Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Tecniche civilistiche di tutela del lavoro autonomo e divieto di abuso di dipendenza economica (di Stefano Gatti, Ricercatore di Diritto privato – Università degli Studi di Verona)


Il panorama delle norme di diritto privato a tutela dei contraenti deboli si è recentemente arricchito della disciplina di protezione del lavoratore autonomo. In un’area di confine tra il diritto civile e il diritto del lavoro, la legge n. 81/2017 (c.d. Jobs Act del lavoro autonomo) estende l’applicazione di diverse norme speciali di diritto civile che regolano i rapporti tra imprese e, secondo uno schema ormai ricorrente, individua alcune clausole che, nei contratti di cui è parte il lavoratore autonomo, devono ritenersi abusive e dunque inefficaci. Le norme del Jobs act del 2017, unitamente a quelle dettate dall’art. 13-bis l. n. 247/2012, a favore degli avvocati e degli altri professionisti nei rapporti con grandi imprese, danno forma ad un quadro stratificato di tutele. Questo contributo si propone di esaminare i diversi ambiti di applicazione delle nuove norme e si interroga sulla portata innovativa e sulla concreta effettività della protezione offerta dal diritto civile al lavoratore autonomo, alla luce delle specifiche esigenze di tutela questo soggetto (molte delle quali evidenti nella paradigmatica figura del lavoratore della cultura). Particolare attenzione è rivolta al significato del richiamo del divieto di abuso di dipendenza economica (art. 3, comma 4, l. n. 81/2017) e al problema, avvertito anche nei rapporti in cui è parte il lavoratore autonomo, dell’abuso che consiste nell’imposizione di un compenso iniquo.

Parole chiave: Lavoro autonomo – Tutela del contraente debole nei rapporti asimmetrici – Divieto di abuso di dipendenza economica – Self-employment – Protection of the weaker party in asymmetrical contractual relationships – Prohibition of abuse of economic dependence.

Civil law tools for the protection of self-employment and the prohibition of abuse of economic dependence

The landscape of private law rules protecting weaker parties in contractual relationships has recently been enriched by the regulation defending the interests of self-employed workers. In a borderline area between civil law and labor law, Law No. 81/2017 (the so-called Jobs Act of self-employment) extends the application of several special civil law rules governing business-to-business relations. Moreover, following a now-recurring pattern, the law identifies certain clauses that, in contracts to which the self-employed worker is a party, must be deemed unfair and therefore ineffective. The rules of the Jobs act of 2017, together with those laid down in Art. 13-bis of Law No. 247/2012 in favor of lawyers and other professionals parties to transactions with large companies, shape a layered framework of protections. This paper aims to examine the different scopes of application of the new rules and questions the innovative meaning and practical effectiveness of the protection offered by civil law to self-employed workers, in light of the specific needs of these individuals (many of these needs are evident in the paradigmatic figure of the self-employed worker in the field of culture). The study focuses in particular on the meaning of the reference in Article 3(4) of Law No. 81/2017 to the prohibition of abuse of economic dependence and addresses the problem, which also affects contracts to which the self-employed worker is a party, of abuses consisting in the imposition of unfair compensation.

Keywords: Civil law tools for the protection of self-employment and the prohibition of abuse of economic dependence.

SOMMARIO:

1. Le tutele civilistiche del lavoro autonomo nella l. 81/2017 - 2. L’ambito di applicazione dell’art. 9 l. n. 192/1998 - 3. La «dipendenza economica» e l’«abuso» quali presupposti della tutela dell’art. 9 l. subf. e il problema della loro rilevanza nelle declinazioni settoriali del divieto, quale quella a favore dei lavoratori autonomi - 4. Segue. Declinazioni settoriali del divieto di abuso di dipendenza economica e intersezioni con altre discipline che tutelano il contraente debole - 5. Una tutela civilistica composita del lavoratore autonomo. La tutela contro le clausole vessatorie - 6. Segue. Carattere integrativo e non sostitutivo della tutela rispetto alla disciplina codicistica: in particolare, il «congruo preavviso» per il recesso nei contratti «aventi ad oggetto una prestazione continuativa» - 7. Il divieto di abuso di dipendenza economica del lavoratore autonomo - 8. La questione dei rimedi all’abuso di dipendenza economica: in particolare, all’abuso che consiste nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose - 9. Considerazioni conclusive: sull’effettività delle tutele, alla luce delle peculiarità delle singole categorie (con uno sguardo rivolto ai lavoratori della cultura) - NOTE


