Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

L´atto di destinazione patrimoniale e il suo impiego per il soddisfacimento delle esigenze della famiglia legittima (di Erika Manazza, Dottoranda di ricerca – Università degli Studi di Pavia)


Il saggio, occasionato da una recente pronuncia di legittimità, indaga l’applicabilità dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c. a favore di famiglie fondate sul matrimonio, come strumento alternativo al fondo patrimoniale. Tramite una ricognizione storico-concettuale sul tema, con particolare riguardo alla figura del trust di common law, e dopo aver delineato gli elementi essenziali della destinazione “all’italiana”, vengono analizzate criticamente le motivazioni addotte dalla Suprema Corte – in accordo con la dottrina maggioritaria – a sostegno della tesi restrittiva, prospettando così una rinnovata chiave di lettura dell’atto in questione, quale convenzione matrimoniale dal carattere atipico e pur sempre vincolato al rispetto di quei principi fondamentali che informano il diritto di famiglia dal punto di vista patrimoniale. Le conclusioni sviluppate nel presente saggio consentono, poi, di svolgere riflessioni sull’utilizzo dell’atto ex art 2645-ter finanche in contesti familiari more uxorio e a beneficio delle famiglie fondate sull’unione civile o su una convivenza c.d. registrata. Infine, il commento alla sentenza consente qualche considerazione aggiuntiva in tema di revocatoria dell’atto di destinazione e, più in generale, sulla tutela dei creditori a fronte di fenomeni di separazione patrimoniale.

Parole chiave: destinazione patrimoniale – matrimonio – unione civile – convivenza more uxorio – separazione patrimoniale – trust – revocatoria – meritevolezza – fondo patrimoniale

The deed of destination of assets and its use to satisfy the needs of the family founded on marriage

This essay, occasioned by a recent judgment of the Corte di Cassazione, investigates the applicability of the deed of destination of assets, stated in art. 2645-ter of the Italian civil code, in favor of families founded on marriage, as an alternative instrument to the patrimonial fund. Through a historical-conceptual review on the subject, with particular regard to the figure of the common law trust, and after having outlined the essential elements of the Italian destination, this paper critically analyzes the reasons given by the Supreme Court – in harmony with the doctrinal majority - in support of the restrictive thesis, thus proposing a renewed perspective on the act in question, configuring it as an atypical marriage agreement, yet bound to respect those fundamental principles which, from a patrimonial point of view, rule family law. The conclusions reached in this essay allow, furthermore, to reflect on the use of the deed founded on art. 2645-ter even in relation to more uxorio families and for the benefit of families founded on a civil union, or even to the advantage of a so-called registered cohabitation. Finally, the comment on the judgment allows for some additional considerations on the subject of the revocation of the deed of destination of assets and, more generally, on the protection of creditors against segregated assets.

SOMMARIO:

1. La destinazione patrimoniale con causa familiare alla luce di una recente pronuncia di legittimità - 2. Il travagliato percorso della destinazione patrimoniale in Italia - 3. Segue. Dalla Convenzione dell’Aja in materia di trusts all’introduzione dell’art. 2645-ter cod. civ. - 4. Aspetti essenziali della disciplina ex art. 2645-ter; in particolare, la meritevolezza degli interessi perseguibili e la tutela dei creditori - 5. Il primo motivo di inammissibilità addotto dalla Corte. Riflessioni sulla meritevolezza di una destinazione posta a presidio di interessi familiari - 6. Segue. La querelle dottrinale in tema di destinazione atipica a favore della famiglia coniugale e i relativi riflessi sull’applicazione dell’art. 2645-ter ai conviventi - 7. Il secondo motivo di inammissibilità addotto dalla Corte. La revocatoria dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter - NOTE


1. La destinazione patrimoniale con causa familiare alla luce di una recente pronuncia di legittimità

Nonostante siano trascorsi oltre quindici anni dall’introduzione dell’art. 2645-ter nel codice civile, l’opportunità di sfruttare la destinazione atipica quale alternativa ad altre figure destinatorie già tipizzate rimane attualmente una questione tutt’altro che risolta; il che, a ben vedere, non sorprende più di tanto, considerando i notevoli dubbi che, ancora oggi, coinvolgono la maggior parte degli aspetti essenziali di tale fattispecie normativa, nonché la relativa estensibilità a settori del diritto tuttora permeati da un certo – ingiustificato – immobilismo. Sicché, quantunque con meno frequenza rispetto al passato, i nostri giudici sovente si ritrovano di fronte a casi che implicano una necessaria presa di posizione al riguardo, talvolta mantenendo sul punto un atteggiamento troppo prudente e restrittivo, come testimoniato dalle ultime sentenze di merito in tema di destinazione testamentaria [1].

Resta una costante, però, il fatto che la quasi totalità delle pronunce riguardanti la disciplina di cui all’art. 2645-ter sia circoscritta all’ambito giusfamiliare; un settore, a dire il vero, tutt’altro che “stagnante” [2], e improntato a valori e obiettivi tali da potersi ben attagliare allo strumento destinatorio, considerata la principale finalità di quest’ultimo di attribuire vantaggi patrimoniali – tra l’altro non indifferenti, come si dirà nel prosieguo – a favore di chi ne venga designato beneficiario.

Proprio questo dato empirico cela in sé un’evidenza di non poco conto: al di là di alcuni approdi, ormai dati per certi, circa l’utilizzo dello strumento destinatorio atipico per porre rimedio alle situazioni familiari c.d. patologiche [3], ovvero semplicemente non regolamentate [4], emerge un ciclico dibattito dottrinale sull’am­missibilità dello stesso finanche a favore di famiglie fondate sul vincolo del matrimonio [5]. Difatti, ad assillare gli operatori del diritto e a farli propendere, tendenzialmente, per una risposta negativa v’è il rilievo del­l’esistenza, ormai da più di cinquant’anni, di una fattispecie destinatoria ad hoc riservata ai membri di tale tipo di famiglia, vale a dire il fondo patrimoniale, la cui disciplina si rinviene agli artt. 167 ss. del codice. Non a caso, pochi mesi orsono, il tema è riaffiorato per l’ennesima volta al cospetto della Suprema Corte [6], in occasione di un ricorso proposto avverso una sentenza di appello del Tribunale di Genova; per giunta, il caso che ci si accinge ad analizzare offre lo spunto per ulteriori considerazioni in ordine al rapporto tra la destinazione – rectius, separazione – patrimoniale e la tutela da assicurare agli interessi creditori, argomento che costituisce uno dei punti focali della figura in esame e sul quale si riscontrano altrettante disparità di vedute in dottrina.

Orbene, due ex amministratori di una società – al tempo della pronuncia, fallita – avevano posto in essere due distinti atti di destinazione patrimoniale ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ., in tal guisa vincolando parte del proprio patrimonio al soddisfacimento di esigenze facenti capo alle rispettive famiglie c.d. legittime: più precisamente, la destinazione aveva ad oggetto la salvaguardia del loro diritto all’abitazione familiare e al mantenimento della prole di ciascuno. Peraltro, dagli atti del processo di primo grado innanzi al Tribunale di La Spezia, promosso dal curatore fallimentare contro i due amministratori, era emerso come costoro avessero previamente contratto un debito nei confronti della predetta società, avendone depauperato il patrimonio sociale tramite la loro attività e avendola condotta così al fallimento; sicché, agli occhi dei giudicanti, la costituzione di patrimoni destinati ex art. 2645-ter in tempi immediatamente successivi al sorgere di siffatto debito, era apparsa un’operazione connotata da intento fraudolento.

Dichiarata la nullità dei suddetti atti di destinazione, i due ex amministratori proponevano appello avverso tale pronuncia sulla scorta di un duplice rilievo: da un lato, gli appellanti affermavano la meritevolezza – e, dunque, la validità – dei loro negozi destinatori, in quanto sorretti da un interesse, quello familiare, ex lege meritevole; dall’altro, contestavano come il Tribunale non si fosse curato di verificare la sussistenza dell’in­defettibile requisito della preordinazione dolosa in frode alla società creditrice da parte dei debitori e dei terzi coinvolti (il c.d. consilium fraudis, ai sensi dell’art. 2901, comma 1, n. 2, cod. civ.), trattandosi nel caso di specie di un atto posto in essere anteriormente al sorgere del credito.

La Corte di Appello di Genova, tuttavia, confermava l’esito del giudizio di primo grado dimostrando l’inconsistenza di entrambi i rilievi: quanto alla meritevolezza di tutela della destinazione patrimoniale, la sua assenza sarebbe parsa evidente soprattutto considerando il fattore temporale, vale a dire l’esiguo lasso di tempo tra la decisione di dar luogo all’operazione destinatoria e l’emersione della situazione debitoria dei due amministratori; per giunta, considerata la gratuità dell’atto di destinazione, non si ravvisava alcuna necessità di accertare il requisito del consilium fraudis da parte dei terzi coinvolti.

La controversia veniva portata al cospetto della Suprema Corte, laddove i soccombenti di secondo grado lamentavano, in ordine alla relativa pronuncia, la falsa applicazione delle norme richiamate nei precedenti giudizi, id est gli artt. 2645-ter e 2901 cod. civ. Tramite il ricorso, costoro riaffermavano la meritevolezza dell’interesse sotteso ai rispettivi negozi destinatori con causa familiare, il che avrebbe dovuto salvare questi ultimi quantomeno dalla scure della nullità, e sostenevano l’erronea conclusione della Corte di Genova anche con riguardo alle sue valutazioni in tema di revocatoria, ribadendo la necessità dell’accertamento del consilium fraudis in ossequio alla lettera dell’art. 2901.


2. Il travagliato percorso della destinazione patrimoniale in Italia

Prima di addentrarci nella trattazione dei temi invocati dalla pronuncia in esame, appare opportuno accennare ai profili evolutivi caratterizzanti la destinazione patrimoniale nell’ambito del diritto privato italiano [7].

Innanzitutto, la destinazione patrimoniale costituisce una categoria concettuale la cui peculiarità principale è costituita dalla sussistenza di un elemento teleologico, ossia la finalizzazione di situazioni giuridiche soggettive a contenuto patrimoniale per la realizzazione di un dato interesse, il quale risulta estraneo alla sfera del soggetto che pone in essere l’operazione e mira, invece, a beneficiare un terzo, ovvero a realizzare uno scopo [8]. Ne deriva la nascita di un c.d. vincolo [9] – appunto, di destinazione – idoneo tanto a imporre limitazioni alle facoltà dominicali del titolare, quanto a comportare l’insorgere di obblighi inerenti ai beni vincolati, obblighi che attengono alla conservazione e all’amministrazione di tali cespiti proprio al fine di attuare il programma destinatorio [10].

Inoltre, sebbene non costituisca elemento indispensabile alla costituzione di un vincolo di destinazione, per accentuarne la rilevanza non meramente obbligatoria e renderlo opponibile ai terzi [11], è opportuno che ad esso si accompagni un effetto di separazione patrimoniale, in deroga a quanto disposto dall’art. 2740, comma 1, cod. civ. in tema di responsabilità patrimoniale generica, e dall’art. 2741, dal quale si fa discendere il principio della par condicio creditorum [12]. A ben vedere, il precipuo significato dell’espressione “patrimoni separati”, generalmente impiegata dal legislatore con riferimento a fattispecie tra loro piuttosto eterogenee [13], costituisce il riflesso di una complessa opera di elaborazione dottrinale incominciata, per opera della Pandettistica tedesca, nel XIX secolo [14], e sta ad indicare ipotesi in cui un soggetto risulti titolare di più entità patrimoniali, ciascuna dotata di autonoma rilevanza [15], senza la necessità di ricorrere all’espediente della personificazione patrimoniale [16]. Limitazione della responsabilità patrimoniale, opponibilità di tale limitazione erga omnes, trattamento diversificato dei creditori, sottoposizione della massa separata a speciali regole di amministrazione e organizzazione, sussistenza di un regime peculiare di circolazione dei beni, insensibilità rispetto alle vicende giuridico-economiche del patrimonio residuo del relativo titolare, rappresentano alcuni soltanto degli elementi che si ritiene denotino tale categoria [17].

Da un punto di vista strutturale, la destinazione patrimoniale può presentarsi in forma alternativa [18]: si parla di destinazione statica o pura laddove il titolare dei beni conservi la proprietà degli stessi, occupandosi personalmente di gestirli in linea con l’interesse dichiarato ovvero – più raramente – affidando tale compito a un terzo gestore, magari tramite un contratto di mandato; diversamente, una destinazione dinamica o traslativa comporta l’attribuzione del patrimonio vincolato a un terzo attuatore, un fiduciario che ne diviene proprietario a tutti gli effetti e che è a sua volta obbligato a gestire i beni conformemente al programma negoziale, in modo non dissimile dallo schema di base di quella figura destinatoria di origine anglosassone che è il trust [19].

In effetti, è proprio dalla constatazione della longevità di siffatto istituto negli Stati appartenenti alla famiglia del common law [20] e, nel contempo, dell’assenza di un corrispettivo altrettanto efficiente negli ordinamenti di tradizione romanistica, che è emersa la profonda situazione di arretratezza in cui versavano questi ultimi, in particolar modo se rapportata alle crescenti spinte, nell’ambito del mutato contesto socio-economico dell’epoca, verso la creazione di nuove ipotesi di specializzazione della responsabilità, al principale fine di agevolare lo svolgimento dell’attività d’impresa [21]; un’arretratezza, peraltro, ancor più manifesta se riferita alla situazione in cui versava il nostro Paese, ove per lungo tempo hanno fatto da scudo alla codificazione di un negozio destinatorio la sussistenza di alcuni dogmi inderogabili, a detta degli operatori del diritto, di rilievo pubblicistico [22]. Ciò non significa che in Italia fosse del tutto sconosciuta la categoria della destinazione allo scopo, come osservato poc’anzi; tuttavia, il fenomeno destinatorio restava confinato a ipotesi di destinazione – melius, di separazione – strettamente tipizzate, mentre ad inibire l’opportunità di enucleare una fattispecie negoziale atipica di destinazione vi erano non soltanto il succitato principio di universalità della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ., il cui comma 2 riserva alla legge la previsione di fattispecie di patrimonio separato [23], ma anche il principio di esclusività e assolutezza del diritto di proprietà, insieme a quello del numerus clausus dei diritti reali, che impediscono la creazione di nuove situazioni giuridiche di tal genere e di situazioni proprietarie, per così dire, “frammentate” [24].

Diversamente, nell’ordinamento anglosassone il trust [25] rappresenta uno strumento giuridico storicamente radicato e ampiamente sfruttato per via della sua morfologia alquanto flessibile – tant’è che, a voler vedere, si usa discorrere a riguardo di trusts, al plurale, piuttosto che riferirsi ad esso nella sua unitarietà [26] – conseguenza della sua regolamentazione preminentemente giurisprudenziale [27]; un espediente negoziale in grado di condurre a risultati pratici portentosi, oltre che decisamente vantaggiosi dal punto di vista economico [28]. Tutto questo, si tenga presente, in un contesto dove la proprietà è intesa in termini più duttili, essendo concepibile una scissione delle facoltà dominicali tra più soggetti, dando vita a una dual property, e dove, inoltre, non esiste un principio come quello dell’art. 2740, comma 1, cod. civ. [29]. Ne consegue però che, agli occhi del giurista continentale, il meccanismo fiduciario del trust è apparso per lungo tempo difficilmente riproducibile all’interno dei Paesi di civil law: a differenza della fiducia di stampo romanistico [30], nel trust la titolarità dei beni vincolati è suddivisa tra il fiduciario-attuatore della destinazione (c.d. trustee) e il beneficiario della stessa, rispettivamente definiti come legal owner e come equitable owner di tali cespiti; per giunta, il patto tra fiduciante (settlor) e fiduciario (trustee) è tale da essere opponibile ai terzi [31], sebbene il primo non disponga di rimedi nei confronti del secondo, in quanto soltanto il beneficiario è legittimato ad agire in giudizio, avverso l’inadempimento del fiduciario, per mezzo di alcuni rimedi di natura reipersecutoria [32]. Da ultimo, con il trust si realizza un fenomeno che prende il nome di segregazione patrimoniale, vale a dire una forma di separazione [33] che comporta l’incomunicabilità bidirezionale tra patrimonio destinato e patrimonio residuo del trustee, sicché l’uno è aggredibile unicamente da parte dei creditori il cui rapporto si fondi sulla causa sottesa alla destinazione, l’altro soltanto dai creditori personali del trustee, senza che si determinino reciproche interferenze [34].


3. Segue. Dalla Convenzione dell’Aja in materia di trusts all’introduzione dell’art. 2645-ter cod. civ.

A partire dalla seconda metà del Novecento, tuttavia, si è riscontrato un rinnovato approccio alla destinazione patrimoniale nel panorama giuridico internazionale, testimoniato dalla diffusione di fattispecie latu sensu fiduciarie, paragonabili al trust, finanche nelle legislazioni degli Stati di civil law [35]; un approdo che era, però, ancora piuttosto lontano in Italia, dove si può soltanto osservare come, all’epoca, la giurisprudenza di merito incominciasse timidamente a negare il carattere di ordine pubblico dei summenzionati principi civilistici [36].

Per tale ragione, ha destato non poco stupore la prontezza con cui il Parlamento italiano ha proceduto alla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985 relativa alla legge applicabile ai trusts e al loro riconoscimento [37], tenendo presente che, per contro, alla ratifica non è stata accompagnata una disciplina interna di recepimento dell’istituto dal punto di vista sostanziale [38]. Nondimeno – se ciò non apparisse già desumibile dal relativo titolo – è sufficiente soffermarsi sulle prime disposizioni della Convenzione [39] per comprendere come l’intento dei redattori in realtà non fosse quello di introdurre la figura destinatoria anglosassone in ordinamenti che ne fossero sprovvisti, bensì, da un lato, di fissare regole universali volte a individuare la normativa applicabile, nei casi di conflitto tra leggi, a quei trusts connotati da elementi di internazionalità e, dall’altro, di dettare criteri univoci per il loro riconoscimento – o disconoscimento – da parte degli Stati firmatari [40]. A sostegno di questa teoria, la dottrina ha fatto leva sulla formulazione estremamente generica dell’art. 2 della Convenzione, la quale sembra dettare, più che una definizione di trust, una serie di aspetti minimali idonei a delineare una mera struttura generica [41]; da qui la nota espressione “trust amorfo”, coniata da uno dei massimi esperti di trusts in Italia [42], intendendosi con essa una figura in grado di sussumere al proprio interno fattispecie anche piuttosto differenti tra loro, appartenenti tanto a ordinamenti di common law quanto di civil law [43]. Se non altro, la Convenzione dell’Aja, con riguardo al tema della destinazione patrimoniale, ha avuto il pregio di “smuovere le acque” – fino ad allora alquanto chete – in terra nostrana, non soltanto in quanto ha dotato il nostro sistema di diritto internazionale privato di norme di conflitto in materia di trust, prima di quel momento del tutto assenti [44], ma anche perché, attraverso l’acceso dibattito creatosi sulla figura del c.d. trust interno [45], ha decisamente conferito la spinta finale per un puntuale – quanto agognato – intervento legislativo sul punto.

La svolta è avvenuta solamente nel 2006 quando, in occasione della conversione del decreto legge c.d. «mille proroghe» n. 273 del 2005, all’esito di un iter legislativo piuttosto rocambolesco [46], viene inserito nel nostro Codice Civile l’art. 2645-ter, rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche” [47]. La portata della norma appare, a primo impatto, a dir poco innovativa: finalmente, anche in Italia sembra trovare cittadinanza una figura destinatoria connotata e da un vincolo ad efficacia reale e da un effetto di separazione patrimoniale, dunque opponibile erga omnes, corredata, inoltre, da tutta una serie di elementi essenziali quanto alla forma e all’oggetto dell’atto, alla durata del vincolo, ai soggetti coinvolti nel programma destinatorio, agli interessi perseguibili, e via dicendo. Se non che, a voler vedere, fin dalle prime opere di commento alla nuova disposizione [48], la portata rivoluzionaria dell’art. 2645-ter viene smentita dalla maggior parte degli autori, concordi nel ritenere che siffatta norma abbia sollevato molti più problemi di quanti ne abbia risolti.

A tal proposito, basterebbe considerare come perfino oggigiorno sia pressoché impossibile rinvenire un’opinione univoca circa la classificazione dell’art. 2645-ter quale norma sulla fattispecie ovvero sugli effetti negoziali. Invero, pur essendo pacifico che prima di tutto essa si occupi di regolare la trascrizione di atti di destinazione che presentino le caratteristiche ivi elencate – osservazione scontata, vista la sua collocazione codicistica, sebbene non sia altrettanto scontata l’efficacia della trascrizione stessa [49] –, effettivamente la formulazione della norma lascia spazio a interpretazioni differenti, sicché una consistente parte della dottrina ritiene che essa abbia introdotto una vera e propria fattispecie negoziale di destinazione patrimoniale, atipica sì, rimessa all’autonomia privata, ma di per sé autonoma [50]. Al contrario, altre voci si assestano sul fronte opposto [51], aderendo a quanto è stato affermato dalla giurisprudenza di merito in occasione della prima pronuncia riguardante l’art. 2645-ter [52]: in essa, quantunque in un obiter dictum, il Giudice statuisce che la norma, ben oltre rispetto a una mera disposizione in materia pubblicitaria, abbia disciplinato un effetto negoziale – l’effetto di destinazione, appunto – tipizzato ma atipico nel suo contenuto, in grado di integrare il nucleo effettuale di altri negozi tipici o atipici [53]. In aggiunta, considerando significativo il precipuo riferimento del Giudice alle figure negoziali atipiche, altri autori ne hanno tratto un’ulteriore ed interessante linea interpretativa: in tal senso, l’art. 2645-ter non soltanto avrebbe tipizzato l’effetto destinatorio, bensì avrebbe anche avallato l’ammissibilità di fattispecie negoziali di destinazione rimesse all’autonomia dei privati, le quali, a dire il vero, si sarebbero potute porre in essere già prima dell’entrata in vigore della norma, ma che da quel momento in poi risultano disciplinate puntualmente quanto ai relativi parametri di validità e di opponibilità ai terzi [54].

Su altro versante, e più in generale, l’art. 2645-ter ha causato ulteriori dissidi in relazione alla tematica del trust interno. Un cospicuo numero di commentatori [55] – con i quali chi scrive ritiene di concordare – ravvisa nella disciplina dell’atto di destinazione patrimoniale atipico un modello in grado di rappresentare il genus rispetto a qualsivoglia fattispecie destinatoria più specifica, tra cui anche lo stesso trust, sicché gli elementi menzionati all’art. 2645-ter costituirebbero dei requisiti di ammissibilità per l’operatività di quest’ultimo istituto nel nostro Paese; meglio ancora, i più “intrepidi” sostengono che la novella del 2006 abbia definitivamente introdotto un trust di diritto interno o, in altri termini, un trust italiano [56], data la riconducibilità della struttura ivi delineata all’art. 2 della Convenzione dell’Aja e la piena rispondenza ai requisiti indefettibili del trust da esso desumibili. Ciononostante, per quanto appaiano manifesti i punti di contatto tra l’art. 2 della Convenzione e l’atto di destinazione ex art. 2645-ter, vi è chi ha espresso più di una riserva sulle supposte conclusioni [57], partendo dalla constatazione della perdurante assenza di una legge interna incentrata espressamente sul trust, e proseguendo sulla scorta delle svariate discrepanze, tanto dal punto di vista strutturale quanto da quello rimediale, tra la destinazione italiana e quella di matrice anglosassone. In estrema sintesi, tali giuristi negano che l’art. 2645-ter possa aver veicolato nel nostro sistema il trust, un istituto che continuerà pur sempre a essere riconosciuto per effetto dell’adesione alla Convenzione e nei limiti della relativa disciplina, ma che rimane ben distinto rispetto all’atto di destinazione di diritto interno [58].

Ciò che emerge da questa rapida disamina è come, a distanza di ormai più di quindici anni dalla comparsa della norma sulla scena del diritto civile italiano, la dottrina continui tuttora ad arrovellarsi sul significato da attribuire pressoché ad ogni aspetto della disciplina de qua; di certo, un ausilio alla sua interpretazione non potrebbe trarsi né dalla collocazione della disposizione all’interno del Codice nel Titolo del Libro Sesto dedicato alla trascrizione, né dalla lettera della norma, il cui contenuto appare laconico e disorientante.


4. Aspetti essenziali della disciplina ex art. 2645-ter; in particolare, la meritevolezza degli interessi perseguibili e la tutela dei creditori

Una volta delineato per sommi capi l’iter concettuale della destinazione patrimoniale nel nostro Paese, per comprendere appieno le argomentazioni addotte dalla Suprema Corte nell’ordinanza da cui prende spunto il presente saggio è bene considerare, altrettanto sinteticamente, alcuni degli elementi caratterizzanti la figura destinatoria di cui all’art. 2645-ter, soffermandoci poi maggiormente su quelli che costituiscono il perno motivazionale della pronuncia de qua.

Come già accennato, la novella del 2006 ha inteso regolamentare (la trascrizione del) l’atto di destinazione patrimoniale, dettando svariate indicazioni circa i parametri formali, contenutistici, temporali, causali ed effettuali cui l’atto stesso deve conformarsi; ciononostante, con riguardo a molti altri presupposti, del pari fondamentali per completare la disciplina in questione, il legislatore ha assunto un atteggiamento a dir poco reticente. Infatti, nessun riferimento si rinviene circa l’eventuale struttura – unilaterale e/o contrattuale – dell’atto [59], né sulla possibilità o meno di porre in essere una destinazione traslativa [60], menzionando la norma solamente il conferente e il beneficiario quali parti del rapporto negoziale.

Ad ogni modo, una prima indicazione espressa è quella relativa al presupposto formale della destinazione: senza troppi giri di parole, il testo dell’art. 2645-ter prescrive la redazione dell’atto in forma pubblica, con ragionevole certezza, ai fini della sua validità [61], ritenendosi piuttosto improbabile, invece, che tale requisito sia funzionale soltanto alla trascrizione del vincolo nei pubblici registri e, di conseguenza, alla sua opponibilità erga omnes [62].

Onde evitare che i privati pongano in essere vincoli perpetui, in spregio della funzione socio-economica che la proprietà assume nel nostro ordinamento [63], la norma si premura di stabilire la durata massima della destinazione patrimoniale, commisurandola alternativamente alla vita del beneficiario ovvero a un lasso di tempo non superiore a novant’anni. La violazione di tale precetto, infatti, determina l’invalidità della clausola temporale e la sua automatica sostituzione con il termine imperativo [64], mentre la semplice omissione non pare idonea a inficiare l’atto, potendo soccorrere, in questi casi, un meccanismo di integrazione giudiziale [65].

Quanto all’oggetto della destinazione, la disposizione indica soltanto due categorie di cespiti suscettibili di essere vincolati, vale a dire i beni immobili e i beni mobili registrati, la cui natura consente di pubblicizzare adeguatamente le rispettive vicende circolatorie; se non che, il successivo riferimento testuale ai frutti dei beni conferiti potrebbe far pensare all’opportunità di estendere la disciplina della destinazione patrimoniale finanche alla generalità dei beni mobili [66] o, quantomeno, a quelli che sono parimenti assoggettabili ad un regime pubblicitario che consenta ai terzi di conoscerne la relativa condizione giuridica [67].

