Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La tutela del consumatore dalle asserzioni ambientali ingannevoli (di Tiziana Rumi, Professoressa aggregata – Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria)


Tra i diversi obiettivi dell’Agenda Onu 2030 il saggio si sofferma sulla promozione di modelli di produzione e di consumo sostenibili. Alla realizzazione di tale obiettivo contribuisce la maggiore responsabilizzazione sia delle imprese (chiamate a svolgere la propria attività con modalità rispettose della natura e di condizioni di vita e di lavoro giuste), sia dei consumatori (spinti ad acquistare beni di scarso impatto ambientale, realizzati nel rispetto dei diritti dei lavoratori, ed a ridurre il più possibile i consumi). La consapevolezza dei consumatori nell’effettuare scelte di consumo green e critico è condizionata, però, dalla comunicazione aziendale e dalla pubblicità commerciale che, frequentemente, contengono asserzioni ambientali ingannevoli, finalizzate cioè alla creazione di un’immagine verde dei prodotti, non sempre corrispondente alla realtà (greenwashing). Da qui tutta una serie di provvedimenti sanzionatori emessi sia da autorità amministrative che giurisdizionali contro le imprese socialmente responsabili e l’individuazione di alcuni strumenti, primo fra tutti la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, per tutelare i consumatori contro gli slogan ambientali ingannevoli.

Parole chiave: tutela consumatore – pratiche commerciali scorrette – greenwashing – green claims – sviluppo sostenibile.

Consumer protection from misleading environmental claims

Among the various objectives of the UN Agenda 2030, the essay focuses on the promotion of sustainable production and consumption models. The greater responsibility of both businesses (called to carry out their business in ways that respect nature and fair living and working conditions) and consumers (driven to buy goods with low environmental impact, made in the respect for workers' rights, and to reduce consumption as much as possible). Consumer awareness in making green and critical consumption choices is conditioned, however, by corporate communication and commercial advertising which frequently contain misleading environmental claims, i.e. aimed at creating a green image of the products, which does not always correspond to the reality (greenwashing). Hence a whole series of sanctions issued by both administrative and judicial authorities against socially responsible companies and the identification of some tools, first of all the discipline on unfair commercial practices, to protect consumers against misleading environmental slogans.

Keyword: consumer protection - unfair business practices - greenwashing – green claims – sustainable development.

Tiziana Rumi, Professoressa aggregata – Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria

SOMMARIO:

1. La produzione ed il consumo sostenibile nell’Agenda ONU 2030 - 2. La comunicazione aziendale sulla sostenibilità dei prodotti e il problema del greenwashing - 3. L’AGCM, il Giurì di Autodisciplina e la giustizia ordinaria sui claim ambientali scorretti: alcuni casi emblematici - 4. I rimedi a tutela di consumatori ed imprese contro le pratiche commerciali scorrette aventi ad oggetto slogan ambientali - NOTE


1. La produzione ed il consumo sostenibile nell’Agenda ONU 2030

Il tema oggetto del presente contributo si ricollega ad uno dei 17 obiettivi previsti dall’Agenda 2030 e, segnatamente, al numero 12, che promuove modelli sostenibili di produzione e consumo. Il raggiungimento di questo obiettivo è funzionale a realizzare gli altri obiettivi di sviluppo sostenibile [1] (dalla riduzione della fame alla tutela della salute, alla riduzione delle disuguaglianze, alla gestione sostenibile dell’acqua e del­l’energia, alla promozione di modelli di crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, alla mitigazione del cambiamento climatico) e ciò conformemente a quello che possiamo dire sia il concetto multidimensionale di sviluppo sostenibile, uno sviluppo cioè che coinvolge tre dimensioni, integrate ed indivisibili: quella ambientale, quella economica e quella sociale [2].

Dagli 11 target di cui si compone il 12° goal dell’Agenda 2030 emerge, altresì, il fine ultimo che si intende realizzare ovvero “il cambiamento radicale delle modalità con cui attualmente si producono e si consumano beni e servizi” [3]. Il raggiungimento di questo scopo presuppone, per un verso, una maggiore responsabilizzazione delle imprese che devono – concretamente e non solo dichiaratamente– svolgere la propria attività con modalità rispettose della natura ma anche di condizioni di vita e di lavoro giuste e, per altro verso, una responsabilizzazione dei consumatori affinché dirigano le loro scelte di consumo non soltanto verso prodotti con scarso impatto ambientale (consumatori green), ma anche nel rispetto dei diritti dei lavoratori, senza sfruttamento di manodopera a basso costo o in violazione delle normative sulla sicurezza nei luoghi di lavoro [4] (consumatori etici/critici) [5] e, soprattutto, in modo responsabile, cioè riducendo i consumi. Il dovere di sobrietà è una scelta di tipo quantitativo orientata alla sostenibilità; è uno stile di vita che sa distinguere tra bisogni reali e bisogni imposti. Significa un altro modo di intendere l’efficienza, non più legata al danaro, ma che garantisce il massimo servizio con il minimo impiego di risorse e la minore produzione di rifiuti [6].

Perché ciò accada appare necessario assicurare a tutte le persone le “informazioni rilevanti”. Emerge, allora, come la sostenibilità (in senso ampio) dei prodotti e dei consumi non possa non impegnare intensamente le politiche di marketing e di comunicazione delle aziende, in tutti i settori, a cominciare da quello agro-alimentare che ha ad oggetto beni c.d. di prima necessità e che interessa la generalità dei consumatori in quanto si ritiene che convincere il consumatore a modificare le sue scelte d’acquisto nel campo alimentare [7], sarebbe il primo passo per convincerlo a cambiare il suo stile di vita con ripercussioni positive anche per il perseguimento degli altri goals indicati dall’Agenda 2030 [8].


2. La comunicazione aziendale sulla sostenibilità dei prodotti e il problema del greenwashing

La comunicazione aziendale sulla sostenibilità dei prodotti si pone al centro di un processo, per così dire, circolare: per un verso i consumatori si aspettano che le aziende producano beni compatibili con la tutela dell’ambiente così come dalle stesse dichiarato nella pubblicità commerciale e, per altro verso, le aziende spingono i consumatori verso l’acquisto di prodotti c.d. green servendosi, nel reclamizzare i loro beni, di asserzioni ambientali finalizzate alla creazione di un’immagine verde che, molto spesso, non corrisponde alla realtà [9]. Da qui l’esigenza di tutelare i consumatori da claim green scorretti, generatori del c.d. greenwashing (letteralmente tinteggiatura verde), cioè asserzioni ambientali non veritiere o comunque non scientificamente verificabili, che implicano un’appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di una falsa “immagine verde” [10].

Con riguardo ai claim ambientali, a livello europeo manca una normativa di armonizzazione del marketing verde, ma si riscontrano diverse normative settoriali sugli imballaggi e sull’etichettatura dei prodotti che tutelano il consumatore verso le informazioni false provenienti dalle imprese [11].

A queste discipline settoriali si aggiunge la più generale direttiva sulle pratiche commerciali scorrette (pcs) che, sebbene non contenga disposizioni specifiche relative agli slogan ambientali, onera il professionista che effettua delle dichiarazioni ecologiche di fornire informazioni veritiere e scientificamente verificabili [12]. Con riguardo alla direttiva sulle pcs acquistano particolare rilievo i criteri interpretativi contenuti negli Orientamenti della Commissione Europea per la sua attuazione [13], in relazione all’art. 6, par. 1, lett. a) e b) (corrispondenti all’art. 21 c. cons. [14]).

Negli Orientamenti si legge che tale disposizione si applica alle comunicazioni commerciali, incluse le dichiarazioni ambientali (quali testi, loghi, immagini e uso di simboli). Essa stabilisce una valutazione caso per caso della singola pratica commerciale, tenendo presente il contenuto della dichiarazione ambientale e la sua influenza sulla decisione di acquisto da parte del consumatore medio, e distingue la pratica oggettivamente ingannevole (ossia quella che contiene informazioni false e quindi non veritiere sul prodotto, sulle sue caratteristiche, sui metodi di produzione ecc.) dalla pratica soggettivamente ingannevole (dalla dichiarazione ambientale fuorviante, perché idonea ad ingannare il consumatore medio anche se contiene un’informazione corretta).

Ciò attiene piuttosto alle modalità con cui le dichiarazioni ambientali vengono presentate, alla suggestione che le stesse determinano sul consumatore circa benefici ambientali che potrebbero rivelarsi fuorvianti. L’informazione è poco chiara perché ad es. la dichiarazione si riferisce all’intero prodotto mentre riguarda solo alcune componenti (si dice confezione riciclabile quando lo è solo in parte), oppure la dichiarazione si riferisce all’impresa facendo intendere che riguarda tutti i suoi prodotti e non solo alcuni, o si tratta di vanto generico cioè costituito da espressioni generiche come ecologico, riciclabile, o ancora la dichiarazione non copre l’intero ciclo di vita del prodotto e sembra di sì perché non indica quale fase della produzione sia coperta e, nel caso di prodotti naturaliter dannosi per l’ambiente come i pesticidi, le autovetture, gli idrocarburi, le dichiarazioni ambientali come “green diesel” danno l’impressione fuorviante che il prodotto sia in sé rispettoso per l’ambiente o, comunque, più rispettoso di quanto non sia.

A livello nazionale, oltre alle norme del Codice del Consumo di recepimento della Direttiva, una specifica previsione sulla comunicazione ambientale è contenuta nel Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale versione 2014, all’art. 12 [15], dove si individuano i criteri perché un claim ambientale non risulti ingannevole e non integri una pcs (e, quindi, che il vanto ambientale sia veritiero, pertinente e scientificamente verificabile e non sia fuorviante, sia cioè presentato in modo chiaro e accurato consentendo di comprendere esattamente a quale aspetto del prodotto o a quale fase della sua produzione si riferisce) [16]. La circostanza che, in questi casi, l’onere informativo per il professionista sia più rigoroso rispetto ad altri tipi di comunicazione (pretendendosi la verificabilità tecnico-scientifica delle informazioni) si traduce in un vantaggio per il consumatore perché riduce al minimo la carica suggestiva della pubblicità commerciale.

