoria femminile così da semplificare l’accesso ai finanziamenti e ad altre forme di sostegno, superando gli ostacoli burocratici, garantendo una parità tra uomini e donne nell’accesso al capitale per i lavoratori autonomi e le PMI”. Per l’orientamento dell’Unione europea per l’imprenditorialità giovanile e femminile v. C. Golino, Prospettive per una nuova valorizzazione della libertà di iniziativa economica di giovani e donne nel framework legislativo europeo e nazionale, cit., 14 ss. La mancanza, nelle fonti europee, di una definizione di impresa femminile non implica tuttavia che manchino riferimenti alla stessa nella disciplina europea dell’impresa. Cfr., nei documenti programmatici più recenti, la Comunicazione della Commissione, Creare un’economia al servizio delle persone: un piano d’azione per l’economia sociale, del 9 dicembre 2021, COM(2021) 778 final, nonché la Comunicazione della Commissione, Una visione a lungo termine per le zone rurali dell’UE: verso zone rurali più forti, connesse, resilienti e prospere entro il 2040, del 30 giugno 2021, COM(2021) 345 final (e il relativo allegato). Peraltro già la Comunicazione della Commissione, Piano d’azione imprenditorialità 2020, del 9 gennaio 2013 COM(2012) 795 final, nella «Linea d’azione 3 – Modelli di ruolo e coinvolgimento di gruppi specifici», dedicava particolare attenzione alle donne sottolineando che le stesse rappresentano «un ampio bacino di potenzialità imprenditoriali in Europa. All’atto di creare e gestire un’impresa le donne si trovano ad affrontare maggiori difficoltà degli uomini, essenzialmente per quanto concerne l’accesso ai finanziamenti, alla formazione, alle reti e la conciliazione tra azienda e famiglia» (p. 24, enfasi nell’originale).

[3] Nei primi nove mesi del 2021, dopo un periodo di stallo, si parla di un incremento di 7.000 imprese femminili, rispetto all’anno precedente, con un tasso di crescita molto inferiore rispetto a quanto si registrava ante pandemia. Cfr. per i dati e la loro analisi Unioncamere, IV Rapporto Impresa Femminile (27 luglio 2020) e il comunicato dell’Osservatorio sull’Imprenditoria femminile di Unioncamere e InfoCamere del 15 novembre 2021. Peraltro occorre avvertire che l’Osservatorio di Unioncamere, dal primo gennaio 2009, nella rilevazione dei dati utilizza un algoritmo che considera femminile l’impresa in possesso di alcune caratteristiche: per le società di capitali si richiede una partecipazione al capitale da parte di donne superiore al 50% “mediando le composizioni di quote di partecipazione e cariche attribuite”; per le società di persone e le cooperative richiede che oltre il 50% di soci sia donna; per le imprese individuali è necessario che la titolare sia donna; infine per le «altre forme giuridiche: si definisce impresa femminile quella con oltre il 50% di “Amministratori” donna» (cfr. https://www.unioncamere.gov.it/imprenditoria-femminile/osservatorio-imprenditoria-femminile, da dove è tratta la precedete citazione). I parametri utilizzati conducono ad una definizione di impresa femminile dai contorni diversi e meno restrittivi rispetto a quelli ricavabili dall’art. 53 Codice pari opportunità; parametri molto più prossimi a quelli che, come si vedrà, emergono dal d.lgs. n. 185/2000 sugli incentivi all’autoimprenditorialità.

[4] La l. n. 160/2019 interviene su diversi profili. Innanzitutto, è istituito presso il MEF un fondo da ripartire tra gli anni 2020-2023 con una dotazione di 470 milioni di euro (art. 1, comma 85 ss.) e l’autorizzazione il per il Ministro dell’economia e delle finanze ad intervenire attraverso la concessione di una o più garanzie, a titolo oneroso “al fine di sostenere programmi specifici di investimento e operazioni, anche in partenariato pubblico-privato e anche realizzati con l’intervento di università e organismi privati di ricerca, finalizzati a realizzare progetti economicamente sostenibili e che abbiano come obiettivo (...) il supporto all’imprenditoria giovanile e femminile (...)”. In secondo luogo, si consente l’integrazione degli interventi agevolativi previsti per l’autoimprenditorialità giovanile e femminile dal d.lgs. n. 185/2000, “con una quota di finanziamento a fondo perduto, concesso con procedura a sportello, in misura non superiore al 20 per cento delle spese ammissibili a valere su risorse dei fondi strutturali e d’investimento europei (fondi SIE)” (art. 1, comma 90, lett. d). In terzo luogo, si contemplano misure per favorire l’accesso al credito da parte delle imprese femminili che operano in agricoltura (art. 1, comma 504 ss.).

[5] Il Fondo a sostegno dell’impresa femminile supporta: “a) interventi per sostenere l’avvio dell’attività, gli investimenti e il rafforzamento della struttura finanziaria e patrimoniale delle imprese femminili, con specifica attenzione ai settori dell’alta tecnologia b) programmi e iniziative per la diffusione della cultura imprenditoriale tra la popolazione femminile c) programmi di formazione e orientamento verso materie e professioni in cui la presenza femminile deve essere adeguata alle indicazioni di livello dell’Unione europea e nazionale” (art. 1, comma 98, l. n. 178/2020). Le linee di indirizzo per l’utilizzo delle risorse del Fondo potranno essere attualizzate anche grazie alle indicazioni del Comitato impresa donna (istituito con decreto interministeriale del 27 luglio 2021, recante Composizione e modalità di nomina del “Comitato Impresa donna”, di cui all’articolo 1, comma 106, della legge 30 dicembre 2020, n. 178).

