Il modello giuridico del trust è ‘permeato’ in svariati Paesi del mondo occidentale, ivi inclusi quegli ordinamenti le cui radici giuridiche affondano nella civil law. In Italia, nell’ultimo ventennio, l’istituto ha registrato una diffusione esponenziale, dando vita, tra l’altro, ad una copiosa produzione giurisprudenziale da parte della Corte di Cassazione. I vantaggi dello strumento del trust sotto i profili della flessibilità, praticità d’uso, economicità e professionalità del gestore del fondo fanno comprendere come il modello giuridico del trust sia circolato nel nostro ordinamento, peraltro in branche del diritto tra loro eterogenee. I giuristi italiani hanno dunque fatto ‘shopping’ di un istituto che nel nostro ordinamento non trovava (e ancora ad oggi non trova) eguali. In particolare, il trust si è dimostrato particolarmente efficace per il passaggio generazionale, per la tutela del patrimonio in ambito familiare nonché per perseguire fini filantropici. Tuttavia, l’Italia si pone in contrasto con la tendenza di vari ordinamenti di civil law, come la vicina Repubblica di San Marino, che hanno già tradotto il trust all’interno della legislazione domestica. Tra interventi normativi settoriali e disorganici, sembra aver preso spazio l’interessante proposta del d.d.l. 1452/2019, la cui portata innovativa consiste nel forgiare uno strumento ‘domestico’, l’affidamento fiduciario, che possa competere con l’istituto di matrice anglosassone.
Parole chiave: Trust – affidamento fiduciario – Convenzione dell’Aja – civil law – ESG.
The legal model of trust has ‘permeated’ in various countries of the Western world, including those whose legal roots lie in civil law. In Italy, in the last twenty years, the instrument has seen an exponential spread, giving rise, among other things, to a copious production of case law by the Court of Cassation. The advantages of the trust instrument in terms of flexibility, practicality of use, cost-effectiveness and professionalism of the trustee show how the legal model of the trust has circulated in our legal system, albeit in heterogeneous branches of the law. Italian jurists have therefore 'shopped' for an institution that was (and still is) unparalleled in the Italian legal system. In particular, the trust has proved to be particularly effective for generational transfers, for the protection of family assets and for philanthropic purposes. However, Italy is in contrast with the trend of various civil law systems, such as the neighbouring Republic of San Marino, which have already translated the trust into their domestic legislation. Amidst sectorial and disorganised regulatory interventions, the interesting proposal of d.d.l. 1452/2019 seems to have gained ground, whose innovative scope consists in forging a ‘domestic’ instrument, the ‘affidamento fiduciario’, to compete with the Anglo-Saxon instrument.
Keywords: Trust – trusteeship – Hague Convention – civil law – ESG.
1. Lo strumento del trust: struttura e funzionamento - 2. Il successo del trust in Italia: le possibili applicazioni - 3. Il trust come modello giuridico: la metabolizzazione nel nostro ordinamento - 4. Spunti comparatistici: il vicino (e buon) esempio della Repubblica di San Marino - 5. La prospettiva di una disciplina interna: il d.d.l. Riccardi sul contratto di affidamento fiduciario - NOTE
A più di trent’anni dalla ratifica in Italia della Convenzione dell’Aja del 1985, sorge spontaneo interrogarsi su quali siano i punti di arrivo dello sviluppo del trust in Italia. Nonostante le numerosissime pronunce giurisprudenziali sul tema, il legislatore italiano, discostandosi dalla tendenza riscontrata negli altri ‘vicini’ ordinamenti di civil law [1], non ha adottato una disciplina organica sull’istituto, limitandosi ad alcuni sporadici interventi circoscritti, tra l’altro, alla materia fiscale. Ancora ad oggi, infatti, il giurista italiano che redige l’atto istitutivo di trust deve richiamare una legge regolatrice straniera, scegliendola tra quegli ordinamenti che già possiedono una loro normativa.
Prima di poter analizzare lo stato dell’arte del trust in Italia e di delinearne le possibili prospettive evolutive, occorre fare qualche passo indietro.
Lo strumento del trust nasce nell’impianto sociale e normativo dell’Inghilterra medievale [2] e può essere rappresentato, in linea generale, come un rapporto giuridico atto principalmente a scindere la legal ownership dalla beneficial ownership, dando vita ad una segregazione patrimoniale. L’effetto segregativo ha come principale conseguenza l’impossibilità da parte dei creditori personali del trustee di aggredire i beni conferiti in trust [3]. Sebbene una segregazione perfetta [4] comporterebbe anche una irraggiungibilità del patrimonio personale del trustee per i creditori del trust, ciò non si verifica nel diritto inglese: non vi è reciprocità del fenomeno segregativo, dal momento che il concetto di separazione patrimoniale mira alla protezione dei beneficiari e non a salvaguardare i beni del trustee, sicché quest’ultimo risponde anche con il proprio patrimonio dei debiti incorsi durante l’attività di amministrazione e gestione del trust [5]. Inoltre, affinché il trustee venga esonerato da responsabilità, non è sufficiente che quest’ultimo dichiari di agire come trustee, ma che emerga dall’interpretazione del contratto nel suo complesso un’evidente intenzione delle parti di escludere tale responsabilità personale. Tuttavia, la reciprocità nel fenomeno di separazione non è esclusa aprioristicamente in altri ordinamenti appartenenti all’area culturale di diritto inglese. Ad esempio, in Jersey e Guernsey, due importanti poli per il mercato delle società di trustees, nonché, come si avrà modo di affrontare nel prosieguo, nella Repubblica di San Marino, viene esclusa la responsabilità personale di colui che dichiara di agire come trustee durante una determinata transazione. Particolarmente interessante è il caso della Scozia, dove è stata elaborata a livello dottrinale ed approvata dalla giurisprudenza la ‘dual patrimony theory’ [6].
La peculiarità del trust consiste dunque nel «combinare un effetto reale con un effetto obbligatorio e nel rendere quest’ultimo opponibile ai terzi secondo presupposti e con effetti diversi da quelli ai quali farebbe normalmente ricorso la cultura civilistica» [7]. Tale commistione di effetti reali ed obbligatori è diretta conseguenza della sussistenza, all’interno dello stesso strumento giuridico, di legal e equitable interests. Nello specifico, è opportuno soffermarsi sulla natura dei diritti che sorgono in capo ai beneficiari una volta che il trust è stato validamente costituito. Innanzitutto, si è soliti pensare ai legal interests come diritti in rem, opponibili dunque ai terzi in generale, ed agli equitable interests come diritti in personam, i quali produrrebbero effetti obbligatori nei confronti di un limitato numero di soggetti [8].
In sintesi, è possibile affermare che, nel caso di controversie concernenti le dinamiche interne del trust (ad es. l’amministrazione e i doveri del trustee) i beneficiari potranno esercitare diritti in personam nei confronti del trustee, mentre, qualora i beneficiari si ritrovassero a dover rintracciare e riprendere possesso di un determinato bene presente nel fondo in trust, gli stessi avranno diritto di agire in rem direttamente contro il terzo [9].
Come già intuibile dall’analisi fin qui svolta, la struttura del trust consta di tre principali figure: il disponente, il trustee e i beneficiari. Il disponente è il titolare dei beni oggetto di trasferimento e colui che istituisce il trust, fornendo indicazioni al trustee riguardo l’amministrazione dei beni conferiti e ritenendo eventuali poteri o determinati diritti nel caso in cui fosse anche beneficiario. Il trustee è, invece, il destinatario del trasferimento e si occupa dell’amministrazione del trust, seguendo le disposizioni del disponente e nell’ottica di conseguire il miglior interesse dei beneficiari. I beneficiari, infine, sono coloro che ‘beneficiano’ concretamente dei beni conferiti in trust. Essi possono essere preventivamente determinati dal disponente oppure, come succede nei discretionary trusts, possono essere identificati successivamente mediante l’esercizio del relativo potere di nomina da parte del trustee o di un soggetto terzo, incluso il disponente ed eventuali fixed beneficiaries.
All’interno della struttura-base delineata, spesso emerge anche una quarta figura, quella del guardiano. Il ruolo del guardiano è stato elaborato nella pratica come ‘marketing tool’ per incentivare la creazione di trust, con la consapevolezza di avere un soggetto ulteriore a protezione degli interessi e delle volontà del disponente. Lo spazio d’azione del guardiano consiste principalmente in poteri di veto nei confronti delle decisioni del trustee e, più raramente, anche in poteri gestori e di revoca.
Un ulteriore punto di interesse è certamente il tema della natura giuridica dell’atto istitutivo di trust. Invero, ci si interroga se l’atto istitutivo abbia natura contrattuale, come propriamente intesa all’interno dell’ordinamento giuridico italiano. Per rispondere a tale quesito è opportuno partire dal fatto che la relazione fra il disponente ed il trustee non ha natura contrattuale: la creazione del trust, infatti, consiste in una dichiarazione unilaterale da parte del disponente, il quale può ritenere poteri e diritti per sé stesso. Il rapporto fra il disponente ed il trustee, avendo ad oggetto i beni conferiti in trust, non termina, infatti, con la morte di una delle parti, come avverrebbe nel caso di una relazione contrattuale basata su un rapporto di fiducia. Di conseguenza, il trust prenda vita da un atto giuridico, nello specifico da un atto «unilaterale programmatico, recettizio e soggetto a rifiuto (tranne nel caso in cui disponente e trustee coincidano)» [10]. Tuttavia, nonostante la contestualizzazione del trust come atto giuridico all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, rimane una difficoltà nell’individuazione della causa che dà vita a tale rapporto, essendo quest’ultima totalmente estranea al sistema legale inglese dove l’istituto è nato. Riprendendo l’approccio giurisprudenziale [11], la causa dell’atto istitutivo consiste nel programma della segregazione di posizioni soggettive, al servizio del compito affidato al trustee. L’atto istitutivo è poi strettamente legato agli atti dispositivi attraverso i quali vengono trasferite al trustee le posizioni soggettive delle quali egli si avvarrà per attuare il programma delineato dal disponente. In tal senso, i negozi dispositivi presentano una causa tipica, consistente nel preciso compito conferito al trustee. Se all’interno dei trust testamentari ed autodichiarati [12] l’atto istitutivo e gli atti dispositivi coincidono, nei trust inter vivos essi possono presentarsi distinti a livello documentale e, in riferimento a quelli dispositivi, intervenire anche in un momento successivo.
Per quanto concerne gli elementi costitutivi, i requisiti per una valida creazione del trust sono ravvisabili nelle cosiddette tre certezze: certezza nell’intenzione di costituire il trust (certainty of intention), certezza nella composizione del fondo in trust, ossia il fatto che i beni conferiti siano agevolmente identificabili (certainty of subject) e la certezza nella determinazione dei beneficiari (certainty of object). In riferimento alla prima certezza, è possibile affermare che l’intenzione manca quando il disponente riservi per sé stesso una vasta gamma di poteri, controllando di fatto ogni azione del trustee. La certezza del subject del trust mira a escludere la validità del trust stesso qualora i beni conferiti siano di difficile identificazione, lasciando ampio spazio, invece, riguardo la natura dei diritti da conferire: è infatti possibile trasferire al trustee un diritto assoluto, un diritto relativo, un diritto reale, un diritto di credito o anche una posizione beneficiaria rispetto ad un preesistente trust. Infine, per quanto concerne l’ultima delle tre certainties, è nullo il trust che definisca i beneficiari in modo così vago da non fornire al giudice gli strumenti necessari per appurare se un soggetto sia effettivamente o meno un beneficiario. A livello di regola generale, i beneficiari possono essere individuati nominativamente, come classe di beneficiari, per mezzo di altri criteri o attraverso l’esercizio, anche successivo all’atto istitutivo, di un potere di nomina. Nella circostanza in cui i beneficiari non siano individuati nominalmente o per categoria, i criteri di identificazione non conducano ad individuazione alcuna (almeno momentaneamente) oppure in cui il potere di nomina non sia ancora stato esercitato, il trust viene considerato comunque valido: il trustee amministrerà il fondo in favore del disponente o, in caso di morte, dei suoi eredi.