Da un punto di vista soggettivo, poi, come anticipato poc’anzi, l’articolo si riferisce unicamente al conferente – anche detto disponente – e al beneficiario della destinazione. Il primo è il proprietario originario dei beni, il soggetto da cui promana la volontà di costituire il vincolo e che sceglie in tal guisa di limitare le proprie facoltà di godimento e, eventualmente, di disposizione sulle res conferite, gestendo in prima persona o facendo gestire la massa destinata al fine di realizzare un interesse altrui o, in ogni caso, estraneo alla propria sfera [68]. Di conseguenza, alcuni autori ravvisano in questa circostanza la creazione di nuova forma proprietaria, introdotta proprio dall’art. 2645-ter: una proprietà nell’interesse altrui, distinta da quella delineata al­l’art. 832 cod. civ. poiché caratterizzata dall’utilizzo di beni e dell’impiego delle utilità da essi ritraibili a favore non del relativo proprietario, ma di terzi [69], ovvero per uno scopo determinato [70].

A tal proposito, è proprio il beneficiario l’unico altro soggetto puntualmente menzionato all’art. 2645-ter, che gode dei vantaggi patrimoniali discendenti dalla destinazione – unica affermazione, questa, universalmente condivisa, considerati i dissidi circa l’esatta qualificazione della sua situazione privilegiata [71] – e la cui identità, si ritiene, deve essere per lo meno desumibile dal contenuto dell’atto destinatorio [72], a nulla valendo il riferimento normativo a «persone con disabilità» e «pubbliche amministrazioni» [73].

Orbene, per quanto la norma non faccia alcun accenno al profilo gestorio della destinazione, nondimeno è innegabile che ciò rappresenti elemento imprescindibile per la realizzazione del programma negoziale. In ordine al suo concreto esplicarsi, poi, nulla osta ad ammettere tanto una destinazione statica – in cui il disponente, rimasto nella titolarità dei beni destinati, si occupa personalmente della gestione dei beni destinati, oppure opta per l’affidamento di simile attività ad un terzo, presumibilmente tramite un contratto di mandato [74] –, quanto una destinazione traslativa, in cui egli si spoglia interamente delle proprie facoltà proprietarie trasferendole ad un fiduciario, nuovo proprietario a tutti gli effetti del patrimonio vincolato [75], con il compito di amministrarlo in conformità al programma destinatorio [76].

La situazione si fa più complessa, peraltro, ove si intenda “sovrapporre” i ruoli dei suddetti soggetti all’interno di siffatto schema negoziale. In particolare, già con riferimento al trust la dottrina maggioritaria si è pronunciata negativamente di fronte all’ipotesi dell’autodestinazione, vale a dire una forma di destinazione in cui vi sia coincidenza tra titolare delle res vincolate e beneficiario [77]; circostanza che, peraltro, non va confusa con quella della c.d. destinazione autodichiarata, la quale implica la mera coincidenza tra conferente e gestore, senza che vi sia un terzo ad amministrare il patrimonio separato, ma con un beneficiario che è comunque diverso dal titolare dei beni (costituendo una ipotesi di destinazione statica, essa si considera pacificamente ammissibile [78]).

Comunemente, si sostiene che l’autodestinazione costituisca un’operazione priva di causa, pertanto nulla: insignire della posizione di beneficiario il medesimo soggetto che già vanta il diritto di proprietà sulla massa vincolata non solo sarebbe irragionevole, ma non avrebbe altra spiegazione se non quella di voler impedire, per mezzo dell’effetto di separazione, che i relativi creditori aggrediscano in via esecutiva tale massa, il che sottende indubbiamente una condotta fraudolenta [79]. Ad ogni modo, ove si tratti di destinazione statica, l’au­todestinazione invalida si presenterà quando vi sia identità tra conferente e beneficiario, mentre nel caso di destinazione dinamica a coincidere saranno l’attuatore titolare dei beni e il beneficiario: in quest’ultimo caso sembra ammissibile anche l’ipotesi che il beneficiario si identifichi con lo stesso conferente, dato che il trasferimento della titolarità all’attuatore realizza l’indefettibile requisito dell’alterità soggettiva [80]. Rimane da considerare, a riguardo, come alcune voci si levino però a favore della configurabilità di un vincolo autodestinato, affermando che non sarebbe del tutto inconcepibile, dal punto di vista causale, una destinazione il cui unico obiettivo sia la creazione un patrimonio separato, in quanto si tratta dell’effetto principale comunque discendente dalla norma [81].

Un tema vicino a quello dell’autodestinazione, poi, è quello della configurabilità di una generica causa destinatoria, segnatamente laddove la destinazione sia di tipo traslativo, e si rende necessario, dunque, individuare una giustificazione causale pure in ordine al trasferimento delle res vincolate [82]. Sebbene appaia improbabile accogliere una giustificazione causale di questo tipo – considerando, tra l’altro, i tentativi parimenti fallimentari con riguardo alla configurazione di una fantomatica causa fiduciae nel negozio fiduciario [83] – una corrente dottrinale minoritaria la considera potenzialmente sufficiente a reggere l’atto traslativo nel contesto di una destinazione dinamica, a patto che venga accertato positivamente il nesso di strumentalità che lega il trasferimento all’attuazione della destinazione [84].

A tal proposito, è proprio il profilo causale a rappresentare il fulcro della destinazione [85] – l’aspetto più affascinante e, al contempo, controverso della figura introdotta dall’art. 2645-ter – per un duplice ordine di motivi: in primis perché, a differenza delle altre fattispecie di destinazione patrimoniale già codificate, la norma in esame sottrae il negozio ivi disciplinato allo schema dell’art. 2740, comma 2, cod. civ., nel senso che rimette ai privati – anziché al legislatore – la selezione degli interessi idonei a giustificare la nascita del vincolo [86]; in secundis perché l’autonomia privata viene ridimensionata dal doveroso rispetto del criterio di meritevolezza dell’interesse, ribadito dal richiamo all’art. 1322, comma 2, cod. civ., la cui interpretazione costituisce, però, fonte di numerosi dissidi tra i commentatori, alimentati ulteriormente dall’enigmatica indicazione della riferibilità dell’interesse perseguito a persone con disabilità e pubbliche amministrazioni. Sintetizzando, numerose voci asseriscono che l’esplicita menzione dell’art. 1322, comma 2, non valga a identificare il criterio di meritevolezza con la mera non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume richiesta in ambito contrattuale [87]; tra costoro, poi, v’è un’ulteriore scissione tra chi ritiene che il riferimento a disabili e amministrazioni pubblichi costituisca indice della rilevanza etico-solidaristica o pubblicistica che l’interesse destinatorio deve assumere [88], e chi semplicemente reputa la meritevolezza un concetto relazionale, sicché andrebbe valutata caso per caso, alla luce di un bilanciamento rispetto ai contrapposti interessi creditori [89]. Altra parte della dottrina, al contrario, ritiene significativo il richiamo ad «altri enti e persone fisiche» contenuto nell’art. 2645-ter, traendone da ciò la piena coincidenza tra giudizio di meritevolezza e di liceità, in ossequio all’ampia autonomia che la formulazione della norma pare lasciare ai consociati, ed estendendone al massimo grado la portata applicativa, in modo tale da ammettere qualsiasi giustificazione causale, purché idonea a sorreggere gli effetti discendenti dall’atto di destinazione [90].

A prescindere dall’opinione accolta, rimane il fatto che la scelta dell’interesse da perseguire attraverso l’atto di destinazione si rivela un’operazione assai delicata, se non altro perché l’esito negativo del controllo di meritevolezza [91] comporta irrimediabilmente non solo l’inopponibilità del vincolo a creditori e aventi causa [92], ma finanche l’invalidità tout court del negozio destinatorio [93].

A proposito di opponibilità ai terzi, si è più volte affermato come il vincolo reale di cui all’art. 2645-ter sia corredato dall’effetto di separazione: queste due caratteristiche – id est realità e separazione – costituiscono, nel loro insieme, la «regola di opponibilità del vincolo di destinazione [94]», in assenza della quale que­st’ultimo esaurirebbe la propria efficacia sul piano interno dell’obbligatorietà [95]. Peraltro, a differenza di quanto si verifica nel trust, si ritiene che la separazione determinata dal vincolo de quo sia di tipo unilaterale, il che determina, conseguentemente, un’incomunicabilità unidirezionale tra patrimonio destinato e patrimonio residuo [96]: ciò implica che, da un lato, quei creditori il cui rapporto non si fonda sull’interesse destinatorio non potranno soddisfare le proprie pretese sul patrimonio destinato, il quale resta riservato unicamente ai creditori della destinazione; dall’altro, quest’ultimi creditori potranno aggredire finanche il patrimonio personale del conferente – melius, del titolare dei beni vincolati – sebbene in via sussidiaria [97].

L’unica chance per i creditori c.d. estranei di accedere, in via esecutiva, alla massa vincolata è che la loro situazione ricada nella previsione di cui all’art. 2915, comma 1, cod. civ.: in altre parole, il vincolo risulterà ad essi inopponibile laddove non sia stato trascritto prima della trascrizione dell’atto di pignoramento [98]. In ogni caso, anche qualora non si versi nella situazione appena descritta, siffatta categoria creditoria può godere comunque una tutela adeguata, dal momento che viene concesso a chi di diritto, qualora ne ricorrano i presupposti, di servirsi sia del rimedio “rafforzato” di cui all’art. 2929-bis [99] sia, più comunemente, dell’azione revocatoria ex art. 2901 [100]; sicché, con riguardo a quest’ultima evenienza, sarà necessario valutare i requisiti di procedibilità tenendo presente tanto la struttura dell’atto di destinazione, quanto la sua gratuità o onerosità, riflesso, a sua volta, della natura dell’interesse perseguito nel concreto attraverso l’atto destinatorio [101].

Per quanto concerne, invece, i creditori della destinazione, l’opinione prevalente è che non ci si debba limitare a ricomprendere in codesta categoria soltanto i creditori di fonte negoziale; al contrario, applicando le medesime conclusioni cui è giunta la giurisprudenza di legittimità in materia di fondo patrimoniale [102], si dovrà concludere che anche quei creditori la cui obbligazione è sorta ex delicto (c.d. involontari) saranno legittimati a procedere al pignoramento dei beni sottoposti a vincolo di destinazione, se l’illecito è inerente in concreto all’ambito della destinazione prevista [103].


5. Il primo motivo di inammissibilità addotto dalla Corte. Riflessioni sulla meritevolezza di una destinazione posta a presidio di interessi familiari

La disamina degli ultimi due profili della destinazione patrimoniale ivi considerati, vale a dire quello causale e quello rimediale, ci consentono ora di analizzare in maniera più dettagliata le ragioni che hanno condotto la Suprema Corte a dichiarare l’inammissibilità del ricorso.

Nella motivazione della Corte si legge come i ricorrenti abbiano tralasciato di considerare che i rispettivi atti di destinazione non soltanto sono da reputarsi inefficaci, dato il vittorioso esperimento della revocatoria esercitata dalla controparte, bensì finanche nulli, dal momento che l’interesse perseguito è stato giudicato inidoneo a superare positivamente il vaglio di meritevolezza; un requisito, questo, indispensabile ai fini dell’effettiva validità della destinazione, costituendo il nucleo centrale – come osservato poc’anzi – della figura delineata all’art. 2645-ter. Precisamente, la Corte, richiamando l’orientamento prevalente in dottrina [104], lascia intendere come destinare un patrimonio alla soddisfazione di interessi riconducibili al sostentamento del nucleo familiare del conferente, servendosi dell’espediente di cui all’art. 2645-ter, rappresenti un’opera­zione “fin troppo accorta”: difatti, a presidiare gli interessi patrimoniali della famiglia fondata sul vincolo del matrimonio soccorre già, nel nostro ordinamento, la fattispecie del fondo patrimoniale, la quale è connotata, tra l’altro, da una serie di norme che limitano la discrezionalità delle parti coinvolte nell’opera­zione destinatoria [105]. Diversamente, afferma sempre la Corte (stavolta espressamente), la destinazione ex art. 2645-ter costituisce uno strumento legittimamente sfruttabile a favore di contesti familiari che esulano dall’ambito applicativo del fondo patrimoniale, come accade per la famiglia fondata su una mera convivenza more uxorio [106].

Tuttavia, pacifico quest’ultimo punto, è sulla prima affermazione che si potrebbe – direi, a ragione – dissentire.

Che la destinazione costituisca un utile strumento per provvedere alla realizzazione di interessi familiari non è da mettere in dubbio: lo stesso legislatore, provvedendo a tipizzare entro i confini dello schema di cui all’art. 2740, comma 2, cod. civ. una fattispecie di separazione ad hoc riservata alla famiglia legittima, ha infatti esplicitato l’intento di riconoscere la prevalenza dei relativi interessi, nei casi e nei modi di cui agli artt. 167 ss., rispetto al contrapposto interesse alla tutela del credito [107].

Dalle norme in tema di fondo patrimoniale, peraltro, è possibile individuare una serie di principi inderogabili, i quali riducono significativamente gli spazi di libertà concessa ai familiari e conferiscono all’assetto dell’istituto una rigidità non altrettanto contemplata nello strumento destinatorio atipico [108]; circostanza, invero, determinata dal fatto che la disciplina del fondo tiene conto della necessità di presidiare degli interessi reputati costituzionalmente rilevanti, tra cui spiccano il principio di parità tra coniugi e, ancor di più, la tutela della prole, in particolare laddove minorenne [109].

Più nel dettaglio, tra tali principi inderogabili si è soliti menzionare, in primo luogo, la definizione di “bisogni della famiglia”, così come enucleata dalla dottrina maggioritaria. Sotto il profilo soggettivo, quantunque l’accezione di famiglia adottata dal legislatore venga tradizionalmente fatta coincidere con quella di famiglia legittima nucleare (cioè quella costituita dai coniugi e dalla loro prole), con tendenziale esclusione delle altre figure parentali [110], oggigiorno appare doveroso ampliare tale nozione sì da ricomprendervi quegli ulteriori soggetti che parimenti possono trovare spazio all’interno del nucleo familiare [111], senza tralasciare la necessità – quanto mai attuale – di adeguare il concetto alle trasformazioni intervenute per mezzo della legge Cirinnà [112]. Da un punto di vista oggettivo, posto che la legge prescrive l’impiego dei beni e dei frutti vincolati, in maniera generica, «a far fronte ai bisogni della famiglia», per individuarne il precipuo contenuto viene assunto quale indicatore il tenore di vita concordato dai coniugi, ai sensi dell’art. 144 cod. civ. [113]; inoltre, l’impiego delle res potrà esplicarsi, si afferma, tanto tramite l’utilizzo diretto dei cespiti e delle relative utilità, quanto attraverso il reimpiego di quest’ultime [114], sia per esigenze di ordine “collettivo”, sia per quelle riferibili ai singoli membri della compagine familiare [115].

In secondo luogo, parimenti inderogabili sono tradizionalmente reputate le regole sull’amministrazione dei beni vincolati ritraibili dall’art. 168, ult. comma, il quale a sua volta rinvia alle norme sull’amministra­zione della comunione legale [116]. Derogabile è invece, per espressa previsione di legge, l’art. 169, che concerne il compimento di specifici atti di c.d. straordinaria amministrazione: precisamente, ove si tratti di compiere alienazioni o di costituire ipoteche, pegni o altri vincoli sui beni conferiti, si richiede il consenso congiunto dei coniugi e, qualora vi siano figli minorenni, un’autorizzazione giudiziale condizionata all’accerta­mento di una condizione di evidente necessità o utilità [117]. Piuttosto controversa, però, rimane l’effettiva portata della deroga prevista nell’inciso iniziale di tale ultima norma [118]: v’è chi ritiene derogabile solo il requisito della necessità o utilità evidente in relazione all’atto che si intende compiere; chi ritiene derogabile unicamente il requisito del consenso congiunto quando non vi siano figli minori; chi addirittura reputa – pur trattandosi di una corrente decisamente minoritaria – che si possa prescindere dall’autorizzazione giudiziale richiesta in presenza di questi ultimi, precisando, però, che in tal caso dovrebbe permanere l’obbligo di amministrazione congiunta da parte dei genitori; infine, non mancano interpretazioni alquanto estensive, che ammettono la derogabilità tanto dell’agire congiunto quanto dell’autorizzazione giudiziale, con l’unico – e ragionevole – limite di dover valutare, in ogni caso, l’opportunità di simili operazioni alla luce dei citati parametri di necessità o utilità evidente [119].

Ancora, la disciplina della responsabilità a tutela del ceto creditorio è annoverata tra i dogmi intangibili della materia: dall’art. 170 si trae, a contrario, che i beni e i frutti conferiti al fondo sono aggredibili solamente da parte dei creditori della destinazione e da quegli altri creditori, c.d. inconsapevoli, che, al tempo del sorgere dell’obbligazione, ignorassero in buona fede l’estraneità del proprio rapporto ai bisogni familiari [120]; senza dimenticare che, per interpretazione oramai costante, si considerano onerati della prova in giudizio di tale stato soggettivo i coniugi, e non i creditori stessi, ché altrimenti si darebbe luogo ad una probatio diabolica [121].

Da ultimo, occorre menzionare l’ultima norma in tema di fondo patrimoniale, l’art. 171, che si occupa di disciplinare le vicende estintive del fondo e le relative conseguenze. Tralasciando di illustrare le discrepanze dottrinali sull’ampiezza del novero delle possibili cause di cessazione del vincolo [122], ciò che più ci interessa sono le disposizioni ai commi 2 e 3: quantunque si verifichi una causa estintiva, infatti, la norma impone la sopravvivenza del fondo patrimoniale fintantoché i figli della coppia non raggiungano tutti la maggiore età; per giunta, viene consentito al giudice «altresì (di) attribuire ai figli, in godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo». Si può osservare l’indubbio intento del legislatore di preservare gli interessi della prole attraverso l’ultrattività del fondo – confermato dall’espressa facoltà, attribuita in tale circostanza a qualsivoglia interessato, di richiedere un intervento giudiziale che regoli la gestione del fondo per il tempo necessario [123] – ma, a dire il vero, non appare del tutto chiaro se la previsione del comma 3 sia stata posta a “rafforzamento” della precedente, ovvero sia da ritenersi da essa scollegata [124].

Volgendo uno sguardo d’insieme a queste previsioni, allora, non si potrà ignorare come la disciplina del fondo patrimoniale conceda ai coniugi – rectius, alle parti coinvolte – dei limitatissimi spazi di discrezionalità, assicurati unicamente dalle clausole di derogabilità inserite nell’art. 168, comma 1, in merito alla proprietà comune dei beni conferiti, e, come si è visto, nell’art. 169, circa il compimento di determinati atti di disposizione aventi ad oggetto le res vincolate. È di fondamentale importanza, però, sottolineare che la vincolatività dei suddetti principi si esplicherà soltanto all’interno della disciplina ex artt. 167 ss.; detto in altre parole – secondo l’interpretazione che ci pare preferibile, e anticipando così una riflessione che si condurrà a breve – le rigide regole appena enunciate condizionano l’autonomia dei privati solo qualora essi intendano dar vita al vincolo di destinazione proprio del fondo patrimoniale. Diversamente, se si ammettesse l’ado­zione, accanto a quest’ultimo, di uno strumento destinatorio alternativo per rispondere alle medesime esigenze, più flessibile ed eventualmente conforme ai reali interessi dei coniugi (i quali potrebbero, peraltro, preferire il più rigido regime destinatorio del fondo) gli unici limiti da tenere in doverosa considerazione sarebbero quelli che informano, più in generale, il complesso dei regimi patrimoniali della famiglia [125], posto che in tal caso si darebbe vita a una convenzione matrimoniale atipica [126].

Ad ogni modo, è palese come tutto quanto appena descritto determini, al contrario, più di un punto a favore dell’utilizzo del vincolo destinatorio atipico [127], a discapito di quello tipico del fondo patrimoniale. La destinazione ex art. 2645-ter viene tendenzialmente interpretata quale ennesima manifestazione della volontà legislativa di valorizzazione dell’autonomia privata, sull’onda di quel trend costantemente crescente all’au­mento di ipotesi di specializzazione della responsabilità patrimoniale: con il rischio, però, che ad ammettere un suo impiego indiscriminato finanche in quei settori ove si sia già provveduto a regolamentare specifiche forme di destinazione – e di separazione – patrimoniale, essa finisca, nella prassi, per soppiantare l’utilizzo di quest’ultime [128].

Che un simile rischio, però, vada a costituire un invalicabile ostacolo allo sfruttamento delle potenzialità applicative della norma in questione, potrebbe rivelarsi una conclusione fin troppo rigida.

Si è detto di come il profilo causale dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter crei una profonda frattura in dottrina tra chi ritiene che la meritevolezza si debba far coincidere con il parametro di non illiceità e chi, al contrario, afferma che tale carattere possa attribuirsi soltanto ad un interesse destinatorio particolarmente qualificato. Ora, a prescindere dall’orientamento che si intenda accogliere, è opinione comune che un ottimo criterio dirimente per selezionare un interesse idoneo a sorreggere l’operazione destinatoria possa consistere nella considerazione di quelle medesime finalità sottese alle fattispecie di destinazione già tipizzate, tra le quali, appunto, figura il succitato fondo patrimoniale [129]. Tale modus operandi rappresenta un’ulteriore riprova – anzi, è proprio sintomo – del carattere di meritevolezza riconosciuto alla causa familiare nel nostro ordinamento, una tra le poche cui il legislatore ha accordato espressamente la capacità di giustificare un effetto di separazione patrimoniale, ben prima dell’entrata in vigore dell’art. 2645-ter cod. civ.; e ciò, a ben vedere, sia che si sfrutti la destinazione – considerata, in questo caso, nella sua accezione generica – a favore di una famiglia legittima, sia a favore di altre e nuove tipologie di famiglia, vista la fluidità di tale concetto e la progressiva tendenza alla parificazione, sul piano giuridico, di nuclei familiari anche piuttosto eterogenei [130].

Non solo: su altro versante, negli ultimi tempi si osserva una decisiva spinta verso la privatizzazione del settore giusfamiliare [131] strettamente inteso, vale a dire con riferimento alla famiglia fondata sul vincolo del matrimonio, a partire dalla notevole libertà concessa ai coniugi, in occasione di una c.d. crisi familiare, nel sistemare i reciproci rapporti patrimoniali [132]. E allora, già solo considerando questo quadro, si potrebbe compiere un passo ulteriore verso la valorizzazione dell’autonomia privata: in altre parole, non sarebbe illogico né inappropriato riconoscere anche ai membri di una famiglia coniugale l’opportunità di servirsi di uno strumento, come quello ex art. 2645-ter, in grado di accentuare questa tendenza. Del resto, si potrebbe anche aggiungere come, precludendo ai coniugi l’impiego della destinazione atipica, si realizzerebbe una situazione di «discriminazione alla rovescia [133]» rispetto a quanto oramai si concede a una qualsiasi famiglia di fatto [134].


6. Segue. La querelle dottrinale in tema di destinazione atipica a favore della famiglia coniugale e i relativi riflessi sull’applicazione dell’art. 2645-ter ai conviventi

Se quanto appena illustrato non bastasse ad ammettere la destinazione atipica per la famiglia legittima, si potrebbe volgere lo sguardo verso alcuni dei più recenti approdi dottrinali.

Come accennato, l’applicabilità dell’art. 2645-ter nel suddetto contesto viene avversata, oltre che dalla Corte nella pronuncia in esame, da buona parte dei commentatori alla novella [135], nella convinzione che, altrimenti, si renderebbe inoperante la disciplina del fondo patrimoniale, o peggio, si acconsentirebbe ad eluderne le norme, e che, per di più, l’impiego dello strumento atipico in luogo di quello tipizzato per la realizzazione dei medesimi interessi integrerebbe una violazione della riserva di legge di cui all’art. 2740, comma 2, cod. civ. [136]. Altre argomentazioni ritenute decisive fanno leva sul presunto difetto di meritevolezza di una destinazione ex art. 2645-ter fondata su un interesse identico a quello perseguito da un’altra fattispecie già tipizzata [137] e sull’idea che in ogni caso questa figura, se riferita alla tutela della famiglia coniugale, concreterebbe una forma di autodestinazione, in quanto i coniugi assumerebbero in sé il ruolo di conferenti, amministratori e beneficiari allo stesso tempo [138]. Alla base della dottrina appena menzionata è possibile ravvisare una concezione del tipo “genere-specie” circa il rapporto tra il vincolo di destinazione atipico e il vincolo discendente dal fondo, tale per cui al primo, pur se congegnato “a maglie larghe”, non sarebbe comunque consentito di sovrapporsi all’ambito applicativo di altre figure già tipizzate di destinazione con separazione patrimoniale [139].

Nondimeno, una distinta corrente di pensiero accoglie una concezione parzialmente differente del rapporto tra destinazione atipica e destinazione familiare, concepito in termini maggiormente conciliativi [140]. Precisamente, si afferma come in realtà il vincolo ex art. 2645-ter possa impiegarsi anche a favore di una famiglia legittima, ma con l’accortezza di estendervi proprio quegli stessi principi inderogabili in tema di fondo patrimoniale – per giunta, utili a integrare le lacune della novella [141] – in modo tale da impedire ai privati di aggirare la disciplina di cui agli artt. 167 ss. e, al contempo, assicurare una posizione egualitaria alle parti coinvolte [142]. Del resto, gli stessi autori che aderiscono a codesta tesi – e non soltanto [143] – giungono a conclusioni simili pure con riferimento all’impiego dell’atto di destinazione atipico nel settore imprenditoriale: anche qui, infatti, non si mette in dubbio la meritevolezza della causa d’impresa, posto che il legislatore ha specificamente codificato agli artt. 2447-bis ss. la figura dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, sicché tale giustificazione potrà ben sorreggere un vincolo di cui all’art. 2645-ter; l’importante, però, è che venga individuata una “linea di confine” invalicabile, un coacervo di regole da preservare, in modo tale da evitare che l’atto destinatorio atipico divenga un espediente per disattendere la disciplina inderogabile in materia di destinazione imprenditoriale [144].

A considerazioni analoghe, tra l’altro, si espone l’applicazione dell’atto di destinazione atipico alla famiglia fondata sulla mera convivenza [145]: secondo i fautori di questa dottrina, ammettere un’applicazione del 2645-ter del tutto incondizionata a favore dei conviventi avrebbe come risvolto quello di attribuire loro un regime più favorevole, a discapito della famiglia legittima che, invece, rimarrebbe soggetta alle numerose restrizioni imposte dagli artt. 167 ss. [146]. Per risolvere questa impasse, allora, si precisa come ai conviventi sia concesso usufruire della destinazione ex art. 2645-ter, visto che la norma non pone limitazioni di alcun genere a riguardo, ma che, per motivi di coerenza, si dovrà pur sempre assoggettare il vincolo atipico alla medesima disciplina inderogabile del fondo patrimoniale, onde evitare sperequazioni rispetto al regime stabilito ex lege per la famiglia coniugale; in alternativa, piuttosto che discorrere di imposizione, alcuni suggeriscono la mera opportunità – e non l’obbligo – di plasmare l’atto destinatorio con riferimento al modello ideale del fondo patrimoniale, senza precludere alle parti, però, di configurarlo diversamente [147].