[6] Gli strumenti di intervento si distinguono a seconda che siano diretti a sostenere l’avvio e il rafforzamento della struttura finanziaria, patrimoniale dell’attività (lett. a) dell’art. 1, comma 98, l. n. 178/2020) o gli altri settori di intervento (lett. b) e c) art. 1, comma 98, l. n. 178/2020. Infatti, l’art. 1, comma 99, l. n. 178/2021 prevede, per i primi: a) “contributi a fondo perduto per avviare imprese femminili, con particolare attenzione alle imprese individuali e alle attività libero-professionali in generale e con specifica attenzione a quelle avviate da donne disoccupate di qualsiasi età b) finanziamenti senza interesse, finanziamenti agevolati e combinazione di contributi a fondo perduto e finanziamenti per avviare e sostenere le attività di imprese femminili c) incentivi per rafforzare le imprese femminili, costituite da almeno trentasei mesi, nella forma di contributo a fondo perduto per l’integrazione del fabbisogno di circolante nella misura massima dell’80 per cento della media del circolante degli ultimi tre esercizi d) percorsi di assistenza tecnico-gestionale per attività di marketing e di comunicazione durante tutto il periodo di realizzazione degli investimenti o di compimento del programma di spesa, anche attraverso un sistema di voucher per accedervi e) investimenti nel capitale, anche tramite la sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi, a beneficio esclusivo delle imprese a guida femminile tra le start-up innovative di cui all’articolo 25 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e delle piccole e medie imprese innovative di cui all’articolo 4 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33, nei settori individuati in coerenza con gli indirizzi strategici nazionali f) azioni di comunicazione per la promozione del sistema imprenditoriale femminile italiano e degli interventi finanziati attraverso le norme dei commi da 97 a 106”. Per i secondi, invece, l’art. 1, comma 100, l. n. 178/2020 contempla: a) “iniziative per promuovere il valore dell’impresa femminile nelle scuole e nelle università b) iniziative per la diffusione di cultura imprenditoriale tra le donne c) iniziative di orientamento e formazione verso percorsi di studio nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche d) iniziative di sensibilizzazione verso professioni tipiche dell’economia digitale e) azioni di comunicazione per diffondere la cultura femminile d’impresa e promuovere i programmi finanziati ai sensi dei commi da 97 a 106”.

[7] Si fa riferimento all’allegato alla decisione del Consiglio dell’Unione europea n. 10160 del 6 luglio 2021. Come è noto, il Consiglio europeo con decisione del 17-21 luglio 2020, ha adottato lo strumento denominato Next Generation EU, con il quale sostenere, mediante specifici programmi, la ripresa economica e sociale degli Stati membri colpiti dagli effetti della crisi pandemica per porre le fondamenta per una crescita verde, digitale e resiliente. Nell’ambito del Next Generation EU si definisce il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility), con l’obiettivo di sostenere, per gli anni 2021-2026, le riforme e gli investimenti proposti dagli Stati membri descritte in appositi Piani nazionali di ripresa e resilienza per contenere l’impatto socio-economico della pandemia e rendere le economie degli Stati più sostenibili, resilienti e pronte alle sfide e alle opportunità della transizione ecologica e di quella digitale.

[8] Peraltro occorre ricordare che la presenza femminile nella direzione dell’impresa agricola è un fenomeno che comincia ad assumere rilevanza a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. Cfr. per alcune riflessioni in proposito N. Lombardi, L. Bartoli, M. De Rosa, Innovazione e modelli di agricoltura sostenibile nelle imprese a conduzione femminile, in Aa.Vv., Per un’educazione alla sostenibilità nell’Università, a cura di D. de Vincenzo, A. Riggio, Edizioni Università di Cassino, 2021, 87 ss.

[9] In argomento v. D. Gottardi, voce Imprenditoria femminile, in Digesto disc. piv., Sez. comm., Aggiornamento, I, Utet, Torino, 2000, 354 ss.