1. Le tutele civilistiche del lavoro autonomo nella l. 81/2017

È noto come, negli ultimi decenni, il diritto privato patrimoniale abbia sviluppato una crescente sensibilità verso i rapporti negoziali asimmetrici: su impulso del diritto eurounitario, ma anche su iniziativa del legislatore interno, è andato così progressivamente incrinandosi il dogma dell’intangibilità delle scelte dei contraenti («qui dit contractuel dit juste») [1].

La legislazione speciale, pur con tecniche differenti, ha moltiplicato le occasioni di un controllo esterno sul contenuto del negozio: si tratta di ipotesi, che, seppure eterogenee, risultano però tutte accomunate dal­l’esigenza di porre un limite, contenutistico o di procedimento, alla libertà negoziale in contesti asimmetrici.

L’attenzione si è anzitutto concentrata sui rapporti tra consumatore e professionista (B2C), specialmente grazie all’impulso delle direttive europee (c.d. «secondo contratto»); di lì a poco, sono però fiorite altresì disposizioni che, in modo più puntiforme, si occupano dei contratti conclusi con imprese in posizione di debolezza contrattuale (B2B: si tratta del c.d. «terzo contratto») [2]. La massima espressione della tutela consumeristica è senza dubbio la tutela contro le clausole vessatorie, a cui si accompagna lo statuto della nullità di protezione [3]; la disciplina di questa forma di invalidità (parziale e “a vantaggio” esclusivo della parte protetta) è divenuta un punto di riferimento obbligato per la riflessione anche nel contesto dei rapporti tra imprese.

Il diritto privato dei contraenti deboli ha infine conosciuto due linee di evoluzione ulteriore: la prima, tesa a intercettare le più recenti epifanie dell’asimmetria nel mercato digitale [4]; la seconda, volta ad estendere progressivamente l’ambito di applicazione dei meccanismi protettivi sperimentati in altri contesti caratterizzati da squilibri di forza suscettibili di tradursi in abusi della parte forte.

In questo secondo filone rientrano le tutele civilistiche dei lavoratori autonomi, delineate dagli articoli 2 e 3 della l. 22 maggio 2017, n. 81 (c.d. Jobs Act degli autonomi), oltre che dalla più dettagliata (ma, ad un tempo, più circoscritta) disciplina dell’art. 13-bis l. 31 dicembre 2012, n. 247, introdotto dal d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 dicembre 2017, n. 172 (disciplina sull’equo compenso e di contrasto alle clausole vessatorie nei rapporti tra avvocati – e altri professionisti, visto il rinvio operato dall’art. 19-quaterdecies, comma 2, d.l. n. 148/2017 – e grandi imprese) [5].

La l. n. 81/2017 ha in particolare esteso ai lavoratori autonomi non imprenditori [6] i tre capisaldi della tutela dell’impresa debole: a) la disciplina dei termini di pagamento nelle transazioni commerciali, che ha l’obiettivo di contenerne i tempi, contrastando gli abusi di autonomia contrattuale sul punto (art. 2) [7]; b) la previsione, in via preferenziale, della forma scritta per il contratto stipulato con l’impresa, onere che, nel contesto asimmetrico, si carica di significati e contenuti ulteriori rispetto a quelli tradizionali (c.d. neoformalismo) (art. 3, comma 2) [8]; c) il controllo sul contenuto del contratto, con il bando di alcune pratiche considerate sleali e la conseguente inefficacia delle clausole che le prevedono (art. 3, comma 1, che definisce tali clausole «abusive»); d) il divieto di abuso di dipendenza economica, attraverso il richiamo delle disposizioni «in quanto compatibili», dettate dall’art. 9 l. 18 giugno 1998, n. 192 (d’ora in poi, l. subf.) (art. 3, comma 4).