Al di là di questa sorta di “tentativo di pacificazione” [148], però, non bisognerebbe tralasciare l’opportu­nità di considerare un orientamento ancor più “liberale” con riferimento all’applicabilità della norma de qua, come sottolinea un’autorevole – seppur più ristretta – cerchia di commentatori [149]. Tra costoro, un autore [150] sostiene fermamente che la natura del vincolo ex art. 2645-ter non sia quella di genus rispetto alle altre forme di destinazione, ma che esso, con specifico riguardo al fondo patrimoniale, si ponga come succedaneo di quest’ultimo. Coloro che accolgono tale concezione, in particolare, traggono una conclusione diametralmente opposta rispetto a quella propugnata dalla dottrina maggioritaria, nel senso che la disparità tra i due strumenti destinatori consentirebbe ai coniugi di scegliere se adoperare, a seconda dei casi, l’uno o l’altro: di logica, essi ricorreranno al fondo patrimoniale, dalla disciplina più ferrea, ove intendano godere di notevoli garanzie, soprattutto a favore della loro prole, mentre ricorreranno all’atto di destinazione ex art. 2645-ter qualora preferiscano concedersi una maggiore discrezionalità nella determinazione del programma destinatorio [151].

A ben vedere, una tesi di questo stampo, che mira a sfruttare le potenzialità della norma piuttosto che a svalutarle, non sembra priva di fondamento; a maggior ragione considerando come le obiezioni degli “scettici” possano essere facilmente superate. Difatti, in primo luogo, è proprio la circostanza che il legislatore predetermini la meritevolezza dell’interesse facente capo alla famiglia legittima a consentirci di avvalorare l’utilizzabilità anche di strumenti atipici allo stesso fine, in linea con il criterio selettivo di cui si è detto poco fa; inoltre, ci pare illogico ravvisare in una destinazione ex art. 2645-ter a scopo familiare un’ipotesi di autodestinazione, poiché allora, così opinando, la stessa accusa andrebbe mossa anche alla fattispecie del fondo patrimoniale.

Per di più, la tesi in parola consentirebbe di risolvere ab origine il problema della disparità di trattamento rispetto a una destinazione atipica a favore di conviventi more uxorio: reputando il vincolo ex art. 2645-ter e quello discendente dal fondo patrimoniale due strumenti di natura distinta, non vi sarebbe ragione di applicare i principi inderogabili propri di quest’ultima fattispecie né alla famiglia legittima, né tantomeno a quella di fatto [152].

Se la soluzione accolta sottrae la destinazione atipica, in ragione della sua connaturata flessibilità, dall’es­sere sottoposta all’intero complesso delle norme inderogabili ex artt. 167 ss., anche laddove costituita a beneficio di una famiglia legittima, ciò non vale a legittimarne un ricorso scevro da qualsivoglia limitazione  [153]: al contrario, posto che l’atto istitutivo del vincolo de quo andrebbe ad integrare una convenzione matrimoniale atipica a tutti gli effetti [154] – e alternativa al fondo –, allora esso dovrebbe plasmarsi quantomeno nel rispetto di quei canoni che, a monte, sottendono la disciplina tanto dei regimi patrimoniali (secondari) tra i coniugi, quanto delle convenzioni matrimoniali; canoni che, a loro volta, promanano da una medesima matrice, vale a dire dal c.d. regime patrimoniale primario della famiglia [155].

A tal proposito, almeno due principi orientano la regolamentazione dei rapporti patrimoniali intra-familiari: in primis, va menzionato il dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia di cui all’art. 143, ult. comma cod. civ., imposto ad entrambi i coniugi secondo criteri di proporzionalità e solidarietà [156], e inderogabile per espressa previsione ex lege [157].

Ma ciò, a ben vedere, non sarebbe di per sé sufficiente: oltre a rappresentare un centro di affluenza della ricchezza individuale, la famiglia, invero, è portatrice di valori riconducibili alla sfera più intima della persona e dei suoi rapporti affettivi, che a loro volta si traducono in ulteriori diritti e doveri di natura pressoché indisponibile [158]. Al contempo, e come conseguenza della delicatezza degli interessi di cui il settore giusfamiliare si occupa, in tale contesto è particolarmente sentita l’esigenza di tutelare al meglio la condizione di soggetti c.d. deboli; principalmente, si tratterà dei figli della coppia, soprattutto laddove non abbiano raggiunto la maggiore età, ai quali è doveroso assicurare mantenimento, istruzione ed educazione in ossequio al dettame costituzionale [159].

Alla luce di questa considerazione, pertanto, sarà più agevole individuare un metodo che consenta di approcciarsi adeguatamente alla vexata quaestio della destinazione atipica con causa familiare: secondo una rinnovata chiave di lettura [160], in questa circostanza riemerge la funzionalità di alcune delle disposizioni inderogabili dettate per la destinazione familiare tipizzata [161], le quali assurgeranno a fonte di integrazione al fine di porre rimedio alle lacune dell’art. 2645-ter in punto di tutela [162]; in particolare, ad avviso di chi scrive, non si potrà prescindere da quelle regole specificamente poste a presidio della prole, ove presente [163].

Potrebbe ritenersi applicabile alla destinazione atipica l’art. 169 cod. civ., nella parte in cui prescrive l’au­torizzazione giudiziale per il compimento di taluni atti di straordinaria amministrazione sui beni conferiti: una regola che, nonostante parte della dottrina reputi disponibile già con riferimento al fondo patrimoniale, potrebbe reputarsi insuperabile tanto in quel contesto quanto, di conseguenza, in occasione dell’impiego del­l’atto di destinazione generico, ove a beneficio di figli minorenni [164].

Seguendo siffatto iter logico, la stessa sorte potrebbe riservarsi anche alla previsione che impone la sopravvivenza del vincolo destinatorio fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio: è ragionevole pensare che, sfruttando l’atto atipico, i coniugi saranno liberi perfino di estendere la durata del vincolo oltre tale termine [165]; meno tollerabile, forse, sarebbe attribuire loro la chance di ridurre la durata della destinazione, per le motivazioni garantistiche di cui si è detto finora.

Le ulteriori limitazioni ritraibili dalla disciplina del fondo, peraltro, non sembrano assumere una rilevanza tale da poter limitare la manifestazione dell’autonomia privata così come sancita nell’art. 2645-ter: ad esempio, sarebbe improbabile pensare di estendere all’atto atipico la regola di cui all’art. 170 cod. civ. [166], la quale, imponendo la verifica dello stato soggettivo di buona fede in capo ai creditori c.d. estranei alla destinazione, ci pare lontana dall’odierna configurazione del rapporto tra tutela del credito e separazione patrimoniale, rispecchiata più fedelmente, invece, dalla formulazione dell’art. 2645-ter [167]. D’altronde, com’è noto, il regime di separazione della destinazione atipica assicura ai privati un effetto addirittura più pregnante – si potrebbe dire “assoluto” – in quanto preclude ad ogni creditore, il cui rapporto non sia sorto in correlazione alla destinazione, e a prescindere dal relativo stato soggettivo, di aggredire il patrimonio vincolato ex art. 2645-ter [168].

Ad ogni modo, qualche margine di operatività, secondo alcuni autori, potrebbe concedersi anche alle regole di amministrazione richiamate all’art. 168, ult. comma [169], ovvero all’elenco delle cause di cessazione del fondo elencate all’art. 171 e ulteriormente integrate dalla dottrina [170].

Naturalmente, le differenti linee interpretative in tema di destinazione familiare appena illustrate ad oggi necessitano di adeguarsi alla situazione creatasi dall’entrata in vigore della l. 20 maggio 2016, n. 76.

Quanto alle unioni civili, si deve considerare come, in passato, l’assenza di un loro riconoscimento impedisse ai partners della coppia omosessuale di fruire del regime patrimoniale di cui all’art. 167 ss., mentre veniva concessa loro l’esperibilità della sola destinazione regolata all’art. 2645-ter; oggi, diversamente, la legge Cirinnà opera un rinvio esplicito alle norme codicistiche dedicate al fondo patrimoniale [171], sicché anche con riguardo alle coppie unite civilmente si dovrà valutare se sia doveroso confinare la destinazione alla disciplina tipizzata ovvero – com’è preferibile per chi scrive – se alla coppia sia dato servirsi anche della destinazione atipica, al pari di quanto avveniva già prima della riforma.

Maggiori complicazioni si incontrano, invece, con riguardo alle c.d. convivenze registrate, posto che i commentatori restano schierati su fronti opposti in merito all’interpretazione della legge de qua [172]: da un lato, vi è chi sostiene che i conviventi possano servirsi solamente dell’art. 2645-ter per dare vita a una destinazione nel loro interesse, non potendosi ammettere l’impiego del fondo patrimoniale in quanto l’unico regime menzionato dalla norma è quello della comunione legale [173]; altri, valorizzando il generico riferimento alle «modalità di contribuzione» di cui si fa menzione nella normativa, ritengono che i conviventi possano adottare un regime analogo al fondo patrimoniale per mezzo del contratto tipico di convivenza e che, all’opposto, non sia più concesso loro sfruttare l’art. 2645-ter [174].

Probabilmente, se si intendesse accogliere una soluzione più equa e in linea con le conclusioni ivi accolte e se, al contempo, si ritenesse di concedere ai conviventi l’esperibilità del fondo patrimoniale – melius, di un suo fac simile, dato che la dottrina summenzionata parla di “regime analogo” – allora, in quel caso, sarebbe certamente opportuno attribuire loro la chance di utilizzare sia lo strumento destinatorio tipizzato che quello atipico. Se non che, allo stato dei fatti, probabilmente la tesi più convincente rimane quella che concede ai conviventi registrati soltanto il ricorso alla destinazione ex art. 2645-ter, allo stessa maniera di quanto si è affermato con riguardo ai conviventi more uxorio; d’altronde, di convivenza sempre si tratta: per quanto ad oggi si sia regolamentata sotto alcuni profili, la qualificazione di “conviventi” esprime pur sempre la volontà di sottrarre il relativo rapporto agli altri vincoli familiari più stringenti previsti nel nostro ordinamento.


7. Il secondo motivo di inammissibilità addotto dalla Corte. La revocatoria dell’atto di destinazione ex art. 2645-ter

Per ragioni di completezza, ci pare adeguato considerare anche il secondo motivo per cui viene respinto il ricorso, nella pronuncia da cui prende spunto il presente lavoro: precisamente, esso concerne l’aspetto della tutela dei creditori pregiudicati dalla destinazione, fondato sul vittorioso esperimento dell’a­zione revocatoria esercitata in primo grado dalla curatela [175], il che avrebbe comunque reso inefficaci nei confronti di questa i negozi destinatori posti in essere dai ricorrenti, a prescindere dalla relativa (in)validità.

Nondimeno, già in secondo grado gli ex amministratori avevano lamentato la mancata verifica, da parte del Tribunale, del requisito del consilium fraudis anche in capo ai terzi – id est dei beneficiari della destinazione, dunque i familiari degli amministratori [176] – coinvolti nell’operazione destinatoria; ma la Corte di Appello di Genova aveva prontamente smentito tale obiezione, affermando come, data la gratuità dell’atto di destinazione, non risultasse necessario verificare tale requisito, essendo sufficiente la constatazione dello stesso con riguardo ai soli debitori disponenti.

Quanto al giudizio innanzi alla Cassazione, i ricorrenti perseverano nell’affermare la negligenza del giudice di secondo grado in ordine all’accertamento del succitato requisito; la Cassazione, invero, non fa altro che ribadire le medesime conclusioni emerse in appello: richiamando una costante giurisprudenza di legittimità [177], afferma che la gratuità dell’atto di destinazione esime chi giudica dal verificare tanto la sussistenza della participatio fraudis di terzi all’operazione pregiudizievole quanto, per il caso di crediti sorti successivamente all’atto pregiudizievole, della loro dolosa preordinazione assieme al debitore.

Ma sia consentito, a tal proposito, fare un passo indietro e chiedersi: in che rapporti si pongono l’azione revocatoria [178] e la destinazione patrimoniale? O meglio, come si può assicurare la tutela dei creditori a fronte di una destinazione patrimoniale con efficacia di separazione?

La tutela dei creditori, in primo luogo, passa attraverso la pubblicizzazione del vincolo, aspetto che, secondo l’orientamento prevalente, è indefettibilmente connaturato all’art. 2645-ter [179]: in tal guisa, attraverso la trascrizione dell’atto e l’applicazione delle regole di priorità proprie di siffatto adempimento pubblicitario [180], si assicura innanzitutto l’affidamento del terzo creditore, il quale potrà sempre essere edotto delle vicende circolatore che coinvolgono i beni di suo interesse [181]. Rimane, però, che nel concreto la destinazione realizza pur sempre una limitazione della responsabilità patrimoniale in capo al soggetto che la pone in essere, in deroga al principio di cui all’art. 2740 [182].

Della progressiva perdita di spessore di tale principio nel nostro ordinamento si è già disquisito a sufficienza; ad ogni modo, se è chiaro che la «tutela del credito» non rappresenta più un valore assoluto, ciò non toglie che esso necessiti pur sempre di essere realizzato – melius, garantito – attraverso un suo bilanciamento con valori emergenti e altrettanto rilevanti nel sistema attuale. Peraltro questo bilanciamento, a parere di chi scrive, non si pone ex ante nella fase costitutiva del patrimonio destinato di cui all’art. 2645-ter, tramite un giudizio di meritevolezza che esuli dalla semplice rispondenza dell’interesse perseguito al criterio di liceità, ma si colloca in una fase successiva, e viene assicurato conferendo al ceto creditorio degli strumenti idonei a far valere le proprie pretese [183]: in altre parole, a ragionare in questi termini non si viola assolutamente il principio di responsabilità patrimoniale, dal momento che è il legislatore stesso ad aver attribuito a una destinazione che rispetti i requisiti previsti dalla norma l’autorizzazione a derogarvi, senza che si renda necessario giustificare questo risultato ravvisando nell’interesse perseguito un certo “spessore”, una particolare connotazione che vada oltre l’imprescindibile sussistenza di un adeguato fondamento causale e la sua non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume.

È interessante riportare, perfettamente in linea con quanto si è appena esplicato, l’osservazione compiuta in un recentissimo contributo [184], ove si legge che, sul versante del rapporto tra vincolo di destinazione e tutela creditori, incide ancora una volta – costituendo, del resto, il fulcro della figura in esame – il profilo causale della destinazione o, in altre parole, la percezione che si ha del parametro della meritevolezza: precisamente, c’è una discrepanza tra chi lo reputa un concetto relazionale e, dunque, asserisce che la tutela degli interessi creditori debba necessariamente inserirsi nella succitata valutazione comparativa con il contrapposto interesse sotteso alla destinazione [185], e chi, diversamente, ritiene che il concetto si identifichi con la semplice liceità, e che a presidio della posizione del ceto creditorio sovvenga in ogni caso la tutela offerta “dall’esterno” attraverso i rimedi processuali concessi ai creditori, tra cui figura in prima linea proprio l’azione revocatoria [186].

Tornando alla vicenda di nostro interesse, prima facie l’affermazione della Corte, a conferma di quanto asserito dai giudici di merito nei gradi di giudizio precedenti, appare piuttosto condivisibile. Tuttavia, per quanto si possa anche ritenere, nel caso di specie, la revocatoria fondata, a chi scrive pare proprio che la Corte abbia fondato l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso sul presupposto di un’automatica identificazione tra atto di destinazione ex art. 2645-ter (in tale circostanza, con causa familiare) e atto a titolo gratuito; il che, di per sé, sarebbe sufficiente a ritenerne il ragionamento, se non proprio erroneo, quantomeno incompleto.

A confermare questo sospetto, tra l’altro, v’è la constatazione del fatto che recenti pronunce di legittimità abbiano trattato la destinazione patrimoniale ai sensi dell’art. 2645-ter sempre in qualità di vincolo statico e di natura gratuita [187], mentre emerge come si faccia riferimento al trust per discorrere di un vincolo di destinazione avente struttura dinamica, che può assumere anche carattere oneroso [188]; complice, del resto, il fatto che nella pratica sovente si verifica che privati ricorrano all’uno o all’altro a seconda delle proprie esigenze [189]. Oltre a creare confusioni, questa visione crea un’errata discrepanza tra le due forme di destinazione, lasciando intendere che un vincolo di destinazione “all’italiana” possa essere soltanto puro e gratuito, e un trust non possa assumere carattere autodichiarato, necessitando sempre la presenza di un trustee.

Al di là del fatto che, secondo l’opinione qui condivisa, sarebbe preferibile ritenere che oggigiorno anche il trust debba farsi ricadere nella previsione di cui all’art. 2645-ter, a maggior ragione ove quest’ultimo si ritenga foriero di una figura destinatoria generale [190], questo punto di vista appare distorto dal fatto che la norma de qua menzioni soltanto gli aspetti essenziali di una destinazione pura; tuttavia, quantunque il legislatore sia stato poco avveduto a riguardo, come si è detto in precedenza è indubbio che la fattispecie possa accogliere anche una struttura di tipo traslativo, e qualora ciò si verifichi, a discapito della necessità di creare ad hoc una fantomatica causa destinatoria, l’interesse sottostante all’atto istitutivo del vincolo conformerà anche l’atto di trasferimento all’attuatore [191]. Ma v’è di più, perché da ciò deriva l’ulteriore conseguenza che l’atto di destinazione non può essere relegato, sempre e comunque, ad atto a titolo gratuito [192]; al contrario, la variabilità della sua causa unita alla flessibilità della sua struttura permette di qualificarlo quale atto a titolo oneroso ovvero gratuito a seconda dell’assetto di interessi avuto di mira da chi lo pone in essere [193]. Sicché i giudici di legittimità avrebbero dovuto quantomeno esplicitare questa eventualità, esplorare le potenzialità dell’atto di destinazione e le relative conseguenze sul piano della revocatoria, dandone atto nella motivazione di sentenze come quella in esame, al fine evitare che il lettore – nemmeno così ingenuamente [194] – traesse le medesime conclusioni di chi scrive.

Se davvero la destinazione ex art. 2645-ter, che si intenda quale fattispecie o come effetto tipizzato, costituisce una figura tipizzata dal contenuto atipico, dalla struttura estremamente flessibile, tale da poter essere sorretta da qualsivoglia giustificazione causale purché l’interesse sottostante risulti meritevole di tutela, allora non si vede come mai a prescindere si debba reputarne il relativo atto quale atto (unilaterale e) gratuito. Che poi esso, nel caso di specie, lo sia realmente, ciò è molto probabile: che in genere una destinazione con causa familiare sia caratterizzata da gratuità, è indubbiamente vero [195]; tuttavia, lo si ribadisce, ciò che stranisce è che dalle parole della Corte pare che si sia voluta trarre una conclusione generale, valevole per tutti gli atti di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. Di conseguenza, è ovvio che, ritenendo gli atti di destinazione compiuti dalle parti a titolo gratuito, cade la necessità di verificare il requisito del consilium fraudis in capo a eventuali terzi coinvolti, in ossequio alla lettera dell’art. 2901 cod. civ., comma 1, n. 2.

Un ulteriore spunto per le nostre considerazioni lo si trae dalla disciplina del fondo patrimoniale, figura di riferimento in casi come questo, dove la destinazione è sorretta da una causa familiae: nonostante l’inter­pretazione maggiormente consolidata riconosca al negozio costitutivo del vincolo sui beni conferiti al fondo, così come l’eventuale negozio traslativo che può accompagnarsi ad esso, la natura di atto a titolo gratuito [196] e, sovente, poi, si tenda a qualificarlo addirittura quale atto di liberalità [197], in realtà, non si ritiene di poter escludere a priori una differente connotazione [198]: nulla impedisce che tali negozi costituiscano unitariamente un’operazione a titolo oneroso (ad esempio, ove emerga che il fondo sia stato posto in essere per assolvere agli obblighi familiari contributivi); allora, ciò implica che l’atto destinatorio di cui agli artt. 167 ss. cod. civ., ferma la sua finalità di soddisfacimento dei bisogni familiari, possa assumere natura variabile a seconda del concreto assetto degli interessi perseguiti nel caso di specie.

Ne deriva che, se perfino con riguardo al fondo si può arrivare a pensare che l’atto possa avere titolo oneroso, allora si dovrà ammettere che anche l’atto di destinazione atipico – in relazione al quale, a maggior ragione, gli interessi possono essere decisamente più eterogenei – sia in grado di assumere la stessa veste, sempre a seconda dei casi. In altre parole, e in conclusione, non si critica la fondatezza dell’actio pauliana perseguita dalle controparti – rectius, non si intende entrare nel merito della questione in questa sede, non avendo a disposizione dettagli sufficienti a consentirci un’adeguata riflessione sul punto – bensì, limitandoci alla pronuncia di legittimità esaminata, ci sembra criticabile la disinvoltura mostrata dalla Suprema Corte nel motivare l’inefficacia attribuita agli atti di destinazione, dandone per scontata la natura non onerosa sulla base di una apodittica ricostruzione generale dell’istituto.


NOTE

 

[1] Ci si riferisce alla sentenza del Trib. Roma, 18 maggio 2013, in Fam. e dir., 2013, 783 ss., con nota di R. Calvo, Vincolo testamentario di destinazione: il primo precedente dei tribunali italiani; in Nuova giur. civ. comm., 2014, 83 ss., con nota di A. Azara, La disposizione testamentaria di destinazione; in Not., 2014, 63 ss., con nota di C. Romano, Vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645 ter c.c.: spunti per ulteriori riflessioni; il suo esito, in seguito, ha trovato conferma presso la Corte di Appello di Roma, 2 maggio 2019, in Riv. not., 2019, 768 ss. Volendo sintetizzare, in tale contesto il giudice di merito ha negato la configurabilità di una disposizione destinatoria inserita all’interno dell’atto di ultima volontà, aderendo in tutto e per tutto alle argomentazioni di una corrente dottrinale alquanto minoritaria.

[2] Difatti, si tratta di un ramo del diritto privato che ha subito profonde trasformazioni nell’ultimo cinquantennio, a partire dalla grande riforma del 1975 fino alla legge Cirinnà del 2016 in materia di unioni civili e convivenze registrate: v. per tutti C.M. Bianca, Diritto civile. vol. 2.1: La famiglia, VI ed., Milano, 2017, 4 ss.; T. Auletta, Diritto di famiglia, V ed., Torino, 2020, 1 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, IX ed., Torino, 2020, 1 ss. Tra l’altro, proprio in questi mesi risulta essere in corso d’opera una riforma organica della giustizia, con rilevanti ripercussioni anche sul diritto di famiglia: a tal proposito, si discute dell’istituzione di un rito unico per le controversie sulle persone, i minorenni e le famiglie; di una tutela rafforzata a favore di donne e minori vittime di violenza; del potenziamento del ricorso alla mediazione familiare e alla negoziazione assistita; della trasformazione del Tribunale per i minorenni nel c.d. Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie.

[3] A dire il vero, la primissima pronuncia in tema di destinazione atipica con causa familiare si è occupata proprio di questo aspetto: v. Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Giur. it., 2008, con nota di P. Monteleone, I vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. in sede di accordi di separazione, 629 ss.; in Fam. pers. e succ., 2008, con nota di R. Partisani, L’art. 2645 ter c.c.: le prime applicazioni nel diritto di famiglia, 779 ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2008, con nota di C. Murgo, op. cit., 114 ss.; in Fam. e dir., 2008, con nota di F. Galluzzo, Commento a Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, 619 ss. Senza indugiare troppo sul tema, si ricordi soltanto come, in tale occasione, fu lo stesso Collegio giudicante a proporre ai ricorrenti di mutare la propria domanda di modifica dei precedenti accordi di separazione, così da disporre a favore dei figli minorenni della coppia, in luogo di un trasferimento immobiliare, la costituzione sul medesimo cespite di un vincolo di destinazione.

[4] Ossia le famiglie fondate su una mera convivenza more uxorio; si tenga presente, tuttavia, che oggigiorno le convivenze possono ricadere sotto la disciplina della già citata legge Cirinnà, la quale ha introdotto la possibilità per i conviventi di registrarsi presso l’ufficio anagrafe del comune di residenza ove si instaura la coabitazione e di determinare i relativi rapporti patrimoniali per mezzo di un accordo opponibile ai terzi. Sul punto, si vedano principalmente F. Macario, I contratti di convivenza tra forma e sostanza, in Contratti, 2017, 7 ss.; G. Oberto, La famiglia di fatto. Introduzione alla «riforma Cirinnà», in Riv. dir. fam. pers., 2019, II, 710 ss.; L. Aulino, Contratti di convivenza ed aspetti patrimoniali, in Riv. familia, 2019, consultabile all’indirizzo www.rivistafamilia.it. Circa le implicazioni di questa novità in rapporto alla destinazione patrimoniale, sia consentito rinviare a G. Oberto, Atto di destinazione e rapporti di famiglia, in Giur. it., 2016, 255 ss. e G. D’amico, Contratto di convivenza e atto di destinazione, in Fam. e dir., 2018, 206 ss.

[5] Come rileva, tra i molti, G. Corradi, Vincolo di destinazione ex art. 2645 ter e fondo patrimoniale, in Fam. e dir., 2018, 1167 ss. e, in particolare, a 1172 ss.

[6] Si tratta dell’ordinanza della Cass. civ., sez. VI, 29 novembre 2021, n. 37231, attualmente reperibile presso le banche dati De Jure e One Legale.

[7] Tra le numerose opere dottrinali che descrivono l’iter di elaborazione del concetto di destinazione patrimoniale, in Italia come all’estero, si considerino principalmente M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996; A. Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, 554 ss.; R. Quadri, La destinazione patrimoniale. Profili normativi e autonomia privata, Napoli, 2004; A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano, 2007; S. Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009; U. Stefini, Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale: l’art. 2645-ter c.c., Padova, 2010.

[8] Celebre è la definizione di destinazione patrimoniale elaborata da F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1966, 85, secondo il quale si tratterebbe di una categoria comprensiva di una serie di ipotesi nelle quali “[…] in relazione a una certa destinazione specifica una pluralità di rapporti attivi e passivi, facenti capo a più persone o ad una persona, è costituita in unità e tenuta distinta dagli altri rapporti attivi e passivi delle stesse persone o della stessa persona»: il riferimento alla «destinazione specifica», appunto, rimanda all’elemento teleologico. A tale elemento si riferisce anche G. De Nova, Il principio di unità della successione e la destinazione dei beni alla produzione agricola, in Riv. dir. agr., 1979, 509: «[…] un bene ha una destinazione, quando è stata operata una scelta fra le sue possibili utilizzazioni, quando è stata individuata per esso una particolare finalità».