[10] Su un piano diverso si colloca l’impresa familiare (artt. 230-bis e 230-ter cod. civ.) in cui la tutela è diretta a salvaguardare non tanto l’attività svolta dall’impresa nel mercato, quanto il familiare (o convivente) che collabora nell’impresa. Se si muove dall’idea che l’impresa familiare non solo non è una tipologia di impresa collettiva (v. già F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, Milano, 1984, 208), ma un istituto a tutela della parte debole della famiglia che collabora nell’esercizio dell’attività economica in quanto legato all’imprenditore da vincoli familiari, tale istituto ha, nella disciplina dell’art. 230bis cod. civ. (ma lo stesso si può dire oggi con riguardo all’art. 230ter cod. civ. seppur con le ulteriori incertezze interpretative che la disposizione introduce: v. L. Balestra, Unioni civili, convivenze di fatto e “modello” matrimoniale: prime riflessioni, in Giur. it., 2016, 1787; L. Ghidoni, Unione civile e impresa familiare: la disarmonia di una mera estensione normativa, in Famiglia e diritto, 2017, 701 ss.) una connotazione residuale (in argomento v. ora, anche per i riferimenti, M. Tola, Disciplina dell’impresa e nuovi assetti familiari, cit., 38 ss., Id., Impresa familiare e convivenze, in Riv. dir. civ., 2019, 705 ss.). L’impresa familiare è quindi un complesso di norme che opera in mancanza di un “diverso rapporto” (principalmente un contratto di lavoro o societario), che ha avuto una fortuna legata soprattutto a ragioni di carattere fiscale. Si è consentita infatti la ripartizione (per lo più solo formale, senza cioè che a questo corrispondesse un reale coinvolgimento dei familiari nell’impresa) dei redditi di impresa tra il titolare e familiari (a partire dal coniuge). Sono queste ragioni che hanno guidato le scelte delle imprese, che si dichiarano “familiari” prescindendo dal genere del titolare e dalla promozione effettiva della donna nell’impresa. Cfr. D. Gottardi, voce Imprenditoria femminile, cit., 354 ss.

[11] In argomento v., per tutti, M. Libertini, La costituzione economica. Libertà d’impresa ed economia sociale di mercato, in AA.VV., Il governo dell’economa. In ricordo di Vittorio Ottaviano nel centenario della nascita. Atti del convegno del 9 e 10 settembre Università di Catania, a cura di S. Licciardello, Giappichelli, Torino, 2018, 3 ss.

[12] Così testualmente M. Libertini, Principio di adeguatezza organizzativa e disciplina dell’organizzazione delle società a controllo pubblico, in Giur. comm., 2021, I, 5 ss., in part. 7, ma v. già Id., Sulla nozione di libertà economica, in Contr. impr., 2019, 1255 ss.

[13] Si discute, in dottrina, sulla portata della libertà di impresa con riguardo, in particolare, al come la stessa deve essere organizzata. Cfr. E. Ginevra, C. Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 cod. civ., in Nuove leggi civ. comm., 2019, 1209 ss., in part. 1222 s., per i quali «non può che essere infatti l’imprenditore a stabilire quale è il “proprio mercato”, quale e quanta domanda intercettare. Una volta però operata una tale scelta, non è altrettanto libera la determinazione del privato circa il come questa venga a essere attuata, dovendosi appunto rispettare a tale proposito l’invero pervasivo comando di poterla porre in esecuzione soltanto per il tramite di “assetti organizzativi, amministrativi e contabili” che a un siffatto mercato possano considerarsi congrui». Per la critica a tale opinione e i profili ricostruttivi sia consentito il rinvio ad A. Caprara, I principi di corretta amministrazione. Struttura, funzioni e rimedi, Giappichelli, Torino, 2021, 62 ss. In argomento v. altresì D. Galletti, Le politiche di gestione del rischio. Modelli giuridici per l’assunzione delle decisioni d’impresa, ESI, Napoli, 2021, in part. 43 ss.

[14] In realtà, diversamente da quanto potrebbe in un primo momento apparire, è ragionevole ritenere che il dettato normativo faccia riferimento non già all’impresa familiare dell’art. 230-bis cod. civ. (e oggi anche ai diritti del convivente dell’art. 230-ter cod. civ.), bensì al più complesso e articolato fenomeno dei passaggi generazionali, al fine di incentivare la “continuazione” dell’impresa da parte di successori di genere femminile. È chiaro che, anche in mancanza di una simile indicazione normativa, nulla osterebbe a tale soluzione e che all’attività iniziata da parte dell’imprenditrice troverebbe applicazione il regime di tutele previste per l’impresa femminile. Rilevano nell’introduzione dell’imprenditoria femminile ad opera della l. n. 215/1995 un’ideale continuazione del “discorso iniziato con la riforma del diritto di famiglia attraverso l’impresa coniugale e familiare, trovando giustificazione nello stesso art. 37 della Costituzione” G. Bonfante, G. Cottino, L’imprenditore, cit., 535.

[15] Le azioni positive, ai sensi dall’art. 42 del Codice pari opportunità, sono “dirette a favorire l’occupazione femminile e realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro”. Esse consistono “in misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità (...)”. Le azioni positive sono richiamate anche dal Trattato sul funzionamento dell’UE dove si prevede che allo “scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali” (art. 157, comma 4). La Corte costituzionale (sentenza n. 109/1993), intervenendo sulla questione di legittimità della l. n. 215/1992 rispetto alle competenze regionali esclusive, ha rilevato che le azioni positive, in generale, “sono il più potente strumento a disposizione del legislatore, che, nel rispetto della libertà e dell’autonomia dei singoli individui, tende a innalzare la soglia di partenza per le singole categorie di persone socialmente svantaggiate (...) al fine di assicurare alle categorie medesime uno statuto effettivo di pari opportunità di inserimento sociale, economico e politico”. Con riguardo all’impresa femminile le azioni positive “sono dirette a superare il rischio che diversità di carattere naturale o biologico si trasformino arbitrariamente in discriminazioni di destino sociale” (punto 2.2 del considerato in diritto).

[16] Sulla nozione di stato v. P. Rescigno, Manuale di diritto privato, a cura di P. Cirillo, Ipsoa, Milano, 2000, 116 ss.