Nei rapporti coi cc.dd. grandi clienti (specialmente, ma non esclusivamente, banche e assicurazioni), regolati da convenzioni, inoltre, si applicano, a favore dei professionisti, le più stringenti tutele previste dal citato art. 13-bis l. n. 247/2012. Questo articolo muove dalla presunzione – vincibile con la prova contraria (comma 3) – che tali convenzioni siano state unilateralmente predisposte dal cliente; prevede dunque, in primo luogo, un meccanismo di controllo della proporzionalità del corrispettivo pattuito, con il potere del giudice di sostituire (e dunque correggere) la clausola che lo stabilisce e, in secondo luogo, un elenco di pattuizioni che si considerano vessatorie e, dunque, nulle, secondo uno statuto (di protezione) simile a quello a tutela del consumatore (art. 36 cod. cons.).

Con l’eccezione delle disposizioni da ultimo considerate, che riguardano una limitata area dei rapporti del lavoratore autonomo [9], il problema del sindacato sull’equilibrio economico del contratto è affidato alla norma del divieto di abuso di dipendenza economica: le clausole «abusive e prive di effetto» di cui all’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017 attengono infatti esclusivamente a profili normativi del rapporto, quali il diritto di recesso e il tempo dell’adempimento.

Nell’architettura legislativa della l. n. 81/2017, il rinvio all’art. 9 l. subf. si rivela allora centrale. Tale rinvio, tuttavia, reca con sé tutta una serie di problemi già noti agli studiosi di questa norma, i quali, confrontandosi con le specificità delle esigenze di tutela del lavoratore autonomo, danno vita ad ulteriori questioni, su cui, in questo scritto, ci si intende soffermare.

Si fa riferimento, in particolare, sia ai presupposti di applicazione del divieto – tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico, specialmente della prova – sia ai rimedi a disposizione della parte lesa.

L’obiettivo di questa riflessione è misurare l’effettività della protezione accordata da questa disposizione nel contesto del lavoro autonomo, con uno sguardo particolare a quello dei lavoratori della “cultura”, alla luce delle peculiarità che qui caratterizzano la prestazione lavorativa [10]. Questa valutazione rappresenta del resto un tassello fondamentale per verificare in quale misura possa dirsi realmente avviata la sistematizzazione di una declinazione ulteriore del diritto privato dei rapporti asimmetrici, secondo l’etichetta, recentemente coniata da un’autorevole dottrina civilistica, di un c.d. «quarto contratto» [11].


2. L’ambito di applicazione dell’art. 9 l. n. 192/1998

Mettere a fuoco l’ambito di applicazione dell’art. 9 l. subf. è un’operazione complessa, anche se si limita l’attenzione sul solo perimetro originario della norma e non si considerano, dunque, né le successive estensioni normative, quale è quella operata dalla l. n. 81/2017, né le ulteriori disposizioni che ne costituiscono particolari applicazioni in settori specifici [12].

La ragione di questa complessità può essere intuita ripercorrendo la travagliata genesi del divieto [13], largamente influenzata dalla doppia anima della previsione, la quale, ad un tempo, risponde ad esigenze di regolazione della concorrenza e introduce, nel contesto delle relazioni commerciali tra imprese, un limite funzionale ad evitare che le disparità di forza contrattuale si traducano in condizioni irragionevolmente pregiudizievoli per la parte debole [14].

L’attuale previsione è inserita nella disciplina del contratto di subfornitura (l. n. 192/1998), espressione, questa, che non indica un tipo contrattuale, ma una categoria transtipica: si intende, cioè, che, a prescindere dal contratto concretamente concluso (ad es., vendita, somministrazione, appalto, contratto d’opera), qualora il negozio risponda alla definizione di cui all’art. 1, l. cit. [15], ad esso si applicheranno anche le regole della subfornitura, protettive nei confronti dell’impresa fornitrice [16].

All’interno di questa disciplina, il dettato dell’art. 9 si caratterizza per una vocazione ancora più espansiva.

Anche seguendo la più risalente e restrittiva posizione giurisprudenziale, che appunto limitava l’ambito di applicazione del divieto alle sole fattispecie di abuso inquadrabili entro la definizione di subfornitura [17], il dato letterale imponeva di riconoscere, a differenza delle altre disposizioni della legge, la bidirezionalità della tutela, atteso che la formulazione indica inequivocabilmente che anche l’impresa «cliente» (e dunque la «committente», in base alla definizione dell’art. 1, l. cit.) possa rivestire, nella concreta relazione contrattuale, il ruolo di parte debole [18].