Ciò, però, non elimina del tutto il pericolo di greenwashing, per il modo con cui informazioni ambientali (sia pure in sé corrette) vengono fornite, ingenerando nel consumatore medio l’idea di un beneficio ambientale che potrebbe rilevarsi fuorviante. In dottrina [17] si fanno diversi esempi: il richiamo a benefici ambientali piuttosto vaghi e indeterminati per un prodotto (“rispettoso dell’ambiente, verde, amico della natura, ecologico, sostenibile”); la dichiarazione che un nuovo modello di lavatrice riduce il consumo di acqua del 75%, quando lo riduce solo del 25%; la dichiarazione di una confezione come riciclabile quando lo è solo in parte; la dichiarazione di un pesticida come “biodegradabile” o “positivo per l’ambiente” quando è noto che i pesticidi contengono comunque sostanze dannose per il suolo, e gli esempi potrebbero moltiplicarsi. In casi di questo genere non sono mancate pronunce, in particolare dell’AGCM, volte a sanzionare economicamente alcune imprese per pratiche commerciali considerate ingannevoli, realizzatrici di greenwashing.


3. L’AGCM, il Giurì di Autodisciplina e la giustizia ordinaria sui claim ambientali scorretti: alcuni casi emblematici

La materia delle asserzioni ambientali ingannevoli si segnala anche per le molteplici pronunce di condanna emesse da organi amministrativi e giurisdizionali che, a vario titolo, garantiscono il rispetto della normativa sulla correttezza della pubblicità e delle pratiche commerciali anche in materia ambientale. Faremo di seguito riferimento, solo esemplificativamente, ad alcune pronunce relative a claim ambientali al fine di evidenziare anche le difficoltà incontrate nella pratica per definire un vanto ambientale come ingannevole/scorretto [18]. Tra le varie decisioni dell’AGCM molto nota è sicuramente quella concernente la pratica commerciale di promozione di un carburante ENI ritenuto vantaggioso in termini di risparmio dei consumi e di riduzione di emissioni, con conseguente impatto positivo per l’ambiente [19].

Nel caso di specie veniva contestato da un’associazione consumeristica il vanto ambientale derivante dalla presenza nel carburante di una componente denominata Green Diesel e qualificata green o rinnovabile. L’AGCM ha censurato l’ENI perché aveva attribuito genericamente all’intero prodotto (e non ad una sua singola componente) un vanto ambientale in modo suggestivo, ingannando i consumatori circa il grande impatto ambientale positivo dello stesso (a fronte del reale e modesto impatto ambientale del prodotto offerto) [20]. Per l’AGCM era stato considerato scorretto nella pubblicità dell’ENI «utilizzare in modo non circostanziato il termine green e altri generici vanti ambientali» al fine di veicolare un minore effetto negativo sull’ambiente rispetto a quello di altri carburanti per autotrazione. Peraltro, nel caso di specie, si lamentava la mancanza, nei messaggi pubblicitari, degli ulteriori chiarimenti o specificazioni (c.d. claim di supporto) che rendevano chiaro, specifico, circostanziato e accurato il beneficio ambientale, rispetto alla capacità di comprensione del destinatario. E, poi, anche con riferimento alla componente HVO (ovvero la componente interessata dal vanto), tali concetti venivano prospettati al consumatore in maniera generale e suggestiva per indurre il destinatario dei messaggi ad associare il prodotto ad una generale idea di positività per l’ambiente, ad un impatto favorevole per lo stesso, sfruttando una accezione di ‘verde’ e/o ‘rinnovabile’ cui il consumatore medio associa una valenza positiva assoluta (causa il fenomeno psicologico di ‘framing’ informativo [21] nel quale è collocato in considerazione della ampia diffusione di notizie e di messaggi promozionali nei quali si esalta la positività per l’ambiente di prodotti e processi produttivi ‘verdi’ e/o ‘rinnovabili’).

Analogamente, qualche anno prima, l’AGCM aveva sanzionato come pratiche commerciali scorrette alcuni claim ambientali relativi alla composizione chimica di alcune bottiglie di acqua minerale. Si tratta della PS 6302 – Acqua S. Anna – Bio Bottle (Provv. 24046 del 14 novembre 2012) considerata ingannevole in quanto venivano enfatizzati i risparmi di emissioni di gas prodotti da questa particolare bottiglia (Bio bottle), prodotta in bioplastica e non in PET. Le bottiglie interessate dalla campagna pubblicitaria, però, costituivano solo una piccola parte della produzione aziendale (lo 0,2%) e il risultato ecologico conseguito non era direttamente né esclusivamente riconducibile alla natura bio della bottiglia, ma piuttosto all’attività di compensazione tramite acquisto di certificati di energia rinnovabile. Il consumatore veniva, pertanto, ingannato da una sopravvalutazione del beneficio ambientale prodotto dalla bottiglia bio che non corrispondeva alla realtà. Sempre in materia di “acque”, è stata considerata ingannevole anche la pratica 7235 – Ferrarelle Impatto Zero – Provv. 23278 dell’8 febbraio 2012, dove il claim ambientale era costituito dalle espressioni “Prodotto a impatto zerorispetta la naturaun impegno per l’ambiente; la prima acqua minerale a impatto zero”. Per l’Authority, anche in questo caso, il consumatore era portato a credere non che una minima parte (il 7%), ma l’intero processo produttivo e distributivo dell’acqua Ferrarelle fosse privo di impatto sull’ambiente, mentre si trattata di un progetto volontario di neutralizzazione di alcuni fattori inquinanti (le emissioni di CO2) e per una durata limitata. Non veniva fornita, inoltre, alcuna prova a sostegno della tesi per cui l’espressione “Impatto Zero” avesse acquisito presso il pubblico italiano un significato circoscritto alla sola compensazione delle emissioni CO2 [22].

L’attività di contrasto ai claim ambientali scorretti ha avuto come attiva protagonista anche la giurisprudenza autodisciplinare tenuta ad assicurare l’applicazione dell’art. 12 del Codice di Autodisciplina volto a garantire la correttezza della pubblicità che contenga slogan ambientali suscettibili di influenzare le scelte dei consumatori. In particolare le pronunce del Giurì sanzionano la dichiarazione, come assoluti, di vantaggi ambientali inesistenti o solo parziali. Si pensi alla pronuncia che ha considerato ingannevole l’uso dell’ag­gettivo biodegradabile associato all’avverbio “completamente”, “senza riferimento alcuno al Reg. CE 648/2004 dove il concetto di completa biodegradabilità viene posto in relazione con le sole materie prime vegetali impiegate e non anche con gli additivi privi di efficacia detergente rischiando… di indurre in errore il consumatore medio il quale disconoscendo la normativa comunitaria potrebbe ritenere che “completamente” sia sinonimo di integralmente al 100% [23]. Analogamente è a dirsi dell’uso del termine ecologico da intendersi sempre in senso relativo e non assoluto [24]. Altre volte, però, lo stesso Giurì dovendo decidere sull’in­gannevolezza di claim ambientali come “Amici dell’ambiente” o “100% di componenti attivi di origine vegetale” et similia è pervenuto a conclusioni diverse. Ad es. nella pronuncia n. 15/2014 [25] ha escluso che tali espressioni inducessero ad intendere i vantaggi in termini assoluti, ritenendo che il consumatore medio, sensibile alle tematiche ambientali non può non mettere in conto che «qualunque prodotto è fabbricato producendo inquinamento ed è esso stesso inquinante per più profili, così come inquinanti sono la più parte delle attività umane…». Di conseguenza sarebbe inverosimile supporre che tale consumatore concluda che gli ‘ecodetergenti’ per il fatto di essere ‘amici della natura’ e ‘creati nel rispetto dell’ambiente’ siano stati ‘creati’ senza inquinare e siano privi in assoluto di proprietà od effetti inquinanti [26]. La difficoltà di giudicare l’in­gannevolezza di determinati vanti ambientali emerge, infine, da alcune pronunce dei giudici amministrativi.