In riferimento, invece, al funzionamento del trust, i rapporti interni sono caratterizzati dall’esercizio di determinati poteri e dall’adempimento di specifici doveri. I poteri, all’interno della struttura di un trust, possono essere analizzati, innanzitutto, in base al loro oggetto: da un lato poteri dispositivi, i quali, comportando atti di disposizione del fondo in trust, sono diretti essenzialmente alla distribuzione dei beni in trust ai beneficiari designati; dall’altro, poteri gestionali, ossia tutte quelle facoltà di cui il trustee è dotato per amministrare il trust. Dal punto di vista della natura dei poteri, si avranno poteri fiduciari, che devono essere esercitati per l’interesse dei beneficiari e sui quali l’organo giurisdizionale competente può esercitare un controllo. Tali poteri sono strettamente legati, inoltre, ai doveri fiduciari che sorgono in capo al trustee e, laddove contemplato, anche al guardiano. È interessante notare come il concetto di doveri fiduciari rappresenti una categoria aperta, in via di sviluppo, e quindi sensibile al mutare della società. Ecco che, con la tendenza ad una sempre più consapevole pianificazione patrimoniale, il trustee del XXI secolo, operando nel perimetro dei suoi doveri fiduciari, deve tener presente anche i fattori ESG (Environmental, Social, Governance) nella sua attività gestoria del fondo in trust, in particolar modo quando la stessa implica di porre in essere anche strategie di investimento [13].
Contrapposti a quelli fiduciari sono i poteri personali o bare powers, esercitabili anche per il proprio tornaconto personale. Infine, in base all’obbligatorietà o meno dell’esercizio, si distinguono i trust powers, poteri che devono essere esercitati, ma che lasciano un certo spazio d’azione riguardo le modalità di esercizio, ed i mere powers, il cui esercizio e modalità sono entrambi discrezionali. Il disponente, per assicurarsi che le proprie volontà vengano rispettate, non ha a sua disposizione solo lo strumento dei poteri, ma anche quello della lettera di desideri [14]: ovvero un documento confidenziale, rilasciato dal disponente al trustee, che funge da linea guida per l’esercizio di poteri discrezionali attribuiti a quest’ultimo. È bene specificare che le lettere di desideri che spesso accompagnano un trust testamentario ma che possono essere ritrovate anche nei trust inter vivos, non hanno efficacia legale vincolante: sarà il trustee a valutare se, quanto espresso dal disponente, sia comunque diretto al perseguimento del migliore interesse del trust e dei beneficiari.
Il trust, dunque, si esplica essenzialmente nella gestione da parte di un soggetto (trustee) di un patrimonio mirata al raggiungimento degli obiettivi prefissati dal disponente che, nella maggior parte dei casi, coincide con il soggetto che si priva di tale patrimonio per destinarlo alla realizzazione dei predetti obiettivi [15]. Il programma predeterminato consiste nell’attribuire un vantaggio ad uno o più soggetti (beneficiari) oppure nel perseguire uno specifico scopo. In linea generale, dunque, il trust, nel concreto, può rivelarsi uno strumento utile ogniqualvolta vi sia un soggetto con un particolare obiettivo da perseguire con riferimento ad un determinato patrimonio.
Già solo da una considerazione di questo tenore emerge quanto il trust sia uno strumento flessibile, che prevende una struttura sufficientemente ampia da adattarsi e far fronte alle più disparate esigenze. Tale duttilità viene confermata dalla possibilità di scegliere uno o più trustee, di predeterminare i beneficiari o di predisporre un discretionary trust (con successiva nomina dei beneficiari), di scegliere la legge regolatrice del trust e, eventualmente, una legge diversa per l’amministrazione del fondo (che corrisponderà alla legge della giurisdizione in cui risiede il trustee).
Il principale merito del trust rimane, però, la capacità di dar vita ad un fenomeno di segregazione patrimoniale, nello specifico fra quello che è il ‘patrimonio’ del trust, costituito dai beni conferiti dal disponente nel fondo, e il patrimonio di colui che gestisce ed amministra il fondo, ossia il trustee. L’effetto segregativo che nasce dal rapporto giuridico che si instaura con il trust fornisce sicurezza e separazione principalmente sotto tre profili [16].
La prima protezione che ne deriva consiste nel proteggere il fondo in trust da tutte le vicende personali che possono avere un impatto negativo sulla persona e sulla sfera patrimoniale del trustee. Così anche nel caso di fallimento, pretese creditorie o aggressioni patrimoniali dei più disparati generi del patrimonio del trustee, il fondo costituito rimarrà intatto.
Il secondo profilo di protezione si riferisce, invece, agli eventi che possono colpire, in questo caso, la figura del disponente. Difatti, i rischi materiali e immateriali che possono colpire il patrimonio di un individuo sono svariati. Una prima categoria di rischi è rappresentata dalle vicende personali del disponente che possono avere un impatto negativo sul suo patrimonio. Si pensi, ad esempio, all’insorgenza di problemi di salute, ad una morte improvvisa oppure a mutamenti dell’assetto familiare dovuti a crisi coniugali, apertura della successione, atti pregiudizievoli da parte di un familiare titolare di determinate posizioni beneficiarie. Inoltre, rappresentano un’altra fonte di rischio i possibili mutamenti ed instabilità politiche o i disastri ambientali. Ancora, possono presentarsi anche rischi c.d. immateriali, come ad esempio situazioni di disarmonia ed inerzia che minino la gestione unitaria e concorde del patrimonio familiare, circostanze di incompetenza, una family governance inadeguata o una mala gestio con riguardo a specifici asset. Il punto è indubbiamente rilevante se si tiene in considerazione il fatto che alcuni studi hanno rilevato che il 70% delle famiglie, infatti, perde la propria ricchezza dopo la seconda generazione ed il 90% dopo il passaggio a quella successiva [17]. Da qui, si avverte spesso l’esigenza di proteggere l’assetto economico familiare da vicende personali o esterne che possano inaspettatamente creare nocumento ad esso, anche se solo in una mera ottica di pianificazione patrimoniale. L’obiettivo di raggiungere un tale livello di protezione non deve, tuttavia, dilatarsi in modo tale da deviare la stessa causa fiduciaria del trust verso configurazioni di tipo patologico. In altre parole, non è da considerarsi meritevole di tutela quel trust costituito da un disponente a cui sono già ben note delle fondate pretese creditorie nei suoi confronti, dal momento che la relativa costituzione sarebbe da subito soggetta ad azione revocatoria.
La terza sfera giuridica che gode della protezione offerta dal trust è quella dei beneficiari. La segregazione dei beni nel fondo in trust permette di attribuire, rispettando i limiti imposti dal diritto successorio applicabile, il patrimonio o specifici assets ai beneficiari nei termini e nei tempi ritenuti più opportuni dal trustee nell’interesse dei beneficiari stessi, in armonia, laddove ciò fosse possibile, con quanto espresso dal disponente nella lettera di desideri. Un tale obiettivo è particolarmente sentito, come si vedrà in seguito, laddove l’attribuzione da parte del trustee faccia conseguire, in capo al beneficiario, anche determinate responsabilità, come spesso avviene nei passaggi generazionali di imprese familiari. Ancora, non sono di certo infrequenti i trust liberali che presentino delle finalità di natura assistenziale, specificatamente costituiti dunque con l’obiettivo di tutelare anche sotto il profilo patrimoniale soggetti beneficiari che risultino impossibilitati nel far fronte alle proprie esigenze.
Un ulteriore vantaggio della scelta del trust per la propria pianificazione patrimoniale è dato dalla economicità propria di tale strumento. Infatti, è solo una erronea convinzione culturale quella che vede il trust come strumento riservato ai soli detentori di grandi patrimoni. Se è vero che, come è possibile evincere spesso dai media, il trust è da secoli utilizzato dai personaggi e dalle famiglie più facoltose, ciò non implica necessariamente che l’istituto non sia alla portata di tutti. Il costo del trust si compone di due parti principali: la progettazione e redazione dell’atto istitutivo e l’onorario riservato al trustee. Per quanto concerne la prima, i costi una tantum di progetto e istituzione consistono principalmente nelle spese notarili. Non è possibile standardizzare l’entità dei costi, in quanto essa dipende fortemente dalla complessità dell’operazione che si richiede e dell’insieme di beni che si vuole conferire. Tuttavia, quello della parcella notarile rimane comunque un costo che normalmente si affronta quando si pone in essere un atto di liberalità, come avviene ad esempio per la più classica donazione, e non rappresenta dunque una spesa legata al solo strumento del trust, ma un onere economico che si andrebbe ad affrontare anche percorrendo altre vie. Con riguardo, invece, all’onorario del trustee, è possibile effettuare la stessa considerazione preliminare. Anche in questo caso, benché siano diverse le motivazioni, risulta impossibile fornire un costo standard, in quanto esso dipenderà significativamente dalla tipologia di beni detenuti e, in particolare, dall’attività richiesta dal professionista per la gestione di taluni beni. È chiaro che per un trust che detiene, ad esempio, il controllo di una holding di famiglia che governa a sua volta decine di società sottostanti, l’onorario del trustee sarà consistente, in quanto, in tali circostanze, il professionista dovrà necessariamente farsi affiancare da altre figure, come investment advisors o asset management companies, nell’espletamento delle sue funzioni. Tuttavia, per i trust liberali più semplici, che non richiedono un’attività gestoria complessa, il compenso del trustee risulta essere una spesa assolutamente sostenibile [18]. La tendenza più recente è quella di fissare una somma annuale che copra le attività ordinarie, alla quale verrà poi aggiunto un compenso per eventuali ulteriori attività, spesso calcolato su base oraria.
Da ultimo, e non di certo per importanza, è di estrema rilevanza ai fini della pianificazione patrimoniale il ruolo svolto dal trustee. Un aspetto positivo che da subito emerge nella scelta di una figura professionale per la gestione del patrimonio è quello della riservatezza garantita dal professionista riguardo questioni, talvolta anche complesse, che possono concernere la vita privata del disponente e dei beneficiari oppure taluni beni contenuti nel fondo in trust. L’aspetto di confidenzialità cui si fa riferimento attiene più che altro a delle esigenze, spesso di natura personale, cui il trustee ha compito di far fronte. Il disponente normalmente espone tali necessità al trustee attraverso lo strumento della lettera di desideri, talvolta indicando anche i criteri alla luce dei quali dovrebbe avvenire la distribuzione ai beneficiari. Si pensi, ad esempio, al caso in cui il disponente abbia due figli, uno più responsabile e già avviato all’attività lavorativa ed un altro meno maturo. Il disponente potrà dunque comunicare tali circostanze al trustee, il quale, a sua volta, andrà ad effettuare (sempre a titolo esemplificativo) nei confronti del primo delle attribuzioni in virtù delle quali possano anche derivare determinate responsabilità (come, ad esempio, l’attribuzione di partecipazioni sociali) mentre a favore del secondo effettuerà con cautela e sempre nel rispetto delle norme di diritto successorio, delle elargizioni in denaro che siano utili al suo sostentamento e non dunque beni per la cui gestione tale soggetto si troverebbe impreparato.