Lo stesso dato letterale – che discorre più genericamente di imprese «clienti» e «fornitrici» – ha ben presto offerto il destro alla lettura, divenuta rapidamente dominante in dottrina e in giurisprudenza, che attribuisce al divieto in esame una portata generalizzata, estesa a tutti i rapporti tra «imprese» [19]. Queste espressioni tradiscono infatti il duplice intento del legislatore di introdurre un limite all’esercizio della libertà negoziale e correggere le distorsioni del mercato, portato indesiderato della concorrenza lasciata senza freni.

Tale doppia chiave di lettura concorre, dal lato soggettivo, a tracciare il perimetro applicativo della nozione di «impresa», sottesa all’art. 9.

Come è stato chiarito in dottrina, il legislatore ha inteso riferirsi non (sol)tanto alla nozione di imprenditore di cui all’art. 2082 cod. civ. [20], ma a quella, più generale, rilevante per il diritto europeo della concorrenza [21]: gli argomenti addotti a sostegno di questa conclusione si richiamano appunto alla genesi della norma e al suo stretto legame con l’abuso di posizione dominante. Conformemente al diritto antitrust [22], sono dunque considerati tutti i soggetti economici, che, a prescindere dalla loro conformazione, operano sul mercato e che, di conseguenza, possono essere parte dei conflitti che qui si generano e che la norma contribuisce a regolare [23]. Si tratta di una nozione che, nella sua ampiezza, è del tutto simile a quella di «professionista» nel diritto dei consumatori (colui «che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale», art. 3, lett. c], cod. cons.). Un argomento a favore della coincidenza tra i due concetti si ricava riguardando la norma nella sua parallela dimensione contrattuale: il divieto, infatti, si traduce in un limite all’esercizio della libertà negoziale al quale non vi è ragione di dare un ambito applicativo diverso da quello che risulta dalla disciplina dei rapporti B2C, rilevante essendo anche qui, più che la natura strettamente imprenditoriale di questi soggetti, il loro agire come attori del mercato dei beni e dei servizi [24].

Alla luce di queste considerazioni, dovrebbe apparire scontata la natura solo ricognitiva dell’art. 3, comma 4, l. n. 81/2017, che ha sancito l’applicazione diretta dell’art. 9 anche a tutela dei lavoratori autonomi, rientrando questi già nella categoria delle “imprese” protette dalla disposizione [25].

L’espressa presa di posizione normativa è stata nondimeno salutata con favore dalla dottrina [26], la quale ha dato atto dell’atteggiamento non univoco della giurisprudenza [27]. Occorre però tenere conto, come si vedrà a breve, dell’effetto di una disposizione tecnicamente inutile: essa può determinare il dubbio, sulla scorta del canone ermeneutico che rifugge l’idea di un legislatore ridondante [28], di essere di fronte ad un’ulteriore evoluzione della tutela, con conseguente accentuazione della settorialità della disciplina e, dunque, delle divergenze di fondo rispetto alla norma base.

Prima di addentrarci in questa riflessione, che presuppone l’analisi dei presupposti della fattispecie oggetto del divieto, conviene soffermarsi brevemente su un’ulteriore questione preliminare, che ha animato la discussione degli studiosi dell’abuso di dipendenza economica e che può essere risolta già sul piano generale anche a beneficio della prospettiva della tutela del lavoro autonomo.

Si tratta di un ulteriore lato dal quale è possibile circoscrivere l’ambito di applicazione della norma: secondo alcuni, infatti, il divieto di abuso di dipendenza economica opererebbe solo per vagliare gli atti giuridici (come, ad esempio, proposte di rinegoziazione delle condizioni originarie in senso più sfavorevole al­l’impresa dipendente o l’esercizio del diritto di recesso) e materiali (ad esempio, atteggiamenti arbitrari nella gestione delle forniture) di un’impresa la cui posizione di forza rispetto all’altra risulta da una relazione contrattuale già costituita [29]. Si vuole dire, in sostanza, che la norma non può servire per correggere una clausola contrattuale sin dall’origine squilibrata, poiché essa si limiterebbe a presidiare lo svolgimento di relazioni commerciali già in essere, al fine di reprimere quegli abusi dell’impresa in posizione di supremazia che consistono nel «trarre dalla relazione commerciale utilità ulteriori e diverse rispetto a quelle che, nel rispetto del­l’economia della relazione, le competerebbero» [30].