Interessante è la vicenda giudiziaria concernente la diffusione di messaggi pubblicitari relativi all’acqua minerale naturale S. Benedetto, che vede giungere a risultati opposti il Tar ed il Consiglio di Stato. Con prov­vedimento n. 20559 del 10 dicembre 2009, l’Antitrust, a conclusione del procedimento PS 4026, aveva qualificato come pratica commerciale scorretta quella posta in essere dalla società S. Benedetto, consistente in vanti ambientali che evidenziavano lo sforzo del professionista di ridurre le emissioni dannose connesse alla produzione delle bottiglie in PET. Il messaggio pubblicitario valorizzava le caratteristiche di ecosostenibilità della bottiglia in plastica utilizzata per commercializzare l’acqua minerale naturale. Tale bottiglia, denominata “eco friendly” veniva pubblicizzata con la dicitura “– Plastica + Natura” e si specificava che le bottiglie erano “prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente”. Inoltre, si specificavano le percentuali di riduzione dell’impiego di plastica per i diversi formati delle bottiglie unitamente all’affermazione di un risparmio di emissioni di CO2 pari a 16.000 ettari di nuovo bosco impiantato. Tali messaggi, per l’Au­torità, contrastavano con gli artt. 20 e 21, lett. b) c. cons., per la loro ingannevolezza rispetto ai risultati ottenuti dal professionista nella riduzione del peso delle bottiglie utilizzate e al conseguente risparmio energetico. Accertata la scorrettezza della pratica l’AGCM ne vietava l’ulteriore diffusione e condannava la società ad una sanzione amministrativa pecuniaria di 70mila euro. La società propone ricorso al TAR per l’annul­lamento del provvedimento sanzionatorio e lo ottiene. Per i g. a. l’AGCM, nell’escludere che la documentazione prodotta dalla società fosse idonea a comprovare la riduzione progressiva del peso delle bottiglie, avrebbe ignorato in realtà la documentazione tecnica, elaborata dalla società e presentata all’Autorità, sulla diminuzione del 30% della quantità di plastica impiegata per le bottiglie, sol perché proveniente dalla società interessata, essendosi limitata ad affermare che l’elaborazione tecnica aziendale era insufficiente e inattendibile, sicché i vanti “prestazionali” e “ambientali” presenti nei messaggi pubblicitari apparivano utilizzati in modo scorretto causa l’omessa produzione di dati, studi, relazioni. Il TAR contesta il modo di procedere del­l’Autorità considerandolo pretestuoso in quanto quest’ultima non aveva compiuto alcuna istruttoria per dimostrare la non veridicità dei messaggi pubblicizzati [27]. L’AGCM fa appello che viene accolto dal Consiglio di Stato con la sentenza del 27 aprile 2017, n. 1960 [28] che richiama gli Orientamenti della Commissione Europea sull’attuazione della direttiva 2005/29/CE dove, all’art. 5.1, si afferma che quando le asserzioni ambientali non sono veritiere o non possono essere verificate (come nel caso di specie) la pratica viene considerata greenwashing e viene inibita e sanzionata. In particolare, negli Orientamenti si specifica che gli SM attribuiscono agli organi giurisdizionali o il potere: a) di esigere che il professionista fornisca prove sull’esattezza delle allegazioni fattuali connesse alla pratica commerciale; b) di considerare inesatte le allegazioni fattuali, se le prove richieste non siano state fornite o siano ritenute insufficienti dall’organo giurisdizionale. Quindi, la prova della veridicità anche scientifica delle asserzioni ambientali deve essere fornita dal professionista (v. art. 12 Direttiva 2005/29/CE) su cui grava un obbligo di documentazione aggiornato e anteriore all’avvio del procedimento istruttorio da parte dell’Autorità. Nel caso di specie, invece, la società aveva richiesto ad un ente certificatore la certificazione di qualità delle bottiglie solo dopo l’avvio dell’istruttoria da parte dell’Au­torità e, soprattutto, la società non aveva fornito dati e studi che comprovavano l’equivalenza tra il risparmio energetico conseguente alla minore quantità di plastica impiegata nelle bottiglie e la riduzione di emissioni di CO2 [29].

A testimonianza di una giurisprudenza oscillante vi è, da ultimo, l’esperienza del Tribunale di Gorizia (la prima pronuncia di merito sui vanti ambientali) [30]. Il Tribunale di Gorizia in un’ordinanza del 25 novembre 2021 ha considerato i messaggi pubblicitari denunciati dalla parte ricorrente Alcantara s.r.l. molto generici (scelta naturale, amica dell’ambiente, microfibra ecologica) e idonei a suggestionare i consumatori fornendo un’immagine green dell’azienda senza dar conto, però, delle politiche aziendali che consentono un maggior rispetto per l’ambiente e riducono l’impatto che produzione e commercializzazione di un tessuto di derivazione petrolifera (la microfibra) ha sull’ambiente. Peraltro vengono contestati claims come “riciclabilità totale (100%)” del tessuto al termine del ciclo di vita del prodotto; “utilizzo di coloranti naturali” senza che fosse possibile verificarlo e “riduzione del consumo di energia e delle emissioni di CO2 dell’80%” effettuata ricorrendo a metodi di calcolo inesatti. In considerazione di ciò il Tribunale ha previsto l’inibitoria immediata dei vanti ingannevoli con la penalità da 1.000 a 10.000 euro (mezzi di coercizione indiretta) in caso di mancato adempimento, oltre alla pubblicità dell’ordinanza sul sito internet dell’azienda. Qualche mese più tardi, però, lo stesso Tribunale friulano ha accolto il reclamo della parte soccombente contro l’ordinanza cautelare con cui aveva dichiarato ingannevoli i messaggi pubblicitari, ritenendo il ricorso infondato per difetto del presupposto del periculum ed ha, quindi, accolto integralmente il reclamo proposto da MIKO S.r.l., revocando l’ordinanza di primo grado. Ciò in quanto non era stata offerta alcuna prova del fatto che la comunicazione “verde” di MIKO S.r.l. avesse determinato la perdita o un concreto rischio di sviamento di clientela a suo favore. La replica della ricorrente Alcantara passa per il giudizio ordinario dove si attende la valutazione sulla ingannevolezza o meno dei claim ambientali veicolati da MIKO S.r.l. [31].


4. I rimedi a tutela di consumatori ed imprese contro le pratiche commerciali scorrette aventi ad oggetto slogan ambientali

Le condotte imprenditoriali produttive di greenwashing, per un verso, ledono la capacità dei consumatori di effettuare scelte commerciali libere e consapevoli a causa dell’ingannevolezza dei messaggi pubblicitari ricevuti e, per altro verso, danneggiano le imprese concorrenti, spesso vittime di concorrenza sleale sotto forma di comparazioni scorrette e di sviamento di clientela. Si pone, allora, l’esigenza di individuare il ventaglio di possibili rimedi che consumatori e imprese concorrenti lese da condotte di greenwashing possono esercitare in presenza della c.d. responsabilità “sociale” delle imprese scorrette [32].

Ed infatti, in presenza di vanti ambientali ingannevoli le imprese inserzioniste, oltre a venire sanzionate economicamente [33] dall’AGCM e/o con l’inibitoria del messaggio pubblicitario dall’autorità disciplinare, risponderanno per aver violato i rigorosi obblighi di informazione su di esse gravanti e la loro responsabilità finirà per assorbire anche quella aggiuntiva e imputabile agli eventuali terzi impegnati nella filiera green [34], al fine assicurare il rispetto dei protocolli che stanno alla base di eventuali certificazioni o dei requisiti di sostenibilità che vengono pubblicizzati. La responsabilità della comunicazione commerciale ingannevole, infatti, non può che restare in capo al professionista produttore del bene come confermato dal Consiglio di Stato in una pronuncia del 2012 [35]. Peraltro, la circostanza che si tratti di una responsabilità da illecito aquiliano esclude altresì la possibilità, da parte del produttore dei beni, di introdurre clausole contrattuali di esonero da responsabilità [36].

Sotto il profilo rimediale occorre distinguere i rimedi spettanti alle imprese pregiudicate [37] dalla pubblicità ingannevole, dai rimedi che possono, invece, invocare i consumatori. Le prime, contro gli illeciti concorrenziali, dispongono di una tutela giurisdizionale ordinaria al fine di ottenere il rispetto della disciplina sulla pubblicità ingannevole (v. art. 8, comma 15, d.lgs. n. 145/2007) e l’attuazione dell’art. 2598, n. 3, cod. civ., norma che considera sleale ogni comportamento che utilizza ogni mezzo «non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda», e che è espressione, anche nei rapporti tra imprese, della clausola generale di correttezza e buona fede [38]. A ciò si aggiunge anche la possibilità di agire in via preventiva con l’azione inibitoria cautelare come è avvenuto nel caso della citata sentenza Tribunale di Gorizia 25 novembre 2021.

Sul fronte consumeristico può dirsi che la protezione del consumatore contro i claim ambientali sia appannaggio, quasi esclusivo, della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e del rimedio civilistico consistente nell’annullamento del contratto per dolo. Questi ultimo strumento di tutela, però, presuppone la conclusione di un contratto da parte del consumatore, opera cioè a “danno fatto” poiché il consumatore, per effetto delle false informazioni circa le scelte etiche e sociali d’impresa, ha preso decisioni commerciali che in assenza dell’inganno non avrebbe assunto [39].

E, ancora, sempre nell’ottica di una tutela ex post, il comportamento socialmente irresponsabile dell’im­presa che ha indotto il consumatore ad acquistare un bene di consumo rivelatosi difforme rispetto alle dichiarazioni pubbliche (messaggi pubblicitari, volantini, opuscoli ecc.) rese dal venditore, potrebbe essere sanzionato con i rimedi previsti dalla disciplina sulla vendita dei beni di consumo, in particolare con quelli redibitori (risoluzione del contratto, riduzione del prezzo) più il risarcimento del danno, che consentirebbero al consumatore di liberarsi da un acquisto non corrispondente alle proprie scelte etiche [40].

A questo punto occorre chiedersi che tipo di tutela possono invocare i consumatori in assenza non soltanto di un contratto ma anche di una condotta in cui la falsità della dichiarazione da parte dell’impresa non comporti un immediato e diretto pregiudizio nei loro confronti. Detto altrimenti: a quali rimedi hanno diritto i consumatori che, in assenza di un illecito concorrenziale o di un difetto di conformità dei beni acquistati, si siano comunque affidati circa la veridicità di quanto dalle imprese falsamente declamato, o degli impegni da queste falsamente assunti [41]? Parte della dottrina ritiene che le imprese che utilizzino claims ambientali ingannevoli siano comunque responsabili nei confronti degli stakeholders esterni in quanto con le loro condotte violano la diligenza professionale (cui fa riferimento l’art. 20 c. cons. che contiene la definizione generale di pcs [42]) oltre che i principi di correttezza e buona fede.

Come si è giustamente osservato «gli impegni verso la sostenibilità che un professionista ha volontariamente dichiarato di assumere concorrono nella determinazione della misura in cui è ragionevole immaginare che il consumatore riponga aspettative riguardo all’adozione di determinate politiche imprenditoriali ed integrano così la valutazione del comportamento dell’imprenditore secondo buona fede e correttezza [43]… La diligenza professionale, dunque, pone in capo al debitore obblighi collegati allo specifico settore di appartenenza, che concorrono nella stessa determinazione della conformità della condotta alla buona fede e in relazione all’inadempimento dei quali è possibile giustificare un giudizio negativo sulla pratica commerciale posta in essere» [44].

Di conseguenza il professionista che non rispetta gli impegni presi lede l’affidamento dei consumatori e risponderà in base al principio di buona fede che «opera in tutte le ipotesi in cui le sfere giuridiche di più soggetti entrano in relazione, dando vita ad autonomi obblighi di protezione che affondano le proprie radici nel dovere di solidarietà costituzionale». In altri termini – si dice – «il dovere di comportarsi secondo buona fede … investe tutte le situazioni in cui più sfere giuridiche sono messe in relazione, permette di calare il principio di solidarietà costituzionale all’interno dei rapporti tra l’impresa, che promette comportamenti socialmente responsabili, e gli stakeholders esterni» [45].