Un ulteriore effetto benefico derivante dalla scelta di una figura professionale e competente quale trustee, ruolo che molto spesso viene assunto da una Trustee Company specializzata nella gestione ed amministrazione di trust, è indubbiamente quello di porre in essere tecniche gestorie che abbiano l’obiettivo di mitigare i rischi. Questo perché la globalizzazione delle famiglie e delle loro esigenze patrimoniali e personali ha contribuito ad indirizzare la pianificazione patrimoniale verso fenomeni di transnazionalità, i quali richiedono un alto livello di preparazione in capo ai professionisti al fine di poter rispondere efficacemente alle esigenze del proprio cliente [19]. Ecco che allora sempre più spesso il trustee viene affiancato da investment advisors per attuare strategie di diversificazione del portafoglio, consistenti, appunto, in una riduzione della rischiosità del relativo rendimento [20].
Si può dunque comprendere, alla luce degli svariati benefici che lo strumento comporta, come sia possibile ritrovare il trust all’interno di più branche del diritto. La funzione primaria è indubbiamente quella della tutela patrimoniale per fini successori, sia per predisporre un passaggio generazionale sicuro e consapevole, sia per evitare sperperi ad opera di soggetti poco portati ad una buona amministrazione. Il trustee, infatti, oltre ad essere una persona di ‘fiducia’, può fornire una importante expertise nella gestione di specifiche transazioni ed investimenti, proteggendo (si pensi, ad esempio, ad un piano di accumulo del capitale) il patrimonio interessato ed il suo titolare da eventuali atti di prodigalità da parte di quest’ultimo. Tuttavia, è possibile affermare che il trust si sia consolidato anche in ulteriori contesti. Penso, ad esempio, all’ambito societario, come nei casi di trust per l’affidamento di partecipazioni sociali, di employment benefit trust per facilitare le transazioni di private equity e di trust liquidatorio. Nel contesto, invece, del diritto processuale civile si rinvengono il trust di garanzia quale sequestro convenzionale e il trust per garantire una situazione debitoria, ritenuti entrambi strumenti in grado di ovviare alle inefficienze dei relativi istituti già presenti nell’ordinamento. In materia di pubblica amministrazione, poi, il trust è ampliamente utilizzato per la gestione di fondi pensione. Negli Stati Uniti, inoltre, si ricorre al cosiddetto ‘qualified blind trust’, disciplinato dalla section 208 del titolo 18 United States Code, per evitare conflitti di interesse di natura finanziaria da parte di dipendenti pubblici, inclusi i vertici di agenzie federali quale l’FBI ed i giudici federali.
Detto ciò, per quanto riguarda più precisamente la pianificazione, è bene osservare preliminarmente che i patrimoni moderni sono sempre più caratterizzati da un alto grado di complessità, dovuto principalmente alla diversa natura dei beni che lo compongo, come, a titolo esemplificativo, proprietà immobiliari, beni mobili registrati, conti bancari esteri, partecipazioni societarie, polizze vita ed investimenti finanziari di disparato genere, tra cui, in tempi recenti, investimenti in criptovalute e NFT. Tale complessità implica l’esigenza di una attenta pianificazione ed organizzazione del patrimonio stesso, in modo da preservarlo, ottimizzarlo ed incrementarlo, in un’ottica di tax-efficiency, per poi trasmetterlo alle generazioni future. L’accennata duttilità del trust fa sì che tale strumento assolva perfettamente questa funzione, permettendo un passaggio generazionale che più si adatti alle esigenze del singolo disponente e della sua famiglia. Il trust, in tale contesto, può essere costituito inter vivos, come atto di liberalità da parte del disponente, oppure può essere annesso alle sue ultime volontà, assumendo la forma, in questo caso, di trust testamentario.
Nella specifica ottica della pianificazione patrimoniale, spicca una particolare tipologia di trust, mirata alla conservazione e protezione del patrimonio da soggetti terzi che potrebbero interferire con esso: quella degli asset protection trust. Pur non sussistendo una chiara definizione di ‘asset protection trust’ a livello normativo, è possibile affermare che esso sia un trust con caratteristiche peculiari che lo rendono unico nel suo genere. Nello specifico, il disponente di un asset protection trust è incluso nella classe di beneficiari o rappresenta l’unico beneficiario secondo i termini dell’atto istitutivo. Inoltre, la struttura del trust, inclusi il trustee, la proper law del trust e, nei limiti possibili, i beni conferiti in trust, si presenta localizzata interamente off-shore. Infine, un asset protection trust contiene generalmente una flee clause, ovvero una clausola all’interno dell’atto istitutivo mediante cui, al verificarsi di un determinato evento ‘trigger’, i beni conferiti in trust, il trustee ed il foro di amministrazione del trust vengono trasferiti automaticamente in un’altra giurisdizione (tipicamente una giurisdizione trust-friendly che presenti, al momento del trasferimento, condizioni più favorevoli per la sopravvivenza del trust rispetto alla giurisdizione di origine), senza bisogno di un ulteriore intervento proattivo da parte del trustee o del disponente. È interessante notare come le flee clauses, contenute in vari asset protection trust off-shore, abbiano sollevato problemi durante la pandemia dovuta alla diffusione del COVID-19, in particolare, a fronte della dichiarazione di ‘stato di emergenza’ da parte di alcune giurisdizioni, circostanza contemplata in diversi trust quale evento ‘trigger’.
È chiaro, dunque, come un tale strumento possa rendersi appetibile per quei soggetti che mirano a proteggere o preservare determinati beni da creditori personali o da altri soggetti che potrebbero vantare pretese. Le possibili (e temibili) rivendicazioni includono, ex multis, azioni per inadempimento contrattuale, azioni di riduzione per lesione di quote di legittima, azioni revocatorie da parte di creditori personali o coniugi in regime di comunione dei beni ed azioni revocatorie fallimentari esperite dal curatore.
Una tale tipologia di trust, tuttavia, non può avere come unica causa giustificatrice, perlomeno in Italia, l’intenzione del disponente di sottrarre determinati beni alla garanzia generica riconosciuta in favore dei creditori dall’art. 2740 cod. civ. in quanto, se così fosse, si andrebbe a costituire una fattispecie di trust orientato al perseguimento di interessi non meritevoli di tutela.
Tornando alle possibili applicazioni del trust, la flessibilità, l’efficienza e l’economicità menzionate pocanzi, rendono tale strumento adatto anche per perseguire fini altruistici. In particolare, la qualifica del trust come ONLUS può dar vita ad una struttura giuridica in grado di intervenire efficacemente in tutti quei settori fondamentali della parte più fragile e indifesa della società nazionale ed internazionale, tra cui si annoverano la beneficenza, l’assistenza agli indigenti, la tutela ambientale e la promozione e valorizzazione del patrimonio culturale. Inoltre, garantisce ai soggetti che la ricevono rilevanti agevolazioni fiscali [21].
Il trust ONLUS può assumere un ruolo di particolare rilevanza, inoltre, in contesti di calamità naturali, come il più idoneo strumento per efficacia, efficienza e flessibilità nell’attuazione di interventi di solidarietà umana. Nello specifico, il d.l. n. 35/2005 ha predisposto un sistema di premi fiscali nei confronti di soggetti che effettuano erogazioni in denaro o in natura a beneficio di un ente ONLUS [22]. Tale sistema risulta incentivante per una raccolta fondi immediata che è essenziale per fronteggiare situazioni emergenziali quali calamità naturali. Un esempio pratico all’interno dell’ordinamento italiano è il ‘Trust Terremotati di Accumoli e Amatrice’, istituito nella tragica circostanza del terremoto che ha colpito l’Italia Centrale nel 2016. Ancora, lo strumento del trust è stato utilizzato anche per fronteggiare alcune delle tragiche conseguenze della pandemia: è il caso del Trust ‘Uniti oltre le attese’ ONLUS, istituito da BPER Banca nella primavera del 2021 a sostegno delle famiglie più bisognose degli infermieri deceduti a causa del COVID-19.
I trust con uno scopo di pubblica utilità si rilevano utili anche ai fini di promozione culturale. Ne è un esempio il progetto intrapreso dall’istituzione ‘Bologna Musei’ [23] che il 23 luglio 2020 ha istituito, primo nel suo genere in Italia, il Trust per l’Arte Contemporanea con lo scopo di contribuire al posizionamento della città di Bologna come una delle capitali dell’arte contemporanea. Altrettanto esemplificativo è l’Italian Art Trust ONLUS, ossia un progetto no-profit volto al finanziamento, sostegno e promozione di giovani artisti under 35 attraverso un supporto economico e laboratoriale durante il loro percorso accademico e post-accademico.
Si è visto dunque come gli operatori del diritto in Italia hanno trovato nel trust quelle esigenze di flessibilità, efficienza e riservatezza non riscontrabili in altri istituti affini all’interno del nostro ordinamento. Si è dunque verificato un fenomeno di shopping [24] del diritto al di fuori dei confini nazionali, in ordinamenti dove le predette esigenze trovavano una risposta maggiormente efficace.
Il concetto di shopping del diritto non è un qualcosa di avulso al sistema giuridico italiano ma anzi viene proprio ammesso dalla Convenzione di Roma del 1980 sulle obbligazioni contrattuali, il cui art. 3 stabilisce che i cittadini di uno Stato possano, per contratto, scegliere il diritto di uno Stato terzo, prevedendo quale limite il rispetto delle norme imperative interne. Tuttavia, anche tale limite è superabile laddove apposite convenzioni internazionali lo consentano. È proprio quanto accaduto in materia di trust con la Convenzione dell’Aja del 1985, che ha permesso ai cittadini di Paesi di civil law di fruire di uno strumento assai appetibile come quello del trust così come concepito negli ordinamenti di origine. Seguendo una tale impostazione, «una figura di common law può, per i vantaggi che è suscettibile di offrire, essere utilizzata da cittadini di civil law, senza che un simile innesto provochi rigetto da parte del sistema che lo accoglie» [25].
L’ultranazionalità del diritto statutale, ossia la sua applicazione al di fuori dei confini nazionali dello Stato che lo ha prodotto è uno dei due effetti della globalizzazione dell’economia che, da un lato conduce alla formazione di un diritto non statuale, la lex mercatoria, dall’altra agisce appunto sul principio stesso di nazionalità [26].
Il diritto rappresenta un processo in continua evoluzione e spesso la risposta alle esigenze della nuova società è il frutto di emulazione di modelli giuridici stranieri. Tale orientamento si basa dunque sull’idea di circolazione del diritto. Ciò comporta che laddove determinati ordinamenti siano in grado di plasmare «nuovi e migliori modelli di soluzione di problemi reali» [27] che vengono percepiti anche nei Paesi confinanti, ecco che il modello inizierà a circolare anche in questi ultimi.