Invero, come è stato convincentemente osservato da altra parte della dottrina, una simile restrizione non trova riscontro nel dato letterale dell’art. 9 cit., che pare anzi sufficientemente ampio da cogliere tutte le possibili epifanie dell’abuso (extracontrattuale, precontrattuale e contrattuale, includendo sia il contratto originario, sia quelli eventualmente successivi ed emendativi del primo) [31]. La situazione di dipendenza economica, del resto, può risultare da diversi fattori e non necessariamente presuppone una primigenia relazione contrattuale con l’impresa in posizione di dominanza relativa.

L’analisi si deve dunque spostare a valle del discorso sul campo di applicazione oggettivo, per interrogarsi sui presupposti che costituiscono la fattispecie abusiva vietata.


3. La «dipendenza economica» e l’«abuso» quali presupposti della tutela dell’art. 9 l. subf. e il problema della loro rilevanza nelle declinazioni settoriali del divieto, quale quella a favore dei lavoratori autonomi

L’art. 9 l. subf. sanziona l’abuso, nell’ambito di una relazione tra imprese, della dipendenza economica dell’una, in posizione di “dominanza relativa” nei confronti dell’altra.

Lo stato in cui si trova l’impresa abusata, la «dipendenza economica», è dirimente, poiché definisce il tipo di debolezza che il legislatore ha voluto prendere in considerazione a fini protettivi. Comprendere cosa essa significhi è dunque necessario anche per delineare la tutela che lo stesso legislatore ha inteso offrire estendendo la norma – o, se si accoglie la lettura qui preferita, ribadendone l’applicabilità – ai lavoratori autonomi.

È imprescindibile muovere dal tenore letterale dell’art. 9, comma 1, cit., che, nei periodi secondo e terzo, si preoccupa di precisare che la dipendenza economica consiste in quella situazione in cui un’impresa risulta «in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi». Come è agevole rilevare, dunque, non importa che, in concreto, le condizioni contrattuali siano effettivamente squilibrate: quello che conta è che la posizione di forza di una delle imprese sia tale da poterle imporre in modo sostanzialmente unilaterale. Di qui si giustifica il prosieguo della disposizione, secondo cui «la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». Questo secondo criterio ha il duplice obiettivo di spiegare la ragione per la quale un soggetto economico non è effettivamente in grado di opporsi all’abuso (se si tratta di condizioni contrattuali, queste producono effetto in forza dell’accordo e quindi grazie al consenso che lo stesso abusato ha manifestato) e di indicare all’interessato l’elemento di fatto su cui profondere lo sforzo probatorio per dimostrare il presupposto della tutela [32].

Per questa ragione, nonostante l’indubbia ambiguità della formulazione normativa – che, specialmente con la congiunzione «anche», sembra sottendere l’idea che quello indicato rappresenti solo un parametro ausiliario –, dottrina e giurisprudenza hanno considerato il criterio dell’assenza di “alternative soddisfacenti” come prioritario, realmente indicativo dello stato di dipendenza economica [33].

Il corrispondente stato di dominanza relativa dell’impresa che è nelle condizioni di imporre condizioni a sé favorevoli non è, da solo, valutato negativamente dall’ordinamento: la norma reprime l’abuso che la posizione di forza astrattamente consente.

Il concetto di abuso non è definito dalle disposizioni in esame, nelle quali si trovano, piuttosto, alcuni esempi, che sono però paradigmatici: «rifiuto di vendere» o «rifiuto di comprare», «imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie», «interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto» (comma 2 [34]). Si deduce da questi, anzitutto, la conferma che può trattarsi sia di clausole contrattuali (di cui il comma 3 sancisce la nullità) sia di condotte esterne al contratto; ancora, in particolare, dall’avverbio «ingiustificatamente» e dall’aggettivo «arbitraria», si desume la necessità di verificare l’inte­resse sotteso all’atto, onde comprendere se questo, a prescindere dalla conformità formale ad una prerogativa o ad un diritto di chi lo compia, risponda ad una finalità diversa rispetto a quella tipica, sottesa alla situazione soggettiva esercitata, e comunque pregiudizievole per l’altra parte che ne subisce gli effetti [35].