A dire il vero, nel diritto dei consumi esiste una tendenza largamente diffusa ad attribuire valore al principio di buona fede a prescindere dall’esistenza di un contratto tra le parti o dall’avvio di trattative. Si pensi al carattere immodificabile e vincolante delle informazioni rilasciate dal professionista nella fase antecedente la conclusione del contratto. Il fenomeno, noto in dottrina con l’espressione «contrattualizzazione degli obblighi informativi» [46], ha trovato riscontro in diverse disposizioni normative. Se ne rinviene traccia, intanto, nel­l’art. 49, comma 5, c. cons. per il quale, in materia di contratti a distanza e negoziati fuori dai locali commerciali, le informazioni «formano parte integrante del contratto» e non possono essere modificate «se non con accordo espresso delle parti» [47]. La disposizione è, dal nostro punto di vista, molto rilevante, sia per il suo carattere generale [48] in quanto applicabile agli obblighi di informazione riguardanti tutti i contratti che vengono stipulati con modalità c.d. “pericolose” [49], sia per la sua «spiccata attitudine rimediale» essendo in grado di «governare le conseguenze civilistiche in un ampio spettro di violazioni degli obblighi informativi e segnatamente in tutte quelle ipotesi che generano una difformità tra il contenuto delle informazioni e quello del contratto» [50].

In direzione analoga a quella tracciata si collocano, poi, sia l’art. 35 [51] codice del turismo, sia l’art. 72, comma 4, c. cons., in materia di multiproprietà il quale, con una previsione analoga a quella di cui all’art. 49, comma 5, c. cons., dispone che le informazioni precontrattuali «costituiscono parte integrante e sostanziale del contratto». Ma lo “strumento più avanzato di contrattualizzazione dell’informazione” [52] è riscontrabile nella disciplina della vendita di beni di consumo dove la mancanza di conformità dei beni alle dichiarazioni pubbliche rese dal venditore nella pubblicità, nei volantini e con ogni altra forma di comunicazione prima della conclusione del contratto, genera nei suoi confronti responsabilità contrattuale [53]. Dopo la direttiva UE 2019/771 [54] che ha abrogato la direttiva 1999/44/CE, e le modifiche intervenute nel Codice del Consumo per effetto del d.lgs. 4 novembre 2021, n. 170, la disciplina sulle dichiarazioni pubbliche è oggi contenuta all’art. 129, comma 3, lett. d) e all’art. 130 c. cons. La prima disposizione prescrive tra i requisiti oggettivi di conformità la corrispondenza del prodotto alle «dichiarazioni pubbliche fatte dal o per conto del venditore, o da altre persone nell’ambito dei precedenti passaggi della catena di transazioni commerciali, compreso il produttore, in particolare nella pubblicità o nell’etichetta».

L’art. 130, invece, prevede delle ipotesi di esclusione della responsabilità del venditore quando que­st’ultimo alternativamente dimostri che: a) non era a conoscenza della dichiarazione pubblica o non poteva conoscerla usando l’ordinaria diligenza (evidentemente perché la dichiarazione è stata resa da altri soggetti per suo conto; b) quando la dichiarazione pubblica è stata adeguatamente corretta al momento della conclusione del contratto con le stesse modalità, o con modalità simili a quelle con cui è stata resa; c) se dimostra che la decisione di acquistare il bene non è stata influenzata dalla dichiarazione pubblica. Il dato interessante, emerso dai primi commenti della direttiva 2019/771/UE, è costituito dal fatto che la previsione contenuta all’art. 7.1, lett. d), oggi confluita nel nuovo art. 129, comma 3, lett. d c.cons., – per la quale si ritiene responsabile il venditore della difformità del bene rispetto alle dichiarazioni pubbliche effettuate nella pubblicità o nell’etichetta – viene considerata «una possibile base legale per il contrasto al greenwashing ulteriore e diversa da quella sinora seguita, rappresentata dalla riconduzione di dichiarazioni sostenibili (c.d. environmental claims, green claims, etc.) fuorvianti nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette», con la conseguenza di ampliare le tutele consentendo al consumatore di unire ai rimedi contro le pcs anche quelli previsti per i difetti di conformità dalla disciplina sulla vendita dei beni di consumo [55].

In conclusione, l’ampia operatività del principio di buona fede consente ai consumatori di far valere sia la responsabilità contrattuale dell’impresa per dichiarazioni pubbliche rese prima della contrattazione, sia la responsabilità extracontrattuale tutte le volte in cui l’impresa ponga in essere una pcs e leda gli interessi etici ed ambientali dei consumatori. In tal caso un ulteriore e non secondario rimedio può essere rappresentato dal­l’azione di classe di cui all’art. 140 bis c. cons., come peraltro dimostrato dall’accoglimento da parte del Tribunale di Venezia della class action avente ad oggetto le pratiche commerciali scorrette/ingannevoli poste in essere dalla società Volkswagen, concernenti l’installazione di un software di manipolazione delle emissioni di CO2 sui propri veicoli, sia per aver diffuso informazioni commerciali false frodando così i consumatori [56].


NOTE

[1] L’Agenda 2030 – adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25.9.2015 con il titolo “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile” – consacra la dinamicità di questo concetto (dapprima considerato nella esclusiva dimensione ambientale) che, in una visione olistica di sviluppo, presenta una certa mobilità di confini ed associa alla dimensione ambientale anche quella economica e sociale. Per un esame analitico dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs) compresi nell’Agenda, cfr. L’agenda globale per lo sviluppo sostenibile – Sesta edizione n. 89 Aprile 2022 – Camera dei deputati XVIII Legislatura – Documentazione e ricerche, reperibile su https://documenti.camera.it› leg18› dossier› testi. L’Agenda e i correlati SDGs (entrati in vigore a livello internazionale l’1.1.2016) mirano a completare ciò che gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals – MGDs), previsti per il quindicennio precedente non erano riusciti a realizzare (dalla eliminazione della povertà in tutte le sue forme e dimensioni, alla lotta al cambiamento climatico). In argomento cfr., tra gli altri, M. Montini – F. Volpe, La necessità della regolazione per la sostenibilità, in Riv. giur. amb., 3-4/2016, 413 ss.; Id., Sustainable Development at a turning point, in www.
federalismi.it
, 2 novembre 2016; M. Montini, L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, in www.federalismi.it, 8.5.2019; A. Buonfrate, Principi del nuovo diritto dello sviluppo sostenibile, Padova, 2020; D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, in Persona e mercato, n. 3/2021, 495 ss.

[2] Lo esprime chiaramente S. Bolognini, Il consumatore nel mercato agro-alimentare europeo fra scelte di acquisto consapevoli e scelte di acquisto sostenibili, in Riv. dir. agrario, n. 4/2019, 615 ss. Per considerazioni più generali vedi anche E. Ferrero, Lo sviluppo sostenibile tra etica e diritto, in Ambiente & Sviluppo, n. 5/2021, 358 ss.

[3] Si sottolinea, infatti, le necessità di passare a modelli produttivi e di consumo che assicurino: l’attuazione in tutti i Paesi del Quadro Decennale di Programmi per il Consumo e la Produzione Sostenibili, rendendo partecipi tutti i paesi più o meno sviluppati (t. 12.1); una maggiore efficienza sia nella gestione che nell’uso delle risorse naturali (t.12.2); la riduzione dello spreco alimentare (t.12.3); il raggiungimento di una gestione eco– compatibile delle sostanze chimiche e dei rifiuti, sì da ridurre considerevolmente il loro rilascio nell’acqua, nell’aria e nel suolo, e, quindi, il loro impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente (t.12.4); la riduzione della produzione di rifiuti (t.12.5); l’adozione, da parte delle imprese e della p.a., di pratiche sostenibili (t. 12.6 e 7) e, per quanto a noi maggiormente interessa, assicurare «che tutte le persone, in ogni parte del mondo, abbiano le informazioni rilevanti e la giusta consapevolezza dello sviluppo sostenibile e di uno stile di vita in armonia con la natura» (t.12.8).

[4] Cfr. D. Garofalo, Lo sfruttamento del lavoro tra prevenzione e repressione nella prospettiva dello sviluppo sostenibile, in ADL, n. 6/2020, prima parte, 1303 ss.

[5] Già da tempo si discute di consumo “etico” e di imprese “etiche” volendo alludere al mutamento di prospettiva che caratterizza sia i metodi di produzione che i consumi. Inizialmente, le scelte di consumo erano orientate in base alla capacità della merce di soddisfare specifici bisogni dei consumatori e la preoccupazione principale per le imprese era quella di garantire il funzionamento e la conformità dei beni al contratto. Successivamente la stessa “usabilità” dei beni più che essere valutata in base all’assenza di difetti di funzionamento ed alla possibilità di goderne in modo pieno ed esclusivo, viene valutata in base a personali considerazioni dei consumatori di tipo ecologico e politico con riflessi importanti anche sulla produzione e l’offerta di merci. Anzi esiste proprio una filiera di mercato che vede attivi operatori commerciali che compiono scelte critiche nella selezione delle materie prime, verificano l’im­patto sociale ed ecologico della propria attività industriale e hanno cura delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti. Ovviamente la produzione “etica” implica costi ulteriori che i consumatori “etici” sono disposti a pagare nella convinzione che le loro scelte di acquisto contribuiscono a promuovere un mercato più giusto e più equo. In argomento, amplie, A. Quarta, Per una teoria dei rimedi nel consumo etico. La non conformità sociale dei beni tra vendita e produzione, in Contr. e Impr., n. 2/2021, 523 ss. Nella letteratura straniera in argomento, ex multis, cfr. Antill, Socially Responsible Consumers: Profile and Implications for Public Policy, in Journal of Macromarketing, 1984, 18 ss.; Attalla, Carrigan, The Myth of the Ethical Consumer – Do Ethics Matter in Purchase Behaviour?, in Journal of Consumer Marketing, 2001, 560 ss.; Freestone, Mcgoldrick, Motivations of the Ethical Consumer, in Journal of Business Ethics, 2008,447; Collins, Conformity of Goods, the Network Society, and the Ethical Consumer, in European Private Law, 2014, 619 ss.