Ulteriori definizioni sono ricavabili dalla più diffusa manualistica e trattatistica: si vedano, ex multis, F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, I, 1957, 387; M. Confortini, Vincoli di destinazione, in Dizionario di dir. priv., a cura di N. Irti, Milano, 1980, 871 ss.; G. Alpa, Proprietà-potere di destinazione e vincoli di-, in Dizionario di diritto privato, Torino, 1985, 322 ss.; And. Fusaro, voce Destinazione (vincoli di), in Digesto (Disc. Priv.), sez. civ., V, Torino, 1989, 321 ss.; A. Buonfrate, voce Patrimonio destinato e separato, in Dig. (disc. priv.), sez. civ., II, Torino, 2007, 878 ss.; R. Dicillo, voce Atti e vincoli di destinazione, in Dig, (disc. priv.), sez. civ, I, Torino, 2007, 151 ss.

[9] Si tenga presente che il termine giudico vincolo assume una valenza mutevole a seconda della fonte (legislativa, esecutiva o di autonomia privata) e del settore di riferimento (amministrativo o civile). Limitandoci a quest’ultimo, nel diritto privato è dato riscontrare l’utilizzo del lemma per indicare, comunemente, una limitazione, in particolare. delle facoltà connaturate al diritto proprietà, che può esplicarsi su due piani: quello del modo, determinando in capo al suo destinatario dei doveri di custodia, obblighi di immodificabilità o altri adempimenti in relazione alla res su cui il vincolo insiste, ovvero quello dello scopo, comportando la funzionalizzazione della res per il perseguimento di un fine prestabilito. Sul punto, si considerino le riflessioni di And. Fusaro, op. loc. cit.; A. Buonfrate, op. cit., 878-879; R. Dicillo, op. cit., 151-152.

[10] Come osserva And. Fusaro, op. cit., 323 il vincolo di destinazione consisterebbe nel complesso «non solo delle limitazioni, ma anche […] degli obblighi imposti per garantire la destinazione di un bene (o di un complesso di beni) al raggiungimento di un fine reale o personale».

[11] Difatti, un vincolo di destinazione può non presentare il carattere di opponibilità ai terzi: pegno e ipoteca, separazione dei beni ereditari, servitù prediali e alienazione con causa di garanzia sono alcuni dei casi in cui si è dato riscontrare un fenomeno di funzionalizzazione del diritto, senza che a questa si accompagni la separazione patrimoniale. In tema, per tutti, v. U. Stefini, op. cit., 16-19.

[12] Come noto, la separazione comporta che, all’interno della sfera dei rapporti giuridici in capo ad un soggetto, “convivano” distinte entità patrimoniali: il patrimonio separato (e destinato) è tale in quanto preposto a un determinato scopo, giuridicamente rilevante, e ciò comporta che i creditori del titolare che vantino un diritto non riconducibile a siffatto scopo (c.d. creditori estranei) siano impossibilitati a far valere, generalmente, le proprie pretese sui beni che costituiscono la massa separata. Per questo motivo, allora, un patrimonio separato rappresenta un’eccezione alla regola secondo cui «Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri» e, al contempo, determina uno stravolgimento del “normale” ordo creditorum.

Dal momento che la separazione patrimoniale sembra importare pur sempre, in qualche modo, una forma di destinazione allo scopo, alcune autorevoli voci hanno ritenuto i due concetti coincidenti, affermando l’impossibilità di concepire un patrimonio destinato che non sia anche separato: v., ad esempio, M. Bianca, op. cit., 200 ss.; A. Pino, Il patrimonio separato, Padova, 1950, 1 ss.; P. Ferro-Luzzi, La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. società, 2002, 121 ss. In realtà, in linea con quanto affermatosi nella nota precedente, sono diverse le ipotesi di patrimoni destinati privi dell’effetto di separazione, sicché sarebbe più corretto evitare di identificare la destinazione con la separazione, ammettendo, al massimo, un’identificazione “all’inverso”, come evidenzia R. Quadri, op. cit., 274 affermando che «[…] isolato dal momento destinatorio, appare inconcepibile l’utilizzazione dello strumento del patrimonio separato». Tuttavia, altra parte della dottrina ritiene inconcepibile una simile ipotesi, rilevando come, a voler essere rigorosi, esistano finanche casi di separazione patrimoniale senza destinazione ad uno scopo: per tutti, A. Falzea, Introduzione e considerazioni conclusive, in AA.VV., Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano, 2003, 27, il quale adduce quale esempio di separazione senza destinazione la costituzione di garanzie reali.

[13] Tra le forme di separazione patrimoniale segnalate dalla dottrina, in genere si menzionano l’eredità accettata con beneficio di inventario, l’eredità giacente, l’eredità devoluta allo Stato, il patrimonio di soggetti non ancora venuti fisicamente a esistenza, quali il nascituro e il concepito, la dote, il patrimonio famigliare e, a seguito della sua soppressione, il fondo patrimoniale, il patrimonio sottoposto a liquidazione concorsuale ecc. A riguardo, v. G. Donadio, I patrimoni separati, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Bari, Bari, VI, 1943, 77 ss.; F. Santoro-Passarelli, op. cit., 86 ss.; L. Bigliazzi Geri, voce Patrimonio autonomo e separato, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 281 ss.; A. De Donato, Destinazione di beni e opponibilità ai terzi, in Destinazione di beni allo scopo, cit., 190 ss.

[14] A riguardo, sia consentito rinviare direttamente ad alcune di tali fonti: A. Brinz, Lehrbuch der Pandekten, Band I, Erlangen u. Leipzig, 1884 e Band III, Erlangen u. Leipzig, 1889; E.I. Bekker, System des heutigen Pandektenrechts, I, Neudruck der Ausgabe Weimar, 1886, Aalen, 1979, 141 ss.; nel secolo successivo, ha proseguito su questa linea anche K. Hellwig, Lehrbuch des deutschen Zivilprozeßrechrechts, Band I, Neudruck der Ausgabe Leipzig 1903, Aalen, 1968, § 44, 295 ss.

[15] Oltre agli autori menzionati nelle ultime due note, si considerino – senza alcuna pretesa di esaustività in materia – U. La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli, 1994, 5 ss.; M. Lupoi, Trusts, II ed., Milano, 2001, 565 ss.; P. Spada, Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, 837 ss.; A. De Donato, Destinazione di beni e opponibilità ai terzi, in Destinazione di beni allo scopo, cit., 193 ss.; M. Bianca, Amministrazione e controlli nei patrimoni destinati, in Destinazione di beni allo scopo, 166 ss.; Id., Atto negoziale di destinazione e separazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, 198 ss.

[16] Diversamente, ciò contraddistingue la categoria dei c.d. patrimoni autonomi: si tratta di forme di destinazione che implicano la nascita di un nuovo soggetto di diritto, un centro di imputazione di rapporti giuridici dotato di autonoma soggettività – e, di conseguenza, distinto dall’iniziale soggetto-conferente – al quale è dato attribuire la titolarità della massa patrimoniale in questione.

Fino agli albori del XX secolo, per qualificare il fenomeno dei patrimoni destinati risultava prevalente il ricorso all’escamotage della soggettivizzazione patrimoniale, in ossequio alla teorica dell’unità e indivisibilità del patrimonio, frutto del giusnaturalismo e dell’Illuminismo francese, e in linea con i successivi sviluppi della riflessione in tema di personalità giuridica; in particolare, questa accezione così fortemente soggettivizzata del patrimonio ha influenzato il pensiero della Pandettistica di metà Ottocento. In tal senso, il contributo più significativo è stato proprio quello di Aloys Brinz, attraverso la sua Zweckvermögenstheorie (letteralmente: “teoria dei patrimoni destinati a uno scopo”): in una prima fase (c.d. dei patrimoni senza soggetto), questa teoria concepisce lo scopo come un equivalente funzionale e alternativo alla persona fisica, assumendo che ad esso possa pacificamente imputarsi un patrimonio; nella sua seconda fase (c.d. dei patrimoni personificati), invece, il patrimonio di destinazione viene concepito come un soggetto di diritto dotato di una sua autonomia. Illustrano tale evoluzione dogmatica: M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., 97 ss.; Id., Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., 157 ss.; A. Zoppini, op. cit., 550 ss.; R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto. Linee di una vicenda concettuale, in Jus, 1960, 155.

[17] Sebbene parte della dottrina, in un primo momento, avesse qualificato il patrimonio separato come una “via di mezzo” tra la persona giuridica e l’oggetto giuridico (così, ex multis, G. Donadio, op. cit., 77 ss.), ovvero come una universitas iuris, intesa quale centro di imputazione dotato di autonomia, non facente capo ad alcun soggetto ma ex lege in grado di assurgere ad oggetto di rapporti giuridici (v. ad es. F. Santoro-Passarelli, op. cit. 85 ss.), nel tempo si è consolidata questa differente accezione.

[18] In generale, si considerino i numerosi riferimenti all’interno dell’opera collettanea AA.VV., Destinazione di beni allo scopo, cit.: la differenza tra una struttura statica e una dinamica – lo si anticipa – è la medesima adottata per la destinazione patrimoniale ex art. 2645-ter, nonché, tradizionalmente, anche per il negozio fiduciario romanistico (cioè realizzato attraverso l’imposizione al titolare di vincoli di natura squisitamente obbligatoria).

[19] Nei Paesi appartenenti alla famiglia giuridica di common law la destinazione patrimoniale con effetto di separazione può realizzarsi attraverso il secolare istituto del trust. Nonostante le sue innumerevoli varianti (tra cui anche quello che da noi viene definito “trust autodichiarato”, affine alla destinazione statica), lo schema base del trust prevede un atto con cui il conferente, il settlor, trasferisce parte del proprio patrimonio a un fiduciario, il trustee, affinché costui amministri il cespite nell’interesse di un beneficiario (in genere un terzo, ma potrebbe trattarsi dello stesso disponente o di terzi indeterminati, in quest’ultimo caso dando luogo ad un c.d. charitable trust).

Peraltro, come si premura di sottolineare M. Lupoi, Si fa presto a dire “trust”, in TAF, 2017, 588, il concetto stesso di “destinazione” non riscontra una vera e propria equivalenza terminologica nel diritto inglese dei trusts: «[…] nessun termine inglese equivalente a “destinazione” compare né in alcuna definizione di trust né […] in alcuna pagina di alcun testo in materia di trust e […] il concetto di destinazione, comunque inteso, non fa capolino in alcuna visione inglese del trust. È forse opportuno aggiungere che neanche il concetto di “vincolo”, riferito ai beni, fa alcuna comparsa nella letteratura o nella giurisprudenza inglese. La specificità del trust qui consiste in una lacuna sulla quale i giuristi della precomprensione forse potrebbero utilmente riflettere, perché essa corrisponde alla massima estensione concettuale da essi costruita, la quale tuttavia non trova alcun riscontro nel diritto dei trust.».

[20] Succedaneo di un antichissimo istituto dapprima conosciuto come use e, dalla seconda metà del Cinquecento, trasformatosi nello use upon use, attraverso cui si consentiva ai privati di trasferire la proprietà di taluni cespiti immobiliari ad un fiduciario allo scopo di avvantaggiare terzi, in realtà il lento sviluppo della disciplina del trust come noto oggigiorno è avvenuto a partire dal XIV secolo, grazie all’attività giudiziale della Cancelleria del Re di Inghilterra, rispondente alla giurisdizione di Equity. Sul punto, si vedano M. Graziadei e B. Rudden, Il diritto inglese dei beni e il trust dalla res al fund, in Quadrimestre, 1992, 458 ss.; A. Gambaro, voce Trust, in dig. (disc. priv.), IV, sez. civ., XIX, Torino, 1999, 453 ss.; M. Rheinstein, voce «Common Law-Equity», in Enc. dir., vol. VII, Milano, 1960, 930 ss.; M.C. Malaguti, Atlante di diritto privato comparato, a cura di F. Galgano, Bologna, 2015, 201 ss.

[21] V. per tutti A. Zoppini, op. cit., 557, dove si afferma che «Non è disagevole, anche in questo caso, scorgere la spinta ideologica che muove la dottrina del patrimonio separato, che può ravvisarsi nell’evoluzione del processo economico che sostituisce all’uomo, quale protagonista della scena sociale, il capitale e che promuove una concezione organicistica dell’impresa […]».

[22] Descrive brillantemente tale contesto storico-giuridico M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., 245. Si vedano anche C. Cicero, op. cit., 900 e L. Ragazzini, Trust «interno» e ordinamento giuridico italiano, in Riv. not., 1999, 284 ss., i quali menzionano a titolo esemplificativo la pronuncia del Trib. Oristano, 15 marzo 1956, in Foro it., 1956, I, 1020, ove il Giudice aveva espressamente avversato la prospettiva dell’introduzione, nel nostro ordinamento, di un negozio destinatorio assimilabile al trust.

[23] Questo 2° comma è stato introdotto espressamente soltanto nel 1942; prima di allora, il Codice Pisanelli (a sua volta ispirato alla disciplina del Code civil napoleonico), si limitava a enunciare il principio di responsabilità patrimoniale così come lo riscontriamo attualmente al comma 1 del 2740, sebbene allo stesso risultato si fosse già giunti per via interpretativa. Alla lettura “pubblicistica” della norma de qua contribuiva, poi, la Relazione ministeriale al codice civile, che al n. 1124 statuiva che la riserva di legge era stata posta «nell’interesse del credito e dell’economia». A riguardo, si consideri la dettagliata ricostruzione del percorso legislativo di tale disposizione fornita da A. Morace Pinelli, op. cit., 3 ss., cui si rinvia anche per quanto segue.

A causa della continua proliferazione normativa di fattispecie di destinazione patrimoniale, coniate attraverso l’impiego del­l’espediente della personificazione ovvero, più spesso, attraverso il ricorso al meccanismo della separazione, il principio di cui all’art. 2740, comma 1 è stato progressivamente eroso a favore della succitata tendenza a forme di specializzazione della responsabilità patrimoniale, con maggiore interesse, per contro, all’aspetto della tutela del ceto creditorio in tali circostanze. Di conseguenza, una “relativizzazione” del principio di universalità della responsabilità patrimoniale si è resa indubbiamente doverosa, ma per lungo tempo non si è rivelata determinante al fine di acconsentire alla creazione di una fattispecie negoziale di destinazione rimessa all’autonomia privata e con efficacia reale.

Con il passare del tempo – come si avrà modo di considerare anche nel prosieguo – tanto l’apertura al riconoscimento di trust stranieri mostrata dai nostri tribunali quanto, all’inizio del nuovo millennio, della norma codicistica sulla destinazione patrimoniale, l’art. 2645-ter, questa tendenza si è affermata ulteriormente, tant’è che alcune autorevoli voci propongono una rilettura dell’art. 2740 che consideri il rapporto tra comma 1 e comma 2 non più come un rapporto “regola-eccezione”, bensì come un unico sistema o, addirittura, a termini invertiti (“eccezione-regola”). Sul punto, si rimanda alle riflessioni di A. Di Sapio, Patrimoni segregati ed evoluzione normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione ex art. 2645-ter, in Dir. fam., 2007, 1257 ss.

[24] A differenza del principio di universalità della responsabilità patrimoniale, questi ultimi non vengono espressamente sanciti all’interno del Codice, bensì costituiscono un lascito dell’antico ius romanum; ad ogni modo, dalla loro sussistenza discende che i vincoli reali – e tale sarebbe il vincolo di destinazione ivi prospettato – debbano pur sempre essere assistiti da una copertura normativa che assicuri sicurezza e trasparenza nella circolazione dei beni e, più in generale, nell’individuazione delle situazioni proprietarie. Inoltre, a supportare questa ratio, soccorre la regola generale della relatività degli effetti del contratto ex art. 1372 cod. civ., preposta ad evitare che si vada ad intaccare la sfera di terzi estranei al rapporto contrattuale per mezzo di nuove situazioni giuridiche atipiche e ad essi opponibili. Questo è il motivo per cui, nel nostro ordinamento, non è riuscita ad attecchire una categoria concettuale come quella della c.d. proprietà fiduciaria. Sul punto, v. a titolo riepilogativo U. Stefini, op. cit., 10, note 22 e 23 ss. Per un approfondimento sul tema, invece, sia consentito rimandare a P. Rescigno, voce Proprietà (diritto privato), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988, 254 ss.; M. Comporti, Diritti reali in generale, in Trattato di dir. civ. e comm., fondato da A. Cicu e F. Messineo, VIII, tomo 1, Milano, 1980, 216 ss.; A. Burdese, Ancora sulla natura e tipicità dei diritti reali, in Riv. dir. civ., 1983, 236 ss.; A. Natucci, La tipicità dei diritti reali, Padova, 1988, 153 ss.

Nel corso del XX secolo, per le stesse ragioni sottese all’erosione del principio ex art. 2740, comma 1, l’esigenza di conferire all’autonomia dei singoli un ruolo sempre più incisivo quanto alla regolamentazione degli affari privati ha condotto a ritenere che anche i principi suddetti in materia di diritti reali non fossero da considerare di rilievo pubblicistico; il che, a ben vedere, potrebbe trovare conferma nella lettera dell’art. 42 della Costituzione, ove si acconsente alla funzionalizzazione della proprietà. Sta di fatto che, in relazione al dibattito dottrinale sull’eventuale introduzione di una fattispecie destinatoria atipica, tale circostanza ha inciso positivamente, orientando parte della dottrina a ritenere perfettamente legittima la creazione di patrimoni destinati rimessi all’au­tonomia dei privati e a rilevanza reale. Scrive ancora U. Stefini, op. cit., 26: «Secondo questi Autori l’autonomia privata, in ossequio al dettato dell’art. 1322 cod. civ., sarebbe sempre in grado di porre in essere negozi destinatori, o attributivi di diritti funzionalizzati ad uno scopo, che rientrerebbero tra gli indici di circolazione a rilevanza esterna, esattamente come i normali negozi traslativi: sarebbe la causa sottostante a conformare a sé il diritto “destinato”, creando vincoli opponibili indipendentemente da una espressa previsione legislativa, e pubblicizzabili mediante un’applicazione estensiva, ove non apertamente analogica, delle norme in materia di trascrizione». Tra tali autori, si ricordino U. La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, cit., 5 ss.; G. Palermo, Contributo allo studio del trust e dei negozi di destinazione disciplinati dal diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2001, I, 391 ss.

[25] La letteratura italiana in materia di trust è a dir poco sconfinata: in tal sede, si considerino principalmente A. Gambaro, op. loc. cit.; M. Graziadei, voce Trusts nel diritto anglo-americano, in dig. (disc. priv.), IV, sez. comm., XVI, Torino, 1999; M. Graziadei, B. Rudden, op. loc. cit.; C. Grassetti, Trust anglosassone, proprietà fiduciaria e negozio fiduciario, in Riv. dir. comm., 1936, I, 548 ss.; M. Lupoi, Appunti sulla real property e sul trust nel diritto inglese, Milano, 1971, 1 ss.; Id., Introduzione ai Trusts, Milano, 1994, 26 ss.; Id. Riflessioni comparatistiche sui trusts, in Eur. dir. priv., 1998, 425 ss.; Id., Trusts, cit., 1 ss.; Id., Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Milano, 2011 1 ss.; Id., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, Milano, 2016, 1 ss.; A. Busato, La figura del trust negli ordinamenti di common law e di diritto continentale, in Riv. dir. civ., 1992, 309 ss.; S. Bartoli, Il trust, Milano, 2004, 1 ss.; C. Cicero, Riflessioni su trust e categorie civilistiche, in Giur. comm., 2010, 899 ss.

[26] Nella dottrina italiana, il primo a riferirsi al fenomeno in questi termini è stato Maurizio Lupoi, attualmente considerato il massimo esperto in materia: si veda M. Lupoi, Introduzione ai Trusts, cit., 1 ss. e i riferimenti nelle sue opere successive.

Per intenderci, considerando soltanto il sistema giuridico anglosassone, si riscontra un’estrema proliferazione di figure di trust: sarebbe pressoché impossibile menzionare tutte le classificazioni adottate ad oggi, tenendo conto del fatto che le varie tipologie di trusts possono differenziarsi sotto innumerevoli aspetti, tra cui la fonte (es. trusts espressamente istituiti; trusts non espressamente istituti; implied trusts), la natura dell’atto istitutivo (es. trusts testamentari), la possibile coincidenza tra parti (es. trust autodichiarato); il ruolo e il grado di discrezionalità attribuito al trustee (es. bare trusts; discretionary trusts), l’interesse perseguito, con riferimento alla presenza di un beneficiario o di uno scopo (es. charitable trusts) ovvero con riferimento al tipo di interesse sotteso al trust (es. trusts famigliari; business trusts), e così via. Per tale ragione, al fine di offrire una panoramica dell’istituto, si fa riferimento ad un presunto “schema di base”, il quale viene ottimamente spiegato da Lupoi in alcune sue opere di stampo manualistico; tra le molte, si vedano M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit.; Id., Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, cit.

[27] Ma si tenga presente che, in ogni caso, la ricognizione e l’ammodernamento della disciplina dei trusts è stata attuata attraverso la promulgazione di numerosi acts da parte del legislatore inglese: a riguardo, v. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust negli ordinamenti di origine e in Italia, cit., 16, che elenca alcune delle normative in materia.

[28] Sul punto, M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., 89; A. Gambaro, op. ult. cit., 469 ss.

[29] Lo sdoppiamento delle facoltà proprietarie si può spiegare in questi termini, sulla scorta delle osservazioni di R. Franceschelli, Il trust nel diritto inglese, Padova, 1935, passim: con la costituzione di un trust, il trustee diviene titolare di una legal ownership sul patrimonio trasferitogli, subendo al contempo una limitazione delle sue facoltà dominicali, che passa attraverso un vero e proprio obbligo di amministrare il patrimonio a favore del beneficiary, il quale diviene a sua volta detentore di una equitable ownership, una sorta di “proprietà sostanziale”. In realtà, in dottrina non è del tutto pacifico che attraverso il trust si realizzi codesto sdoppiamento della proprietà: non sono mancate, tra i giuristi continentali, opinioni differenti, che hanno attribuito al trustee una posizione meramente obbligatoria nei confronti del beneficiario, ovvero hanno considerato il trust un autonomo centro di imputazione, nell’ottica della personificazione patrimoniale. Per alcuni spunti si veda C. Licini, Una proposta per strutturare in termini monistici l’appartenenza nel rapporto di «fiducia anglosassone» (Trust), in Riv. not., 1992, 125 ss.

Quanto all’assenza di un principio assimilabile a quello di universalità della responsabilità patrimoniale, si rinvia a M. Graziadei e B. Rudden, op. cit., passim.

[30] Ove l’attribuzione a un fiduciario di una posizione di “curatore” degli interessi altrui richiede che egli acquisti pur sempre un diritto di proprietà pieno ed effettivo, non essendo contemplabile una frammentazione del medesimo, nemmeno considerando l’eventuale temporaneità della titolarità in capo al fiduciario, qualora il pactum fiduciae preveda l’obbligo di ritrasferimento della res. In tal senso, il trust anglosassone appare maggiormente orientato alla concezione germanistica di fiducia, nella misura in cui essa determina proprio tale frammentazione del diritto di proprietà: al fiduciario non viene attribuita una piena proprietà, ma egli detiene la legittimazione a esercitare in nome proprio un diritto che rimane in capo (anche) a un altro soggetto. Sul negozio fiduciario in generale, ex plurimis, v. L. CARIOTA FERRARA, I negozi fiduciari, Padova, 1933 10 ss.; V.M. Trimarchi, voce Negozio fiduciario, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 34 ss.; C. Grassetti, Il negozio fiduciario nel diritto privato, in AA.VV., Fiducia, trust, mandato ed agency, Milano, 1991, 2 ss.

[31] Mentre, si rammenti, nella fiducia romanistica si tratta di un patto che ha una rilevanza obbligatoria, attuabile sul piano meramente interno dei rapporti tra fiduciario e il fiduciante, con la possibilità che quest’ultimo assuma il ruolo di creditore del primo in caso di suo inadempimento.

[32] Segnatamente, il beneficiario gode di un sistema di rimedi dotati del carattere dell’opponibilità ai terzi creditori e aventi causa del trustee, più incisivi rispetto a quelle che civilisticamente potrebbero attribuirsi ad un qualsiasi creditore, dato il loro carattere di realità. Volendo sintetizzare, in primo luogo, il beneficiario dispone di una forma di tutela denominata following, che gli consente di “seguire” i beni del trust fund qualora il trustee li abbia illegittimamente distratti dal fondo stesso, ottenendone la restituzione da parte del trustee, qualora se ne sia appropriato personalmente, ovvero da parte di eventuali terzi acquirenti. In secondo luogo, il rimedio generalmente indicato come tracing permette al beneficiario, in un certo senso, di mantenere le proprie pretese equitative sul valore degli originari beni del trust fund, laddove il trustee li abbia modificati ovvero illegittimamente trasferiti a terzi. Questo rimedio, nella sua applicazione concreta, può delinearsi in forme differenti, anche con riguardo alla buona o mala fede degli acquirenti e alla gratuità od onerosità dell’acquisto, comportando, a seconda dei casi, la condanna dei terzi acquirenti a rispettare il vincolo originariamente impresso sui beni, la surrogazione reale di tali beni con il denaro ricavato, o altre conseguenze. V. per tutti A. Gambaro, op. ult. cit., 451 ss., dove si aggiunge che «Simile idea è d’altra parte essenziale al fine di assicurare il successo pratico dei meccanismi fiduciari».

[33] La differenza non sempre risulta chiara ai commentatori, ma attualmente si ritiene che risieda in ciò, che mentre il patrimonio separato rappresenta un complesso di situazioni giuridiche soggettive semplicemente sottoposte a regole speciali per quanto concerne le vicende obbligatorie generali del loro titolare, il patrimonio segregato costituisce un complesso di situazioni giuridiche soggettive completamente estranee a tali vicende, implicando un distacco tra la sfera del patrimonio generale del titolare e quella del patrimonio così isolato. V., ancora, M. Lupoi, Introduzione ai Trusts, cit., 75 ss.; Id., Trusts, cit., 450.

[34] Un esempio di separazione bidirezionaleid est segregazione patrimoniale – è quello che si trae dalla disciplina degli artt. 2447-bis ss. cod. civ.: una società per azioni ha la facoltà di separare taluni cespiti all’interno del proprio patrimonio affinché siano destinati ad uno specifico affare (v. ex multis, G. F. Campobasso, Diritto commerciale. vol. II: Diritto delle società, a cura di M. Campobasso, X ed., Torino, 2020, 172 ss.). In tali circostanze, i creditori sociali estranei alla causa di destinazione all’affare non potranno soddisfarsi sul patrimonio in tal guisa separato, così come i creditori della destinazione potranno rivalersi solamente sulla massa patrimoniale destinata.

Al contrario, un caso di separazione unidirezionale è quello del patrimonio destinato ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ.: i creditori che rinvengono la fonte del loro rapporto nella destinazione possono aggredire non solo il patrimonio destinato, ma anche il patrimonio residuo del debitore-conferente.