[17] A partire dal 2019 sono state presentate diverse proposte di legge per il riconoscimento e la tutela dell’impresa femminile e del lavoro femminile in agricoltura. Si fa riferimento alla proposta AC 2049 presentata il 1 agosto 2019, alla proposta AC 2930, presentata il 8 marzo 2021 e alla proposta AC 2992 presentata il 1 aprile 2021, confluite nel testo unificato adottato come testo base il 3 novembre 2021 (XIII Commissione permanente, Agricoltura).

[18] Dove ci si propone di “agevolare l’accesso al credito per le imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile” (art. 1, comma 2, lett. c) e di “promuovere la presenza delle imprese a conduzione o a prevalente partecipazione giovanile nei comparti più innovativi dei diversi settori produttivi” (art. 1, comma 2, lett. d).

[19] La definizione è sostanzialmente riprodotta con riguardo alla nuova imprenditorialità nei settori della produzione dei beni e dei servizi alle imprese (art. 5), alle misure in favore della nuova imprenditorialità nel settore dei servizi (art. 7) e alle misure in favore della nuova imprenditorialità in agricoltura (art. 9). Il tema dell’età nell’esercizio dell’impresa è esaminata, in termini più estesi di quelli che pone la norma in questione, da M. Tola, Iniziativa economica ed età, in AA.VV., Soggetti vulnerabili nell’economia, nel diritto e nelle istituzioni, a cura di P. Corrias, E. Piras, ESI, Napoli, 2021, 191 ss.

[20] In attuazione del d.lgs. n. 185/2000, come modificato delle misure previste dalla l. n. 160/2019, il d.m. 4 dicembre 2020 del Ministro dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze MISE 4 dicembre 2020, Ridefinizione della disciplina di attuazione della misura in favore della nuova imprenditorialità giovanile e femminile di cui al titolo I, capo I, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 185 – che attua, tra l’altro, la ricordata l. n. 160/2019 (l. stabilità 2020), art. 1, comma 90, lett. d), all’art. 5, lett. d) – indica, tra i soggetti beneficiari, le imprese “in cui la compagine societaria sia composta, per oltre la metà numerica dei soci e di quote di partecipazione, da soggetti di età compresa tra i 18 ed i 35 anni ovvero da donne”.

[21] È tutt’altro che peregrino ipotizzare che il legislatore con l’art. 1, comma 504, l. n. 160/2019 volesse limitare il requisito della conduzione dell’impresa al solo caso si trattasse di imprese individuali, non già nell’ipotesi di società per le quali dovrebbe valere (come costantemente emerge nella disciplina di fonte primaria anteriore e successiva alla l. n. 160/2019) la maggioranza numerica o di quote di partecipazione al capitale. Peraltro, il dato letterale della l. n. 160/2019 conduce ad ammettere la soluzione prospettata dal d.m. del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, 9 luglio 2020, seppur rilevandone l’a-sistematicità e ponendo dubbi di costituzionalità con riguardo a questa (terza) definizione di impresa femminile.

[22] Il d.m. 30 settembre 2021, cit., definisce la trasformazione di prodotti agricoli come “qualsiasi trattamento di un prodotto agricolo in cui il prodotto ottenuto resta pur sempre un prodotto agricolo, eccezion fatta per le attività svolte nell’azienda agricola necessarie per preparare un prodotto animale o vegetale alla prima vendita” (art. 1, lett. i). Lo stesso d.m. per prodotti agricoli intende i “prodotti elencati nell’allegato I del trattato, ad eccezione dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura elencati nell’allegato I del regolamento (UE) n. 1379/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013” (art. 1, lett. j).

[23] Come è noto, si fa riferimento alle attività di coltivazione del fondo, allevamento di animali e selvicultura, nonché alle attività connesse. Sulla estensione di tali fattispecie sia consentito il rinvio ad A. Caprara, Dall’attività agricola all’impresa agricola che opera nel mercato. Alcune considerazioni di ordine storico-evolutivo e sistematico, in Ambienteediritto.it, 3/2022, 1 ss.

[24] Da ultimi v. N. Lucifero, Le reti di impresa e le relazioni di filiera nel sistema della filiera agroalirnentare, in Dir. agroal., 2021, 355 ss., G.G. D’Angelo, Le reti di imprese in agricoltura: originalità civilistica e profili fiscali, in Giur. comm., 2020, I, 346 ss., che qualifica il contratto di rete come una “forma moderna di contratto di compartecipazione agraria” (pp. 348 e 357 ss.).

[25] Cfr. la Conferenza delle Regioni e delle Provincie autonome, Posizione in merito alle “Disposizioni per la promozione dell’imprenditoria e del lavoro femminile nel settore agricolo, della pesca e dell’acquacoltura” (c 2049; c 2930 e c 2992), del 17 giugno 2021. Peraltro, il rapporto Stato-regioni era già emerso nella vigenza della l. n. 215/1992, tant’è che era intervenuta la Corte costituzionale. Cfr. D. Gottardi, voce Imprenditoria femminile, cit., 354 ss.

[26] Del resto il tema non è nuovo, solo che si consideri che al momento dell’entrata in vigore della l. n. 215/1992 operavano già altre leggi speciali per l’imprenditoria femminile, come ricorda D. Gottardi, voce Imprenditoria femminile, cit., 354 ss.