[6] Così M. Giorgianni, Un viaggio nella storia delle guide al consumo, in cerca della nuova veste responsabile dei consumatori, in Politica del diritto, n. 3/2021, 376 ss.

[7] Per un approfondimento sulla sostenibilità nella produzione alimentare cfr. C. Napolitano, Il bene alimentare: necessità e sostenibilità, in Il diritto dell’economia, n. 1/2021, 159 ss.

[8] Sulla funzione educativa della comunicazione b2c nel mercato agro-alimentare si sofferma ancora S. Bolognini, Il consumatore nel mercato agro-alimentare europeo fra scelte di acquisto consapevoli e scelte di acquisto sostenibili, cit., 629 ss., la quale evidenzia come ad essa facciano riferimento anche altre disposizioni di matrice europea (da quelle che regolano il marchio biologico, vedi considerando 1, reg (UE) 844/2007, a quelle del reg (UE) n. 1169/2011 che prevedono l’obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale tra le indicazioni che devono essere fornite ai consumatori in relazione agli alimenti pre-imballati, al fine di informare i consumatori sulla composizione degli alimenti ed aiutarli ad adottare decisioni consapevoli ed al fine di prevenire rischi per la salute come il sovrappeso e l’obesità che hanno ripercussioni pesanti anche in termini di costi economici e sociali per l’UE). L’obiettivo del legislatore europeo, in altri termini, non è soltanto quello di mettere il consumatore in condizione di effettuare scelte di acquisto consapevoli in relazione ai suoi interessi/bisogni personali, di tipo economico, salutistico, edonistico ecc., nel senso di sapere se sta comprando ciò che risponde ai suoi desideri, ma anche quello di guidare le sue condotte di acquisto, spronandolo ad assumere un ruolo più attivo nel perseguimento degli obiettivi indicati come prioritari dalle diverse politiche europee e quindi di richiamare l’attenzione del consumatore sul­l’impatto che le sue scelte di acquisto possono avere anche sul mondo circostante. Sicché alla responsabilità sociale delle imprese si aggiunge la responsabilità sociale dei consumatori. Non è un caso che già dagli anni ‘70 del secolo scorso negli stessi Paesi che hanno segnato la nascita del consumerism (come l’Inghilterra e gli USA) proprio al fine di tutelare l’ambiente e valutare il comportamento ambientale e sociale delle imprese siano state elaborate delle “guide” al consumo green, ovvero importanti strumenti di informazione che invitano a un modo di comprare «più sobrio, più pulito e più giusto». Per un esame delle problematiche connesse alle guide al consumo cfr. M. Giorgianni, Un viaggio nella storia delle guide al consumo in cerca della nuova veste responsabile dei consumatori, cit., 359 ss.

[9] Cfr. M. Libertini, La comunicazione pubblicitaria e l’azione delle imprese per il miglioramento ambientale, in Giur. comm., n. 3/2012, 331, che evidenzia come al crescente green marketing delle imprese si è contrapposto un movimento diretto a smascherare le eco-bugie (greemwashing).

[10] A. Quaranta, La retorica green e le comunicazioni ingannevoli: il greenwashing per la prima volta al vaglio del giudice di merito, in Ambiente & sviluppo, 6/2022, 403 ss., definisce il fenomeno come «una forma di pubblicità ingannevole che le aziende utilizzano con il solo scopo di trarre un beneficio economico, senza però fare realmente nulla di concreto nei confronti della tutela ambientale… che affligge diversi settori produttivi (energia, edilizia, tessile solo per citare esempi eclatanti), che hanno in comune l’esistenza, nelle proprie platee di consumatori, di una concreta e reale propensione all’acquisto specificamente rivolta a prodotti e servizi a marchio green, e che certamente per gli operatori economici rappresenta una profittevole opportunità di business». Già nel 2008 (14 dicembre) nel Piano d’azione “Produzione e consumo sostenibili e politica industriale sostenibile” adottato dal Consiglio “Ambiente” si esortavano gli SM ad attuare pienamente la direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali in relazione alle dichiarazioni ambientali e si invitava la Commissione a includere le dichiarazioni ambientali negli orientamenti futuri in relazione alla direttiva sulle pcs. Sul greenwashing v. la recente Comunicazione della Commissione “Orientamenti sull’interpretazione e sull’ap­plicazione della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno” (2021/C 526/01) del 29 dicembre 2021 che al punto 4.1.1 è rubricata “asserzioni ambientali”. Il documento richiama altri provvedimenti europei essenziali a favorire la c.d. transizione verde come la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, «Nuova agenda dei consumatori – Rafforzare la resilienza dei consumatori per una ripresa sostenibile» [COM(2020) 696 final], 13 novembre 2020; e la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni «Un nuovo piano d’azione per l’economia circolare – Per un’Europa più pulita e più competitiva» [COM(2020) 98 final], 11.3.2020.

[11] Ad es. l’etichettatura biologica, disciplinata dal Reg. CE n. 834/2007, l’etichettatura energetica regolata dalla Dir. 92/75/CEE e quella relativa agli pneumatici dal Reg. ce 1222/2000 ecc.

[12] Le norme di riferimento sono rappresentate dagli articoli 20, 21 e 22 c. cons. La prima di esse contiene un divieto generale di pcs, ovvero di pratiche contrarie alla diligenza professionale e idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio, proprio come il green marketing perché un green claim scorretto può rappresentare una pratica commerciale ingannevole laddove contenga informazioni non veritiere sulle caratteristiche del prodotto in base alle prove ed ai controlli effettuati sullo stesso e agli effetti che derivano dal suo uso. Alle informazioni false vengono equiparate, dall’art. 21 c. cons., quelle in sé vere, ma presentate in maniera ingannevole. In tal caso il ventaglio delle ipotesi è abbastanza ampio e comprende sia l’omissione di parte delle informazioni necessarie al consumatore per valutare pienamente il prodotto, o informazioni relative ad una componente del prodotto che vengono invece assolutizzate o informazioni necessarie ma rese in modo da non poter essere fruite dal consumatore ecc. Sono, infine, applicabili alcune disposizioni dell’art. 23 c. cons. relativo ad una serie di pratiche considerate in ogni caso ingannevoli (v. lett. a) falsa informazione da parte del professionista di essere firmatario di un codice di condotta; falsa esibizione di un marchio di qualità o fiducia; lett. c) falsa affermazione che un codice di condotta abbia ricevuto l’approvazione di un organismo pubblico; e lett. d) falsa affermazione dell’approvazione della pratica da parte di un organismo pubblico o privato e, comunque, della rispondenza del prodotto alle condizioni dell’autorizzazione ricevuta).

[13] Si tratta degli Orientamenti per l’attuazione/applicazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali del 25.5.2016, COM(2016) 320 final.

[14] ”È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta (…) e in ogni caso lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso in relazione: a) alla natura del prodotto; b) alle sue caratteristiche principali, vantaggi, rischi, metodi di fabbricazione, origine geografica, risultati ecc.”.

[15] «La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono». In sostanza – si dice – «il claim ambientale per non essere fuorviante: deve essere presentato in modo chiaro, specifico, inequivocabile e accurato; deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili; non deve contenere riferimenti vaghi e generici ai benefici ambientali del prodotto offerto; deve essere formulato in modo da tenere in considerazione tutti gli aspetti rilevanti del ciclo di vita del prodotto; deve essere elaborato tenendo in considerazione la natura del prodotto; se comparativo deve basarsi sul confronto con beni che soddisfano analoghi bisogni e riguardare caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative degli stessi». Così A. Leone, Adversiting e tutela del consumatore verde, in Il diritto industriale, 1/2021, 77.

[16] Ovviamente ciò che assume rilevanza ai fini dell’applicazione della disciplina sulle pcs è che le asserzioni ambientali decettive, utilizzate dal professionista, siano idonee a condizionare le scelte commerciali del consumatore.

[17] Cfr. A. Leone, ocit., 85, note 37 e ss.

[18] Per una più ampia ricognizione casistico – giurisprudenziale cfr. C. Pappalardo, “Sottolineare il carattere ecologico di un prodotto nell’attuale momento storico, nel quale il valore ecologico riscuote la generalità dei consensi” – Trent’anni di Green Claim nella giurisprudenza del Giurì e dell’AGCM, in Riv. dir. industriale, n. 3/2021, 235 ss.

[19] Si tratta di PS11400 – ENI Diesel+/Pubblicità ingannevole, Provv. n. 280060 del 20 dicembre 2019.

[20] Nei fatti veniva pubblicizzato come green un carburante per autotrazione, per sua natura altamente inquinante, sicché l’utilizzo di vanti ambientali generici, come l’espressione green diesel, aveva creato tanta confusione sulle caratteristiche e sugli effetti di quel prodotto dall’impatto comunque negativo sull’ambiente.

[21] Si tratta del condizionamento all’acquisto che può subire il consumatore dovuto alla particolare impostazione informativa del messaggio.

[22] Si segnalano altri casi di greenwashing sanzionati dall’AGCM perché riconducibili alla violazione dei criteri stabiliti negli Orientamenti sull’attuazione della direttiva 2005/29/CE. Si veda, esemplificativamente, PS8438 – Welness Innovation Project – Pannolini naturali – Provv. 24438 del 3 luglio 2013; PI4874 – Turconi – Marchi e Certificazioni – Provv. n. 1472 del 14 settembre 2005; PI4927 – Sacchetti Coop. Degradabili al 100% – Provv. n. 1510 dell’11 gennaio 2006) ecc. Per una rapida ricognizione della giurisprudenza rilevante anche M. Tavella, Comunicazione commerciale e asserzioni ambientali, in Il diritto industriale, n.4/2020, 407.