[35] Numerosi gli Stati, appartenenti alla famiglia di civil law o a quella degli ordinamenti “misti”, che ad oggi hanno pienamente ed espressamente recepito il modello del trust con una disciplina interna. Si veda, per un approfondimento, la disamina delle legislazioni straniere svolta da M. Lupoi, Trusts, cit., 337 ss. Per elencare solo alcuni tra i Paesi che hanno accolto tale istituto, si ricordino Argentina, Cina, Etiopia, Francia, Giappone, Israele, Lussemburgo, Messico, Peru, Russia, San Marino, Venezuela ecc. Si è parlato di una vera e propria “corsa al trust” avvenuta negli ultimi decenni, secondo l’espressione utilizzata da A. Gambaro, Il diritto di proprietà, in Trattato di diritto civile e commerciale, dir. da A. Cicu, F. Messineo, Milano, 1995, 630.

Ragionevolmente, allora, la Convenzione dell’Aja nasce dalla sempre più frequente necessità di dare attuazione alle disposizioni contenute negli atti istitutivi di trusts stranieri, al fine di conferire a livello internazionale un’univoca regolamentazione per il loro riconoscimento e di uniformare le varie norme nazionali di conflitto, anche a favore di quegli Stati di tradizione di civil law che ancora esprimevano riserve sull’istituto.

[36] V. ad esempio quanto si trae dalla pronuncia del Trib. Casale Monferrato, 13 aprile 1984, in Riv. not., 1985, 240 ss., con nota di L.P. Comoglio.

[37] La Convenzione è frutto dei lavori della XV Sessione della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato, che si è svolta tra l’8 e il 20 ottobre del 1984 e che, infine, è stata stipulata il 1° luglio 1985. Suddivisa in cinque Capitoli, la sua struttura interna è tale da richiamare gli obiettivi preannunciati dal titolo, dedicando il Capitolo II e il Capitolo III, rispettivamente, alla “Legge applicabile” e al “Riconoscimento” del trust, mentre riserva ai restanti I, IV e V («Campo di applicazione» della Convenzione, «Disposizioni generali» e «Clausole finali») il ruolo di disciplinare aspetti più generali. Volendo sintetizzare, sotto il primo profilo la scelta della Conferenza è quella di attribuire preminenza alla volontà del conferente, consentendogli di indicare la legge applicabile al proprio trust e stabilendo solo in via sussidiaria l’applicazione della legge con cui il trust presenta il più stretto collegamento, sulla base di parametri puntualmente individuati. Sotto il secondo profilo, poi, la Convenzione identifica una serie di effetti che ciascuno Stato aderente è tenuto a riconoscere al trust nel caso di specie, taluni indefettibili, taluni dipendenti dall’effettivo contenuto della legge risultata applicabile attraverso le norme convenzionali di conflitto. Per approfondimenti in tema, si considerino principalmente A. Busato, op. cit., 329 ss.; P. Piccoli, La convenzione de l’Aja sulla legge applicabile ai trusts, del 1° luglio 1985, ratificata il 16 ottobre 1989 ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. not., 1990, 91 ss.; R. Grosso, La Convenzione sulla legge applicabile ai trusts: brevi spunti di riflessione, in Riv. not., 1991, 995 ss.; G. Broggini, Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Eur. e dir. privato, 1998, I, 399 ss.

Il ruolo dell’Italia in questo contesto è stato emblematico: si tratta, infatti, del primo Paese di civil law a ratificare la Convenzione, segnatamente con legge del 16 ottobre 1989 n. 364, e, per giunta, il secondo Paese in assoluto a provvedervi. La legge di ratifica, poi, è entrata in vigore il 1°gennaio 1992, in conformità al disposto dell’art. 30 della Convenzione, che stabilisce che «La Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del terzo mese seguente il deposito del terzo strumento di ratifica, accettazione o approvazione previsto dall’articolo 27».

[38] A meno che non si consideri la successiva introduzione dell’art. 2645-ter il mezzo attraverso cui, di fatto, si è inteso finanche recepire l’istituto straniero nell’ordinamento italiano, come sostenuto da una riguardevole parte della dottrina: v. S. Bartoli, Riflessioni sul nuovo art.2645ter cod. civ. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Giur. it., 2007, 1297 ss.; L. Gatt, Dal trust al trust, Storia di una chimera, II ed., Napoli, 2010, 172 ss., in particolare 204 ss.; U. Stefini, op. cit., 49 ss. Di questa opinione si parlerà più profusamente nel prosieguo.

[39] O, a voler vedere, anche solo la prima, di carattere programmatico, che ribadisce quanto si desume già dal titolo: «La presente Convenzione stabilisce la legge applicabile al trust e regola il suo riconoscimento», e nulla più aggiunge.

[40] In realtà v’è chi ritiene che la Convenzione costituisca qualcosa di più di una mera disciplina di diritto internazionale privato: i sostenitori di questa tesi affermano che, al suo interno, si riscontrerebbero anche norme di diritto materiale uniforme. A tal proposito, il riferimento principale è all’art. 11 della Convenzione che, in poche parole, impone agli Stati aderenti di far discendere una serie di effetti minimi dal riconoscimento di un trust (es. separazione patrimoniale, legittimazione processuale e negoziale in capo al trustee, ecc.). Argomentando dal carattere sostanziale della disciplina convenzionale, dunque, si è affermata l’idoneità della legge di ratifica della Convenzione a introdurre nel nostro ordinamento la figura del trust o, quantomeno, del c.d. trust interno (ovvero con unico elemento di estraneità rispetto al nostro ordinamento costituito dalla normativa straniera richiamata per la sua disciplina). Fautori della natura (anche) sostanziale della Convenzione, ad esempio, sono M. Lupoi, Trusts, cit., passim; S.M. Carbone, Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e riconoscimento dei suoi effetti nella convenzione dell’Aja del 1985, in TAF, 2000, 145; A. Gambaro, Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione dell’Aja, in Riv. dir. civ., 2002, 919 ss.

[41] Vale la pena di riportare l’intero testo della norma: «Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico.

Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge.

Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust».

Emerge una definizione piuttosto generica ove, tra l’altro, si afferma l’opzionalità del trasferimento dei beni vincolati dal settlor al trustee, consentendone l’intestazione ad un diverso soggetto ovvero – nonostante la Convenzione non ne faccia menzione – la loro permanenza in capo al medesimo conferente. Inoltre, menzionando un generico “controllo”, la norma omette di chiarire quale sia la natura del rapporto che intercorre tra il trustee e le altre parti del trust, senza specificare se costui possa assumere obbligazioni nei confronti del settlor (come nella fiducia romanistica) o del solo beneficiario (come nel modello di matrice anglosassone). Dopodiché, l’art. prosegue al comma 2 indicando alcuni requisiti essenziali del trust ai sensi della Convenzione: la separazione patrimoniale, l’intestazione al trustee o ad altro soggetto dei beni conferiti, il potere-dovere in capo al trustee di amministrare, gestire e disporre conformemente all’atto istitutivo e alle norme di legge, con annesso obbligo di rendicontazione. In aggiunta, all’ultimo comma si sancisce la «non necessaria incompatibilità» di quelle figure di trust in cui il settlor mantiene talune pretese nei confronti del trustee, ovvero in cui quest’ultimo assume le vesti di beneficiario.

[42] Id est Maurizio Lupoi: la prima opera in cui egli si riferisce al trust convenzionale in questi termini è M. Lupoi, «The shapeless trust» – Il trust amorfo, in Vita not., 1995, 51 ss. A ben vedere, questa espressione è stata adoperata per lo più in senso polemico dalla dottrina, onde sottolineare il discostarsi della figura delineata nella Convenzione tanto dal trust anglosassone quanto da qualsiasi altro istituto latu sensu riconducibile al trust disciplinato in altri ordinamenti.

[43] A conferma di ciò sovviene il preambolo della Convenzione, ove si evidenzia una presa di coscienza in merito alle svariate esperienze internazionali di regolamentazione del trust: esso statuisce che «[…] il trust è un istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi della Common Law, adottata da altri paesi con alcune modifiche […]». Da qui si spiega la scelta compromissoria dei redattori di delineare una fattispecie di trust convenzionale – o, che a dir si voglia, amorfo – volutamente diverso da quello tramandato dalla tradizione d’oltremanica, al fine di estendere la disciplina convenzionale anche quella vasta gamma di trust-like institutions enucleate da Paesi estranei al sistema di Equity.

[44] Un problema, questo, che si ripercuoteva anche sul piano del diritto internazionale, dal momento che già prima del 1989 l’Italia aveva aderito a fonti pattizie che presupponevano la conoscenza del trust e la predisposizione di un sistema di norme di conflitto riferibili a esso, cioè la Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale e la Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. La ratifica della Convenzione dell’Aja, per contro, ha consentito al trust di assurgere a figura pienamente conosciuta nel diritto internazionale privato italiano, senza più alcuna necessità per i nostri giudici, come in passato, di compiere minuziose operazioni qualificatorie che ne riconducessero i profili sostanziali alle più familiari categorie interne. Per giunta, la ratifica ha comportato nei nostri tribunali l’univoco riconoscimento, ai sensi del comma 1 dell’art. 11 della Convenzione, di trusts internazionali, istituiti in conformità ad una legge straniera espressamente regolante l’istituto, risultata applicabile sulla base della disciplina convenzionale di conflitto. Sul punto, v. L. Fumagalli, La convenzione dell’Aja sul «trust» e il diritto internazionale privato italiano, in Dir. comm. internaz., 1992, 540 ss.; AA.VV., Convenzione relativa alla legge sui trusts e al loro riconoscimento, a cura di A. Gambaro, A. Giardina, G. Ponzanelli, in Nuove leggi civ. comm., 1993, 1213 ss.; M. Lupoi, Trusts, cit., 411 ss.

[45] L’espressione (coniata, ancora una volta, da Lupoi: v. ex plurimis M. Lupoi, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la Convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985, in Vita not., 1992, 976 ss.) identifica un trust i cui elementi di rilievo sarebbero riconducibili ad un ordinamento che, proprio come l’Italia, non conosce l’istituto dal punto di vista sostanziale; di conseguenza, pur mostrando degli stretti collegamenti con simile ordinamento, si tratterebbe di una fattispecie necessariamente regolata da una legge straniera. La questione promana, a sua volta, dal dubbio circa la reale natura della Convenzione dell’Aja e dal significato della relativa ratifica, non essendo del tutto chiaro se si tratti soltanto di una presa di impegno del nostro Paese a riconoscere trust istituiti all’estero, o se si debba ritenere che la ratifica abbia implicato la rimozione di ostacoli all’ammissibilità del trust, per lo meno interno.

L’art. 13 della Convenzione, infatti, dispone che «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust, i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione». In altre parole, si conferisce agli Stati firmatari la scelta se riconoscere o meno un trust connotato da “elementi significativi”, ritraibili da una lettura complessiva delle disposizioni convenzionali, che lo riconducano a un no-trust country (ovvero, a uno Stato che, pur conoscendo la figura del trust, ne ignori quella determinata tipologia).

Il dibattito sul trust interno ha coinvolto numerosi e autorevoli giuristi italiani: tra i favorevoli troviamo A. Busato, op. cit., 309 ss.; M. Lupoi, Lettera a un notaio curioso di trusts, in Riv. not., 1996, 343 ss.; Id., Riflessioni comparatistiche sui trusts, cit., 425 ss.; Id., Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in Riv. not., 2001, 1159 ss.; S.M. Carbone, op. cit., 145 ss.; A. Gambaro, Notarella in tema di trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV Convenzione dell’Aja, in Riv. dir. civ., 2002, 919 ss. Contrari, invece, C. Castronovo, Il trust e “sostiene Lupoi”, in Eur. dir. priv., 1998, 441 ss.; F. Gazzoni, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista “non vivente” su trust e trascrizione), in Riv. not., 2001, 11 ss.; Id., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagatelle), in Riv. not., 2001, 1247 ss.; Id. Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv not., 2002, 1107 ss., Id. Il cammello, la cruna dell’ago e la trascrizione del trust, in Rass. dir. civ., 2003, 953 ss.; G. Broggini, op. cit., 399 ss.

In giurisprudenza, invece, l’orientamento nettamente prevalente è quello a sostegno dell’ammissibilità del trust interno: tra le prime pronunce, si ricordino Trib. Lucca, 23 settembre 1997, in Foro it., 1998, I, 2000, 3391 ss., con note di E. Brunetti, Il testamento dello zio d’America. Il "trust" testamentario, e M. Lupoi, Aspetti gestori e dominicali, segregazione: «trust» e istituti civilistici; in Giur. it., 1999, 925 ss., con nota di B. Ghittoni, Nota in materia di trust testamentario; Trib. Bologna, 1° ottobre 2003, in Foro it., 2004, I, 1295, con nota di F. Di Ciommo, Ammissibilità del trust interno e giustificazione causale dell’effetto traslativo; Trib. Bologna, 16 giugno 2003, in Giur. it., 2004, 1191; Trib. Bologna, 1° ottobre 2003, cit., Trib. Brescia 12 ottobre 2004, in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Proc., 2004, 1410 ss.; Trib. Trieste, 23 settembre 2005, in TAF, 2006, 83.

[46] La norma rinviene degli antecedenti in due progetti di legge, risalenti alla XIV legislatura; segnatamente, il Progetto n. 3972 del 14 maggio 2003 e del Progetto n. 5414 del 10 novembre 2004: entrambi si riferivano ad una fattispecie negoziale di destinazione mirante a favorire soggetti portatori di gravi handicap, al fine di assicurarne l’autosufficienza economica, il mantenimento, l’istruzione e garantire il sostegno economico dei relativi discendenti. Un secondo antecedente della norma de qua si rinviene nel testo del d.d.l. relativo al Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale del 2005, accompagnato da una Relazione menzionante, oltre alla tutela dei disabili, anche obiettivi di natura pubblicistica; tuttavia, estromessa dal Piano per parere avverso della II Commissione permanente di Giustizia del Senato, la norma viene inspiegabilmente inserita nella legge di conversione (l. 23 febbraio 2006, n. 51) del decreto «mille proroghe», approvata con un testo emendato più e più volte in corso d’opera. Sul punto, v. S. Pepe, Proposta di legge, in Destinazione di beni allo scopo, cit., 11 ss.; A. Picciotto, Brevi note sull’art. 2645 ter: il trust e l’araba fenice, in Contr. e impr., 2006, 1314 ss.; AA.VV., L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, Milano, 2006, 3 ss.

[47] Il cui testo recita «Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

[48] Per citarne solo alcune: A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., p.155 ss.; AA.VV. Atti di destinazione e trust (Art. 2645 ter del codice civile), a cura di G. Vettori, Padova, 2008, 1 ss.; AA.VV., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, a cura di M. Bianca, Milano, 2007, 1 ss.; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, II, 161 ss.; F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645-ter c.c., in Giust. civ., 2006, I, 165 ss.; R. Franco, Il nuovo articolo 2645-ter cod. civ., in Not., 2006, 315 ss.; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contr. e impr., 2006, 1717 ss.; G. Vettori, Atto di destinazione e trust: prima lettura dell’art. 2645 ter, in Obbl. e contr., 2006, 775 ss.; G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, I, 321 ss.; U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., in Riv. not., 2007, I, 1069 ss.; R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., in Contr. e impr., 2007, 299 ss.

[49] Prima del 2006, infatti, il principio di tassatività delle norme sulla trascrizione e l’impossibilità di ricondurre tali atti alle ipotesi previste agli artt. 2643 ss. impedivano la segnalazione pubblicitaria di fattispecie destinatorie atipiche e, più in generale, la pubblicità di atti modificativi del contenuto del diritto di proprietà (v. G. Gabrielli, op. cit., 321, nota 1). Tuttavia, l’art. 2645-ter reca con sé un duplice dubbio: da un lato, non è chiaro se la trascrizione ivi prescritta sia configurabile quale obbligo o facoltà (sicché, in quest’ultimo caso, la sua assenza inciderebbe solo sul regime di opponibilità dell’atto e non sulla sua validità); dall’altro, la natura di tale adempimento pubblicitario, vale a dire il suo carattere meramente dichiarativo ovvero finanche costitutivo, non è precisata nel testo della norma.

[50] Così, ex multis, M. Bianca, Il nuovo art. 2645-ter c.c. Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, 187 ss.; R. Quadri, op. ult. cit., 1729 ss.; G. Petrelli, op. cit., 162 ss.; F. Gazzoni, op. ult. cit., 166; S. Meucci, op. cit., 160 ss.; F. Galluzzo, Autodestinazione e destinazione c.d. dinamica: l’art. 2645 ter cod. civ. come norma di matrice sostanziale, in Nuova Giur. civ. comm., II, 2014, 128 ss. In questo senso, tra l’altro, si è pronunciata anche la Cassazione (v. Cass. civ., sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 3735, in Foro it., 2015, I, 1215 ss. e Cass. civ., sez. VI, 25 febbraio 2015, n. 3886, in Vita not., 386 ss.), avverso le molteplici sentenze di merito che hanno adottato la contrapposta tesi.

[51] V. P. Manes, La norma sulla trascrizione di atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contr. e impr., 2006, 626; A. Picciotto, Orientamento giurisprudenziale sull’art. 2645 ter cod. civ., in Atti di destinazione e trust, cit., 297 ss.

[52] Si tratta del decreto del Trib. Trieste, 7 aprile 2006, in Riv. not., 2007, II, 367 ss., con nota di E. Matano, I profili di assolutezza del vincolo di destinazione, uno spunto ricostruttivo delle situazioni giuridiche soggettive; in Notariato, 2006, 539, con nota di A. Calisti, L’atto di destinazione ex art. 2645-ter cod. civ. non esiste? Brevi considerazioni a margine della pronuncia del tribunale di Trieste in data 7 aprile 2006; e in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 524 ss., con nota di M. Cinque, L’interprete e le sabbie mobili dell’art. 2645 ter cod. civ.: qualche riflessione a margine di una prima (non) applicazione giurisprudenziale.

Nel caso in esame, al Giudice Tavolare (Arturo Picciotto) veniva richiesta l’intavolazione di un atto pubblico di dotazione immobiliare di un trust; nel rigettare la domanda, egli valutò la possibilità di sussumere la fattispecie sotto l’art. 2645-ter, e di conseguenza si espresse in via incidentale riguardo alla natura della norma. Il Giudice, tuttavia, concluse che l’art. 2645-ter rappresentasse una «anomala disposizione normativa» che non poteva essere utilizzata nel caso di specie.

[53] Si riporta, qui di seguito, un estratto della pronuncia: «La norma […] viene a introdurre nell’ordinamento solo un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione (che per i beni immobili e mobili registrati postula il veicolo formale dell’atto pubblico), accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi […]. Con essa, si opina, non si è voluto introdurre nell’ordinamento un nuovo tipo di atto a effetti reali, un atto innominato, che diventerebbe il varco per l’ingresso del tanto discusso negozio traslativo atipico; non costituisce la giustificazione legislativa di un nuovo negozio la cui causa è quella finalistica della destinazione del bene alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela. Non c’è infatti alcun indizio da cui desumere che sia stata coniata una nuova figura negoziale, di cui non si sa neanche se sia unilaterale o bilaterale, a titolo oneroso o gratuito, a effetti traslativi od obbligatori».

[54] In tal senso U. La Porta, op. ult. cit., 1069 ss.; R. Di Raimo, L’atto di destinazione dell’art. 2645 ter: considerazioni sulla fattispecie, in Atti di destinazione e trust, cit., 47 ss.; U. Stefini, op. cit., 47 ss.

[55] V. gli autori citati alla nota 38.

[56] Così L. Gatt, op. cit., 73 ss.; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 203 ss.; Id., Trust interno, art. 2645 ter c.c. e «trust italiano», in Riv. dir. civ., 2016, 167 ss.; Id. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, quindici anni dopo, cit., p 1162 ss.; L. Vitale, Trust interni e trust auto-dichiarati: ammissibilità e ruolo interpretativo dell’art. 2645-ter c.c., in Vita not., 2017, 179 ss.

[57] In tal senso, tra i molti, v. M. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di Trust, in Riv. not., 2006, I, 169 ss.; Id., Trust e vincoli di destinazione: qualcosa in comune?, in TAF, 2019, 239 ss.; G. Doria, Il patrimonio “finalizzato”, in Riv. dir. civ., 2007, 511 ss.; G. Oberto, Atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contr. Impr. Europa, 2007, 351 ss.; A.C. Di Landro, L’art. 2645-ter e il trust. Spunti per una comparazione, in Riv. not., 2009, 604 ss.; V. Greco, Trust interno tra teoria e diritto vivente (Parte seconda), in Studium Iuris, 2015, 806 ss.; M. Giuliano, Trust e dintorni: la necessaria chiarezza, in TAF, 2017, 500 ss.

[58] Addirittura il più celebre studioso e sostenitore del trust nel nostro Paese, id est Lupoi, svilisce fermamente la presunta identità, finanche funzionale, tra le due ipotesi di destinazione; anzi, perché si possano realizzare i medesimi risultati pratici del trust, il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter, a sua detta mero «frammento di trust», dovrebbe accedere strumentalmente ad un contratto di affidamento fiduciario, che si dimostra idoneo a disciplinare compiutamente il profilo gestorio della destinazione patrimoniale (cosa che l’art. 2645-ter non farebbe). Condividono questa tesi M. Giuliano, op. cit., 499 e G. Petrelli, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, quindici anni dopo, cit., 1126 ss.: invero, sorprende che quest’ultimo autore, pur aderendo alla distinta tesi che reputa la destinazione ex art. 2645-ter un trust a tutti gli effetti, ammetta che tale atto andrebbe opportunamente integrato, sotto il profilo gestorio, dal collegamento con un contratto di affidamento fiduciario.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, affiancare allo strumento destinatorio questo ulteriore contratto avrebbe l’effetto di complicare ulteriormente la situazione: da un lato, la sua coesistenza con l’atto ex art. 2645-ter andrebbe vagliata nel concreto in termini di compatibilità; dall’altro, anche volendo ammettere tale compatibilità, tutt’altro che scontata sarebbe l’operazione volta a conciliare la disciplina dell’uno con quella dell’altro, con il rischio che il contratto di affidamento fiduciario risulti nel concreto ingiustificato, se non addirittura pleonastico.

A maggior ragione, questa considerazione sembra avvalorata da un ulteriore rilievo: la l.112/2016, meglio nota come «legge sul dopo di noi» e mirante ad agevolare soggetti affetti da grave disabilità privi di sostegno familiare, sembra aver definitivamente riconosciuto il contratto di affidamento fiduciario – prima mero contratto socialmente tipico – nel panorama giuridico italiano, affiancandolo al trust e ai vincoli di destinazione ex art. 2645-ter dal punto di vista funzionale. Tuttavia, questo intervento normativo non deve trarci in inganno: il contratto di affidamento fiduciario è sì riconosciuto oggigiorno a livello normativo, ma resta privo di una puntuale definizione legislativa, essendo tuttora definito solamente a livello dottrinale (ancora una volta, il più autorevole assertore di questa figura risulta M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014). Senza indugiare in tema, basti dire che tale novità ha comportato una proliferazione di commenti, che hanno coinvolto in vario modo il tema del rapporto tra trust e atto di destinazione; a tal proposito, sia concesso rimandare a G. Petrelli, op. ult. cit., 1098, nota 33.

[59] Alcuni sostengono che l’atto possa assumere soltanto una struttura unilaterale, sulla base del fatto che esso, incidendo unicamente sulla sfera patrimoniale del conferente, non intaccherebbe la sfera giuridica di altri soggetti, tantomeno del beneficiario, al quale è pur sempre concesso di rifiutare la prestazione di cui è destinatario: così A. Di Majo, Il vincolo di destinazione tra atto ed effetto, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., 114 ss.; R. Di Raimo, op. cit., 65 ss.; E. Russo, Il negozio di destinazione di beni immobili o di mobili registrati (art. 2645-ter c.c.), in Vita not., 2006, 1241 ss.; A. Morace Pinelli, op. cit., 224 ss.; G. Petrelli, op. cit., 165, che si esprime in termini di sufficienza della struttura unilaterale, più che di necessità. Tra gli autori, poi, c’è un’ulteriore scissione tra chi ritiene che l’atto unilaterale abbia carattere recettizio e chi ritiene il contrario: sul punto, v. G. Corradi, La struttura dell’atto costitutivo del vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in Fam. e dir., 2020, 1084.

Altri si esprimono a favore della struttura contrattuale, implicante il necessario consenso del beneficiario, al fine non solo di perfezionare la fattispecie ma anche di dare atto della sussistenza dell’interesse destinatorio perseguito e, di conseguenza, di offrirne garanzia ai creditori: v. F. Gazzoni, op. ult. cit., 172 ss.; M. Ceolin, Il punto sull’art. 2645 ter a cinque anni dalla sua introduzione, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 163 ss. A questa tesi hanno aderito anche alcune pronunce di merito in tempi più recenti: a titolo esemplificativo, v. Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, in Giur. it., 2012, 2274 ss., con nota di R. Calvo, Trust e vincoli di destinazione: “conferire” vuol dire trasferire?

L’opinione preferibile in dottrina – e accolta da chi scrive – ammette che l’atto di destinazione possa presentarsi a struttura unilaterale o contrattuale a seconda dei casi, testimoniata dal fatto che l’art. 2645-ter utilizza il generico termine “atti”: in tal senso, G. Gabrielli, op. cit., 335; R. Quadri, op. ult. cit., 1722 ss., Id., L’attribuzione in funzione di destinazione, in Atti di destinazione e trust, cit., 317 ss.; U. Stefini, op. cit., 88. In giurisprudenza, a titolo esemplificativo, v. Trib. Reggio Emilia, 23 marzo 2007, in Riv. dir. civ., 2008, 451 ss., con nota di A. Morace Pinelli, Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina.

[60] Di questa questione si tratterà più nel dettaglio nelle pagine che seguono; ora, basti soltanto osservare come, in tempi relativamente recenti, non poche pronunce di merito (v. Trib. Reggio Emilia, 22 giugno 2012, cit.; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 28 novembre 2013, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 713 ss., con nota di A. Azara, Atto di destinazione ed effetto traslativo e in Corr. Giur., 2014, 1367 ss. con nota di C. Sgobbo, Il negozio di destinazione e l’inammissibilità della destinazione unilaterale; Trib. Reggio Emilia, 27 gennaio 2014, in Corr. giur., 2014, con nota di C. Sgobbo, op. cit.; Trib. Reggio Emilia, 10 marzo 2015, in Fam. e dir., 2015, 902 ss., con nota di A. Benni De Sena, op. cit.) abbiano assunto l’inconcepibilità del negozio di destinazione puro. I giudici hanno interpretato restrittivamente sia il dato lessicale dell’art. 2645-ter, in quanto le espressioni “conferente” e “beni conferiti” esprimerebbero, a loro parere, la necessità di un trasferimento; sia il riferimento alla legittimazione del conferente ad agire per la realizzazione del fine destinatorio; sia l’art. 2740, comma 1, cod. civ., che verrebbe sconfessato se si concedesse ai privati l’incon­dizionata facoltà di creare, all’interno del proprio patrimonio, masse così separate. L’impressione è che questa avversione nei confronti della destinazione non traslativa risenta della convinzione che essa possa ridursi a un’illecita sottrazione da parte del conferente di taluni suoi cespiti, in pregiudizio ai propri creditori, come sottolinea G. Corradi, op. ult. cit., 1089.

[61] Così A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., 231; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., 1725; G. Gabrielli, op. cit., 336; G. Palermo, Interesse a costituire il vincolo di destinazione, in Atti di destinazione e trust, cit., 289; U. Stefini, op. cit., 117.