Se, tuttavia, in passato la circolazione riguardava principalmente modelli legislativi o metodologie giuridiche, nell’epoca moderna il fenomeno che effettivamente di riscontra è quello della circolazione delle giurisprudenze [28]. Ciò rileva soprattutto se si prende in considerazione il fatto che, in particolare nell’area del diritto civile, le disposizioni legislative (ossia il diritto codificato) hanno bisogno di un adeguamento alle problematiche odierne e dunque di integrazione dei loro contenuti da parte dei giudici [29]. Tale lettura contribuisce ancor di più a giustificare la diffusione del trust oltre i confini del mondo anglosassone, proprio in virtù del fatto che lo stesso è un istituto creato e modernizzato principalmente dalla giurisprudenza. Ecco che nel contesto dell’economia globalizzata cambia anche il ruolo dell’interprete, che è «sempre meno bouche de la loi e sempre più partecipe nella creazione della norma» [30].
D’altronde, è doveroso osservare che i risultati della globalizzazione del commercio internazionale sono ben noti al nostro ordinamento. Ciò anche grazie all’affermarsi di nuove tipologie contrattuali che presentano un carattere di atipicità, non potendo essere rigorosamente ricondotte all’interno delle categorie privatistiche dell’ordinamento ricevente. Tale fenomeno può verificarsi «sia dalla circolazione di modelli contrattuali stranieri sia dalle “rigidità” dei sistemi giuridici interni» [31]. La significativa diffusione internazionale di istituti c.d. atipici condiziona, in virtù di una superiore tutela degli scambi commerciali internazionali, anche l’ingresso degli stessi in ordinamenti che non li contemplano. È il caso, ad esempio, dei contratti atipici internazionalmente uniformi [32] come il contratto autonomo di garanzia che è stato riconosciuto nel nostro ordinamento, passando dunque il vaglio del giudizio di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, cod. civ., onde scongiurarne l’isolamento commerciale. Sarebbe infatti impensabile giudicare nullo un contratto universalmente considerato valido [33]. Le esigenze del commercio internazionale nonché la «permeabilità del nostro ordinamento» [34] hanno dunque ampliato, esprimendoli oltre che rispetto al nostro ordinamento giuridico anche «rispetto ad ordinamenti di omogenea civiltà giuridica» [35], i parametri su cui il giudizio di meritevolezza si fonda, pervenendo gradualmente ad un’operatività del modello giuridico straniero anche nei rapporti puramente interni.
È stato questo lo sviluppo anche del trust nel nostro ordinamento: dapprima, nella sua genesi, percepito come uno strumento riservato alla gestione ed amministrazione di grandi patrimoni transfrontalieri, ed ora, come si è avuto modo di osservare, utilizzato quale strumento di efficace risposta anche nelle stesse contrattazioni domestiche e di minore complessità.
Ogni cammino verso la metabolizzazione di un istituto giuridico ‘straniero’ è, però, contrassegnato da iniziali ostacoli e, come osserva autorevole dottrina [36], in un’ottica di tutela delle nostre radici giuridiche non sempre è augurabile che la composizione del contrasto si svolga con l’assoluta predominanza del modello straniero.
Ciò è inevitabilmente accaduto anche per il trust. È ben nota, infatti, la diversa tradizione giuridica fra ordinamenti di common e civil law, divergenza che si riverbera in vari campi del diritto. Un primo ostacolo al recepimento dell’istituto del trust è attribuibile sicuramente al concetto di ‘proprietà’, il quale, da sempre, ha apportato difficoltà nello sviluppo ed accettazione dell’istituto anglosassone. Il problema è innanzitutto semantico [37]: se nel common law la parola ‘proprietà’ (la cui traduzione più accurata sarebbe ‘ownership’) fa riferimento a determinati beni che appartengono a qualcuno, nell’ordinamento giuridico italiano, come in vari ordinamenti di civil law, essa indica la relazione che un determinato soggetto ha con i beni in questione. Inoltre, il concetto inglese di ‘ownership’ risulta essere più ampio e duttile di quello di ‘proprietà’, potendo esso sdoppiarsi in legal e beneficial ownership, la prima in capo al trustee e la seconda ai beneficiari. Ne consegue che il trustee, vìs-a-vìs il mondo esterno, detiene tutte le facoltà collegate al diritto di proprietà, mentre nelle dinamiche interne del trust i suoi poteri sono limitati a ciò che è espressamente autorizzato dalla legge e dai termini dell’atto istitutivo. Tale frammentazione del diritto di proprietà non è contemplabile, prima facie, da parte di un ordinamento di civil law, all’interno del quale vige un sistema di numero chiuso di diritti reali e dove, quindi, un soggetto o è proprietario o non lo è affatto.
Il mondo del civil law, tuttavia, già prima del formale riconoscimento del trust, non è restato indifferente al concetto di ‘affidamento’ ed ha infatti sviluppato la nozione di atto fiduciario [38], che presenta caratteristiche in parte analoghe al trust anglosassone. È un istituto giuridico in forza del quale un soggetto, chiamato fiduciante, trasferisce ad un altro soggetto, chiamato fiduciario, la proprietà di un bene con il patto che questi utilizzerà il bene secondo le istruzioni impartitegli dal fiduciante e nell’interesse di un beneficiario [39]. Si può parlare di proprietà fiduciaria in senso tecnico, però, solo quando il vincolo impresso sul bene al servizio di un interesse altrui presenta il carattere di un vincolo reale, come nel trust del common law [40]. Tale conseguenza crea una significativa discrepanza fra l’affidamento fiduciario ed il trust, in forza del quale, come osservato, i beneficiari godono di diritti in rem, potendo dunque esperire rimedi nei confronti anche di soggetti terzi al rapporto giuridico in essere. Il beneficiario di un trust risulta dunque in una posizione di netto vantaggio rispetto al beneficiario di un affidamento fiduciario come tradizionalmente concepito.
Il successo del trust sotto questo profilo, l’effetto segregativo che protegge il patrimonio del trust da eventuali attacchi da parte dei creditori del trustee e la maggior flessibilità, garantita a quest’ultimo, nella gestione ed amministrazione del fondo istituito, hanno portato il trust a prevalere su altre figure giuridiche più o meno affini. Riprendendo il discorso sulla circolazione dei modelli giuridici pocanzi affrontato, il trapianto di norme giuridiche è il risultato di un processo competitivo in cui ogni ordinamento produce soluzioni giuridiche diverse per risolvere problemi simili. Ognuna di queste soluzioni entra a far parte di un virtuale «mercato degli istituti giuridici» [41], dove ogni norma è in competizione con le altre, e, al termine di tale processo, sopravvive o soccombe a seconda di quanto si riveli efficiente. Sotto tale profilo, il trapianto del trust negli ordinamenti di civil law sarebbe il risultato di una competizione nella quale abbia dimostrato di essere economicamente più efficiente delle alternative individuate dalla tradizione europea continentale.
Gli ostacoli pocanzi esposti vennero, in realtà, velocemente superati in Italia, che fu il primo Paese di civil law a ratificare la Convenzione con la l. 16 ottobre 1989, n. 364. La Convenzione ottempera a due principali esigenze: da un lato l’armonizzazione delle disposizioni sulla legge applicabile al trust nei Paesi contraenti e, dall’altro, fornire una legal framework per il riconoscimento dei trust come intesi all’art. 2. È bene specificare che le disposizioni sul riconoscimento dei trust esulano dall’applicazione delle regole sul riconoscimento e circolazione delle sentenze straniere, le quali rimangono definite dallo Stato in questione. Invero, le regole sul riconoscimento all’interno della Convenzione sono atte a fornire una guida a tutti i Paesi che non presentano una propria disciplina dell’istituto, in particolare riguardo gli effetti da attribuire ad un trust straniero all’interno del proprio ordinamento giuridico. La Convenzione è il risultato di una riconciliazione fra posizioni e tradizioni giuridiche divergenti appartenenti alle delegazioni di common law e civil law. L’intenzione di conciliare diversi punti di vista si è trasfusa nell’art. 2, all’interno quale, con l’obiettivo di inglobare le sfaccettature dei vari ordinamenti giuridici coinvolti, sono stati volutamente omessi termini come ‘equitable and legal ownership’ e ‘patrimony’, che, come osservato, avrebbero sollevato problematiche da entrambi i lati. L’art. 2 fornisce dunque un’ampia e generica definizione di trust, tanto da spingere alcuna dottrina [42] ad affermare che esso abbia dato vita al cosiddetto «shapeless trust» (ossia il ‘trust amorfo’), essendo stati espunti vari elementi essenziali del modello inglese di trust. Invero, una tale prospettiva tocca un punto critico: l’art. 2 fornisce una definizione talmente ampia di trust da ricomprendere, almeno potenzialmente, svariati istituti affini provenienti dalle più disparate tradizioni giuridiche. Penso, ad esempio, alle fondazioni, alle Stiftung in Liechtenstein, alla patrimoine affectée in Francia o agli Tsos e Family Tongs in Cina. Inoltre, la specificazione di beni ‘posti sotto il controllo del trustee’ non implica necessariamente un trasferimento del titolo di proprietà o anche di un diritto reale in capo a quest’ultimo. Il ‘controllo’ come genericamente inteso all’art. 2 non presuppone infatti un necessario fenomeno di segregazione patrimoniale. La Convenzione sembra dunque non aver fornito una chiara definizione di cosa sia il trust, ma semplicemente aver rimarcato gli istituti giuridici ai quali le disposizioni si applicano.
Sempre con riferimento alle fonti normative, il legislatore italiano non ha ad oggi fornito una disciplina circa l’istituto del trust, limitandosi solo a sporadici e disorganici interventi, prevalentemente in materia fiscale [43].
Il legislatore è intervenuto, dapprima, con la legge Finanziaria del 2007 [44], la quale, modificando l’art. 73 del TUIR [45], ha previsto la tassazione dei redditi prodotti da trust residenti in Italia. Solo dopo dieci anni, è stata emanata la l. 22 giugno 2016, n. 212 (legge sul ‘Dopo di noi’), la quale ha disciplinato, incentivandolo con significativi vantaggi fiscali, il trust nei confronti di soggetti portatori di disabilità gravi [46]. Tali interventi disorganici e distanziati nel tempo indicano un certo «ritardo culturale» [47] all’interno dell’ordinamento, dovuto ad una mancanza di dialogo fra le varie branche del diritto. Il giurista dovrebbe adottare, invece, un ‘approccio poliedrico’ nell’analisi di determinati temi, come l’artista Monet che, osservando la Cattedrale di Rouen, notava le differenti visuali determinate dai toni di luce che si susseguono nel corso della giornata [48].
L’inerzia del legislatore italiano si pone in antitesi con la tendenza degli altri ‘vicini’ Paesi di civil law. Volgendo lo sguardo non troppo lontano, infatti, la Repubblica di San Marino, che, insieme all’Italia, è stata fra i primi cinque Paesi con una tradizione di civil law a ratificare la Convenzione dell’Aja, è stata pioniera nell’emanazione di una legge interna che disciplinasse in maniera organica lo strumento del trust.
Pochi mesi dopo la ratifica della Convenzione, infatti, vennero emanate due leggi: la l. 17 marzo 2005, n. 37 (oggi sostituita dalla l. 1° marzo 2010, n. 42 e successive modifiche), recante una disciplina organica degli aspetti civilistici del trust, e la l. 17 marzo 2005, n. 38 (ad oggi ancora in vigore) per regolamentare gli aspetti fiscali dell’istituto.
La legge di San Marino sul trust replicava fedelmente i capisaldi dello strumento di origine anglosassone che erano stati parzialmente riflessi anche all’interno della Convenzione dell’Aja.