[23] Di recente si veda la pronuncia del Giurì n. 39/2018 dell’11 maggio 2018 (Madel S.p.A. c. Real Chimica S.r.l.), in cui il messaggio pubblicitario del detergente Chanteclair Vert “100% Vert” – “Qualità 100% Vert Certificata” – “100% attivi di origine vegetale” – “Proprietà 100% Vert” – “Completamente biodegradabili” – “Da fonti rinnovabili” è stato considerato in contrasto con l’art. 2 c.a. limitatamente al claim “completamente biodegradabile”.

[24] Tra le ingiunzioni del Comitato di controllo, ad es., segnaliamo alcune ingiunzioni tratta dall’archivio IAP: l’ing. n. 46/21 del 12 novembre 2021, nei confronti di Anticimex S.r.l.; La7 S.p.A.; CAIRORCS MEDIA S.p.A. e relativa al messaggio pubblicitario che il prodotto Anticimex “… offre soluzioni di disinfestazione e derattizzazione smart … 100% green”. Tale espressione è stata considerata in contrasto con l’art. 12 c.a. in quanto «l’affermazione “100% green” non risulta in linea con quanto richiesto all’art. 12 del Codice, poiché il messaggio non permette di comprendere con chiarezza attraverso quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata si ottenga il beneficio ambientale vantato in termini così assoluti e perentori, che resta pertanto del tutto generico»; l’ing. n. 9/21 del 24/2/2021 nei confronti di Bluenergy Groop SpA relativamente al messaggio pubblicitario “Blu come il nostro gas a zero emissioni. Energy, come la nostra energia da fonti verdi e pulite. Con Bluenergy hai luce e gas a impatto nullo e zero sorprese”, “gas a zero emissioni”. Il messaggio in questione è stato considerato in contrasto con gli artt. 2 e12 c.a. perché «tali affermazioni veicolano promesse esorbitanti, idonee a indurre in errore i consumatori, in contrasto con i principi di correttezza e trasparenza posti alla base delle norme autodisciplinari. I claim “gas a zero emissioni” e “luce e gas a impatto nullo” accreditano infatti l’erroneo convincimento che la combustione del gas al domicilio non produca emissioni e che l’azienda in questione abbia messo in funzione comportamenti virtuosi capaci già di garantire in assoluto i perentori risultati vantati, laddove invece un’attività produttiva senza alcun impatto sull’ambiente non è di fatto concretizzabile, se non in termini di compensazione. Ma a tal proposito messaggio non permette di comprendere con chiarezza, come peraltro richiesto dall’art. 12 del Codice, attraverso quale aspetto dell’attività produttiva si ottengono i benefici ambientali vantati». Quanto alle pronunce del Giurì, sono molto note quelle che hanno considerato in contrasto con il c.a. i messaggi pubblicitari relativi al detergente per lavastoviglie “Finish Quantum Multimed”. Si tratta del provvedimento n. 16 bis/2020 del 21 aprile 2020 (Henkel Italia S.r.l. c. Reckitt Benckiser Commercial Italia S.r.l.), dove il vanto ambientale utilizzato era funzionale ad accreditarsi un plus ambientalistico, un pregio differenziale – il rendere superfluo il pre-risciacquo delle stoviglie – in realtà condiviso con altri prodotti similari; e sempre nel senso del contrasto con il c.a. si collocano le decisioni relative al detergente “Finish Quantum Ultimate”: vedi i provvedimenti n. 21/2020 del 25 maggio 2020 (Henkel Italia S.r.l. c. Reckitt Benckiser Commercial Italia S.r.l.) e n. 38/2020 del 23 luglio 2020 (Comitato di Controllo c. Reckitt Benckiser Commercial Italia s.r.l.). In qualche occasione, invece, il Giurì ha considerato corretto l’uso degli slogan ambientali. Sempre del 2020 è la decisione relativa ai messaggi pubblicitari concernenti la “Nocciolata Rigoni”. Nella decisione n. 27/2020 del 22 luglio 2020 (Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile c. Rigoni Asiago S.r.l.) il messaggio pubblicitario che definiva la nocciolata “buona per me e buona per il pianeta perché biologica e senza olio di palma”, è stato ritenuto conforme al c.a. in quanto la dicitura “senza olio di palma” veicolava un’informazione veritiera sulla conformazione del prodotto e potenzialmente rilevante per il consumatore, e la rivendicazione ambientale era collegata al carattere biologico del prodotto come dimostrato dall’art. 6 del c.a. Un altro esempio di green claim corretto si ha nella pronuncia n. 40/2019 del 23 luglio 2019 (Froneri Italy s.r.l. c. Unilever Italia MKT Operations s.r.l.), in cui il Giurì si è pronunciato sulla pubblicità relativa al packaging del gelato Carte d’Or “tutto il gusto di sempre … rispettando l’ambiente” – “COMPOSTABILE – RECUPERAMI NELL’UMIDO” – “riciclabili e compostabili” ed ha ritenuto il bollino verde con la dicitura “compostabile” posto sulle confezioni di gelato Carte D’Or conforme alle norme del Codice.

[25] Si tratta della pronuncia Comitato di Controllo c. Realchimica in archivio IAP.

[26] Critica questa decisione A. Leone, Adversiting e tutela del consumatore verde, cit., 89 s. per il quale le questioni sui benefici ecologici pongono normalmente questioni incerte persino agli addetti ai lavori per cui, a maggior ragione, dovrebbero risultare difficili per il consumatore privo di sensibilità per le tematiche ambientali. Da qui la necessità che ai consumatori sia assicurata «un’informazione accurata e verificabile senza che il consumatore si avventuri autonomamente in processi di decodifica non scontata dei messaggi».

[27] Gli Orientamenti, al par. 6.2, prevedono che “le ispezioni devono essere efficaci, chiare e trasparenti, basate su procedure documentate e far riferimento a criteri verificabili che sono alla base delle indicazioni date dal regime di certificazione”. Un importante supporto della comunicazione verde sono, infatti, le certificazioni ambientali che consentono al consumatore di avere certezza sulla reputazione ambientale dell’azienda o sulla reale eccellenza delle performance ambientali del prodotto o del servizio da acquistare. Le forme di certificazione ambientale sviluppate dalla Commissione Europea e dalle organizzazioni internazionali a disposizione delle aziende che vogliono utilizzarle come strumenti di marketing possono essere certificazioni che riguardano l’intero sistema di gestione ambientale dell’azienda (SGA), basate sulla norma ISO14001 e sul Reg. CE 1221/2009, e concernenti, appunto, tutta la produzione ed i processi aziendali, oppure certificazioni che riguardano il singolo prodotto ed il suo ciclo di vita. Tra queste ultime si registrano le etichette ambientali di tipo 1, come il marchio Ecolabel, affidate ad un ente indipendente che certifica l’intero ciclo di vita del prodotto; le etichette con autodichiarazioni ambientali volontarie, di tipo 2, provenienti dallo stesso produttore e non da un ente terzo certificatore, e le dichiarazioni ambientali di prodotto, di tipo 3, basate su indicatori predefiniti e validate da un ente indipendente accreditato. In Italia, il legislatore ha introdotto uno schema volontario nazionale di valutazione dell’impronta ambientale, denominato “Made Green in Italy”, istituito con legge n. 221/2015, avente l’obiettivo di incrementare la competitività del nostro sistema produttivo, valorizzando i prodotti ad elevata qualificazione ambientale sui mercati nazionali ed internazionali. Ovviamente soltanto in presenza dei requisiti ambientali richiesti le nostre aziende potranno essere autorizzate dal Ministero dell’Ambiente ad utilizzare il logo “Made Green in Italy” per un periodo di tre anni e con possibilità di rinnovo.

[28] Cfr. banca dati ONELEGALE voce Concorrenza e Pubblicità, 11 agosto 2022. Per un caso più recente di greenwashing su cui è intervenuta la massima giurisdizione amministrativa cfr. CONS. STATO 8.2.2021, in banca dati ONE LEGALE, voce Energia elettrica– Sanzioni amministrative e depenalizzazione. Anche in questa ipotesi – a seguito appello avverso una sentenza del TAR Lazio n. 8470/2018, che confermava il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM contro la società S.E. S.r.l. per pratica commerciale scorretta consistente nell’uso del claim “a costo zero” relativo all’installazione di impianti fotovoltaici (claim idoneo a fondare ragionevoli aspettative di gratuità negli acquirenti) e disponendone la cessazione con la previsione di una sanzione amministrativa complessiva di 40.000 euro – il Consiglio di Stato ha ritenuto l’appello inammissibile confermando il corretto operato dell’AGCM.

[29] Peraltro, l’osservanza della diligenza professionale avrebbe imposto al professionista di comunicare informazioni e risultati solo a fronte di precisi, attendibili e verificabili riscontri scientifici e documentali. In questo senso si era già espresso il Consiglio di Stato nel 2015 dove si è ribadito che “l’onere di completezza e chiarezza informativa imposto dalla normativa di settore ai professionisti richiede, in sostanza, alla stregua del canone di diligenza, che ogni comunicazione ai consumatori rappresenti i caratteri essenziali di quanto la stessa mira a reclamizzare. Sotto tale profilo, ad integrare una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice del Consumo può rilevare ogni omissione informativa che, se del caso combinandosi con la enfatizzazione di taluni elementi del servizio offerto, renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell’offerta o del prodotto, inducendo in tal modo in errore il consumatore e condizionandolo nell’assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato”.

[30] Sul punto cfr. A. Quaranta, La retorica green e le comunicazioni ingannevoli: il greenwashing per la prima volta al vaglio del giudice di merito, in Ambiente & sviluppo, n. 6/2022, 403 ss.

[31] Cfr. E. Simionato, Alcantara – MIKO: è condanna al greenwashing, in www.iusinitinere.it del 23 dicembre 2021. La sentenza Trib. Gorizia, 25 novembre 2021 è reperibile nella banca dati ONE LEGALE WKI voce Concorrenza e pubblicità, Concorrenza sleale.