[62] Sostengono questa tesi, invece, G. Petrelli, op.cit., 163 ss. e, più di recente, Id. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, quindici anni dopo, in Riv. not. 2020, 1090 ss.; R. Dicillo, voce Atti e vincoli di destinazione, in dig, (disc. priv.), sez. civ., cit., 151 ss. La conseguenza sarebbe quella di ritenere che la norma contempli anche negozi di destinazione stipulati in forma di scrittura privata, parimenti validi ma dai quali potrebbe discendere un’efficacia meramente obbligatoria del vincolo, non essendo essi idonei alla trascrizione per mancanza del requisito formale prescritto; una conclusione, questa, che riterrei da escludere, viste le premesse da cui siamo partiti, e visto che un simile atto di destinazione “obbligatoria” si sarebbe potuto tranquillamente perfezionare anche prima dell’intervento legislativo.

[63] Il riferimento è ovviamente all’art. 42, comma 2, Cost.

[64] V., ex multis, G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 173-175.

[65] Cfr. R. Quadri, op. ult. cit., 1728, in particolare v. nota 30; R. Lenzi, voce Atto di destinazione, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, 67-68.

[66] Prospetta questa possibilità, senza aderirvi espressamente, R. Quadri, op. ult. cit., 1727. In tal senso, invece, v. G. Petrelli, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, quindici anni dopo, cit., 1143 ss., il quale sostiene che ad alcuni beni mobili, pur sprovvisti di un regime di pubblicità legale, possa estendersi il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter, segnatamente laddove alla destinazione si accompagni un contratto di affidamento fiduciario che ne trasferisca la proprietà a un terzo.

Nondimeno, tenendo presente la reale difficoltà di rendere opponibile ai terzi un vincolo su beni mobili sprovvisti di un adeguato regime di segnalazione pubblicitaria, oltre all’operare del regime circolatorio fondato sulla regola “possesso vale titolo”, sembra più opportuno concordare con la dottrina maggioritaria, che reputa il riferimento ai frutti dei beni destinati un’eccezione (come, del resto, è stato previsto nella disciplina di altri istituti, ad es. il fondo patrimoniale e i patrimoni destinati a uno specifico affare delle S.p.A): v. F. Gazzoni, op. ult. cit., 177; U. Stefini, op. cit., 115 ss.

[67] V. S. Meucci, op. cit., 163; G. Palermo, op. ult. cit., 291; R. Quadri, op. ult. cit., 1726. L’esempio più comune di bene assoggettabile alla disciplina ex art. 2645-ter è quello dei titoli di credito, dei quali, tra l’altro, è ammesso il conferimento in fondo patrimoniale ex art. 167 cod. civ., laddove essi vengano resi nominativi.

[68] Per tutti, G. D’amico, La proprietà «destinata», in Riv. dir. civ., 2014, 525. Alcune voci sostengono che il conferente possa finanche essere titolare di un diritto reale diverso sui beni destinati: v. M. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di Trust, in Riv. not., 2006, I, 169 ss.; R. Lenzi, op. ult. cit., 60.

[69] In tal senso A. Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in TAF, 2006, 169 ss., ove si legge «Al di là della sua qualità tecnica, deplorevole, è pacifico che la norma citata introduce definitivamente nel nostro ordinamento […], in via sostanzialmente generale, la nozione di proprietà dedicata. […] quando si dispone, come nella norma in esame, che titolarità della proprietà ed interesse economico allo sfruttamento dei beni ed ai loro frutti possono essere dissociati in base ad un atto di esercizio dell’autonomia proprietaria e che tale dissociazione è opponibile ai creditori del proprietario, il principio di compattezza del diritto dominicale viene definitivamente meno e si introduce positivamente nel nostro ordinamento la figura della proprietà nell’interesse altrui».

[70] Peraltro, la maggior parte dei commentatori ritiene estranea all’ambito applicativo dell’art. 2645-ter una generica destinazione di scopo, considerando che, in relazione alla durata del vincolo, esso viene commisurato espressamente alla durata della vita del beneficiario. Ciononostante, in assenza di indicazioni contrarie, alcuni asseriscono l’ammissibilità una siffatta forma di destinazione, la quale sarebbe connotata non dall’assenza tout court di beneficiari, ma dalla loro indeterminatezza, dovuta all’appartenenza ad una categoria di soggetti indistinti ma accomunati dall’interesse diffuso alla realizzazione dello scopo in questione: in questi termini, v. R. Lenzi, op. ult. cit., 66; D. Muritano, Negozio di destinazione e trust interno, in Atti di destinazione e trust, cit., 285. Ammette la destinazione per uno scopo charitable, come per il trust anglosassone, A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 249.

[71] Minoritaria la tesi che ravvisa la sussistenza di un diritto reale su cosa altrui (M. D’errico, Trascrizione del vincolo di destinazione, negli atti del Convegno “Atti notarili di destinazione dei beni: art. 2645 ter c.c.”, Milano, 19 giugno 2006), gli autori si dividono tra chi afferma che il beneficiario sia titolare di un diritto di credito nei confronti del proprietario dei beni vincolati, sui generis in quanto opponibile ai terzi (U. Stefini, op. cit., 142 ss.; M. Ceolin, cit., 384) e chi, invece, sostiene che si tratti più che altro di una situazione di vantaggio paragonabile a quella di colui che vanta un interesse legittimo (S. Meucci, op. cit., 498 ss.; U. La Porta, op. ult. cit., 1108 ss.).

[72] Cfr. G. Palermo, op. ult. cit., 292, il quale afferma la necessità che il beneficiario sia determinato, e G. Petrelli, op. ult. cit., 178, che sostiene, invece, possa essere anche soltanto determinabile.

[73] Con molta probabilità – almeno per quanto concerne l’aspetto soggettivo della norma – l’indicazione non ha valenza restrittiva del novero dei possibili beneficiari, ma sembra rappresentare un residuo dei succitati disegni di legge del 2003 e del 2004, come sottolinea G. Petrelli, op. ult. cit., 176.

[74] Nel contesto di una destinazione c.d. pura, tuttavia, la casistica mostra come la scelta di affidare la gestione dei beni vincolati a un terzo in base ad un contratto di mandato sia piuttosto rara; anche laddove ciò accada, peraltro, data l’obbligatorietà del mandato, il gestore risponderà solo contrattualmente nei confronti di chi gli ha affidato l’incarico – id est il conferente – e non verso il beneficiario, a prescindere dalla qualificazione che si intende attribuire alla situazione giuridica privilegiata di quest’ultimo.

Parte della dottrina, inoltre, ritiene che in questa circostanza la gestione possa affidarsi finanche allo stesso beneficiario (v. A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 250 ss.; F. Gazzoni, op. cit., 175; M. Ceolin, op. cit., 369-370, il quale però non ritiene ammissibile un contratto di mandato tra disponente e beneficiario). A voler vedere, si tratta di una tesi ben poco condivisibile, dal momento che, amministrando il beneficiario nel proprio esclusivo interesse, il rischio sarebbe quello di dar luogo a un’ipotesi di autodestinazione, di cui si preciserà a breve. Qualche spiraglio potrebbe aprirsi qualora vi siano più beneficiari e solo uno di essi sia designato come gestore, ovvero qualora l’interesse non sia esclusivo del beneficiario ma sia “condiviso” con il disponente, a sua volta beneficiario; in questo caso, però, lo strumento negoziale da operare sarebbe un mandato in rem propriam, vale a dire concluso nell’interesse (anche) del mandatario.

[75] A detta di alcuni parrebbe opportuno – se non addirittura necessario – che anche nella destinazione c.d. dinamica la gestione fosse regolata da un contratto di mandato, così da poter controllare l’attività svolta dall’attuatore e assicurarne la cooperazione: sul punto, A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 255; U. La Porta, op. ult. cit., 1101; S. Meucci, op. cit., 137.

Queste conclusioni, tuttavia, sono avversate da altra parte della dottrina: in effetti, nella disciplina dell’art. 2645-ter, uno dei tratti peculiari è la previsione di una situazione proprietaria finalizzata alla realizzazione di un interesse, circostanza che già di per sé determina la nascita di obblighi di gestione in capo al disponente, ovvero ad altri eventuali soggetti cui viene affidata l’amministrazione delle res. Di conseguenza, ciò renderebbe immotivato l’automatico impiego di un contratto di mandato, bensì questo avrebbe carattere del tutto opzionale e integrativo, laddove il conferente intenda regolare specifici aspetti dell’attività gestoria affidata ad altri soggetti: così, F. Alcaro, op. cit., 88 ss.; dello stesso avviso è anche U. Stefini, op. cit., 29 ss., il quale rileva l’analogia tra la destinazione patrimoniale e la disciplina delle servitù negative, anch’esse comportanti obbligazioni negative a carico del proprietario del fondo servente, ma dotate del requisito dell’inerenza alla res e quindi dell’opponibilità ai terzi.

[76] Come rileva R. Lenzi, op. ult. cit., 74, il fatto che la norma statuisca soltanto che «[…] i beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione», non soltanto non offre indicazioni certe circa il precipuo contenuto dell’attività gestoria, ma, tra l’altro, lascia aperta la questione delle conseguenze relative agli atti compiuti in contrasto con tale attività, e quindi con il dovere di realizzazione dell’interesse destinatorio.

Molto sinteticamente, data l’ampia autonomia concessa dall’art. 2645-ter, è preferibile ritenere che il conferente sia del tutto libero di determinare il programma gestorio, perfino corredando il vincolo di destinazione, eventualmente, con ulteriori vincoli di indisponibilità o inalienabilità; l’importante è che da ciò non derivi una situazione di incompatibilità con gli scopi della destinazione, perché in tal caso il beneficiario – come qualsiasi altro interessato – sarebbe legittimato ad esperire l’azione per la realizzazione della destinazione contro lo stesso conferente. Nel caso in cui la gestione sia affidata a un terzo gestore o attuatore, poi, è chiaro che le conseguenze dell’inadempimento di costui differiscono a seconda che si accolga la tesi che ravvisa la necessità, sempre e comunque, che la sua posizione sia regolata da un contratto di mandato, ovvero la tesi che ne prevede la mera opzionalità.

[77] Quanto al trust, v. per tutti V. M. Lupoi, Trusts, cit., 171 ss. e G. Petrelli, op. ult. cit., 177, nota 43.

[78] Quest’ultimo è ormai ritenuto dalla Suprema Corte perfettamente legittimo, con un’inversione di tendenza rispetto al passato: così ad esempio Cass Civ. sez. V, 26 ottobre 2016, n. 21614, in TAF, 2017, 66 ss.

[79] Così M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi, in Riv. not., 2006, I, 1183.; R. Quadri, op. ult. cit., 1736; A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., in Rass. dir. civ., 2007, 27 ss. Del resto, l’autode­stinazione è priva di causa anche in quanto non si può giustificare un negozio con semplice il fatto che se ne vogliono ottenere gli effetti, oltre al fatto che a voler concludere diversamente il pregiudizio ai creditori sarebbe pressoché scontato. Tutto ciò a meno che non si sostenga l’esistenza di una vera e propria una causa destinatoria – della quale si dirà nel prosieguo – a reggere l’atto di destinazione o, quantomeno, la vicenda traslativa in caso di destinazione dinamica; ma si tratta di una tesi difficilmente condivisibile, e per questo alquanto isolata.

[80] La sovrapposizione tra il ruolo di conferente e quello di beneficiario, nel caso di destinazione traslativa, non dà luogo a una forma di autodestinazione: esclusa la coincidenza dei tre soggetti, infatti, l’attuatore potrà benissimo amministrare i beni vincolati nell’interesse del conferente stesso, poiché qui a giustificare l’operazione destinatoria si può ravvisare o una causa gestoria o una causa di garanzia. A riguardo, v. A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 246-247; F. Gazzoni, op. cit., 174-175; G. Gabrielli, op. cit., 334; U. Stefini, op. cit., 191. Al contrario, se attuatore e beneficiario risultano essere lo stesso soggetto, ecco che si incorre nell’auto­destinazione: gestendo costui il patrimonio vincolato nel proprio interesse, non è possibile ravvisare una causa che realmente giustifichi la destinazione con separazione patrimoniale.

[81] Così, ad esempio, E. Russo, op. cit., 1256; G. Marchetti, Meritevole o immeritevole? Questo (non) è il problema. Riflessioni sull’art. 2645-ter c.c. nel sistema moderno della responsabilità patrimoniale – Seconda parte, in Studium Iuris, 2018, 730 ss.

Alcune voci di nicchia, più caute in tema di autodestinazione, affermano invece che la relativa ammissibilità dipenderebbe in ogni caso dalla non esclusiva riferibilità dell’interesse destinatorio al solo disponente (v. R. Lenzi, op. ult. cit., 67; G. Oppo, Riflessioni preliminari, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., 13).

[82] Infatti, l’atto di trasferimento del patrimonio vincolato è neutro dal punto di vista causale, come sosteneva già ai tempi U. La Porta, Causa del negozio di destinazione e neutralità dell’effetto traslativo, in Destinazione di beni allo scopo, cit., 266 ss. Al contrario, nel caso di destinazione pura, assente una vicenda traslativa, ad essere valutato sotto il profilo causale – e quindi in riferimento al parametro di meritevolezza – è soltanto l’atto che imprime il vincolo.

[83] Per tutti, U. Stefini, op. cit., 8 e 99.

[84] Si considerino U. La Porta., L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., cit., 1097; R. Quadri, op. ult. cit., 1731-1733; M. Ceolin, op. cit., 364; G. Vettori, op. cit., 779; G.A.M. Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Not., 2009, 427; B. Sciarra, Il negozio di destinazione a struttura unilaterale, in Riv. not., 2014, 1253; F. Galluzzo, op. ult. cit., 137; P. Romeo, Meritevolezza degli interessi e causa destinatoria, in Contr., 2015, 666 Per tali autori, ciò troverebbe conforto in una concezione di destinazione patrimoniale che attiene non solo al piano degli effetti ma, imprescindibilmente, anche a quello della causa dell’atto negoziale, scorgendovi un autonomo tipo negoziale.

Non si può tuttavia non rilevare come l’interpretazione preferibile sia quella che ravvisa nella norma nient’altro che la descrizione e la disciplina di un effetto – o, che a dir si voglia, almeno di un effetto – richiamando per di più la generale regola di autonomia negoziale dell’art. 1322, il che rende conciliabile tale effetto con una pluralità di fondamenti causali.

[85] Se non bastasse quanto si è detto in precedenza circa la caratterizzazione del fenomeno destinatorio per mezzo dell’elemento teologico, si consideri anche che l’art. 2645-ter correda l’atto di destinazione di un rimedio processuale specifico, l’azione per la realizzazione della destinazione, statuendo che «[…] per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso».

[86] Pertanto, a sua volta, l’art. 2645-ter deroga al 2° comma del 2740: sul punto, ex plurimis, S. Meucci, op. cit., 412 ss.; U. Stefini, op. cit., 45 ss.

[87] V. ad esempio A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 180 ss.; F. Gazzoni, op. ult. cit., 186 ss.; G. Gabrielli, op. cit., 328 ss.; U. La Porta, op. ult. cit., 1091 ss.; M. Ceolin, op. cit., 375 ss.; A. Luminoso, Contratto fiduciario, trust, e atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in Riv. not., 2008, 1098 ss.; G. D’amico, op. ult. cit., 536 ss.; R. Dicillo, op. cit., 63 ss.; G. Perlingieri, Il controllo di «meritevolezza» degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in Not., 2014, 12 ss.; R. Lenzi, op. ult. cit., 68 ss.; R. Franco, op. cit., 322; R. Quadri, op. cit., 1756 ss.

[88] A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 188 ss., il quale sottolinea la continuità con i precedenti progetti di legge n. 3972 del 2003 e n. 5414 del 2004; F. Gazzoni, op. ult. cit., 170, che ritiene lo scopo pubblica utilità condizione idonea a giustificare il vincolo di destinazione, al pari di quanto previsto in passato per il riconoscimento delle fondazioni; A. Luminoso, op. cit., 1000, che parla di fini di utilità pubblica o sociale riferibili a qualsiasi persona o ente. Ritengono, poi, che l’interesse debba assumere una finalità di carattere sociale, riferibile a collettività o a singoli individui, purché di natura non meramente patrimoniale né egoistica, G. D’amico, op. ult. cit., 545 e G. Gabrielli, op. cit., 331 ss., il quale ultimo, inoltre, ritiene che gli interessi di carattere individuale debbano godere di tutela costituzionale.

[89] U. La Porta, op. loc. ult. cit.; R. Quadri, op. loc. ult. cit.; R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 241; R. Franco, op. loc. cit.; R. Dicillo, op. loc. cit.; M. Ceolin, op. cit., 376.

In particolare, al di là delle numerose varianti interpretative, si considerino per la loro originalità le posizioni di G. Perlingieri, op. cit., 16 ss., il quale ritiene che la comparazione tra interessi destinatori e interessi creditori sia soltanto eventuale, mentre indefettibili sarebbero tutta una serie di altre valutazioni, quale quella di proporzionalità tra scopo perseguito e bene vincolato, e tra tale bene e l’effettiva consistenza del patrimonio residuo del disponente; R. Lenzi, voce Atto di destinazione, in Enc. dir, cit., 71, che afferma la necessità di valutare aspetti quali la gestione concreta delle res vincolate, la situazione dei creditori precedenti alla costituzione del patrimonio destinato, ecc.; R. Di Raimo, op. cit., 76, che osserva come ai fini del giudizio di comparazione rilevi anche il tipo di attività programmata.

[90] Questo orientamento – ritenuto preferibile da chi scrive – viene accolto da A. Gentili, op. cit., 16 ss.; G. Vettori, Atti di destinazione e trust, cit., 6 ss.; Id., Atto di destinazione e trust: prima lettura dell’art. 2645 ter, cit., 777 ss.; G. Palermo, op. ult. cit., 291 ss.; S. Meucci, op. cit., 280 ss.; U. Stefini, op. cit., 53 ss.; L. Cavalaglio, Considerazioni minime sull’interpretazione riduttiva dell’art. 2645-ter c.c., in Nuova Giur. civ. comm., 2017, 595 ss.; G. Marchetti, op. cit., 728 ss.; P. Coppini, Azione revocatoria e destinazione patrimoniale, tra autonomia negoziale e tutela del credito, in Contr. e impr., 2021, 131 ss. Interessante la posizione di G. Petrelli, op. ult. cit., 179, il quale, pur rilevando la necessità che l’interesse destinatorio risulti «meritevole di maggior tutela» rispetto a quello dei creditori, precisa che la novella d’ora in avanti legittima il sacrificio di quest’ultimo a fronte di un qualsiasi interesse idoneo a prevalere su quello più generale dell’economia.

A favore dell’identificazione tra meritevolezza e liceità soccorre non solo la formulazione letterale della norma, ma anche da un dato ulteriore, vale a dire dalle indicazioni contenute nel parere della Commissione Permanente di Giustizia all’originaria proposta di legge, ove si riscontrerebbe conferma dell’equivalenza, secondo l’interpretazione prevalente, tra i due parametri. Un’ulteriore argomentazione, poi, si fonda sull’analogia tra atto di destinazione ex art. 2645-ter e trust: visto che con ratifica della Convenzione dell’Aja possono essere riconosciuti in Italia trusts stranieri privi di uno scopo particolarmente qualificato in termini di meritevolezza (dunque, semplicemente lecito) e, tra l’altro, la giurisprudenza maggioritaria si mostra favorevole all’ammissibilità del c.d. trust interno, non si vede come possa imporsi un giudizio che vada oltre la mera liceità della causa in relazione alla costituzione di un vincolo di destinazione “italiano”. Su quest’ultimo punto, v. A. Picciotto, Orientamento giurisprudenziale sull’art. 2645-ter, in Atti di destinazione e trust, cit., 309.

[91] Un controllo che, ancora, determina disaccordi quanto al soggetto preposto al relativo svolgimento: tra chi lo ritiene compito del notaio (v. F. Gazzoni, op. ult. cit., 171; G. Petrelli, op. ult. cit., 180; G. Gabrielli, op. cit., 333), chi del giudice (v. G. Perlingieri, op. cit., 32) chi a entrambi (R. Dicillo, op. cit., 63 ss.; M. Ceolin, op. cit., 378) e chi, al contrario, a nessuno dei due (G. Vettori, Atti di destinazione e trust, cit., 7), non si è ancora giunti ad una soluzione pienamente convincente.

[92] Come ritengono A. Gentili, op. ult. cit., 11 ss.; R. Di Raimo, op. cit., 76; R. Dicillo, op. cit., 164 ss.; G. Perlingieri, op. cit., 14 ss.

[93] Come, invece, ritiene la dottrina maggioritaria, tra cui si ricordino F. Gazzoni, op. ult. cit., 171-172; G. Petrelli, op. loc. ult. cit., G. Gabrielli, op. loc. cit.; M. Ceolin, op. cit., 373; U. Stefini, op. cit., 66 e 188 ss.; S. Meucci, op. cit., 436 ss. Gli ultimi due autori menzionati, inoltre, convengono sul fatto che uno strumento di tutela efficace a favore dei creditori del conferente possa essere proprio l’actio nullitatis per insufficienza causale.

[94] M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, 217.

[95] Ma contrario a questa conclusione è F. Gazzoni, op. ult. cit., 167, il quale ritiene ancora sussistente il dogma del numero chiuso dei diritti reali e che, di conseguenza l’art. 2645-ter abbia tipizzato solo uno schema negoziale ai fini della trascrizione di un vincolo che rimane a carattere meramente obbligatorio.

[96] Così G. Petrelli, op. ult. cit., 200; A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 269; F. Gazzoni, op. ult. cit., 181; R. Quadri, op. ult. cit., 1739, nota 61; G. Oppo, Brevi note sulla trascrizione degli atti di destinazione (Art. 2645 ter c.c.), in Riv. dir. civ., 2007, 4 ss.; U. Stefini, op. cit., 183; S. Meucci, op. cit., 433 ss., la quale però non esclude che il dettato normativo così generico possa anche condurre all’interpretazione inversa, che ravvisa una limitazione di responsabilità di tipo bilaterale.

[97] Ciò significa che i creditori in questione saranno tenuti a rivalersi prima sul patrimonio destinato e solo in caso di sua incapienza avranno modo di aggredire la residua massa patrimoniale. In tal senso si pronuncia la dottrina maggioritaria: v. S. Meucci, op. cit., 435-436; G. Oppo, op. cit., 5; M. Ceolin, op. cit., 392, U. Stefini, op. cit., 183 ss.; ma contra, F. Gazzoni, op. ult. cit., 181.

[98]Ovvero, se si tratta di destinazione impressa su beni mobili (es. beni suscettibili di adeguata segnalazione pubblicitaria, qualora si accolga siffatta tesi; frutti dei beni vincolati ecc.), il vincolo sarà loro inopponibile ove l’atto di pignoramento presenti una data certa anteriore a quella risultante dall’atto di destinazione: v. ex multis U. Stefini, op. cit., 186-187, in particolare la nota 144 e le fonti ivi riportate.

[99] Altresì detta “azione revocatoria semplificata” o “per saltum”: sul punto, per tutti, v. G. Petrelli, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e trust, quindici anni dopo, cit., 1097-1098, in particolare la nota 31.

La norma presenta una formulazione alquanto prolissa; volendo sintetizzare, per quel che ci interessa in questa sede, essa prescrive che qualora il debitore abbia compiuto atti a titolo gratuito di natura dispositiva o costitutivi di vincoli di destinazione – rectius, di indisponibilità – e aventi ad oggetto beni immobili o mobili registrati, i summenzionati creditori, in tal guisa pregiudicati, potranno procedere a esecuzione forzata ancorché non abbiano preventivamente e vittoriosamente esperito l’azione revocatoria. Tutto ciò, però, nel rispetto di talune condizioni: in primis, come anticipato, si deve trattare di soggetti che possano vantare un credito anteriore al compimento dell’atto pregiudizievole; in secundis, costoro devono essere pur sempre muniti di un titolo esecutivo; infine, devono trascrivere il pignoramento sui beni oggetto di disposizione o su cui è stato costituito il vincolo entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole. Sul punto, G. Balena, Istituzioni di diritto processuale civile. Volume terzo: i processi speciali e l’esecuzione forzata, V ed., Bari, 2019, 119.

[100] V. F. Gazzoni, op. ult. cit., 184; G. D’amico, op. ult. cit., 535; U. La porta, op. ult. cit., 1092 ss.; S. Meucci, op. cit., 458 ss.; U. Stefini, op. cit., 188 ss. Entrambi quest’ultimi, inoltre, ritengono che possa essere esperita anche la revocatoria fallimentare.

Più in generale, sul tema della revocatoria dell’atto di destinazione patrimoniale, sia consentito rimandare al recente contributo di P. Coppini, Azione revocatoria e destinazione patrimoniale, tra autonomia negoziale e tutela del credito, in Contr. e impr., 2021, 131 ss.

[101] Così S. Meucci, op. cit., 463-464; U. Stefini, op. cit., 190 ss.

[102] V. Cass. civ., sez. I, 18 luglio 2003, n. 11230, in Fam. e dir., 2004, 351 ss., con nota di F. Longo, Responsabilità aquiliana ed esecutività sui beni del fondo patrimoniale. Nella massima si legge «[…] ove la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio, ancorché consistente in fatto illecito, abbiano inerenza diretta ed immediata con le esigenze familiari, deve ritenersi operante la regola della piena responsabilità dei beni del fondo».

[103] Precisamente, secondo questa tesi, anche i creditori involontari saranno tra quelli ammessi a soddisfarsi sulle res vincolate, qualora da esse origini l’illecito extracontrattuale; ciò perché si ritiene che l’identificazione dei crediti al cui soddisfacimento sono garantiti i beni destinati non dipenda dalla natura delle obbligazioni in sé, bensì dalla loro relazione con la causa della destinazione: v. A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 267 ss.; F. Gazzoni, op. ult. cit., 180; R. Quadri, op. ult. cit., 1743, nota 70. In realtà, altra parte della dottrina ritiene più opportuna, a riguardo, una valutazione in concreto, caso per caso, utilizzando come parametro, ancora una volta, l’elemento causale sotteso alla destinazione: v. S. Meucci, op. cit., 491, che ritiene, ad esempio, che si debba applicare il criterio teleologico illustrato al 3° comma dell’art. 2447-quinquies, che impone l’illimitata responsabilità per le obbligazioni derivanti da fatto illecito, laddove l’atto di destinazione venga utilizzato nel contesto di un’attività imprenditoriale.