[27] L’esigenza di limitare l’intervento alle PMI si rinviene nelle ragioni che hanno giustificato una procedura di infrazione al diritto europeo aperta già in occasione della l. n. 215/1992. Cfr. ancora D. Gottardi, voce Imprenditoria femminile, cit., 354 ss.

[28] Con la riforma delle società di capitali e delle cooperative del 2003 la contrapposizione tra socio cooperatore e finanziatore è particolarmente significativa anche per le disposizioni di diritto comune introdotte nel codice civile (art. 2511 ss.) che pongono al centro l’interesse dei soci cooperatori nella scelta e nell’attuazione della mutualità. Cfr. sul tema l’ampia trattazione di E. Cusa, Il socio finanziatore nelle cooperative, Giuffrè, Milano, 2006.

[29] Il possesso congiunto e non alternativo dei requisiti sembra agevolmente ricavabile, sul piano letterale, dalla circostanza che è richiesto il “possesso almeno” dei requisiti ivi indicati.

[30] L’osservazione muove dalla premessa che l’amministrazione nelle società di persone, spetti di regola solo ai soci illimitatamente e solidalmente responsabili per le obbligazioni sociali (v. F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, Zanichelli, Bologna, 2013, 62 ss., ove riferimenti).

[31] Cfr. G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, Utet, Torino, 2015, 88 s.

[32] La diversa soluzione dell’amministrazione congiuntiva (art. 2258 cod. civ.) è già di per sé una tecnica di tutela adeguata rispetto all’esercizio del potere gestorio da parte delle donne, anche se non è esclusa un’ipotesi in cui si determini un sostanziale esautoramento delle donne dalle scelte gestorie. Infatti, l’amministrazione congiuntiva può operare secondo due modalità: all’unanimità o a maggioranza. Nel primo caso la decisione richiede il consenso di tutti gli amministratori, per cui ciascun amministratore ha, in quanto tale, un diritto di veto sulle proposte altrui. Se la amministrazione congiuntiva è a maggioranza la stessa si calcola sulla base del criterio della partecipazione agli utili dei soci amministratori. Nella pratica, l’amministrazione congiuntiva è di regola legata al coinvolgimento di tutti i soci (nel senso che di regola tutti i soci sono amministratori) e, quindi, poiché nella proposta di legge la partecipazione agli utili è a maggioranza femminile, il coinvolgimento delle donne nelle scelte di gestione sarebbe necessaria e decisiva. Tuttavia, nel caso (forse solo teorico e di scuola) in cui non vi fosse il coinvolgimento di tutti i soci nell’amministrazione, si potrebbe di fatto lasciare la gestione in mano ai soci amministratori di genere maschile. In tal caso se questi ultimi avessero, tra i soggetti coinvolti nell’amministrazione, la maggioranza nella partecipazione agli utili, di fatto sottrarrebbero alle socie ogni possibilità di incidere sulla gestione, ancorché le stesse siano socie illimitatamente responsabili, detentrici della maggioranza del capitale sociale e, rispetto alla totalità dei soci, della maggioranza nella partecipazione agli utili.

[33] La partecipazione agli utili può anche non coincidere con la partecipazione al capitale sociale (salvo il limite del patto leonino ex art. 2265 cod. civ.), al punto che può anche del tutto prescinderne, come avviene nel caso del socio che conferisce la sola opera: pur non avendo una partecipazione al capitale sociale, lo stesso ha diritto, in quanto socio, alla partecipazione agli utili (v. art. 2263, comma 2, cod. civ.).

[34] Vi potrebbe essere, infatti, il caso in cui il capitale, nel momento costitutivo, non vi sia perché, ad esempio, i soci abbiano tutti conferito la sola prestazione d’opera. Cfr. F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., 50. Peraltro va ricordato che si è sostenuta in dottrina una diversa opinione per la quale va superata la distinzione tra conferimenti di capitale e conferimenti di patrimonio (su cui v. F. di Sabato, Diritto delle società, Giuffrè, Milano, 2011, 101 ss.). Ad ogni buon conto la criticità esaminata nel testo potrebbe trovare una risposta se si ammettesse di dare rilievo alla sola qualità di socio (di regola illimitatamente responsabile), che deriva dalla conclusione al contratto di società (dalla quale discende l’obbligo di effettuare un conferimento), prescindendo dalle regole attraverso le quali si misura la consistenza del capitale e, quindi, della misura della partecipazione da parte del singolo socio.

[35] Nulla escluderebbe infatti che sia prevista, a favore di alcuni soci, la limitazione di responsabilità ex art. 2267 cod. civ. (o ex art. 2291, comma 2, cod. civ.) o che vi siano soci accomandanti (art. 2320 cod. civ.). Tale limitazione convenzionale o legale sarà tuttavia preclusiva della possibilità di assumere il ruolo di amministratore. In argomento v. ora in S. Patriarca, Sub 2267, in S. Patriarca, I. Capelli, Società semplice, Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di G. De Nova, Zanichelli, Bologna, 2021, 273, ove si rileva che “soltanto i soci non investiti a nessun livello della gestione della società possono avvalersi della clausola di limitazione (...)”.