[32] Sulla responsabilità “sociale” delle imprese cfr. F. Bertelli, I green claims tra diritti del consumatore e tutela della concorrenza, in Contr. e Impr., n. 1/2021, 286 ss., ove ampi riferimenti alla letteratura straniera, nonché C. Angelici, Divagazioni sulla «responsabilità sociale» d’impresa, in Riv. soc., 2018, 3 ss. Tra gli esempi di responsabilità sociale delle imprese parecchio noto è lo scandalo dieselgate. In argomento, ex multis, E. Camilleri, Consumatore – «qualità pubblicizzate e affidamento del consumatore. Spunti per il caso dieselgate»?, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 704 ss. Garaci, Il dieselgate. Riflessioni sul private e public enforcement nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Riv. dir. ind., 2018, I, 61 ss.; Rajneri, Illeciti lucrativi, efficacia dissuasiva dei rimedi e responsabilità sociale d’impresa. Riflessioni a margine del «dieselgate», in Riv. crit. dir. priv., 2017, 397 ss.; F. Bertelli, Profili civilistici del «dieselgate». Questioni risolte e tensioni irrisolte tra mercato e sostenibilità, Napoli, 2021. In giurisprudenza cfr. Trib. Venezia, 7 luglio 2021, in Danno e resp., n. 2/2022, 239 ss., con nota di P. Santoro, Dieselgate italiano: (e)mission impossible. Il Tribunale di Venezia accoglie la class action e, in sintonia con i Tribunali di Avellino e Genova, riconosce il risarcimento dei danni da illecito antitrust e da pratiche commerciali scorrette; e in NGCC, n. 6/2021, con nota di F. Ruggiero, Class action, pratiche commerciali scorrette e danni non patrimoniali: la recente pronuncia del Tribunale di Venezia.

[33] Occorre sottolineare, infatti, che le pronunce di condanna per pratiche commerciali scorrette da parte dell’AGCM sono costituite da sanzioni economiche spesso elevate come i 5 milioni di euro inflitti all’ENI. Questo può rappresentare un valido deterrente per le aziende che fanno greenwashing anche se un deterrente più efficace è sicuramente rappresentato dalla perdita di reputazione e di credibilità dell’impresa che, a sua volta, può tradursi nella riduzione di investimenti, di partners commerciali o nella perdita del potere di mercato. Per un inasprimento delle sanzioni economiche si veda anche la nuova direttiva sulle pcs (2019/2161/UE) che eleva le stesse al 4% del fatturato annuo del professionista nello Stato membro interessato.

[34] Ci sono, cioè, soggetti che, a vario titolo, collaborano alla realizzazione del prodotto ecosostenibile, poi pubblicizzato con i green claims. E ciascuno di essi, per non incorrere in un deficit di diligenza professionale, deve rispettare i propri obblighi.

[35] Si tratta di Cons. Stato, sez. IV, n. 4753/2012 per il quale: “l’interposizione di uno o più soggetti nel rapporto fra l’operatore commerciale e la clientela non esclude la responsabilità dell’operatore, né attribuisce alla stessa natura oggettiva. Infatti devono essere ricondotte ai parametri della responsabilità colposa eventuali violazioni dell’obbligo di diligenza professionale assunto dal Codice del Consumo a criterio principe di imputazione, in termini di colpevolezza, delle pcs lesive delle sfere giuridiche dei consumatori (siano detti parametri qualificati come colpa da organizzazione, oppure come culpa in eligendo o in vigilando)”.

[36] Cfr. Tar Lazio, 9 marzo 2018, n. 3063, PS 10543 – Alfa caravan Omologazione Veicolo – Provv. n. 26325, ma anche Giurì n. 45/2018. In dottrina evidenzia A. Leone, op. cit., 93 che la responsabilità nell’ambito del rapporto professionista/terzo incaricato si muove su un piano di completa estraneità rispetto a quello fra professionista e consumatore. Diversamente – si dice – «l’effetto deterrente della sanzione applicata in caso di pcs verrebbe neutralizzato sottraendo di fatto il professionista alla responsabilità da illecito amministrativo».

[37] Nello specifico i concorrenti potrebbero essere indirettamente danneggiati dal vantaggio competitivo ottenuto dall’azienda che si professa socialmente responsabile e, così facendo, «attira» i consumatori etici; oppure potrebbero esserlo direttamente perché il timore di subire le conseguenze delle ricadute reputazionali favorevoli alla concorrente dichiaratasi socialmente responsabile, li induce a sopportare i costi necessari per «uniformarsi» alle politiche di CSR che risultino dichiarate a mero scopo reclamistico. Così F. Bertelli, op. cit., 303.

[38] Sul punto, in particolare G. Vettori, Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione tra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, Milano, 1983, 113.

[39] Lo rileva bene C. Magli, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici nel contesto della responsabilità sociale d’im­presa, in Contr. e Impr., n. 2/2019, 731 ss. la quale evidenzia anche il problema del dolo omissivo ovvero l’ipotesi in cui il professionista ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno ai fini di prendere una decisione commerciale consapevole e che lo induca – o sia idonea ad indurlo – a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso e le ipotesi nelle quali un professionista occulti o presenti in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti, o non indichi l’intento commerciale della pratica stessa, qualora non risultino già evidenti dal contesto e quando, in uno o nell’altro caso, ciò induca o è idoneo a indurre il consumatore che non avrebbe altrimenti preso. Si tratta di ipotesi cui la normativa sulle pcs dà rilievo, ma lo stesso non è a dirsi per la disciplina codicistica tanto che, per la giurisprudenza (Cass., 8 maggio 2018, n. 11009, in Giust. civ. mass., 2018; Cass., 30 marzo 2017, n. 8260, in Giust. civ. mass., 2017) la fattispecie di dolo omissivo potrà determinare l’annullamento del contratto «solamente qualora l’inerzia o il silenzio di uno dei contraenti si inserisca in un comportamento complesso, adeguatamente preordinato, con malizia ed astuzia, ad ingannare la controparte». Di conseguenza – si dice – «qualora il professionista ometta di informare il consumatore con riguardo a scelte sociali concernenti le modalità di produzione del bene (e che incidono, per esempio, in materia di sostenibilità ambientale) il predetto silenzio non comporta automaticamente l’annullamento del contratto ma, a tal fine, il consumatore dovrà fornire la non agevole prova che la condotta complessiva posta in essere dal professionista medesimo è intenzionalmente finalizzata a trarre in inganno il consumatore stesso al fine di limitare la capacità del medesimo di prendere una decisione consapevole ed influenzare con l’inganno le decisioni di natura commerciale relative ai prodotti».

[40] Per questa possibilità cfr. ancora C. Magli, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici nel contesto della responsabilità sociale d’impresa, cit., 734 s. la quale evidenzia come i rimedi ripristinatori, oltre a risultare sproporzionati ed eccessivi, sarebbero anche inutili con riferimento all’obiettivo di moralizzare l’attività produttiva dell’impresa.

[41] Si pensi, ad es., alle ipotesi in cui l’impresa non tenga fede agli impegni contenuti nel codice di condotta che la stessa si è impegnata a rispettare e che ha inserito nel proprio sito web.

[42] Sul carattere di principio generale dell’art. 20 c. cons. su cui fondare l’interpretazione dell’intera disciplina cfr. M. Libertini, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contr. e Impr., 2009, 78.

[43] L’art. 18 lett. h) del c. cons. definisce la diligenza professionale come «il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista». Come è stato giustamente osservato in dottrina (cfr. G. De Cristofaro, Sub art. 20, in G. De Cristofaro, A. Zaccaria, Commentario breve al diritto dei consumatori, II ed., Padova, 2013), il concetto di diligenza professionale è nozione propria ed autonoma della disciplina delle pcs che nulla ha a che fare con la nozione civilistica di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni e di colpa nell’illecito civile extracontrattuale. Le regole di diligenza professionale sono «regole oggettive di comportamento corrispondenti ad un determinato grado/livello di conoscenze specialistiche, di cura e d’at­tenzione (alla sfera degli interessi patrimoniali dei consumatori…) che il professionista è tenuto ad osservare nelle pratiche commerciali che pone in essere nei confronti dei consumatori». Il livello di competenza e di attenzione dovuto dal professionista viene determinato in base ai parametri della correttezza e della buona fede dovuti nel settore di attività del professionista. Di conseguenza cautele, comportamenti e livello di cura e competenza dovuti ex fide bona dal professionista varieranno sia in relazione ai destinatari della pratica, sia in relazione alle caratteristiche che connotano il settore di attività del professionista. Sui rapporti tra diligenza professionale e buona fede cfr. altresì M. Libertini, op. ult. cit., 89 ss. e F. Piraino, Diligenza, buona fede e ragionevolezza nelle pratiche commerciali scorrette. Ipotesi sulla ragionevolezza nel diritto privato, in Eur. dir. priv., 2010, 1160.

[44] Così F. Bertelli, op. cit., 300.

[45] Cfr. ancora F. Bertelli, op. cit., 313.

[46] Cfr. E. Minervini, La trasparenza contrattuale, in Contratti, 2011, 980 s., ma in generale sul principio di vincolatività delle informazioni precontrattuali rese al consumatore prima della stipula del contratto vedi, tra gli altri, G. De Nova, Informazione e contratto: il regolamento contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, 708 s.; F. Cafaggi, Pubblicità commerciale, in Dig. disc. priv., sez, comm. XI, Torino, 1995, 484; E. Capobianco, Diritto comunitario e trasformazioni del contratto, Napoli, 2003, 45 ss.; T. Febbrajo, L’informazione ingannevole nei contratti del consumatore, Napoli, 2006, 130 ss.; F. Greco, Verso la contrattualizzazione dell’informazione precontrattuale, in Rass. dir. civ., 2007, 1140; G. D’Amico, voce Formazione del contratto, in Enc. dir., Annali, II, 2, Milano, 2008, 592; G. Grisi, Gli obblighi di informazione, in Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino, 2002, 150 ss.; Id., Informazioni (obblighi di), in Enc. dir., Annali, Milano, 2011, 624; R. Alessi, Consensus ad idem e responsabilità contrattuale, in Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele, cit., 128 ss.; Rende, Informazione e consenso nella costruzione del regolamento contrattuale, Milano, 2012. In giurisprudenza cfr., esemplificativamente, Trib. Ferrara 28 settembre 2007, in Banca borsa tit. cred., 2008, 165.