[104] V., ex plurimis, R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., 1756 ss.; Id., L’attribuzione in funzione di destinazione, cit., 324 ss.; U. La Porta, op. ult. cit., 1095, nota 12; R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 242 ss.; Id., Destinazioni tipiche e atipiche, in Famiglia e impresa, cit., 35 ss.; L. Nonne, Separazione patrimoniale e modelli familiari: il ruolo del trust, in Fam. pers e succ., 2007, 450; Id., Trust e rapporti patrimoniali tra coniugi conviventi: osservazioni sistematiche e profili operativi, in Riv. dir. priv., 2008, 99 ss.; G.A.M. Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Not., 2009, 426 ss.; S. Meucci, op. cit., 223 ss.; Id., L’atto di destinazione trascrivibile ex art. 2645-ter c.c., in Atti di destinazione e trust, cit., 360 ss.; S. Troiano, Gli atti di destinazione, in S. Patti e M. G. Cubeddu, Diritto di famiglia, Milano, 2011, 342 ss.; M. Ceolin, op. cit., 377 ss.; G. Perlingieri, op. cit., 26 ss.; M. Bellinvia, Destinazione non traslativa e meritevolezza dell’interesse familiare: nota a Trib. Reggio Emilia, ord. 12 maggio 2014, in Riv. not., 2014, 1263 ss.; A. Torroni, La destinazione patrimoniale nella famiglia, in Riv. not., 2017, 99 ss.; G. Iaccarino, La circolazione dei beni oggetto del vincolo di destinazione, in Not., 2018, 170 ss.

[105] Per fare degli esempi, si ricordi che l’art. 169 impone che la gestione del fondo patrimoniale avvenga necessariamente con la partecipazione di entrambi i coniugi; tale profilo, tra l’altro, è regolato dalle norme in tema di amministrazione della comunione legale (per espresso rinvio ex art. 168, ult. comma). Quanto al rapporto tra destinazione e tutela dei creditori, poi, l’art. 170 sancisce che «La esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia»: da ciò si ricava che se un creditore c.d. estraneo alla destinazione, al tempo del sorgere dell’obbligazione, ignorasse in buona fede l’estraneità del proprio credito rispetto ai bisogni familiari, costui ha pieno diritto di soddisfarsi (anche) sul patrimonio conferito al fondo; parimenti legittimati ad aggredire i beni conferiti, logicamente, sono i creditori il cui rapporto sia sorto per la soddisfazione delle esigenze della famiglia, mentre restano esclusi i soli creditori c.d. consapevoli.

[106] Si tratta di un’opinione in voga già prima dell’introduzione dell’art. 2645-ter, come si legge nelle pagine di A. De Donato, Destinazione di beni e opponibilità ai terzi, in Destinazione di beni allo scopo, cit., 204 ss.; G. Cesaro, Patrimoni destinati nell’interesse della famiglia tra diritto positivo e prospettive di disciplina del trust, ivi, 107; F. Tassinari, Patrimoni privati e destinazioni a tutela della famiglia, ivi, 55, il quale afferma tra l’altro che la destinazione funzionalizzata ai bisogni della famiglia è un interesse di fatto ancor prima che di diritto; F. Patti, I trusts: utilizzo nei rapporti di famiglia, in Vita not., 2003, XIII; F. Viglione, Vincoli di destinazione nell’interesse familiare, Milano, 2005, 126 ss.

Tuttavia, all’epoca molti asserivano che la destinazione applicata ai conviventi more uxorio avrebbe incontrato il limite della sua necessaria obbligatorietà, assumendo che un vincolo di carattere reale a favore di una famiglia di fatto difficilmente avrebbe potuto trovare giustificazione di fronte alle ragioni del ceto creditorio: v. per tutti R. Lenzi, Struttura e funzione del fondo patrimoniale, in Riv. not., 1991, 62-63.

È evidente che, con l’entrata in vigore della novella del 2006, la quale di per sé ammette in via generale l’effetto destinatorio con separazione patrimoniale, quella appena esposta è una tesi non più condivisibile: anche la famiglia di fatto – come, del resto, qualsiasi privato – potrà porre in essere un atto di destinazione con efficacia reale, nel rispetto dei presupposti richiesti dall’art. 2645-ter.

Inoltre, oggigiorno il tema della destinazione applicata alle convivenze deve fare i conti con le nuove convivenze c.d. registrate e riconosciute dalla l. n. 76/2016. Sintetizzando, gli autori restano schierati su due fronti opposti in merito all’interpretazione dell’art. 1, comma 53 di tale legge, il quale si occupa di indicare il possibile contenuto, anche patrimoniale, del contratto di convivenza, menzionando però soltanto il regime patrimoniale della comunione legale. Pertanto v’è chi, ritenendo che esso abbia un significato inequivocabile, sostiene che i conviventi possano impiegare solamente l’atto di cui all’art. 2645-ter per destinare nel proprio interesse; altri invece, valorizzando il generico riferimento alle «modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune» di cui alla lettera b) della norma, ritengono che i conviventi possano adottare un regime analogo al fondo patrimoniale proprio per mezzo del contratto di convivenza e che, all’opposto, non sia più concesso loro impiegare la destinazione atipica.

[107] In questo senso, tra i numerosi, A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., 206; R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 243; M. Bellinvia, op. cit., 1273; V. Bellomia, La tutela dei bisogni della famiglia, tra fondo patrimoniale ed atti di destinazione, in Dir. e fam., 2013, 731.

[108] Sul punto, si considerino principalmente F. Carresi, Del fondo patrimoniale, in AA.VV. Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di G. Cian, G. Oppo, A. Trabucchi, III ed., Padova, 1992, 51 ss.; M.L. Cenni, Il fondo patrimoniale, in P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, vol. III, Regime patrimoniale della famiglia, a cura di F. Anelli, M. Sesta, Milano, 2012, 734 ss.; T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in AA.VV., Trattato di diritto di famiglia, vol. II, Il regime patrimoniale della famiglia, diretto da G. Bonilini, Milano, 2016, 1618 ss.; G. Trapani, Il fondo patrimoniale come strumento di soddisfazione dei bisogni della famiglia, in Not., 2007, 676 ss.; M. Bellinvia, op. cit., 1274.

[109] Il riferimento, chiaramente, è agli artt. 29 e 30 della Costituzione. V. Bellomia, op. loc. cit.: «Sul piano della meritevolezza degli interessi, per quanto riguarda poi la creazione di un patrimonio destinato e separato al fine del soddisfacimento dei bisogni della famiglia, esistendo già una fattispecie nominata in cui la valutazione è stata compiuta a priori dal legislatore, ci sembra indubbio che tale interesse possa giustificare il sacrificio delle ragioni creditorie. Vi si ravvisa, infatti, sia la tutela di diritti costituzionalmente protetti, sia la loro rilevanza sul piano sociale e morale, rappresentando, il dovere di contribuzione tra coniugi e quello di mantenimento dei figli, “prima che un obbligo giuridico, un dovere morale”», citando a sua volta, così, A. Morace Pinelli, op. loc. ult. cit.

[110] V. F. Carresi, op. cit., 44; G. Cesaro, op. cit., 94 ss.; M.L. Cenni, op. cit., 691 ss.; T. Auletta, op. ult. cit., 1597 ss.

[111] Innanzitutto, andrebbero certamente inclusi i figli legittimati, i figli adottivi e i figli naturali di un solo coniuge purché stabilmente conviventi con la coppia, sia che si tratti di minori di età, anche in affidamento temporaneo, sia di maggiorenni portatori di handicap, economicamente non autosufficienti ovvero in stato di bisogno; qualche perplessità in più si riscontra ove si prospetti la possibilità di includere nella nozione di famiglia ex artt. 167 ss. anche i discendenti ovvero altri familiari conviventi con la coppia e al cui mantenimento essa sia tenuta a provvedere. Cfr. anche G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 299 e T. Auletta, op. loc. ult. cit., i quali ritengono che possano trarre vantaggio dal fondo finanche i figli i maggiorenni economicamente autosufficienti ma ancora conviventi con i genitori. Addirittura, recentemente alcuni tribunali hanno esteso la nozione al punto di includere nel nucleo familiare pure i figli maggiorenni non conviventi ed economicamente autonomi: sul punto v. Trib. Pavia, 21 maggio 2015, in Fam. e dir., 2016, con nota di A. Randazzo, Il fondo patrimoniale: gli incerti confini del vincolo di inespropriabilità, 295 ss.

[112] Difatti, la legge 20 maggio 2016, n. 76, in tema di riconoscimento e regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze, al 13° comma della sua unica disposizione si premura di estendere la disciplina dei regimi patrimoniali della famiglia coniugale ai partners dell’unione civile, con rinvio espresso anche alla Sezione del Codice dedicata al fondo patrimoniale; peraltro, non appare altrettanto chiaro se ai conviventi sia parimenti concesso di adottare tale regime, posto che il 53° comma si limita a menzionare unicamente il regime della comunione legale (v. infra).

[113] Sul punto, And. Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, dir. da F. Galgano, Padova, 1990, 129 e T. Auletta, op. ult. cit., 1599-1600. In giurisprudenza, si consideri Cass. civ., sez. III, 7 gennaio 1984, n. 134, in Giust. civ., 1984, I, 663 ss., che esclude espressamente le sole esigenze voluttuarie e speculative. Più di recente, lo stesso orientamento è stato ribadito da Cass. civ., sez. III, 11 luglio 2014, n. 15886, in Foro it., 2014, I, 3494 ss.

[114] Si consideri – per quanto datata – Cass. civ., sez. I, 19 maggio 1969, n. 1717, in Giust. civ., 1969, I, 1436 ss., laddove si statuisce che per “bisogni della famiglia” si devono intendere «[…] le più complesse e varie esigenze del nucleo familiare, considerate anche sotto il profilo dinamico e teleologico in relazione al futuro incremento del benessere della famiglia». Cfr. poi M. L. Cenni, op. cit., 695, che ritiene ammissibile l’impiego dei frutti anche per ulteriori e nuovi investimenti.

[115] Tra l’altro, sembra pacifico l’orientamento che nega l’utilizzo del fondo per la soddisfazione di specifici interessi familiari attraverso apposite clausole limitative (al contrario, ammette questa soluzione, seppur con qualche riserva, F. Carresi, op. cit., 52-53). Parimenti estranee ai bisogni familiari si dovrebbero considerare le spese sostenute e i debiti contratti per incrementare il personale patrimonio di ciascun coniuge, ovvero attinenti alle rispettive attività lavorative, anche qualora si tratti dell’attività di impresa familiare; tuttavia, di avviso contrario è Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2021, n. 2904, in CED Cassazione, 2021, che sembra aver “attenuato” questa rigida conclusione, affermando che «[…] In relazione ai debiti assunti nell’esercizio dell’attività d’impresa o a quella professionale, essi non assolvono di norma a tali bisogni, ma può essere fornita la prova che siano eccezionalmente destinati a soddisfarli in via diretta ed immediata, avuto riguardo alle specificità del caso concreto».

[116] Segnatamente, l’art. 180 cod. civ. prevede che gli atti di amministrazione c.d. ordinaria possano essere compiuti anche disgiuntamente da parte dei coniugi; al contrario, gli atti di amministrazione c.d. straordinaria necessitano del consenso congiunto di costoro.

[117] Dal momento che lex specialis derogat generali, le norme sull’amministrazione dei beni in comunione, per quanto considerate inderogabili, trovano applicazione in via residuale quando non risulti applicabile la disciplina dettata appositamente dall’art. 169 per il compimento di quei determinati atti di straordinaria amministrazione ivi elencati. Per tutti, v. G. Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, in Digesto disc. priv., sez. civile, XVI, Torino, 1997, § 20-21.

[118] Illustrano le varie tesi M. L. Cenni, op. cit., 745; G. Trapani, Il vincolo di destinazione dei beni oggetto del fondo patrimoniale ed i limiti all’autonomia privata dei costituenti, in AA.VV., I patrimoni separati tra tradizione e innovazione, a cura di S. Tondo, Torino, 2007, 67 ss.

[119] Aggiunge G. Trapani, op. ult. cit., 69 che i figli sono legittimati ad agire in giudizio avverso i genitori laddove costoro compiano atti abusivi e, in particolare, contrari alla destinazione nell’interesse della famiglia.

[120] Il concetto di “estraneità ai bisogni familiari” viene ottimamente delineato da G. Trapani, Il fondo patrimoniale come strumento di soddisfazione dei bisogni della famiglia, cit., 681: «Una tale estraneità richiede che il credito non sia diretto alla realizzazione delle esigenze della famiglia o non rientri nelle linee direttive dell’indirizzo di vita comune scelto dai coniugi o ancora discenda da un atto abusivo compiuto da uno dei coniugi».

Inoltre, si ricordi quanto detto in precedenza circa i creditori (del fondo ovvero inconsapevoli) il cui rapporto abbia fonte extracontrattuale: essi, per orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, sono parimenti legittimati a soddisfarsi sul patrimonio destinato, posto che l’espressione «debiti […] contratti» contenuta all’art. 170 non dev’essere intesa nel suo significato strictu sensu letterale.

[121] V. G. Oberto, L’autonomia in materia patrimoniale nei rapporti familiari, in AA.VV., Materiali per una revisione del codice civile, Volume I, a cura di V. Cuffaro, A. Gentili, Milano, 2021, 245. Oltre a doversi escludere l’onere probatorio in capo al creditore, si ritiene di dover escludere finanche la rilevabilità ex officio del requisito di inespropriabilità: sul punto, per tutti, F. Tassinari, op. cit., 77. Inoltre, la Suprema Corte afferma che la prova possa essere fornita anche tramite presunzioni semplici: v. Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2007, n. 966, in Obbl. e contr., 2007, 454 ss.

[122] Si può dire, brevemente, che alle cause menzionate al comma 1 della norma (annullamento ovvero scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) sembra doveroso aggiungere la dichiarazione di morte presunta del coniuge; più dubbia, invece, l’opportunità di interpretare analogicamente la norma così da ricomprendervi le altre cause previste per lo scioglimento della comunione legale, in forza del rinvio operato dal 4° comma, e da considerare ammissibile finanche lo scioglimento convenzionale del fondo. Per approfondimenti in tema, si vedano le distinte tesi di G. Cian, G. Casarotto, voce Fondo patrimoniale della famiglia, in Noviss. dig. it., Appendice III, 1982, 837; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, Milano, 2002, 129 ss.; T. Auletta, op. ult. cit., 1672 ss.

[123] Così dispone l’inciso finale del 2° comma dell’art. 171. V. F. Carresi, op. ult. cit., 67-68: al giudice spetterà designare il genitore ovvero altro soggetto cui affidare l’amministrazione dei beni vincolati in via interinale.

[124] V. per tutti G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, 319, il quale svolge una brillante riflessione critica su questa previsione e giunge alla conclusione, per giunta, che essa acquisisca rilevanza solo laddove il fondo abbia ad oggetto il mero diritto di godimento sui beni conferiti; T. Auletta, op. ult. cit., 1684-1685; per differenti conclusioni, si rinvia a ivi, 1683 e alle relative note.

[125] Lo spunto per una simile riflessione ci viene offerto dalle parole di S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto di famiglia, vol. III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., 18, ove si legge «[…] nell’accertare la presenza di norme imperative che limitano l’autonomia negoziale dei coniugi […] a nostro avviso, una corretta soluzione può raggiungersi distinguendo tra norme imperative funzionali alla scelta di uno dei tipi previsti dalla legge italiana e norme imperative che trascendono le esigenze di tutela e di interna coerenza del singolo tipo […]».

[126] Per affermare ciò bisogna partire dal presupposto, da un lato, che il fondo patrimoniale costituisca una convenzione matrimoniale e, dall’altro, che si possano concepire convenzioni patrimoniali atipiche; ma, prima ancora, occorre sfatare quell’opinione dottrinale – ormai nettamente minoritaria (v. ad esempio U. Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, vol. II, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 1168-1169) – secondo la quale si dovrebbe escludere il fondo patrimoniale dal novero dei regimi patrimoniali della famiglia: è evidente che, qualora si escluda a priori la qualificazione del fondo patrimoniale quale regime patrimoniale, si dovrà escludere anche che il relativo atto istitutivo possa assurgere a convenzione matrimoniale.

La circostanza che siano conferibili al fondo solamente determinate categorie di beni e il rilievo della sua connaturata coesistenza con altri regimi patrimoniali non possono valere ad escludere la figura dal novero di questi ultimi: proprio la collocazione della disciplina nel Capo del Codice intitolato «Del regime patrimoniale della famiglia» suggerisce il contrario; se ciò non bastasse, poi, basterebbe concentrarsi sul contenuto degli artt. 167 ss., che si occupa di regolamentare complessivamente, pur con qualche lacuna, la costituzione del fondo, le vicende gestorie e circolatorie dei beni ivi conferiti, il profilo della responsabilità patrimoniale e, infine, la relativa cessazione, proprio come avviene per gli altri regimi patrimoniali c.d. generali (v. per tutti le argomentazioni di R. Lenzi, Struttura e funzione del fondo patrimoniale, cit., 57 ss.; M.L. Cenni, op. cit., 687 ss.).

Ora, non convince nemmeno la tesi secondo cui l’atto istitutivo del fondo patrimoniale non potrebbe costituire una convenzione matrimoniale ai sensi degli artt. 159 ss. cod. civ., ché, secondo quest’ottica, sarebbero tali unicamente gli accordi che mirano a costituire o a modificare la disciplina di un regime comunitario ovvero separatista (v. E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, in Commentario Schlesinger, Milano, 2004, 172 ss.). Al contrario, se si presuppone una qualificazione del fondo in termini di regime patrimoniale, come ormai sostenuto dalla maggioranza degli autori, non potrà che convenirsi sul fatto che anche l’atto finalizzato a dare vita al vincolo di destinazione ex art. 167 sarà da considerare quale convenzione matrimoniale a tutti gli effetti.

Infine, è dato riscontrare come la dottrina prevalente oggigiorno ammetta la configurazione di convenzioni matrimoniali anche atipiche, pur sempre nel rispetto delle regole dettate in materia agli artt. 159 ss. (v. U. Stefini, op. cit., 79-80; G. Oberto, L’auto­nomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, 636 ss.).

[127] Come si è visto in precedenza, anche l’art. 2645-ter detta dei requisiti minimi inderogabili da intendersi prescritti, se non tutti ad substantiam, quantomeno ad trascriptionem acti, cioè ai fini dell’opponibilità ai terzi dell’effetto destinatorio e dell’effetto separazione patrimoniale; tuttavia, appaiono molto meno stringenti rispetto a quelli ritraibili dagli artt. 167 ss.

[128] In questo senso, v. ex plurimis L. Nonne, Separazione patrimoniale e modelli familiari, cit., 450.

[129] Cfr. U. Stefini, op. cit., 73 ss.; M. Nuzzo, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione dell’atto negoziale di separazione, cit., 68 ss.; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., 1756 ss., il quale ritiene che attraverso l’art. 2645-ter si possano perseguire finanche gli stessi interessi sottesi alle fattispecie nominate di separazione (es. fondo patrimoniale) purché ne vengano rispettati, però, i principi inderogabili.

[130] Bisogna tenere presente che il concetto di famiglia è fortemente influenzato dall’evoluzione sociale: basti considerare come, nel corso degli ultimi cinquant’anni, il diritto di famiglia sia stato oggetto di un’incessante attività di riforma, nel tentativo di tenere il passo con l’inarrestabile mutamento del costume e del sentimento popolare. Ne è risultato il superamento dell’interpretazione letterale dell’art. 29 Cost., consentendosi in tal guisa di ricomprendere nell’accezione attuale di famiglia non soltanto quella «società naturale fondata sul matrimonio» bensì una più vasta gamma di rapporti interpersonali in cui tale vincolo può essere assente, conferendosi rilievo alla semplice condizione della convivenza, ovvero può assumere una differente connotazione, in ragione del pieno riconoscimento di unioni tra persone dello stesso sesso. Per una considerazione più approfondita di tale processo evolutivo, v. M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, IX ed., Padova, 2021, 1 ss.

[131] Sul punto, M. Sesta, Diritti inviolabili della persona e rapporti familiari: la privatizzazione “arriva” in Cassazione, in Fam. e dir., 2005, 370 ss.; G. Vettori, Diritti della persona e unità della famiglia trent’anni dopo, in Fam. pers. e succ., 2007, 197 ss., Per un più recente approfondimento in tema, v. C. Caricato, La privatizzazione del diritto di famiglia, Ospedaletto, Pisa, 2020, 7 ss.

[132] Infatti, tra i numerosi interventi di riforma, la l. n. 54/2006 sul c.d. affidamento condiviso si è occupata anche di innovare le disposizioni concernenti le domande accessorie alle pronunce di separazione (es. domande di affidamento, assegnazione della casa familiare, mantenimento del coniuge economicamente debole e della prole); dopo di che, la riforma in materia di filiazione del 2012 ha esteso le medesime disposizioni ai procedimenti concernenti figli nati al di fuori del matrimonio. In questo modo, il legislatore ha inteso conferire alle parti, che siano coniugi ovvero conviventi, una certa facoltà di autoregolamentare il proprio “distacco” finanche per quanto concerne il profilo strettamente patrimoniale dei loro rapporti. Scrive A. De Donato, Destinazione negoziale e crisi coniugale, in AA.VV. Famiglia e impresa: strumenti negoziali per la separazione patrimoniale. Atti del Convegno tenutosi a Roma 21 Novembre 2009 (N. 1/2010), I Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, 2010, 86 ss. che la riforma «[…] esalta finalmente, in modo testuale, l’autonomia negoziale dei coniugi nell’articolazione patrimoniale della crisi coniugale». Nello stesso senso anche C. Murgo, Accordi tra coniugi separati e vincolo di destinazione ex art. 2645 ter cod. civ., tra autonomia negoziale e segregazione patrimoniale nell’interesse della prole, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 116.

Non è un caso, tra l’altro, che lo stesso impiego della destinazione ex art. 2645-ter sia ormai del tutto accettato per consentire la sistemazione di rapporti patrimoniali nelle fasi patologiche dei rapporti familiari, come si è avuto modo di accennare nelle pagine iniziali del presente contributo.

[133] Utilizzando un’espressione di And. Fusaro, L’atto di destinazione nella concorrenza tra strumenti giuridici, in Contr. e impr., 2018, 1004 ss.

[134] A meno che – come si avrà modo di illustrare a breve – non si ritenga di aderire a quella dottrina che estende (anche) alla famiglia di fatto che faccia ricorso alla destinazione patrimoniale (atipica) i principi inderogabili in tema di fondo patrimoniale, nella convinzione che altrimenti tale tipologia di famiglia finirebbe per godere di un regime più favorevole rispetto a quella coniugale, soggetta alle restrizioni imposte dagli artt. 167 ss.

[135] In particolare, tra quelli già menzionati, G.A.M. Trimarchi, op. ult. cit., 438; L. Nonne, op. ult. cit., 100; R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 242 ss.; Id., Destinazioni tipiche e atipiche, cit., 36; S. Meucci, op. cit., 223; Id., L’atto di destinazione trascrivibile ex art. 2645-ter c.c., in Atti di destinazione e trust, cit., 360; S. Troiano, op. cit., 342 ss.; M. Ceolin, op. cit., 377-378; T. Auletta, Riflessioni sul fondo patrimoniale, in Fam. dir. succ., 2012, 335.

[136] V. T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Trattato di diritto di famiglia, cit., 1689 e anche G. Anzani, Atti di destinazione patrimoniale: qualche riflessione alla luce dell’art. 2645 ter cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 413. A riguardo, cfr. anche M. Bellinvia, op. cit., 1273: costui, in realtà, non esclude del tutto l’utilizzo dell’atto di destinazione atipico nel contesto della famiglia coniugale, purché la scelta di tale strumento sia fondata su motivazioni solide e non costituisca un mero mezzo per eludere la disciplina del fondo. Pertanto, l’a. sembra propendere, in conclusione della sua trattazione, per la tesi “meno rigida”, di cui si tratterà a breve.

[137] Ma, a voler vedere, ragionando in tal senso si smentisce l’idoneità di quel “criterio dirimente” di cui si è detto qualche pagina addietro (ossia, quello che suggerisce di prendere spunto, per legittimare la destinazione atipica sotto il profilo causale, da quelle medesime finalità sottese alle fattispecie destinatorie già tipizzate). Ad ogni modo, di questo avviso sono R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 243; A. Torroni, op. ult. cit., 101.

[138] Sul punto, cfr. D. Vecchio, op. cit., 817: «Il nucleo essenziale della questione verte sulla possibilità o meno data al conferente di trarre dalla destinazione un qualche vantaggio economico. Qualora dovesse ritenersi categoricamente esclusa tale possibilità, è chiaro che l’eventualità di una destinazione in favore di una famiglia di cui si è parte troverebbe difficoltà a legittimarsi».

[139] G.A.M. Trimarchi, op. loc. ult. cit.; S. Meucci, op. loc. ult. cit.; M. Bellinvia, op. loc. ult. cit.; M. Ceolin, op. loc. cit.; R. Lenzi, op. ult. cit., 234, il quale con estrema chiarezza asserisce che la disciplina dell’art. 2645-ter «[…] riconduce le figure legali a ipotesi speciali, che si collocano all’interno della figura generale e la cui disciplina è espressamente e analiticamente fissata dalla legge; non si ha quindi un’ulteriore eccezione al principio fissato all’art. 2740 cod. civ. ma una regola generale, di cui l’ordinamento già conosce delle specifiche applicazioni».

[140] Esponenti di questa corrente sono R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., 1756 ss.; U. La Porta, op. loc. ult. cit..; And. Fusaro, Atto di destinazione e fondo patrimoniale: concorrenza o integrazione tra istituti giuridici?, cit., 91 ss.; G. Perlingieri, op. cit., 26 ss.; M. Bellinvia, op. cit., 1263 ss.; G. Iaccarino, op. cit., 170 ss.

[141] Così G. Perlingieri, op. cit., 29; And. Fusaro, op. ult. cit., 94-95. Sostiene che la disciplina dell’art. 2645-ter possa essere integrata da quella del fondo anche U. Stefini, op. cit., 73, il quale, tuttavia, perviene a conclusioni differenti.

[142] Cfr. però R. Quadri, op. ult. cit., 1757: egli sostiene che, in luogo dell’effetto di separazione desumibile dall’art. 170, potrebbe applicarsi finanche al fondo patrimoniale la più consistente separazione patrimoniale garantita dall’art. 2645-ter. Nello stesso senso, v. anche G. Palermo, La destinazione di beni allo scopo, in La proprietà e il possesso, in Trattato di diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, Milano, 2009, 396.

[143] Nel senso che alcuni dei commentatori che aderiscono deliberatamente all’opinione più “liberale” circa la destinazione con causa familiare, si ritrovano ad adottare, all’opposto, una visione più cauta con riguardo alla destinazione con causa d’impresa. Tale diversa conclusione viene spiegata da U. Stefini, op. cit., 81 ss. sulla base della rigorosità della disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare nelle s.p.a,: «La necessità di una normativa così dettagliata è da ritrovarsi […] nella particolare delicatezza della separazione patrimoniale nell’ambito dell’attività d’impresa, e in particolare nelle società di capitali, dove la prima garanzia per i terzi, che entrino in contatto con la società medesima, risiede nella capillare struttura organizzativa prevista dal legislatore, e nella rigorosa disciplina di capitale e bilancio»; il che porta l’autore a escludere che l’atto di destinazione atipico con causa di impresa possa essere sfruttato come alternativa alla disciplina ex artt. 2447-bis ss. a favore di s.r.l. e s.p.a., ma ad ammetterlo per l’impresa individuale, con i limiti del caso. Diversamente, ritiene che la disciplina dell’atto atipico possa estendersi alle s.r.l. R. Lenzi, op. ult. cit., 245 ss.