Viene qui in luce, allora, una valutazione analoga a quella che, secondo l’orientamento infine adottato dalla giurisprudenza [36], impone il sospetto di un abuso del diritto, con la differenza che, come sopra si è visto, per espressa previsione legislativa, l’accertamento dell’abuso di dipendenza economica può comportare un’invalidità contrattuale, ciò che rappresenta il quid pluris della disciplina speciale.

Sia l’abuso sia lo stato di dipendenza economica devono essere provati dall’impresa che invoca i rimedi per la violazione del divieto [37].


4. Segue. Declinazioni settoriali del divieto di abuso di dipendenza economica e intersezioni con altre discipline che tutelano il contraente debole

Le difficoltà probatorie intrinseche ad entrambi gli elementi della fattispecie di abuso di dipendenza economica ha indotto il legislatore ad intervenire in due direzioni, arricchendo il panorama normativo di declinazioni settoriali della regola, con l’obiettivo di una maggiore effettività della tutela offerta [38].

Da un lato, la situazione di debolezza è stata sostanzialmente presunta per alcune categorie di relazioni commerciali, dove questa condizione è strutturale per talune tipologie di impresa e, dall’altro, sono stati stilati elenchi di ipotesi (pratiche o clausole) che configurano senz’altro un abuso, così contribuendo anche a delinearne più precisamente il significato.

È accaduto, ad esempio, nell’ambito della filiera agricola e alimentare, con riguardo alla quale l’art. 62 d.l. 1/2012 ha stabilito, precorrendo il successivo intervento europeo, il divieto di talune pratiche (nonostante l’elenco si chiuda con una clausola aperta, idonea a ricomprendere anche altre ipotesi non specificamente contemplate), sollevando ad un tempo l’impresa vittima dall’onere di dimostrare il suo stato di dipendenza economica [39].

Un analogo percorso è stato seguito per il lavoro autonomo non imprenditoriale: l’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017 contempla infatti una lista di clausole che «si considerano abusive» e la tutela contro di esse – che si risolve nella loro inefficacia, oltre al diritto al risarcimento del danno – prescinde dalla dimostrazione da parte dell’interessato di una situazione di soggezione economica.

Su questa disciplina di settore si innestano però due ulteriori complicazioni.

In primo luogo, l’art. 3 cit., come si è visto, dopo avere concretizzato il divieto di abuso in alcune clausole, ha altresì previsto, al comma 4, l’applicabilità, in quanto compatibile, della fattispecie generale dell’art. 9 l. n. 192/1998, instillando così il dubbio se, anche per quest’ultima, operi una presunzione e, nel caso, se essa qui ammetta oppure no la prova contraria.

In secondo luogo, l’elenco di clausole e lo statuto della loro inefficacia, va coordinato con la nullità di protezione disposta dall’art. 13-bis l. n. 247/2012 per un più ampio elenco di pattuizioni, allorché siano contenute in convenzioni che regolano i rapporti tra professionisti e grandi clienti [40].


5. Una tutela civilistica composita del lavoratore autonomo. La tutela contro le clausole vessatorie

L’intreccio di disposizioni anima una tutela civilistica del lavoratore autonomo strutturata su diversi livelli, suscettibili di intersecarsi tra loro, a seconda della situazione in cui questo si trova.

Al lavoratore autonomo che svolga un’attività professionale nei confronti di grandi imprese sulla base di convenzioni con queste stipulate, si applica, in aggiunta alle tutele della l. n. 81/2017, la disciplina dell’art. 13-bis citato, sopra illustrata per cenni [41]. La compatibilità di questa tutela con quella, di base, prevista dal c.d. Jobs Act autonomi, è confermata dallo stesso legislatore, nella misura in cui, pur avendola congegnata per gli avvocati, la ha estesa a tutti i professionisti di cui all’art. 1 della l. n. 81/2017. Le due discipline, dunque, si integrano, e, in taluni casi, si sovrappongono [42].