[47] Per un commento alla disposizione cfr., per tutti, F. Rende, Sub art. 49, in G. D’Amico (a cura di), La riforma del codice del consumo, Commentario al D. lgs. n. 21/2014, Padova, 2015, 124 ss.

[48] La vincolatività delle informazioni precontrattuali, viene accolta, quale regola generale, anche in alcuni strumenti di soft law (art.4:105 dei Principi Acquis; nel Draft Common Frame of Reference, all’art. 3:109 del II libro delle Model Rules; nell’art. 69 dell’Allegato I della Proposta di regolamento relativo ad un «diritto comune europeo della vendita», c.d. Cesl). Sul punto riferimenti in T. Febbrajo, L’attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori e il suo impatto sulle tutele contrattuali, in Ce I/Europa, n.2, 2015, 496 ss.

[49] L’espressione – idonea ad alludere il carattere subdolo e ingannevole delle tecniche contrattuali impiegate nei contratti negoziati fuori dai locali commerciali o a distanza – appartiene a G. D’Amico, voce Formazione del contratto, cit., 575.

[50] Così T. Febbrajo, L’attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori e il suo impatto sulle tutele contrattuali, cit. 495. L’A. evidenzia anche la logica della previsione in commento, data dalla circostanza che «il consenso del consumatore matura sulla base delle informazioni preliminari e non già sull’analisi del documento negoziale ed è volta a scongiurare l’inserimento, nelle condizioni generali di contratto, di clausole «a sorpresa». Il contratto potrà avere un contenuto difforme rispetto a quello delle informazioni solo in presenza di un accordo tra le parti». Sulla natura vincolante dell’informazione precontrattuale vedi, altresì, R. Alessi, L’attuazione della direttiva sulla vendita dei beni di consumo nel diritto italiano, in Europa e dir. priv., 2004, 758; S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2012, 209. F. Rende, Nuove tecniche di condizionamento delle scelte di consumo e rimedi conformativi del regolamento contrattuale, in Contratti, 2012, 747.

[51] La norma, infatti, prevede che le informazioni precontrattuali fornite al viaggiatore ai sensi dell’art. 34 e quindi prima della conclusione del contratto di pacchetto turistico, formano parte integrante di esso e non possono essere modificate salvo accordo esplicito delle parti contraenti. Peraltro, è fatto obbligo all’organizzatore ed al venditore di comunicare al viaggiatore tutte le modifiche delle informazioni precontrattuali in modo chiaro ed evidente prima della conclusione del contratto.

[52] L’espressione appartiene a R. Alessi, in Castronovo e Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, II, Milano, 2007, 426.

[53] Prima della direttiva del 2019 la norma che si occupava della conformità al contratto (art. 129 c. cons.) prevedeva, al comma 2, una presunzione di conformità dei beni al contratto qualora gli stessi presentassero, tra l’altro, (lett. c) «la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura». Si trattava di una presunzione iuris tantum che consentiva al venditore la prova contraria e, quindi, la possibilità di svincolarsi dalle dichiarazioni pubbliche, dimostrando, anche in via alternativa, che: a) non era a conoscenza della dichiarazione e non poteva conoscerla con l’ordinaria diligenza; b) la dichiarazione è stata adeguatamente corretta entro il momento della conclusione del contratto in modo da essere conoscibile al consumatore; c) la decisione di acquistare il bene di consumo non è stata influenzata dalla dichiarazione. La norma è stata interpretata nel senso di considerare rilevanti tutte le tipologie di comunicazione sulle caratteristiche specifiche dei beni escluse quelle integranti il dolus bonus (v. E. Corso, Vendita di beni di consumo, Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 2005, 83 s.; C. Caricato, Garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo – Capo I – Della vendita dei beni di consumo – Art. 129 Conformità del contratto – III, in Nuove Leggi civ. comm., n. 2/2006, 419; M. Girolami, I criteri di conformità al contratto fra promissio negoziale e determinazione legislativa nel sistema dell’art. 129 del codice del consumo, in Riv. dir. civ., 2006, I, 241) fino a ricomprendere qualunque condotta idonea a fornire dati relativi alla qualità e alle prestazioni funzionali dello specifico prodotto, incluse le telepromozioni o le interviste rilasciate circa le caratteristiche del prodotto (v. A. Zaccaria, G. De Cristofaro, La vendita dei beni di consumo, Padova, 2002, 50; C. Caricato, op. cit., 419 s.). È interessante notare come il venditore risponda anche della dichiarazione resa dal suo rappresentante, inteso in senso atecnico – volendo indicare un soggetto il cui legame con il venditore sia tale da ingenerare nel compratore un ragionevole affidamento (v. A. Zaccaria, G. De Cristofaro, op. cit., ibidem; M. Girolami, op. cit., ibidem; contra P.M. Vecchi, in Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, diretto da L. Garofalo, Padova, 2003, 201 ss.) – o da un terzo contro il quale avrà comunque, ex art. 131 c. cons., azione di regresso. Con riguardo alle scriminanti di cui al comma 4 dell’art. 129 c. cons. occorre effettuare qualche precisazione. In ordine alla lett. a) va sottolineato che la norma si riferisce alla mancata conoscenza al momento della conclusione del contratto, sempre che il venditore dimostri di aver usato tutta l’ordinaria diligenza al riguardo. Tale diligenza, però, sarà quella qualificata dalla natura professionale dell’attività svolta e, in considerazione di ciò, si potrà presumere ad es. la conoscenza da parte del venditore di una campagna pubblicitaria nazionale – cartacea, a mezzo televisione, radio o nel sito aziendale –, o di quanto si legge nell’etichetta del prodotto, richiedendosi allo stesso per esonerarsi dalla responsabilità la difficile dimostrazione dell’oggettiva impossibilità di conoscere. Con riferimento alla lett. b) e, quindi, alla correzione della dichiarazione pubblica al momento della conclusione del contratto, in dottrina si ritiene che rilevino tutte le correzioni che il consumatore poteva conoscere, in quanto rese oggettivamente conoscibili con mezzi idonei dal venditore, ma anche quelle delle quali comunque il consumatore sia giunto a conoscenza entro il momento della conclusione del contratto. In ogni caso la correzione dovrà essere valutata sotto il duplice profilo della adeguatezza contenutistica e dell’efficacia della «smentita», nel senso della sua conoscibilità da parte del consumatore (C. Caricato, op. cit., 423). Sicuramente ardua, se non impossibile, è la terza scriminante, rappresentata dalla dimostrazione da parte del venditore della non influenza sulla volontà del consumatore della dichiarazione pubblica. Si tratterebbe, infatti, di dover indagare dall’esterno la volontà intima del consumatore. Sull’interpretazione dell’art. 129 c. cons., per tutti, Girolami, Sub. Art. 129, in Comm. breve al diritto dei consumatori, Padova, 2013, 814 ss.

[54] In argomento cfr. G. De Cristofaro, Verso la riforma della disciplina delle vendite mobiliari b-to-c: l’attuazione della Dir. Ue 2019/771, in Riv. dir. civ., n. 2, 2021, 205 ss.; A. Barenghi, Osservazioni sulla nuova disciplina nella vendita di beni di consumo, in Contr. e Impr., 2020, 806 ss.; Aa.Vv., La vendita di beni mobili a cura di D. Dalla Massara, Pisa, 2020; A. De Franceschi, La vendita di beni con elementi digitali, Napoli, 2019.

[55] Sul punto D. Imbruglia, Mercato unico sostenibile e diritto dei consumatori, cit., 504 s.

[56] Si tratta di Trib. Venezia, 7 luglio 2021, cit. Con riguardo allo scandalo Dieselgate particolare interesse assume anche l’ordinanza del 7 gennaio 2022, n. 68 (il testo del provvedimento è reperibile su https://www.freshfields.hk/48ec38/
contentassets/a9a378d691684d6d944ca8c85439330f/Cons. Stato-ordinanza-68-022.pdf) con cui il Consiglio di Stato – adito per riformare la sentenza del T.A.R. Lazio n.6920/2019 che rigettava il ricorso di alcune società del gruppo Volkswagen sanzionate dall’AGCM per slogan ambientali ingannevoli – ha ritenuto necessario, per decidere la controversia, sollevare alcune questioni pregiudiziali alla CGUE (cfr. Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato (Italia) l’11 gennaio 2022 – Volkswagen Group Italia S.p.A., Volkswagen Aktiengesellschaft / Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Causa C-27/22), in GUUE, C-128/11, 21 marzo 2022) . In particolare, si poneva il problema se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette potessero qualificarsi come sanzioni amministrative di natura penale e, in caso affermativo, si chiedeva alla Corte di Giustizia di chiarire se l’art. 50 della Carta di Nizza (che contempla il divieto di ne bis in idem) ostacolasse una normativa nazionale favorevole al cumulo della sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale, inflitta ad una persona giuridica e per condotte illecite che integrano una pcs, con la condanna penale pronunciata per la stessa condotta e nei confronti della stessa persona giuridica in altro Stato del­l’Unione, qualora la stessa fosse divenuta definitiva prima del passaggio in giudicato dell’impugnativa giurisdizionale della sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale e, appurata la mancanza di ostacoli, se la disciplina della Direttiva sulle pratiche commerciali scorrette (segnatamente gli artt. 3, par. 4 e 13, par. 2, lett. e) potesse giustificare una deroga al divieto di ne bis in idem stabilito oltre che dall’art. 50 Carta di Nizza (ora incorporata nel TUE), anche dall’art. 54 della convenzione di Schengen.