[36] Resterebbe aperta la questione per i conferimenti che siano effettuati in parte mediante lavoro o servizi e in parte con denaro o beni in natura e crediti. Stante la precisa indicazione del 51 per cento del capitale sociale, salvo si acceda alla tesi supra richiamata della sostanziale capitalizzazione dei conferimenti di lavoro e servizi, dovrebbe aversi riguardo al valore di capitale sociale sottoscritto con i soli conferimenti di capitale. In sostanza, se vi fosse un solo socio di genere maschile che detiene il 51 per cento del capitale sociale, stante il dato letterale, sarebbe da escludere la possibilità di qualificare come femminile la società, anche se la maggioranza dei soci e la maggioranza degli utili spettasse a soci di sesso femminile.

[37] Per la tesi secondo cui l’amministratore potrebbe essere anche non socio v. I. Capelli, Sub 2257, in S. Patriarca, I. Capelli, Società semplice, Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, cit., 153 ss. e S. Patriarca, Sub 2266, ivi, 257 ss. Nella manualistica v. G.F. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, Utet giuridica, Milano, 2015, 153 ss. In giurisprudenza v. ora Trib. Roma, 25 agosto 2021, commentata da L. Farenga, Amministratore non socio nelle società di persone, in Riv. dir. comm., 2022, II, 291 ss.

[38] Cfr. F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, cit., 2013, 62 s.

[39] In altri termini nel caso di società di persone, potrebbe considerarsi femminile l’impresa in cui vi sia almeno una socia illimitatamente e solidalmente responsabile che ricopra altresì il ruolo di amministratore unico e rappresentante della società o, in caso di amministrazione affidata a più persone, ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: i) presenza tra gli amministratori di almeno una donna che sia altresì socia solidalmente e illimitatamente responsabile; ii) previsione nell’atto costitutivo della distribuzione di almeno il 51 per cento degli utili a soci di sesso femminile; iii) previsione nell’atto costitutivo che operi il sistema di amministrazione congiuntiva ai sensi dell’articolo 2258 cod. civ. almeno con riguardo all’istituzione e modifica degli assetti di cui all’articolo 2086 cod. civ., alle operazioni strategiche e ai piani industriali e finanziari.

[40] Sul piano letterale non è espressamente previsto che le diverse condizioni operino alternativamente e non cumulativamente. Peraltro, tenuto conto della finalità della proposta di legge, è chiaro che le diverse ipotesi sono ciascuna equivalente all’altra e, quindi, reciprocamente alternative. Inoltre, talune fattispecie indicate nell’elenco contrassegnato con numeri arabi sono tra loro incompatibili, come quelle che fanno riferimento al sistema dualistico e quelle che riguardano la governance del modello tradizionale e monistico. Sul piano logico ne consegue che nulla osta a che, se compatibili, possano ricorrere più condizioni tra quelle elencate, ma che tale cumulo non possa essere considerato necessario ai fini dell’acquisizione dello status di impresa femminile.

[41] Probabilmente, più che di un limite alla libertà statutaria si dovrebbe parlare di un elemento costitutivo della fattispecie. In sostanza, la previsione normativa detta le condizioni necessarie perché trovi applicazione la particolare disciplina prevista per l’impresa che possa vantare lo status di impresa femminile e, ai fini dell’acquisizione dello stesso, è necessario vi siano quei requisiti che la legge impone nel delineare la fattispecie di impresa femminile.

[42] È evidente che tale soluzione si pone su una linea di politica legislativa speculare a quella che emerge soprattutto da uno dei due versanti che portano alla definizione di impresa femminile nell’attuale quadro normativo che valorizza in misura pressoché esclusiva la partecipazione al capitale sociale.

[43] La possibilità – non già la necessità – che si introducano clausole che assicurino la perdurante persistenza dei requisiti anche in sede di trasferimento della partecipazione si lega alla circostanza che la qualifica formale di impresa femminile deve considerarsi, come si è avvertito, uno status. Pertanto, il livello di blindatura giuridica di tale non può che essere riservato all’autonomia statutaria: la legge definirà infatti solo le condizioni necessarie per la fattispecie. Peraltro, l’introduzione di clausole di limitazione della circolazione delle partecipazioni non sarebbe neutra sul piano degli effetti che immediatamente ne conseguirebbero. Ai sensi dell’art. 2437, comma 2, lett. b, cod. civ. l’introduzione di vincoli alla circolazione delle partecipazioni legittima l’esercizio del diritto di recesso con possibili rilevanti effetti sull’equilibrio patrimoniale e finanziario della società sino al suo scioglimento (cfr. art. 2437-quater cod. civ.).

[44] Con riguardo al genere meno rappresentato in consiglio di amministrazione, con la l. n. 120/2011 (e il d.P.R. n. 251/2012) si sono introdotte regole puntuali per le società quotate e le società a controllo pubblico (v. ora l’art. 11, comma 4, d.lgs. n. 175/2016). La norma è ispirata anche a ragioni efficientistiche e quindi di impresa, non solo di riequilibrio di genere, particolarmente sentite sia per le società quotate che per le società a controllo pubblico. Cfr. L. Calvosa, S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, in Osservatorio dir. civ. comm., 2013, 9 ss.; U. Morera, Sulle ragioni dell’equilibrio di genere negli organi delle società quotate e pubbliche, in Riv. dir. comm., 2014, II, 155 ss.; M. Rubino de Ritis, L’introduzione delle c.d. quote rosa negli organi di amministrazione e controllo di società quotate, in Nuove leggi civ. comm., 2012, 309 ss.; Aa.Vv., Speriamo che sia femmina: l’equilibrio fra i generi nelle società quotate e a controllo pubblico nell’esperienza italiana e comparata, a cura di M. Callegari, E.R. Desana, M. Sarale, Collane@unito.it, 2021.