La novità più significativa della disciplina dell’art. 13-bis cit. consiste nella specifica attenzione al compenso del professionista, considerato in una posizione di debolezza per il solo fatto di intrattenere la relazione economica con una grande impresa: l’iniquità del corrispettivo, infatti, può dare luogo ad un giudizio di vessatorietà della relativa clausola – purché inserita nelle convenzioni di cui si è detto – e quindi alla sua nullità, con la previsione espressa di un intervento integrativo del giudice, basato sui parametri ministeriali [43].

Al di là dei casi in cui si applica la disciplina appena vista, le clausole inefficaci sono solo quelle elencate nell’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017. L’inefficacia, peraltro, prescinde dal tipo di contratto stipulato con il committente e dal modo in cui, concretamente, è stato pattuito [44]. Alla tutela che attiene agli effetti della clausola, si accompagna il diritto al risarcimento del danno (art. 3, comma 3, cit.).

Come già si è visto, la disposizione in esame sembra disinteressarsi della situazione di effettiva debolezza in cui si trovi il lavoratore autonomo, sì che le prospettive che si aprono all’interprete sono due: a) ritenere che il legislatore abbia preso le mosse da una valutazione strutturale del mercato e che, dunque, abbia presunto in posizione di inferiorità il lavoratore autonomo, sollevandolo dal corrispondente onere della prova [45]; oppure b) argomentare da una tale valutazione per concludere che la scelta della norma sia più radicale e miri ad escludere dalla prassi contrattuale simili clausole, allorché coinvolga i lavoratori autonomi [46].

In favore di questa seconda impostazione si può addurre, oltre all’argomento letterale – la disposizione non fa alcun accenno alla concreta situazione del lavoratore –, il rilievo sistematico che origina da un confronto con altri elenchi di clausole contenuti in discipline a tutela di diverse categorie di contraenti deboli. La clausola relativa allo ius variandi, ad esempio, trova un corrispondente nella lista grigia delle clausole vessatorie nei contratti coi consumatori (art. 33, comma 2, lett. m], cod. cons.) [47]; ancora, e più significativamente, due delle tre ipotesi ora richiamate (riguardanti lo ius variandi e il diritto di recesso), ricalcano la disciplina dell’art. 6, l. n. 192/1998, che ne dispone senz’altro la nullità nei contratti di subfornitura, a prescindere dalla situazione di dipendenza economica, che è invece presupposto per invocare le tutele dell’art. 9 della stessa legge [48].

Questa argomentazione non è però risolutiva: per quanto riguarda i rapporti B2C, occorre prendere atto che il professionista ha, in effetti, la possibilità di dimostrare che la clausola è stata oggetto di specifica trattativa, provando, così, che la ragione su cui in astratto si fonda la protezione del consumatore (l’asimmetria informativa) non ricorre in quella specifica relazione contrattuale [49]; ancora, il confronto con la disciplina della subfornitura non regge perché la nullità “a prescindere” che lì la legge ha previsto si giustifica proprio per i tratti sensibili di quella categoria transtipica di contratti, i quali instaurano relazioni economiche tra l’impresa subfornitrice e quella committente, dove, per la prima, è fondamentale un minimo di stabilità del rapporto al fine di garantire l’ammortamento degli investimenti specifici e la redditività.

Questi tratti certamente possono caratterizzare anche il lavoro autonomo, ma non ne costituiscono una costante indefettibile: sembra perciò più ragionevole la conclusione di una presunzione solo iuris tantum del legislatore, soluzione, questa, che, da un lato, pare rispondere alle critiche dottrinali di un eccessivo universalismo della tutela (anche civilistica) delineata dalla l. n. 81/2017 [50] e, dall’altro, non disconosce le difficoltà probatorie della parte debole, che resta sollevata dal corrispondente onere.

Anche considerando che, come è stato osservato in dottrina, le previsioni dell’art. 3, commi 1-3, cit. rappresentano, nella costruzione della legge, il «nucleo di tutela “propria”» [51] del lavoro autonomo non imprenditoriale dalla prospettiva civilistica – le altre previsioni consistendo in richiami, in quanto compatibili, ad altre discipline –, sembra d’altra parte riduttiva la tesi di un’inefficacia subordinata all’accertamento di una situazione di effettiva dipendenza economica, che finirebbe per trasformare le disposizioni in commento in semplici inversioni dell’onere probatorio per ipotesi già previste dall’art. 9 l. n. 192/1998.