Tuttavia, la legge del 2005, come d’altronde la maggior parte delle leggi allora esistenti in materia di trust, era inevitabilmente basata sul modello legislativo inglese [49] e, in particolare, sul Trustee Act del 1925. Tali normative, che rappresentano ancora ad oggi in diversi Paesi la base della legislazione in forza della quale vengono istituiti i trust, restano, tuttavia, ancorate al modello di trust inglese, rivelandosi inadatte ad operazioni di pianificazione patrimoniale che abbiano carattere transnazionale o che si affaccino al mondo off-shore [50]. Inoltre, fattore ancor più rilevante, i giuristi degli ordinamenti di civil law hanno iniziato ad avvertire l’esigenza di una legislazione che presentasse quei caratteri di organicità e completezza che il modello inglese ontologicamente non presenta, in quanto costantemente alimentato e modificato dal diritto positivo.
È così che nasce modello di trust ‘internazionale’ [51] che si ebbe per la prima volta con la Trust Jersey Law del 1984, emanata in un ordinamento – quello di Jersey – che, nonostante gli influssi passati del common law, si basa prevalentemente sul diritto consuetudinario normanno-francese proprio dei Paesi di civil law. La legge di Jersey con le sue successive modifiche riscosse da subito grande successo e, grazie soprattutto all’attenzione verso il nuovo contesto economico-sociale (ben lontano dalla struttura di matrice medievale su cui la legislazione inglese si basava), riuscì nell’obiettivo di attrarre nel mondo off-shore una vasta clientela internazionale. L’appetibilità della Legge di Jersey, oltre ad aver funzionato da esempio per le altre giurisdizioni off-shore, si è protratta ininterrottamente fino ai nostri giorni, essendo infatti ancora ad oggi la legge regolatrice più utilizzata in materia di trust. Bisogna riconoscere che l’appeal della legge di Jersey non è solamente dovuto al suo respiro continentale ma anche dal fatto che la stessa offre un sistema giudiziario più efficiente, con tempi anche di risoluzione delle controversie decisamente più rapidi.
In un contesto di generale favor del modello di trust internazionale, la Repubblica di San Marino ha sostituito la legge sul trust del 2005 con la l. 1° marzo 2010, n. 42, con l’obiettivo di porsi all’avanguardia nel settore, finanche volendo superare le evoluzioni normative di altri Stati. Il testo di legge del 2010, in sintesi, mira dunque a (i) introdurre una disciplina pienamente compatibile con il tessuto del diritto comune sanmarinese; (ii) regolare in modo coerente ed organico la materia dei trust istituiti per volontà del disponente; (iii) fornire una disciplina moderna del trust, salvaguardando usi distorsivi o fraudolenti dell’istituto [52].
Nello specifico, il nuovo assetto normativo ha innanzitutto modificato i requisiti formali per l’istituzione di un trust, prevedendo che, nel caso in cui l’atto istitutivo inter vivos sia stipulato fuori dalla Repubblica, «ad esso deve essere allegata la dichiarazione di un Avvocato e Notaio della Repubblica di San Marino, il quale ne attesta la validità ai sensi della Legge» (art. 6, comma 1, lett. b). Ancora, lo stesso articolo prescrive l’individuazione di un professionista iscritto nell’Albo degli Avvocati e Notai o dei Dottori commercialisti o dei Ragionieri commercialisti della Repubblica di San Marino nel caso in cui il trustee non sia un soggetto residente nel territorio della Repubblica (art. 6, comma 1, lett. c). In questo modo, si è voluto introdurre il concetto di ‘agente residente’ così da assicurare che i trust di diritto sanmarinese abbiano pur sempre un collegamento con il territorio della Repubblica, anche in quei casi in cui il trust sia stato istituito all’estero o abbia un trustee residente in altro Stato. Ciò, probabilmente, anche in un’ottica di tutela dell’importante ‘mercato del trust’ che ha preso spazio nella piccola Repubblica nell’ultimo ventennio.
All’art. 7, in coerenza con l’obiettivo pocanzi esposto di contrastare eventuali utilizzi abusivi di trust, è stata prevista nell’attestato di trust l’indicazione di elementi minimi ed indispensabili per prevenire fenomeni di riciclaggio.
La nuova legge sanmarinese ha inoltre introdotto delle disposizioni trustee-friendly che prendono come esempio Paesi off-shore quali Jersey, Isole Cayman, Bahamas e BVI, mirate, anche in questo caso, ad incentivare e tutelare il mercato dei trustee sul suolo della Repubblica. In primo luogo, l’art. 18 della l. n. 42/2010 ha previsto un ampliamento della categoria di soggetti che possono assumere la qualifica del trustee, eliminando la precedente rigida formulazione che richiedeva necessariamente per l’aspirante trustee un’autorizzazione dell’Autorità di Vigilanza, che veniva rilasciata in pratica solo a società bancarie, finanziarie e fiduciarie aventi sede ed operanti nel territorio sanmarinese. Le nuove disposizioni in materia di trustee prevedono, invece, un libero accesso alla qualifica per tutte quelle persone, fisiche o giuridiche, che non siano già trustee di oltre tre trust sanmarinesi e che risultino conformi alle normative antiriciclaggio. Ancora, il nuovo art. 47 permette di limitare la responsabilità del trustee nei confronti di terzi in tutti quei casi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ove egli abbia agito nella qualità di trustee. Viene così esclusa la responsabilità del trustee verso terzi: egli risponderà infatti della propria condotta solo nei confronti dei beneficiari e del guardiano.
Su quest’ultimo punto, la legge sanmarinese risulta all’avanguardia anche in materia di tutele offerte ai beneficiari del trust, con disposizioni che non hanno pari negli ordinamenti di diritto civile. L’art. 55, rubricato ‘Azioni di separazione e di recupero’, prevede, infatti, che «qualora il trustee abbia disposto di beni in trust in violazione delle regole dell’atto istitutivo ovvero senza corrispettivo o per un corrispettivo manifestamente inadeguato, [...] qualunque beneficiario e il guardiano hanno diritto di pretendere che l’avente causa dal trustee restituisca i beni al fondo in trust». La tutela diretta del beneficiario nei confronti dei terzi esprime così al meglio il carattere reale del vincolo di cui Galgano, come sopra riportato, parlava proprio con riferimento ai beni conferiti in un fondo in trust.
Da ultimo, è interessante notare come il ruolo del trustee sanmarinese nonché le posizioni dei beneficiari vengono tutelate non solo dalle norme cui si faceva cenno precedentemente, ma anche dal ruolo fondamentale svolto da un particolare organo giudicante, istituto ad hoc per decidere su controversie o quesiti in materia di trust e sul quale mi soffermerò nel prosieguo.
È doveroso osservare, però, che a fianco del modello internazionale, alcuni Paesi hanno iniziato ad avvertire l’esigenza di coniugare lo strumento del trust con una regolamentazione che risultasse ancor più vicina al contesto normativo di civil law. Pioneristica anche sotto questo profilo è sempre la Repubblica di San Marino che, con la l. n. 43/2010, ha introdotto, per la prima volta in un ordinamento di civil law, uno strumento che è astrattamente in grado di porsi in competizione con il trust: il contratto di affidamento fiduciario [53].
La legge, all’art. 1, definisce l’affidamento fiduciario come «il contratto con il quale l’affidante e l’affidatario convengono il programma che destina taluni beni e i loro frutti a favore di uno o più beneficiari, parti o meno del contratto, entro un termine non eccedente i novanta anni». L’affidamento fiduciario disciplinato nell’ordinamento sanmarinese è dunque un contratto tra affidante e affidatario, stipulato per l’attuazione di un programma destinatorio. Il carattere peculiare di tale disciplina risiede proprio nella nozione di ‘programma’, che, vista la funzione ricoperta nello schema contrattuale delineato, assurge a causa del contratto di affidamento fiduciario. L’art. 1 della predetta legge prevede, inoltre, la possibilità che i beni oggetto di affidamento possano essere «presenti o futuri, determinati o determinabili, trasferiti dall’affidante o da terzi all’affidatario ovvero da quest’ultimo vincolati» e che il contratto debba assumere la forma scritta a pena di invalidità. Altro imprescindibile requisito è il parere di un Notaio sammarinese che ne attesti la validità, condizione che persegue lo stesso obiettivo contenuto nella legge di San Marino sul trust, ossia quello di assicurare che i trust di diritto sanmarinese abbiano pur sempre un collegamento con il territorio della Repubblica.
L’effetto di segregazione patrimoniale, essenziale per replicare il meccanismo del trust, è poi sancito all’art. 3, comma 2. Ancora, la legge si allinea al diritto dei trust circa l’individuazione dei beneficiati prevedendo, tuttavia, alcune limitazioni atte, in via cautelativa, a prevenire eventuali abusi. Difatti, nella legge sanmarinese è d’obbligo indicare almeno un beneficiario nel contratto e, nel caso si avessero in mente ulteriori beneficiari, il contratto deve determinare perlomeno il criterio per la loro individuazione.
Una delle disposizioni più interessanti, però, è forse il comma 5 dell’art. 1, il quale prevede che il contratto non sia soggetto a risoluzione tranne nel caso di impossibilità sopravvenuta. La significativa limitazione in termini di possibile risoluzione del contratto ha come obiettivo quello di garantire il più possibile l’attuazione del programma: alla centralità del programma destinatorio consegue, infatti, la necessità di una sua permanente vincolatività affinché lo stesso sia stabile [54].
Tale previsione, sebbene a prima vista peculiare, risulta coerente con la struttura tipica del trust, sia in quanto atto unilaterale sia quale istituto che, al fine di garantire la maggior continuità nella gestione dei beni presenti nel fondo, prevede meccanismi di sostituzione del trustee. Tale dato non è certo sfuggito al legislatore sanmarinese che, sempre al fine di garantire il perseguimento del programma destinatorio, ha inserito le diposizioni di cui agli artt. 5 (rubricato ‘Attuazione del programma destinatorio’) e 6 (rubricato ‘Obbligazioni dell’affidatario’). In particolare, la prosecuzione del rapporto viene ulteriormente garantita dalla possibilità in capo all’affidatario di sostituire altri a sé nei rapporti derivanti dal contratto, sia liberamente sia previo consenso dell’affidante o dei soggetti dallo stesso designati (art. 6, comma 4), nonché dal sistema di autorizzazioni delineato nel contratto in virtù del quale un soggetto diverso dall’affidatario può compiere atti con effetti reali sul patrimonio affidato (art. 5).
Le predette disposizioni, analizzate complessivamente, producono – sebbene con riferimenti concettuali di diritto civile – le stesse conseguenze che si configurano nel diritto dei trust in caso di morte, revoca, dimissioni o incapacità del trustee, ossia la continuazione del rapporto giuridico in essere in capo ad altro soggetto senza che ciò vada in alcun modo ad inficiare il patrimonio affidato ed il suo scopo [55].
Parimenti interessanti sono i primi due commi dell’art. 6, nei quali il caposaldo viene tradotto ‘civilisticamente’ nell’obbligo in capo all’affidatario di comportarsi secondo correttezza e buona fede. Viene specificato, inoltre, che l’affidatario, nell’adempiere alle proprie funzioni «(a) agisce quale fiduciario, tenuto a soddisfare esclusivamente interessi altrui; (b) usa la diligenza che un soggetto avveduto userebbe nelle medesime circostanze rispetto a beni propri; (c) se svolge professionalmente l’attività di affidatario, impiega la competenza che è ragionevole attendersi da un professionista» (art. 6, comma 2).