[45] In dottrina rileva l’illiceità della sistematica devoluzione ai soci delle competenze degli amministratori S. Sanzo, Le decisioni dei soci, in AA.VV., Le nuove s.r.l., diretto da M. Serale, Zanichelli, Bologna, 2008, 353.

[46] In dottrina la soluzione non è pacifica. A favore della possibilità di escludere il potere devolutivo con un’apposita clausola statutaria v. G. Zanarone, Sub art. 2479, in Della società a responsabilità limitata, ne Il Codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2010, 940, nonché N. Abriani, M. Maltoni, Elasticità organizzativa e riparto di competenze nella nuova disciplina della società a responsabilità limitata, in RDS, 2007, 23 ss. Contra v. O. Cagnasso, La società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, V, 1, Cedam-WKI, Padova, 2014, 290.

[47] In dottrina si è ritenuto legittimo estendere il peso del potere devolutivo agevolando il suo esercizio con un abbassamento delle soglie previste dalla legge. Cfr. R. Lener, Decisioni dei soci, in AA.VV., S.r.l. Commentario dedicato a Giuseppe B. Portale, a cura di A.A. Dolmetta, G. Presti, Giuffrè, Milano, 2011, 789.

[48] Pur mancando una definizione univoca di piano industriale, il Codice di Corporate Governance, 2020, lo descrive come “il documento programmatico nel quale sono definiti gli obiettivi strategici dell’impresa e le azioni da compiere al fine di raggiungere tali obiettivi in coerenza con il livello di esposizione al rischio prescelto, nell’ottica di promuovere il successo sostenibile della società (...)”. Quest’ultimo è definito dallo stesso Codice come l’«obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società». Cfr. M. Ventoruzzo, Il nuovo Codice di Corporate Governance 2020: le principali novità, in Società, 2020, 439 ss., in part. 440 s.

[49] In sostanza si potrebbe riformulare la previsione relativa alla definizione di impresa femminile che adotta il modello societario della s.r.l. prevedendo che è da considerarsi impresa femminile la società a responsabilità limitata in cui l’atto costitutivo preveda, anche alternativamente, che: i) l’amministrazione sia affidata ad un amministratore unico donna o, in caso di amministrazione plurisoggettiva, l’organo amministrativo sia composto in maggioranza da donne o che l’amministratore delegato sia una donna o che la maggioranza del comitato esecutivo sia costituita da donne o, infine, che il direttore generale sia una donna; ii) ai sensi dell’articolo 2479 cod. civ., sia riservato ai soci, in maggioranza donne, almeno la competenza sulle operazioni strategiche e sui piani industriali e finanziari e il parere sulla istituzione degli assetti organizzativi di cui all’articolo 2086 cod. civ., ferma la competenza esclusiva degli amministratori circa la loro istituzione ai sensi dell’art. 2475 cod. civ.; iii) ai sensi dell’articolo 2468 cod. civ., i diritti, i poteri e le competenze indicati ai numeri 1 e 2 della presente lettera siano attribuiti, anche congiuntamente, a donne.

[50] Cfr., per tutti, G. Zanarone, Sub art. 2468, in Della società a responsabilità limitata, ne Il Codice civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger e diretto da D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2010, 516 ss.

[51] Cfr. O Cagnasso, S.R.L. aperta, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1208 ss., in part. 1211 ss.

[52] Con riguardo alla definizione che figurava nella l. n. 215/1995, G. Bonfante, G. Cottino, L’imprenditore, cit., 535, osservavano che la “fattispecie imprenditoriale” dell’impresa femminile è “distinguibile dagli altri modelli di impresa essenzialmente sotto il profilo soggettivo”.

[53] Nella circolare INAIL del 3 agosto 2022, avente ad oggetto Comunicazioni dei rapporti di lavoro in regime di codatorialità. Modello Unirete. Decreto del Ministro del lavoro 29 ottobre 2021, n. 205. Inquadramento previdenziale e assicurativo. Indicazioni operative, viene ricostruita la disciplina e si offrono utili indicazioni per delimitare, almeno ai fini delle comunicazioni INAIL, le fattispecie di rapporto di lavoro a cui si fa riferimenti nel testo.

[54] A tal proposito, il “Comitato nazionale per l’imprenditoria femminile”, presso il Ministero dello sviluppo economico, tra l’altro, “contribuisce ad attualizzare le linee di indirizzo per l’utilizzo delle risorse del Fondo di cui al comma 1” (art. 3 proposta di legge AC 3250 che novella 54, comma 6 e 7, Codice pari opportunità).

[55] Si pensi al Fondo di garanzia PMI che comprende una Sezione Speciale “imprenditoria femminile”, istituita (ai sensi del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico del 26 gennaio 2012) con convenzione del 14 marzo 2013 stipulata tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità, il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tale fondo compartecipa alla copertura del rischio sulle operazioni di garanzia concesse a favore delle imprese femminili definite ai sensi art. 2, comma 1, lettera a) della l. n. 215/1992 (e quindi oggi all’art. 53, lett. a, Codice pari opportunità).