[144] V. per tutti le riflessioni di S. Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, cit., 87 ss. e 477 ss.

[145] Senza indugiare eccessivamente in tema, si ricordi come già prima dell’introduzione del 2645-ter pareva doversi estendere anche ai membri della famiglia fattuale l’opportunità di avvalersi della destinazione patrimoniale, seppur attraverso un atto negoziale atipico, magari informato alla disciplina ex art. 167 ss. al fine di conferire loro una tutela non dissimile da quella offerta ai coniugi. Nel contempo però, pur apprezzando questa possibilità, numerose voci asserivano che in tali circostanze il vincolo di destinazione avrebbe incontrato il limite della sua necessaria obbligatorietà, posto che un vincolo di carattere reale a favore di una famiglia di fatto difficilmente avrebbe potuto trovare giustificazione di fronte alle ragioni del ceto creditorio (v. R. Lenzi, Struttura e funzione del fondo patrimoniale, cit., 61; G. Cesaro, op. cit., 110.; M.L. Cenni, Trust e fondo patrimoniale, in TAF, 2001, 526 ss.; F. Tassinari, op. cit., 55 ss., il quale afferma tra l’altro che la destinazione funzionalizzata ai bisogni della famiglia è un interesse di fatto ancor prima che di diritto.

[146] In tal senso, tra i numerosi, G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, cit., 328-329; T. Auletta, Riflessioni sul fondo patrimoniale, cit., 334; R. Quadri, op. ult. cit., 1757; G. D’amico, La proprietà «destinata», cit., 544, in particolare alla nota 51. Invece, tra le poche voci isolate contrarie tout court alla destinazione ex art. 2645-ter per i conviventi, si segnala M. Francesca, Le destinazioni all’interesse familiare: autonomia privata e fondamento solidaristico, in Riv. not., 2012, 1035 ss.

[147] Così R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 244.

[148] Nel senso che, diversamente dalla tesi maggiormente radicale, l’impostazione appena delineata presenta il vantaggio di non svilire l’ampia portata del “nuovo” strumento e, nel contempo, di impedirne un utilizzo fin troppo disinvolto, al solo scopo di sottrarsi alle limitazioni imposte dalla destinazione familiare specifica. Ne consegue che, ravvisata una certa – seppur limitata – fungibilità tra i due istituti per soddisfare i bisogni della famiglia coniugale, la scelta tra l’uno o l’altro apparirà, nel concreto, pressoché indifferente, poiché entrambi saranno soggetti al medesimo nucleo di principi inderogabili.

[149] G. Oberto, op. cit., 202 ss.; Id. Atto di destinazione e rapporti di famiglia, cit., 239 ss.; Id., L’autonomia in materia patrimoniale nei rapporti familiari, cit., 248 ss.; D. Vecchio, op. cit., 806 ss.; S. Raggi, I vincoli di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., in AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri, M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009, 375 ss.; U. Stefini, op. cit., 73 ss.; V. Bellomia, op. cit., 740 ss.; A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1378 ss., il quale rivede l’opinione precedentemente esposta in Id., Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., 186-187; And. Fusaro, L’atto di destinazione nella concorrenza tra strumenti giuridici, cit., 1017.

[150] Ci si riferisce a Giacomo Oberto, strenuo sostenitore di questa tesi: v. G. Oberto, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 203 e opere successive. Contra, espressamente, S. Troiano, op. loc. cit.

[151] V. per tutti U. Stefini, op. cit., 78-79, il quale richiama nello stesso senso F. Viglione, L’interesse meritevole di tutela negli atti di destinazione, in Studium Iuris, 2008, 1058.

[152] G. Oberto, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 206; Id., Atto di destinazione e rapporti di famiglia, cit., 258; A. Morace Pinelli, Tutela della famiglia e dei soggetti deboli mediante la destinazione allo scopo, in Riv. dir. civ., 2013, 1402. Giunge alla medesima conclusione anche G.A.M. Trimarchi, op. ult. cit., 436, nonostante aderisca alla tesi più restrittiva: in particolare, egli parte da un differente presupposto, prendendo il via da un consolidato orientamento della Corte costituzionale (tra le innumerevoli pronunce, Corte cost. 14 aprile 1980, n. 45, in Foro it., 1980, I. 1564 ss.; Corte cost., 25 luglio 2000, n. 352, in Cass. Pen., 2001, 28 ss.; Corte cost., 16 marzo 2018, n. 57, disponibile in Sito Uff. Corte cost., 2018): a ben vedere, la ratio dei rapporti di convivenza more uxorio risiede proprio nella volontà delle parti di svincolarsi dai diritti e doveri discendenti dal matrimonio, riservandosi i conviventi una più ampia autonomia nella regolamentazione delle proprie condizioni di vita in comune; così ragionando, l’applicazione dell’art. 2645-ter in simili ipotesi non potrebbe sottostare alle medesime restrizioni disposte per il fondo patrimoniale.

[153] V. S. Patti, op. loc. cit.

[154] Come sostengono U. Stefini, op. cit., 79-80 e G. Oberto, Atto di destinazione e rapporti di famiglia, cit., 244. Contra, invece, G. Corradi, op. ult. cit., 1174; cfr. anche A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1387 ss., il quale lascia intendere di preferire l’interpretazione più restrittiva che considera quali convenzioni matrimoniali soltanto quelle tipizzate dal legislatore.

[155] Per una definizione di “regime patrimoniale della famiglia” e sul confronto con il concetto di “convenzione matrimoniale” si vedano, ex plurimis, E. Roppo, voce Convenzioni matrimoniali, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988, 1 ss.; G. Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, cit., 330 ss.; E. Bargelli, F.D. Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., Agg., IV, Milano, 2000, 432 ss. Si tenga presente che la letteratura in tema distingue tra regime patrimoniale primario, che concerne, appunto, le generiche regole sulle modalità di contribuzione dei coniugi alle esigenze familiari e che dalla riforma del 1975 è informato a criteri di proporzionalità, e regime patrimoniale secondario, che attiene alle più specifiche regole di redistribuzione della ricchezza tra i coniugi e che trova fondamento in un principio compensativo e perequativo. È in quest’ultima sotto-categoria che andrebbero annoverati i regimi della comunione legale, della separazione, del fondo patrimoniale, della comunione convenzionale. Sul punto, per tutti, v. M. Sesta, op. ult. cit., 95 ss.

[156] In realtà, tendenzialmente, il regime di contribuzione proporzionale (e solidale) caratterizza la regolamentazione dei rapporti patrimoniali all’interno di qualsiasi nucleo familiare: v. ad esempio l’art. 316-bis cod. civ., in materia di responsabilità genitoriale, che parimenti stabilisce il dovere dei genitori di adempiere ai loro obblighi verso i figli «in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo». Una formula quasi del tutto identica, poi, si rinviene nella l. 76/2016: rispettivamente, la si trova riferita ai partners dell’unione civile all’art. 1, comma 11, mentre per i conviventi registrati l’indicazione è contenuta al comma 53, nella parte della norma dedicata ai contratti di convivenza.

[157] Sull’evoluzione e sul ruolo del principio contributivo, v. principalmente G. Vettori, A. Gorgoni, Il dovere coniugale di contribuzione, in Trattato di diritto di famiglia, cit., 1335 ss.; L. Barchesi, La contribuzione nella nuova famiglia, in Riv. dir. civ., 2014, 3 ss. L’inderogabilità di tale previsione, invero, si trae dall’art. 160 cod. civ.

[158] V. ex plurimis M. Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, vol. III, Regime patrimoniale della famiglia, cit., 59. Si ricordi una celeberrima citazione di Arturo Carlo Jemolo, il quale rappresenta la famiglia come «un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto» (A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia, Milano, 1957, 241). Fuor di metafora, l’espressione indica come la famiglia costituisca un’entità che nemmeno si presta ad essere compiutamente regolamentata dal diritto, soprattutto per quanto concerne la dimensione effettuale dei rapporti tra i membri che la compongono; essa risponde, al contrario, a regole che eccedono la dimensione giuridica, riconducibili alla più evanescente sfera della morale, degli affetti, del sentimento. Ne consegue un’estrema difficoltà nell’operare un bilanciamento tra esigenze di natura puramente patrimoniale e valori a tal punto delicati.

[159] Il riferimento è, naturalmente, all’art. 30 Cost.; oggigiorno, siffatta previsione costituzionale è implementata dalla disciplina in materia di «responsabilità genitoriale e diritti e doveri del figlio» prevista al Titolo IX del Libro Primo del Codice.

[160] Condivisa, come pare, da altri autorevoli commentatori: S. Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano, 2011, 441 ss.; V. Bellomia, op. cit., 737 ss.; A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1385 ss.; And. Fusaro, Atto di destinazione e fondo patrimoniale: concorrenza o integrazione tra istituti giuridici?, in Consiglio nazionale del notariato (a cura del), Studio civilistico n. 357-2012/C. Atti di destinazioneGuida alla redazione, 91 ss.; Id., L’atto di destinazione nella concorrenza tra strumenti giuridici, cit., 1017 ss. Un po’ più cauto, invece, T. Auletta, Riflessioni sul fondo patrimoniale, cit., 334, il quale ritiene che alla destinazione ex art. 2645-ter nel contesto della famiglia coniugale possa ricorrersi soltanto ove risulti che essa è idonea a tutelare in modo più incisivo i suoi componenti, «verosimilmente anche quando ciò possa comportare un maggior sacrificio dei creditori (in seguito a una segregazione più marcata)».

[161] Scrive And. Fusaro, Atto di destinazione e fondo patrimoniale: concorrenza o integrazione tra istituti giuridici?, cit., 95, che, in questa prospettiva «[…] i due istituti esibirebbero una tendenziale assimilazione, quindi un’integrazione della loro disciplina, piuttosto che una contrapposizione insanabile […] la distanza tra i due istituti si ridurrebbe sul piano operativo […]».

[162] D’altra parte, si potrebbe ragionare alla stessa maniera con riguardo alla disciplina della comunione convenzionale: l’art. 210 cod. civ. enuncia una serie di disposizioni proprie del regime legale che non possono essere convenzionalmente derogate dai coniugi che optino per il regime alternativo (es. regole sull’amministrazione dei beni e sull’uguaglianza delle quote in relazione ai beni oggetto della comunione); dopodiché, è la dottrina ad aver individuato i margini entro cui si possono applicare ulteriori modifiche alla disciplina. Anche qui, alcune delle previsioni “intangibili”, invero, sono riconducibili alla necessità di tutelare dei valori fondamentali come quello della parità tra coniugi, che si riflette, dal punto di vista economico-patrimoniale, anche sull’adempimento del loro dovere contributivo.

Sulla comunione convenzionale si considerino, a titolo esemplificativo, M. Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in Trattato di diritto di famiglia, vol. II, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 1525 ss.; M. Pittalis, Modifiche convenzionali alla comunione dei beni, in Trattato di diritto di famiglia, vol. III, Regime patrimoniale della famiglia, 519 ss.; M.C. Iodice, S. Mazzeo, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2015, 269 ss.

[163] Perfettamente condivisibili, pertanto, le osservazioni di A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1386: «Fermo che beneficiari dell’at­to saranno i membri della famiglia costituita dai coniugi conferenti […] il collegamento con l’obbligo contributivo è fondamentale per individuare la nozione di famiglia cui, nella specie, occorre fare riferimento. Se l’atto, indirizzato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, è, in ultima analisi, destinato all’adempimento del dovere di contribuzione, […] beneficiari della destinazione saranno i coniugi e i loro figli, anche adottivi e sopravvenuti in epoca successiva alla sua stipula. Quest’ultimi, però, entro i limiti in cui opera l’obbligo contributivo e, quindi, fin tanto che siano minorenni o economicamente non autosufficienti, ovvero, allorché siano divenuti patrimonialmente autonomi, sino a quando convivano con i loro genitori e siano, quindi, tenuti alla contribuzione, ai sensi dell’art. 315-bis cod. civ., cui corrisponde, in virtù della solidarietà familiare, analogo dovere contributivo a carico dei genitori».

[164] Ma contra A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1385, il quale ritiene questa previsione derogabile laddove entrambi i coniugi esprimano il loro consenso al compimento di tali atti; in particolare, v. la nota 76.

[165] Così anche And. Fusaro, L’atto di destinazione nella concorrenza tra strumenti giuridici, cit., 1017, nota 74; A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1386; T. Auletta, op. loc. ult. cit.

[166] Isolata pare la tesi di R. Lenzi, Tecniche di redazione dell’atto di destinazione. Brevi note su atto di destinazione e circolazione giuridica, dattiloscritto, riportata da A. Fusaro, Atto di destinazione e fondo patrimoniale: concorrenza o integrazione tra istituti giuridici?, cit., 93, dove si legge: «Tra le posizioni intermedie si segnala quella (di Lenzi, appunto) che propone di far reagire l’antico sul nuovo, in modo da “estendere, in via interpretativa, nel tentativo di ricostruire un generale statuto dell’atto di destinazione, il richiamo dell’art. 170 cod. civ., attribuendo rilevanza alla condizione di buona o mala fede del terzo in ordine alla conformità dell’atto alla destinazione, la prova della mala fede del terzo, al pari di quanto accade in relazione al fondo patrimoniale, potrà essere fornita anche mediante presunzioni, con la conseguenza che l’oggettiva difformità dalla destinazione, se ritenuta dal giudice percepibile dal terzo, potrà incidere comunque sulla conservazione dell’acquisto”».

[167] Nel senso che la disciplina del fondo patrimoniale, risalente al 1975, si inserisce in un contesto in cui la destinazione patrimoniale era ancora in gran parte inesplorata nel nostro Paese, e l’esigenza di tutelare gli interessi del ceto creditorio, trasposta nella disciplina dell’art. 2740, commi 1 e 2, veniva ancora considerata di ordine pubblico (v. supra).

[168] Scrive G.A.M. Trimarchi, op. cit., 428, con riferimento alla “minor separazione” realizzata attraverso il fondo patrimoniale, che tale differente scelta legislativa si giustifica sulla base dell’«[…] esposizione del ceto creditorio al rischio permanente della flessibilità della composizione del nucleo che rende elastici i bisogni della famiglia cui il bene è vincolato […]».

[169] Così, ad esempio, V. Bellomia, op. cit., 738; A. Morace Pinelli, op. ult. cit., 1385; T. Auletta, op. loc. ult. cit.

[170] V. S. Bartoli, op. ult. cit., 492 ss. e A. Morace Pinelli, op. loc. ult. cit., il quale ultimo ritiene ammissibile lo scioglimento convenzionale del vincolo di destinazione atipico con causa familiare.

[171] A riguardo, ex multis, G. Oberto, I regimi patrimoniali delle unioni civili. Unioni civili e convivenze di fatto: la legge, a cura di P. Rescigno, V. Cuffaro, in Giur. it., 2016, 1797 ss.; Id. I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in AA.VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016, 29 ss.

[172] Il comma 53 dell’art. 1 sancisce laconicamente che: «Il contratto di cui al comma 50 […] può contenere: […] b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;

  1. c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile».

[173] G. Corradi, op. ult. cit., 1774-1775; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 497 ss.

[174] G. D’amico, Contratto di convivenza e atto di destinazione, cit., 208-209, il quale, riferendosi all’impiego del 2645-ter per la famiglia di fatto e coerentemente con quanto sostenuto nella sua precedente opera (Id., La proprietà «destinata», cit., 544 ss.), precisa «ammesso che prima […] fosse (concesso)».

[175] Nella pronuncia, difatti, si legge come tali vincoli sembrino proprio essere stati costituiti dai due amministratori al fine di mettere al riparo il proprio patrimonio dalle pretese dei creditori; siffatto intento troverebbe conferma nel fatto che costoro avrebbero agito poco tempo dopo aver dilapidato il patrimonio della società, prima che il bilancio venisse approvato.

[176] In realtà l’art. 2901, comma 1, n. 2 enuncia la seguente condizione da verificare: «che […] trattandosi di atto a titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa preordinazione». Generalmente il “terzo” ivi menzionato viene inteso quale “avente causa”; tuttavia, nel caso della destinazione patrimoniale, sembra che questa espressione possa intendersi anche con riferimento a colui che trae beneficio dalla costituzione del vincolo. Meglio ancora, come si cercherà di spiegare nel prosieguo, per individuare i soggetti terzi in relazione ai quali è doveroso accertare il requisito della participatio fraudis ovvero del consilium fraudis, occorre esaminare caso per caso la struttura, la natura e la causa dell’atto destinatorio: sul punto, S. Meucci, op. ult. cit., 463; U. Stefini, op. cit., 190 ss.; R. Lenzi, voce Atto di destinazione, cit., § 5; P. Coppini, op. cit., 148.

[177] In particolare, la Cassazione richiama tre pronunce – qui enunciate in ordine cronologico – di cui ci pare opportuno riportare le massime: Cass. civ., sez. II, 17 maggio 2010, n. 12045, in CED Cassazione, 2010 «L’azione revocatoria ordinaria di atti a titolo gratuito non postula che il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore sia conosciuto, oltre che dal debitore, anche dal terzo beneficiario, il quale ha comunque acquisito un vantaggio senza un corrispondente sacrificio e, quindi, ben può vedere il proprio interesse posposto a quello del creditore»; Cass. civ., sez. III, 15 novembre 2019, n. 29727, in CED Cassazione, 2019 «L’atto di costituzione del vincolo sui propri beni ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ., benché non determini il trasferimento della loro proprietà né la costituzione su di essi di diritti reali in senso proprio, è comunque idoneo a sottrarre i beni vincolati all’azione esecutiva dei creditori, ha effetti connotati dal carattere della "realità" in senso ampio, essendo oggetto di trascrizione, ed è conseguentemente idoneo a pregiudicare le ragioni creditorie […].»; Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2020, n. 3697, in CED Cassazione, 2020 “In tema di responsabilità patrimoniale, il semplice atto di destinazione di un bene alla soddisfazione di determinate esigenze meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 2645-ter cod. civ., costituisce, di regola, un negozio unilaterale – in quanto esso non si perfeziona con l’incontro delle volontà di due o più soggetti, ma è sufficiente la sola dichiarazione di volontà del disponente – ed è a titolo gratuito, in quanto di per sé determina un sacrificio patrimoniale da parte del disponente, non trovando contropartita in una attribuzione in favore di quest’ultimo […].».

[178] Per un excursus sull’evoluzione della disciplina di tale azione e una considerazione circa i più recenti approdi giurisprudenziali e dottrinali, sia consentito rinviare a I. Pagni, La natura dell’azione revocatoria, in Corr. giur., 2021, 821 ss.

[179] Infatti, la dottrina prevalente ritiene la trascrizione dell’atto di destinazione un adempimento obbligatorio e con valenza di pubblicità costitutiva: v. ex plurimis G. D’amico, La proprietà «destinata, cit., 529; U. Stefini, op. cit., 111 e 123; M. Ceolin, op. cit., 379 ss.; A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., 229 e 263; M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, cit., 225 ss.

[180] Del resto, la funzione della trascrizione, anche quando si tratti di un atto ex art. 2645-ter e a prescindere dalla valenza che le si attribuisce, rimane quella di risolvere i conflitti che possono insorgere tra creditori, in particolare tra i creditori della destinazione e creditori ad essa estranei. Più in generale, tale adempimento ha un ruolo fondamentale nella regolamentazione dei rapporti tra le parti coinvolte nella vicenda destinatoria e i terzi che entrino in contatto con essa, tra i quali è possibile annoverare non soltanto i creditori, ma anche eventuali aventi causa delle res vincolate. Sul punto, cfr. G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 196; R. Quadri, op. ult. cit., 1741 ss.; F. Gazzoni, op. ult. cit., 179 ss.; G. D’amico, op. ult. cit., 526. In applicazione delle regole ordinarie in materia di trascrizione ai sensi dell’art. 2644 cod. civ., pertanto, prevarrà «chi prima trascrive e non chi prima contrae» (R. Dicillo, op. cit., 166).

[181] V. per tutti M. Bianca, op. ult. cit., 220-221, dove si legge «In generale il sistema attuale sembra caratterizzarsi per un ampliamento delle sfere prima sottratte alla competenza dei privati, ma a condizione che siano apprestati adeguati strumenti di pubblicità per i terzi».

[182] V. ancora R. Quadri, op. ult. cit., 1747: «È vero, infatti, che l’art. 2645-ter rappresenta una norma di apertura verso ipotesi atipiche di destinazione patrimoniale, al di fuori delle ipotesi già positivamente disciplinate; è altrettanto innegabile, però, l’attitudine dell’atto di destinazione a svuotare di sostanza il contenuto della garanzia patrimoniale del disponente». Nello stesso senso anche F. Gazzoni, op. ult. cit., 184; R. Di Raimo, op. cit., 76.

[183] Scrive giustamente P. Coppini, op. cit., 134: «Ammettere che un simile risultato possa essere raggiunto senza munire i creditori di un’adeguata tutela renderebbe l’istituto in questione incompatibile col nostro ordinamento, a causa degli utilizzi fraudolenti a cui lo stesso si presterebbe».

[184] Ivi, 135.

[185] Diversamente, chi ritiene che il vincolo di destinazione possa giustificarsi soltanto in ragione di interessi di natura pubblicistica ed etico-solidaristica (v. ad esempio A. Morace Pinelli, Struttura dell’atto negoziale di destinazione e del trust, anche alla luce della legislazione fiscale, ed azione revocatoria, in Contr. impr., 2009, 466 ss.) logicamente ripudia un simile giudizio: è il legislatore che, riferendosi espressamente a persone affette da disabilità e pubbliche amministrazioni, per l’ennesima volta ha predeterminato quali siano gli interessi idonei a giustificare la destinazione ex art. 2645-ter. Peraltro, da tale tesi discende sia che tali atti siano salvaguardati dalla comminatoria di inefficacia di diritto di cui all’art. 64 l.f., (ove si statuisce che «Sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, gli atti a titolo gratuito, esclusi i regali d’uso e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica utilità, in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante»), sia che essi si sottraggano, secondo l’interpretazione prevalente di tale ultima norma, finanche alla revocatoria ordinaria.

[186] V. per tutti U. Stefini, op. cit., 67-68: «Ora, in tutti i contratti traslativi quello che rileva è la sussistenza di un adeguato sostegno causale che sorregga il trasferimento […]. Nessuno si preoccupa di effettuare un confronto tra l’interesse dei creditori del disponente e quello di chi acquista il diritto, per stabilire se l’atto traslativo persegua o meno un interesse “meritevole” […]. Ci pensa poi l’ordinamento a risolvere il conflitto d’interessi tra i creditori e gli aventi causa del disponente: vuoi con le norme sull’opponibilità del pignoramento, vuoi concedendo ai creditori quella tutela della loro garanzia patrimoniale che è l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare. Lo stesso deve dirsi per quegli atti che realizzano l’effetto destinatorio disciplinato dall’art. 2645-ter […].».

[187] Ciò si è visto con riguardo a Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2020, n. 3697, cit. Questa concezione, come si ammette proprio in tale pronuncia, deriva a sua volta da una costante considerazione di altre fattispecie di destinazione patrimoniale quali atti a titolo gratuito – se non addirittura di natura liberale – soprattutto ove giustificati dalla causa familiae; in particolare, il raffronto con il fondo patrimoniale è immediato: v. da ultimo Cass. civ., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 2077, consultabile all’indirizzo https://sentenze
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[188] V. ad esempio Cass. civ., sez. III, 29 maggio 2018, n. 13388, in Giur. it., 2019, 774 ss., con nota critica di A. Gallarati, Atti dispositivi in trust – L’azione revocatoria degli atti dispositivi in trust. Nella massima della pronuncia si legge: «Al fine di qualificare l’onerosità o la gratuità del titolo in base al quale è effettuato un atto dispositivo in trust occorre far riferimento al rapporto sussistente tra il disponente e i beneficiari che si evince dalla programmazione di interessi prevista dall’atto istitutivo del medesimo trust».

[189] Come evidenzia, ancora, P. Coppini, op. cit., 149.

[190] Si tratta della stessa tesi esposta, nelle pagine precedenti, con riguardo al ruolo dell’art. 2645-ter rispetto all’annosa questione del trust interno.

[191] Così ex multis U. Stefini, op. cit., 98 ss., che evidenzia l’analogia con la dottrina in tema di negozio fiduciario; P. Coppini, op. cit., 148.

[192] Come ritiene, invece, parte della dottrina: A. Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, cit., 239; Id., Struttura dell’atto negoziale di destinazione e del trust, anche alla luce della legislazione fiscale, ed azione revocatoria, cit., 472; F. Gazzoni, op. ult. cit., 172 ss.

[193] Sul punto, S. Meucci, op. loc. ult. cit.; F. Viglione, op. ult. cit., 1059 ss.; U. Stefini, op. cit., 190 ss.; P. Coppini, op. cit., 163 ss.; R. Lenzi, op. ult. cit., § 4, il quale ultimo però sottolinea come, a suo parere, «Anche in considerazione del richiesto requisito della meritevolezza è tuttavia prevedibile che, nella maggioranza dei casi, si avrà una costituzione del vincolo a titolo gratuito, a vantaggio del beneficiario».

[194] Dal momento che la Corte, da un lato, richiama quella giurisprudenza di legittimità che ha qualificato l’atto di destinazione come atto sempre a titolo gratuito e, dall’altro lato, si riferisce proprio all’“atto”, come a intenderlo in via generale, e non agli “atti” destinatori del caso di specie.

[195] Come rileva S. Meucci, op. ult. cit., 464.

[196] In particolare, questa interpretazione viene ribadita da più di vent’anni, oltre che dalla dottrina maggioritaria, dalla Suprema Corte: v. Cass. civ., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 2077, cit. Osserva L. Domenici, Il fondo patrimoniale: negozio di protezione dei beni familiari, in Not., 2011, 552, che «La drastica posizione assunta dalla giurisprudenza è evidente reazione alla prassi che vede in numerosi casi il ricorso al fondo patrimoniale quale strumento per mettere in salvo determinati beni dalle pretese creditorie. La qualificazione come atto a titolo gratuito, infatti, rende certamente più agevole per i creditori pregiudicati il recupero della propria garanzia patrimoniale».

[197] Un atto che si sostanzierebbe in una donazione, segnatamente obnuziale ove l’attribuzione provenga da un terzo ovvero da uno dei coniugi: tra molti, v. G. Gabrielli, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, cit., 310 ss.; F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di dir. civ. e comm., a cura di A. Cicu, F. Messineo, II, Milano, 1984, 92; F. Carresi, op. cit., 394 ss.

[198] V. R. Lenzi, Struttura e funzione del fondo patrimoniale, cit., 85; G. Trapani, Il vincolo di destinazione dei beni oggetto del fondo patrimoniale ed i limiti all’autonomia privata dei costituenti, cit., 41 ss.; Id., Il fondo patrimoniale come strumento di soddisfazione dei bisogni della famiglia, in Not., 2007, 673, dove afferma che possa essere a titolo oneroso se il fondo è costituito per iniziativa di terzo; L. Domenici, op. cit., 561; T. Auletta, op. ult. cit., 1626 ss.

Fascicolo 5 - 2022