Sempre nel confronto tra trustee e affidatario, preme osservare come la legge oggetto di disamina affronta il tema della responsabilità dell’affidatario verso terzi: il legislatore sanmarinese ha infatti seguito, seppur estendendo la responsabilità a obbligazioni originate da qualunque fonte, il trend della più avanguardistica legislazione sui trust, prevedendo una limitazione della responsabilità dell’affidatario al solo patrimonio affidato. Nel caso in cui, poi, l’affidatario non dovesse fare menzione della propria qualità prima di assumere contrattualmente un’obbligazione, lo stesso risponderà anche con le proprie sostanze, potendo solo successivamente agire in rivalsa sul patrimonio affidato (art. 9, comma 3).
Da ultimo interessante notare come, invece, in tema di atti compiuti dall’affidatario in assenza di poteri o nel caso di atti ultra vires, non risultando applicabili i rimedi propri degli ordinamenti di equity, la legge sanmarinese prevede che il terzo che contratta con l’affidatario abbia il diritto di esigere in qualsiasi momento che quest’ultimo giustifichi i propri poteri e fornisca copia di quanto disposto nel contratto di affidamento fiduciario.
L’avanguardia sanmarinese in materia di fiducia non si esaurisce con le due leggi fino ad ora analizzate, l’una ispirata al modello internazionale di trust (l. n. 42/2010) e l’altra a creare uno strumento di civil law idoneo ad entrare in competizione con il trust (l. n. 43/2010). Il legislatore, infatti, con legge costituzionale 26 gennaio 2012, n. 1, ha istituito la Corte per i trust ed i rapporti fiduciari con la finalità di offrire risposte pertinenti ed adeguate a questa materia di nicchia.
La Corte ha competenza «per tutti i casi e le controversie in materia di rapporti giuridici nascenti dall’affidamento o dalla fiducia, quali trust, affidamento fiduciario, fedecommesso, istituzioni di erede fiduciario, ed istituti simili, da qualunque ordinamento regolati […]» (art. 1 l. cost. 26 gennaio 2012, n. 1).
Il legislatore sanmarinese, preso atto della necessità di giuristi estremamente qualificati sotto il profilo scientifico e professionale così da poter dare alle parti soluzioni appropriate ed appaganti, ha così istituito una corte che, seppur esercita una giurisdizione ordinaria, gode di un significativo grado di autonomia rispetto al Tribunale.
A fianco a tale esigenza, si è probabilmente avvertita l’esigenza di emulare ciò che accade negli ordinamenti di equity in cui il giudice da sempre svolge un ruolo chiave nella vita del trust, affiancando così al trust e agli altri strumenti fiduciari sanmarinesi un organo giudicante che assume anche una funzione di supporto per il trustee/affidatario nello svolgimento del suo ruolo. Infatti, i trustee che operano negli ordinamenti di equity sono soliti frequentare le aule di giustizia potendo ricorrere al giudice laddove ne avvertissero il bisogno durante il loro ufficio; tale facoltà è quella che nella prassi è chiamata inherent jurisdiction consistente in un «insieme di poteri non determinati e non definiti, ma che consentono al giudice di intervenire sotto molteplici profili nella vita del trust» [56]. Ad esempio, l’art. 7 del decreto delegato 30 settembre 2013, n. 128, che fornisce alla Corte la possibilità di adottare misure cautelari e provvisorie, sembra riflettere il potere di emettere ordini di fare e di non fare delle corti di equity attraverso l’utilizzo delle injunction. Tali strumenti processuali, che possono avere contenuto assai vario, risultano particolarmente efficaci in quanto consentono, con un ampio margine di discrezionalità in capo al giudice, interventi individualizzati per far fronte alle esigenze emergenti nei diversi casi concreti, derogando, così, alla tipicità della tutela inibitoria nell’ordinamento sammarinese che risulterebbe troppo rigida in materia di trust e fiducia [57].
La ratifica della Convenzione dell’Aja da parte dell’Italia ha comportato una sempre maggior diffusione dello strumento del trust, che è culminata nello sviluppo del cosiddetto ‘trust interno’. Tale categoria è oggi comunemente impiegata per designare un trust i cui elementi significativi sono collegati al nostro ordinamento giuridico, ma che è disciplinato da una legge straniera. Inizialmente, tuttavia, la figura del ‘trust interno’ non venne sostenuta ed accolta dalla dottrina, preoccupata dalle ripercussioni che un istituto come il trust avrebbe potuto avere sull’ordinamento giuridico [58].
Nello specifico, principale oggetto di discussione fu l’apparentemente problematico impatto del trust sulla garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 cod. civ. e sul principio del numero chiuso dei diritti reali. Tali obiezioni, tuttavia, sono rimaste circoscritte ad orientamenti dottrinali e giurisprudenziali di carattere minoritario. Difatti, è stato agevole contro-argomentare che la stessa garanzia patrimoniale generica non è da assurgere al rango di supremo (e quindi inderogabile) principio di ordine pubblico economico in quanto, proprio l’art. 2740 cod. civ., al comma 2, prevede che la responsabilità del debitore possa subire delle limitazioni, laddove previsto dalla legge. Il nostro ordinamento, infatti, già conosce limitazioni in questo senso, come, ad esempio, la disciplina del fondo patrimoniale, l’istituto dell’accettazione di eredità con beneficio di inventario o, ancora, i vincoli di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. ed i patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art. 2447-bis ss. cod. civ. [59]. Ecco, dunque, che ci si è interrogati se la Convenzione dell’Aja, oltre a contenere norme di diritto internazionale privato, possa qualificarsi come strumento di diritto materiale uniforme, con la conseguenza di trasformarsi, a seguito di ratifica, in vera e propria normativa interna [60]. Tale interrogativo è stato risolto positivamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, le quali rinvengono nel disposto dell’art. 11 della Convenzione dell’Aja il dato normativo giustificativo che legittima il generarsi di un patrimonio separato ogni qualvolta si istituisca un trust interno dotato delle caratteristiche che lo rendono riconoscibile ai sensi della Convenzione [61]. Pertanto, l’art. 11 della Convenzione dell’Aja, successivo e speciale rispetto alla disposizione codicistica, «ben può costituire l’eccezione (di fonte legislativa) al principio della responsabilità illimitata» [62].
In altre parole, la Convenzione dell’Aja protegge il fenomeno di segregazione patrimoniale che si genera con l’istituzione di un trust mediante l’utilizzo di norme che, una volta completato il processo ratifica, sono a tutti gli effetti norme di diritto interno [63].
Ancora, con riferimento agli altri richiamati profili di problematicità, è possibile sostenere che la posizione giuridica del trustee coincida con l’ordinario diritto di proprietà e, pertanto, non si andrebbe a creare alcun nuovo diritto reale. Altresì da respingere è l’obiezione secondo cui il trust possa configurarsi come strumento idoneo a porre in essere pratiche elusive e frodi nei confronti dei creditori, in quanto l’atto di disposizione dei beni in trust è soggetto ad azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ. come qualsiasi altro atto di alienazione.
Tali obiezioni, infatti, erano più che altro incomprensioni dovute, come si è avuto modo di osservare, agli inevitabili ostacoli che ineriscono alla fase iniziale della circolazione di un modello giuridico e risultano ad oggi superate: la legittimità del trust interno, infatti, alla luce delle considerazioni sopra esposte, non rappresenta più un tema di discussione per la dottrina e la giurisprudenza prevalente.
A seguito della ratifica della Convenzione dell’Aja, infatti, è stato possibile riconoscere in Italia i trust che presentavano i requisiti di cui agli articoli 2 e seguenti. Nonostante ciò, non è mai stata introdotta nell’ordinamento italiano una norma regolatrice dell’istituto, tanto che per la governance interna del trust (per la cosiddetta proper law of the trust) è necessario, come si è già avuto modo di osservare, rifarsi ad una legislazione straniera. Visti l’accoglimento e la conseguente diffusione dei trust interni, si avverte nell’ordinamento l’urgenza di predisporre un’organica regolamentazione del trust. Tale esigenza è confluita dapprima all’interno del disegno di legge delega n. 1151 del 2019, nella cui relazione si osserva che i trust interni sono ormai «una realtà con la quale gli operatori giuridici si trovano quotidianamente a confrontarsi, con notevoli incertezze dovute al fatto che la legge regolatrice va necessariamente rinvenuta in ordinamenti stranieri» [64]. L’art. 1, comma 1, lett. p) [65] invita infatti il Governo a predisporre una disciplina interna, nel rispetto dei principi dell’ordinamento, per la costituzione ed il funzionamento del trust, che inglobi e superi, in maniera coerente ed organica, i già menzionati frammentari tentativi di legificazione (principalmente in materia tributaria) in tema e chiarisca i rapporti dell’istituto con l’art. 2645-ter cod. civ. [66]. Per il vero, il progetto del disegno di legge delega è ancor più ampio dal momento che si propone, alla luce di esempi in altri ordinamenti europei, di fornire altresì una «disciplina sistematica della fiducia e delle sue applicazioni contrattuali, che garantisca in primo luogo un’adeguata tutela dei beneficiari» [67], disciplina purtroppo assente all’interno del codice civile, nonostante, come già osservato, alcune tipologie di affidamenti fiduciari non siano sconosciute all’ordinamento italiano. Il comma 2 prevede, invece, che i decreti legislativi siano adottati entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro della giustizia. Il disegno di legge delega è, tuttavia, ancora pendente innanzi al Parlamento [68] e sarà dunque interessante osservare, in futuro, come si muoverà il Governo all’interno di tale ambizioso progetto.
Un passo forse più concreto, però, è riscontrabile nel disegno di legge Riccardi sull’affidamento fiduciario. Il d.d.l. 5 agosto 2019, n. 1452 intitolato ‘Disposizioni sul negozio di affidamento fiduciario’, mira infatti a colmare la lacuna normativa presente in Italia e a dare attuazione ai riferimenti sul contratto fiduciario contenuti nella l. 22 giugno 2016, n. 112. Nel perseguimento di tali finalità, il citato d.d.l. presenta un approccio del tutto innovativo: invece di ‘tradurre’ il trust come quasi tutti gli ordinamenti che hanno legiferato in materia, esso prova a percorrere un’altra strada, dando vita ad una figura giuridica interamente appartenente alla civil law, quella del contratto di affidamento fiduciario. Ciò in continuità con la l. 112/2016 (c.d. ‘Dopo di Noi’), che ha menzionato il contratto di affidamento fiduciario al fianco del trust, evidenziandone la corrispondenza funzionale, nonché sulla falsariga della vicina esperienza sanmarinese e, nello specifico, della disaminata l. 1° marzo 2010, n. 43.
Il contratto di affidamento fiduciario [69], che può avere sia natura inter vivos sia un’origine testamentaria, viene definito in termini di ‘programma’ che «l’affidatario fiduciario si obbliga ad attuare impiegando uno o più beni in favore di uno o più beneficiari […]» (art. 1). Tale compito può essere svolto con l’ausilio di un garante, che andrebbe a ricoprire il classico ruolo svolto dal guardiano nel trust. La previsione e l’importanza conferita al ‘programma’, cui l’affidatario si impegna a dare attuazione, permette di risolvere la problematica della mancanza di ‘causa’ nel trust, in quanto non contemplabile negli ordinamenti di civil law. Analogamente alla struttura delineata nella legge sammarinese, il programma diventerebbe dunque il pilastro fondante del contratto di affidamento fiduciario, assurgendo a causa giustificatrice dello stesso.