[56] Si pensi che la l. n. 198/2020, all’art. 1, comma 107, prevede l’assegnazione di risorse aggiuntive al Fondo di sostegno al venture capital (art. 1, comma 209, l. 30 dicembre 2018, n. 145), “finalizzate a sostenere investimenti nel capitale di rischio per progetti di imprenditoria femminile a elevata innovazione ovvero a contenuto di innovazione tecnologica (...) realizzati entro i confini del territorio nazionale da società il cui capitale è detenuto in maggioranza da donne”. A tal proposito occorre ricordare che nella Comunicazione della Commissione, Piano d’azione imprenditorialità 2020, del 9 gennaio 2013 COM(2012) 795 final, si sottolinea l’im­portanza dei fondi di venture capital per l’impresa sociale. Successivamente sono stati approvati due regolamenti: il Regolamento 345/2013/UE, relativo ai fondi europei per il venture capital (EuVECA) e il Regolamento UE 346/2013/UE, relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale (EuSEF). Nel primo si precisa che i fondi venture capital «stimolano la crescita economica, contribuiscono alla creazione di posti di lavoro e alla mobilitazione di capitali, favoriscono la creazione e lo sviluppo di imprese innovative, incrementano i loro investimenti in ricerca e sviluppo e favoriscono l’imprenditorialità, l’innovazione e la competitività, in linea con gli obiettivi della strategia Europa 2020, stabiliti nella comunicazione della Commissione del 3 marzo 2010 intitolata “Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” (Europa 2020)» (Considerando 1 reg. 345/2013/UE). Il secondo regolamento rientra nell’ambito dell’iniziativa per l’imprenditoria sociale istituita dalla Commissione nella sua comunicazione del 25 ottobre 2011 Iniziativa per l’imprenditoria sociale – Costruire un ecosistema per promuovere le imprese sociali al centro dell’eco­nomia e dell’innovazione sociale. Tale regolamento «stabilisce requisiti e condizioni uniformi per i gestori di organismi di investimento collettivo che intendono utilizzare la denominazione “EuSEF” in relazione alla commercializzazione di fondi qualificati per l’imprenditoria sociale nell’Unione, contribuendo così al corretto funzionamento del mercato interno» (art. 1 reg. 346/2013/UE). Le ultime modifiche ai citati regolamenti sono state recepite dal diritto italiano con il d.lgs. 2 agosto 2022, n. 113, recante Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE)2017/1991 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2017, che modifica il regolamento (UE) n.345/2013 relativo ai fondi europei per il venture capital e il regolamento (UE) n. 346/2013 relativo ai fondi europei per l’imprenditoria sociale.

[57] Si pensi all’art. 25 d.l. n. 179/2012 che, introducendo l’“impresa startup innovativa”, precisa che le “disposizioni della presente sezione intendono (...) contribuire allo sviluppo di nuova cultura imprenditoriale (...)”. Ma lo stesso spirito è anche al fondo della rinnovata terminologia della disciplina della crisi, come conferma la relazione accompagnatoria al d.lgs. n. 14/2019.

[58] In argomento v. ora D. Galletti, Le politiche di gestione del rischio. Modelli giuridici per l’assunzione delle decisioni d’impresa, cit., passim.

[59] È da condivide, infatti, alla luce del testo vigente, la critica mossa da C. Golino, Prospettive per una nuova valorizzazione della libertà di iniziativa economica di giovani e donne nel framework legislativo europeo e nazionale, cit., 28, per la quale in “mancanza di una strategia volta a valorizzare una azione imprenditoriale competitiva e concorrenziale di questi soggetti [giovani e donne, nda], immaginando di costruire delle riforme di tipo strutturale che prevedano, ad esempio, un vero e proprio sistema di educazione all’imprenditoria volto a far emergere la cultura dell’impresa attraverso una formazione dedicata e specifica, un sistema efficace di alfabetizzazione finanziaria e misure per facilitare l’accesso al credito bancario, misure che riportino ad un reale equilibrio tra le responsabilità familiari e professionali delle donne, misure di sostegno durante la vita dell’impresa, e non solo misure per il suo avvio, considerato che esiste a tutt’oggi un alto tasso di mortalità”.

[60] Quello dei contratti pubblici è un contesto normativo che il legislatore spesso utilizza per indurre le imprese a tenere comportamenti coerenti con finalità di carattere pubblicistico (ad esempio ambientale e sociale), favorendo (senza obbligarle) le imprese che volontariamente si adeguino (in argomento sia consentito il rinvio ad A. Caprara, I principi di corretta amministrazione. Struttura, funzioni e rimedi, cit., 295 ss., ove riferimenti). Recentemente lo stesso schema logico-normativo ha costituito il terreno per favorire anche la parità di genere con l’art. 47 d.l. n. 77/2021 (c.d. Decreto Semplificazioni 2021) su cui v., per un primo commento, I. Gobbato, L. De Menech, Le misure introdotte per la garanzia della parità di genere e il coinvolgimento dei lavoratori disabili, anche in relazione agli appalti pubblici e ai progetti del PNRR, in Lavoro Diritti Europa, 4/2021, 1 ss.

Fascicolo 5 - 2022