Il progetto di legge prevede, inoltre, che l’affidatario sia domiciliato o svolga la sua attività di amministrazione e gestione in Italia, in modo da assicurare a tutte le parti coinvolte l’efficienza della tutela giurisdizionale [70]. La segregazione patrimoniale prodotta dal trust è assicurata dall’art. 3 del d.d.l. il quale prevede che il patrimonio affidato sia distinto da quello del soggetto affidatario.
Tratteggiati i profili essenziali del contratto di affidamento fiduciario, il d.d.l., al capo II, prevede interessanti disposizioni mirate all’attuazione del programma destinatorio. Oltre a fornire la possibilità di subordinare il compimento di taluni atti da parte dell’affidatario al preventivo consenso dell’affidante o del garante (art. 7), vengono previste delle specifiche obbligazioni di condotta in capo all’affidatario che, in linea generale, dovrà comportarsi secondo correttezza e buona fede (art. 8).
È interessante notare come i fiduciary duties del trustee nei confronti dei beneficiari vengano qui riflessi nel più ampio principio di buona fede di cui agli artt. 1337 e 1375 cod. civ., che permea tutte le fasi del rapporto contrattuale e si estrinseca altresì nei parametri qualificati della diligenza, correttezza e trasparenza professionale.
Analogamente a quanto previsto nella legge sanmarinese, nel d.d.l. si rinviene un divieto di proporre azione di risoluzione del contratto nei confronti dell’affidatario fiduciario. Ciò sempre nell’ottica di garantire l’attuazione del programma fino al suo effettivo compimento.
I terzi che contraggono con l’affidatario fiduciario possono soddisfarsi soltanto sul patrimonio affidato, ma l’affidatario fiduciario risponde anche con il proprio patrimonio, con diritto di rivalsa, qualora non abbia fatto menzione della propria qualità prima di assumere una obbligazione (art. 11). Viene così riflessa la stessa disciplina presente nella legge di San Marino, con evidenti limitazioni rispetto a come la responsabilità del trustee è concepita negli ordinamenti di origine.
È interessante notare, inoltre, come l’affidante, che rappresenta la controparte contrattuale dell’affidatario, possa ritenere poteri non contemplabili, invece, per il disponente di un trust, esposto, come ben noto, al rischio di vedersi opposta la contestazione circa un possibile sham trust. Risulta possibile, inoltre, circostanza impensabile nel diritto dei trust, inserire i beneficiari come parte contrattuale, con rilevanti conseguenze sulla vita del rapporto giuridico [71].
Un punto indubbiamente di merito del disegno di legge è la parte in cui, con l’intento di affiancare alle disposizioni tributarie di cui alla richiamata legge sul ‘Dopo di Noi’ le opportune previsioni civilistiche in merito agli istituti nella stessa richiamati, vengono previsti e favoriti i contratti di affidamento fiduciario in favore di soggetti c.d. deboli (art. 15). Una tale previsione, se attuata, contribuirebbe a rompere la tendenza di discontinuità che ha caratterizzato la produzione legislativa italiana in materia di trust, in cui alle disposizioni in materia tributaria non sono mai opportunamente seguiti degli interventi di carattere civilistico.
Come già osservato, il giudice ricopre un ruolo chiave durante la vita del trust. Particolarmente innovative nello scenario italiano risultano, dunque, le disposizioni del Capo IV del d.d.l. sulla tutela dei diritti e, in particolare, quelle concernenti la competenza del tribunale in materia di affidamento fiduciario (art. 21), le quali mirano ad attribuire al giudice ampi poteri ispirandosi così al modello della ‘inherent jurisdiction’ delle corti inglesi. Si pensi, a titolo esemplificativo, il potere di integrare, modificare o eliminare disposizioni del contratto se ciò appare utile per la migliore attuazione del programma o, ancora, il potere di impartire direttive all’affidatario fiduciario su richiesta di quest’ultimo o di qualsiasi soggetto interessato.
Tale aspetto assume un grande valore all’interno della proposta legislativa in quanto il tema della tutela dei diritti dei beneficiari in sede giurisdizionale è sempre stato trascurato (fatta salva l’eccezione della Repubblica di San Marino come pocanzi osservato) dagli ordinamenti che si sono approcciati a replicare il trust, producendo «effetti nefasti sull’appetibilità degli istituti giuridici da essi regolamentati» [72].
Il contratto di affidamento fiduciario, dunque, potrebbe non solo porsi in competizione con il trust ma presentarsi addirittura come strumento più efficiente e ciò in quanto tale fattispecie contrattuale risulterebbe il «prodotto del laboratorio della comparazione giuridica» mentre il trust sarebbe il «prodotto della storia» [73]. Lo sviluppo del richiamato disegno di legge offrirebbe infatti al diritto civile italiano «una traccia per il progresso e per l’ingresso con pari dignità nel consesso degli ordinamenti giuridici ai quali gli altri guardano per il proprio sviluppo».
Il disegno di legge si trova, tuttavia, nella fase embrionale del suo iter parlamentare e sarà necessario, dunque, attendere il legislatore per vedere se e in quali termini la sua portata innovativa verrà (auspicabilmente) recepita. Ad ogni buon conto, una normazione di tale portata rappresenterebbe l’opportunità per l’Italia di guidare altri ordinamenti di civil law verso una disciplina del trust compatibile con la loro tradizione giuridica e, come osservato nella stessa Relazione alla proposta, di tornare ad essere esportatrice – e non solo importatrice – di innovazione legislativa.
[1] Si pensi, a titolo esemplificativo alla Repubblica di San Marino o alla Svizzera, dove il Consiglio Federale ha recentemente posto in consultazione la modifica del codice delle obbligazioni che prevede una disciplina del ‘trust svizzero’.
[2] Per un approfondimento sulle origini dell’istituto cfr. J. Seipp, Trust and fiduciary duty in the early common law, in Boston University Law Review, 2011, 1014. M. Bloch, La società feudale, Piccola Biblioteca Einaudi, 1999 C. Florio, Trust: dalla fiducia come concetto pregiuridico al trust inglese, 2017, disponibile in formato eBook al link https://www.avvocatoflorio.com/trust/equity-e-trust-inglese/.
[3] Convenzione dell’Aja 1985, art. 2(a) e 11(a).
[4] M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, III ed., Cedam, 2016, 9.
[5] Cfr. Miur and Others, Trustees v City of Glasgow Bank and Liquidators. Più recentemente, il caso Investec Trust (Guernsey) Ltd v Glenalla Properties Ltd ha confermato l’unidirezionalità degli effetti segregativi, sottolineando la mancanza, all’interno del diritto inglese, di una «capacità personale e capacità fiduciaria in capo al trustee». Sembra dunque che, nel diritto inglese, le uniche vie di tutela preventiva per il trustee siano l’istituzione di una trust company a responsabilità limitata per gestire i rapporti contrattuali con terzi o la creazione di uno special purpose vehicle (SPV) per il coinvolgimento in specifiche transazioni.
[6] Scottish Law Commission, Report on trust law, agosto 2014, n. 239. La Law Commission scozzese ha commentato tale dottrina osservando che, quando un soggetto diventa trustee, esso acquista automaticamente un ‘secondo’ patrimonio: sebbene siano imputabili alla stessa persona, il patrimonio del trustee rappresenta un’entità legale separata dal patrimonio del fondo in trust. Cfr. Nella giurisprudenza Ted Jacob Engineering Group Inc v Robert Matthew Johnson-Marshall e Glasgow City Council v The Board Of Managers Of Springboig St John’s School.
[7] M. Lupoi, op. cit., 9.
[8] D. Hayton, P. Matthews, C. Mitchell, Underhill and Hayton – Law of trust and trustees, XIX ed., LexisNexis Butterworths, 2017, para 2.9.
[9] Le conseguenze dell’attribuzione di soli legal interests o di equitable interests in capo ai beneficiari sono profondamente diverse: nel primo caso, i beneficiari sarebbero in grado di far valere i diritti derivanti dall’atto istitutivo di trust nei confronti anche di soggetti terzi, nel secondo caso, potrebbero agire solo nei confronti di determinati soggetti (ossia i trustees) per la corretta esecuzione delle disposizioni contenute nell’atto istituivo e per l’adempimento dei relativi doveri. Invero, l’interesse in rem abilita i beneficiari ad agire nei confronti di terzi, con l’esclusione di quelli in buona fede, per revocare un determinato trasferimento o transazione anche in caso di inerzia da parte del trustee, dando vita, dunque, ad un fenomeno sostitutivo. Tale fenomeno viene ancor più enfatizzato nella possibilità da parte dei beneficiari, in caso di alienazione a terzi, di rivolgersi direttamente alla corte del situs in cui il bene si trova, anche qualora questo non coincidesse con il luogo dell’amministrazione del trust (ossia con la collocazione geografica del trustee). Partendo dal fatto che i beneficiari sono considerati equitable owners dei diritti e dei beni devoluti in trust, non è irragionevole sostenere che essi detengano solo diritti in personam. Tuttavia, la giurisprudenza inglese, già nel 1841, nel caso Saunders v Vautier, affermò che la posizione del beneficiario non può essere slegata da un interesse in rem sui beni devoluti in trust, laddove il beneficiario sia un adulto capace e i suoi diritti emergano inequivocabilmente dall’atto istitutivo.
[10] Come osservato in M. Lupoi, op. cit., 7 che riprende Trib. Trento, sez. Cles, 3 febbraio 2009, in Trusts e attività fiduciarie, 2010.
[11] Trib. Napoli, decr. 19 nov. 2008, in Trusts e attività fiduciarie, 2009.
[12] Il trust autodichiarato (cosiddetta declaration of trust) sussiste laddove il disponente coincida con il trustee. In questo caso non si verifica un vero e proprio trasferimento di posizioni soggettive, ma solo una ‘dichiarazione’ dell’effetto segregativo desiderato.
[13] Cfr. UNEP FI, Fiduciary duties in the 21st century”, 2015 dove si sostiene che la mancanza di considerazione nelle strategie di investimento di tutti i fattori rilevanti a lungo termine, tra i quali rientrano a pieno titolo quelli ESG, configuri una violazione dei doveri fiduciari; M. Bowman, Banking on climate change: how finance actors and transnational regulatory regimes are responding, Kluwer Law International, 2014, 34; S. Lyndenberg, Ethics, Politics, Sustainability and the 21st century trustee, Emerald Publishing Limited, 2014, 197-213; M.M. Schanzenbach, R.H. Sitkoff, The Law and Economics of Environmental Social and Governance Investing by a Fiduciary, in Harvard Law School, 2018; S.N. Gary, Best Interest in the Long Term: Fiduciary Duties and ESG Integration, in University of Colorado Law Review, 2019, 736 e 800; M.M. Schanzenbach e R.H. Sitkoff, Reconciling Fiduciary Duty and Social Conscience: The Law and Economics of ESG Investing by a Trustee, in Stanford Law Review, 2020, 381-454; M.M. Schanzenbach, R.H. Sitkoff, Fiduciary Duty, Social Conscience, and ESG Investing by a Trustee, 55 Annual Heckerling Institute on Estate Planning, 2021, disponibile al link: https://ssrn.com/abstract=3959199; A. Otsuka, ESG investment and reforming the fiduciary duties, in Ohio State Business Law Journal, 2021, 136-163.
[14] Per una disamina più approfondita si veda D. Hayton, P. Matthews, C. Mitchell, op. cit., para 56.53.
[15] A. Busani, Il Trust. Istituzione, gestione, cessazione, Cedam, 2020, 3.
[16] Cfr. D. Parete, Il trust per tutti, Egea, 2020, 6-11.
[17] Si veda l’interessate discussione in merito “How to beat the third-generation curse” della Singapore Management University disponibile al link: https://business.smu.edu.sg/master-wealth-management/lkcsb-community/how-beat-third-generation-curse.
L’analisi delle seguenti strategie si ispira al lavoro di Stefano Loconte in S. Loconte, Strumenti di pianificazione e protezione patrimoniale, Ipsoa, III ed., 2018.
[18] D. Parete, op. cit., 14.
[19] S. Loconte, Strumenti di pianificazione e protezione patrimoniale, III ed., Ipsoa, 2018, XIV.
[20] Per le tecniche di diversificazione più innovative si rimanda a C.K. Merker, S.W. Peck, The trustee governance guide, Palgrave Macmillan, 2019.
[21] Il trust per uno scopo di utilità sociale è stato legittimato dall’Atto di Indirizzo 25 maggio 2011 dell’Agenzia del Terzo Settore e dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/E del 1° agosto 2011. Per quanto concerne la qualificazione ONLUS, è necessario verificare che il trust rispetti i requisiti formali e sostanziali di cui all’art. 10 del d.lgs. n. 460/1997. L’atto istitutivo di un trust ONLUS deve essere redatto per iscritto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata e deve prevedere l’utilizzo nella denominazione ed in qualsivoglia segno distintivo o comunicazione rivolta al pubblico, della locuzione ‘organizzazione non lucrativa di utilità sociale’ o dell’acronimo ‘ONLUS’. Inoltre, devono essere previste espressamente, ex multis, lo «svolgimento di attività in uno o più dei settori indicati; l’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale; il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione […]; l’obbligo di redigere il bilancio o il rendiconto annuale». Sul riconoscimento del trust ONLUS si segnala la recente circolare n. 9 del 21 aprile 2022 del Ministero del Lavoro, dalla cui impostazione emerge che il trust non potrebbe essere qualificato tra gli enti di carattere privato diversi dalle società. Sul punto cfr. T. Tassani, G. Sepio, Sui trust pesa l’esclusione del Ministero del Lavoro dal Terzo Settore, in Il Sole 24 ore, 28 aprile 2022, i quali affermano che «[l]a gravità di una simile situazione, in termini di impatto applicativo e di lesione di posizioni giuridiche meritevoli di tutela, richiede […] un intervento normativo ad hoc».
[22] L’art. 14 del richiamato decreto prevede infatti che tali erogazioni siano «deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui».
[23] L’istituzione ‘Bologna Musei’ nasce con delibera del Consiglio comunale di Bologna del 5 dicembre 2012, n. 269053 come soggetto terzo ed indipendente dal Comune e con lo scopo di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale e museale della città.
[24] F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Il Mulino, 2005, 86 ss. Galgano osservava come il concetto di shopping del diritto fosse nato grazie alla diffusione di clausole compromissorie all’interno dei rapporti contrattuali. Lo shopping, in tema di arbitrato, consiste proprio nello scegliere, attraverso la clausola compromissoria, una legge che non abbia alcun tipo di contatto tra le parti, meglio identificata come “legge neutra”. Nota è anche la tecnica del repechage, con la quale vengono effettuate scelte multiple, come, ad esempio, la legge sostanziale di uno Stato e la legge processuale di un altro.
[25] F. Galgano, op. cit., Il Mulino, 2005, 87.
[26] F. Galgano, op. cit., Il Mulino, 2005, 77.
[27] G. Visintini, La circolazione delle giurisprudenze, in Contr. e impr., 2011, 1, 74.
[28] Cfr. G. Alpa, Comparazione e diritto straniero nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Contr. e impr., 2016, 4-5, 879 ss.
[29] G. Visintini, op. cit., 74.
[30] F. Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in Contr. e impr., 2012, 2, 391.
[31] E. Capobianco, Globalizzazione, mercato, contratto, in Pers. e merc., 2017, 3, 138 ss. L’Autore afferma che «esempio di questo processo di arricchimento è stato quello che ha portato, ormai da tempo, all’affacciarsi in alcuni sistemi di contratti un tempo sconosciuti come il leasing; ma lo stesso fenomeno di import, o di ricezione, si è avuto, per il contratto di factoring, di joint ventures, di catering, di Garantievertrag, e così via, fino alle più recenti e discusse figure dei contratti cosiddetti derivati, quali i contratti di swap, di futures, ecc. […]».
[32] R. Rolli, Il diritto privato nella società 4.0, II ed., Cedam, 2021, 32 ss.
[33] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. III, Cedam, 385.
[34] Cfr. F. Galgano, op. ult. cit., 386 in cui l’Autore richiama giurisprudenza di legittimità e di merito che richiama tali concetti.
[35] Ibidem.
[36] G. Visintini, op. cit., 75.
[37] P. Matthews, The compatibility of the trust with the civil law notion of property, in L. Smith (a cura di), The Worlds of Trust, Cambridge University Press, 2013, 314.
[38] M. Lupoi, op. cit., 32 osserva come, invece, nel diritto civile europeo del XII secolo in poi, siano state elaborate figure giuridiche che hanno ispirato il trust inglese e che non hanno nulla da spartire con l’affidamento fiduciario che rappresenta una creazione della Pandettistica tedesca. Secondo l’autore, «l’originaria vena civilistica dei trust contribuisce a rendere i trust intelligibili anche in sistemi giuridici di matrice romanistica o mista ed in sistemi che, pur appartenendo all’area culturale del diritto inglese, non hanno mai avuto un ordinamento di equity».
[39] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli, G. Granelli, XXV ed., Giuffrè, 2019, 645.
[40] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. II, II ed., Cedam, 2010, 465.
[41] U. Mattei, Efficiency in Legal Transplants: an Essay in Comparative Law and Economics, in International Review of Law and Economics, 1994, 3.
[42] M. Lupoi, The Shapeless Trust in Trust & Trustees, 1995, 3, 15.
[43] È doveroso segnalare che, in contraddizione con l’inerzia del legislatore, si rileva una copiosa produzione di giurisprudenza di legittimità sul trust, soprattutto in materia fiscale. Basti pensare, a titolo esemplificativo, che uno studio condotto dall’Associazione Il trust in Italia ha rilevato, nel periodo da gennaio 2019 a marzo 2020, circa quaranta pronunce. A oggi le pronunce della Corte di Cassazione in materia fiscale superano agilmente il centinaio. Per completezza di trattazione, si segnala che una tale ‘iperattività’ del giudice di legittimità ha spinto la stessa Agenzia delle Entrate a prendere atto del mutato orientamento in materia di imposizione indiretta sui beni conferiti in trust mediante l’adozione della (tanto attesa) circolare 34/E del 20 ottobre 2022, con la quale si è “cristallizzato”, in linea generale, il principio della tassazione in uscita.
[44] L. 27 dicembre 2006, n. 296.
[45] Testo Unico delle Imposte sui Redditi, d.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986.
[46] Per la legge sul ‘Dopo di Noi’ v. per tutti M. Lupoi (a cura di), Trust e Dopo di Noi, in T&AF, Quaderno 12, 2016. Per gli aspetti fiscali cfr. G. Sepio, Il ‘Dopo di Noi’ e le misure fiscali a tutela del patrimonio di persone con disabilità grave, in Il fisco, 2016, 2734 ss. e T. Tassani, La fiscalità dei negozi di destinazione nella legge sul ‘Dopo di Noi’, tra agevolazioni e impatto sistematico, in Notariato, 2016, 517 ss.
[47] M. Lupoi, op. cit., in M. Lupoi (a cura di), op. cit., 5.
[48] G. Calabresi, A. Douglas Melamed, Property Rules, Liability Rules and Inalienability: One View of the Cathedral, in Harvard Law Review, 1972, 1089 ss.
[49] Si riporta in breve l’excursus storico sulla trust law inglese: Trustee Act 1983, Trustee Act 1925, Trustee Investment Act 1961, Perpetuities and Accumulation Act 1964, Trustee Act 2000.
[50] P. Matthews, La legge sul trust a San Marino e il modello di trust internazionale, in Contr. e impr., 2007, 251.
[51] Cfr. M. Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 311 ss. e A. Busani, op. cit., 20 ss.
[52] Segreteria di Stato per le finanze ed il bilancio, Relazione sul progetto di legge L’istituto del trust, 2009.
[53] M. Lupoi, Note circa la legge sammarinese sull’affidamento fiduciario, in Trusts e attività fiduciarie, 2010, 5, 469.
[54] A. Vicari, Il contratto di affidamento fiduciario nella legge di San Marino, in A. Barba, D. Zanchi, Autonomia privata e affidamenti fiduciari, 2012, 211.
[55] M. Lupoi, op. ult. cit., 469 ss. L’Autore prosegue affermando che «[p]er vero, le disposizioni sammarinesi sono più efficienti perché consentono il passaggio del patrimonio affidato anche senza il concorso della volontà dell’affidatario o dei suoi eredi e senza necessità di provvedimento giudiziale».
[56] S. D. Puggioni, Il ruolo del giudice italiano nella vita del trust, in Trusts e attività fiduciarie, 2018, 267.
[57] Sul punto e per una più approfondita disamina sulla Corte per i trust ed i rapporti fiduciari di San Marino cfr. V. Pierfelici, La corte per il trust a San Marino, in Trust e attività fiduciarie, 2016, 5 ss.
[58] Per una più diffusa trattazione degli argomenti “negazionisti” del trust interno cfr. A. Busani, op. cit., 79 ss.
[59] Cfr. A. Busani, op. cit., 124 ss.
[60] Cfr. A. Busani, op. cit., 80 ss.
[61] Cfr. A. Busani, op. cit., 127.
[62] Si veda, ex multis, Trib. Verona 8 gennaio 2003 e Trib. Bologna, 1° ottobre 2003.
[63] Cfr. F. Galgano, op. cit., 87.
[64] Relazione al disegno di legge delega n. 1151/2019.
[65] D.d.l. delega n. 1151/2019, art. 1, comma 1: «Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la revisione e integrazione del codice civile, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: […] p) disciplinare le modalità di costituzione e di funzionamento del trust e degli altri contratti di affidamento fiduciario, garantendo un’adeguata tutela dei beneficiari».
[66] L’art. 2645-ter è stato introdotto nel codice civile italiano dall’art. 39-nonies del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, nella L. 23 febbraio 2006, n. 51. La discussione sui rapporti fra il trust e gli altri vincoli di destinazione ex art. 2645-ter è affrontata all’interno del terzo capitolo della presente ricerca.
[67] Relazione al disegno di legge delega n. 1151/2019.
[68] Il sito web del Senato della Repubblica riporta il testo d.d.l. come ‘in corso di esame in commissione’ al link http://
www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51488.htm.
[69] Cfr. amplius M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Giuffrè, 2014; M. Lupoi, Le ragioni della proposta dottrinale del contratto di affidamento fiduciario; la comparazione con il trust, in Fondazione Italiana del Notariato e-library, 2017.
[70] Relazione al d.d.l. 5 agosto 2019, n. 1452, 3.
[71] M. Lupoi, I nuovi scenari della fiducia e della destinazione patrimoniale, in Fiducia e Destinazione Patrimoniale. Percorsi giudici a confronto, Bologna University Press, 2022, 106.
[72] Relazione al d.d.l. 5 agosto 2019, n. 1452, 3.
[73] M. Lupoi, op. ult. cit., 106.