Nel silenzio della lettera della disposizione, che, come si è detto, non traccia alcun nesso con la dipendenza economica, l’unica razionalizzazione possibile della sua sfera applicativa è quella consentita dalla sua riduzione teleologica [52]: così, valorizzandosi l’analogia delle esigenze di tutela del lavoratore autonomo e del subfornitore, può restringersi l’applicazione della norma alle sole ipotesi in cui vi sia un sbilanciamento di forza contrattuale, anche se non una vera e propria dipendenza economica, oppure nelle quali la prestazione del lavoratore autonomo sia integrata in un processo economico complesso guidato dal committente, su cui, è bene ribadirlo ulteriormente, grava l’onere della prova contraria.


6. Segue. Carattere integrativo e non sostitutivo della tutela rispetto alla disciplina codicistica: in particolare, il «congruo preavviso» per il recesso nei contratti «aventi ad oggetto una prestazione continuativa»

Un’ulteriore conferma della ricostruzione proposta, la quale, in concreto, limita la disposta inefficacia delle clausole ex art. 3 ai soli contratti tra soggetti in posizione di forza diseguale, si può cogliere dalla previsione secondo cui è abusiva la clausola che riserva al committente la facoltà di recedere senza «congruo preavviso» dal contratto di lavoro autonomo che abbia «ad oggetto una prestazione continuativa».

Dalla norma possono ricavarsi due regole: da un lato, l’inefficacia della clausola in questione e, dall’altro, l’illegittimità del recesso esercitato senza preavviso, da cui consegue il risarcimento del danno, secondo quanto prevede l’art. 3, comma 3, l. n. 81/2017. Queste regole integrano, senza sostituirle, le discipline dello scioglimento unilaterale del contratto contenute nei vari schemi tipici riconducibili al lavoro autonomo [53].

Come è stato osservato, tali discipline risultano già espressione di un equilibrato bilanciamento tra i contrapposti interessi dei contraenti, immaginati, però, su un piano di sostanziale parità: assumendo a parametro della riflessione il contratto d’opera, ad esempio, la facoltà di recesso ad nutum del committente, prevista dagli artt. 2227 e 2237 cod. civ., è compensata con il diritto del prestatore ad un indennizzo, giustificato alla luce dell’attività prodromica all’adempimento [54].

È dubbio, invero, che queste norme condividano il proprio campo di applicazione con l’art. 3, comma 1, cit., in quanto esse, sancendo una deroga all’art. 1373, comma 1, cod. civ., sembrano riferirsi a contratti ad esecuzione istantanea, per quanto la prestazione richieda un certo lavoro preparatorio e, dunque, un certo tempo: si parla, per queste ipotesi, di contratti ad esecuzione «prolungata», fattispecie ben distinte da quelle ad esecuzione «continuata» o «periodica» [55]. L’onere procedimentale del preavviso «congruo», che nulla aggiunge rispetto ai presupposti perché sorga la facoltà di recedere (che rimane ad nutum), non sembra giustificarsi per queste ipotesi, dove la prestazione è unitaria: in ciò si spiega la precisazione contenuta dell’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017, che limita la considerazione ai contratti di lavoro autonomo aventi ad oggetto «una prestazione continuativa» (o «periodica» [56][57]). Tecnicamente, infatti, la tutela del prestatore si realizza compensando il sacrificio economico conseguente all’interruzione del rapporto, non, invece, assicurando una limitata prosecuzione dello stesso: non avrebbe infatti senso protrarre un’attività che non ha (più) alcuna utilità per il committente, considerato che, per effetto dello scioglimento del contratto, il completamento dell’opera non è più dovuto. Su questa linea si muove il compromesso raggiunto negli artt. 2227 e 2237 cod. civ. [58].

Qualora le parti abbiano stipulato un contratto di prestazione d’opera, manuale o professionale, ad esecuzione continuata o periodica, la norma codicistica “di base”, andrà piuttosto rintracciata nell’art. 1569 cod. civ., che prevede la facoltà di recesso per i soli rapporti a tempo indeterminato. Questa norma, infatti, pur essendo dettata nella disciplina della somministrazione, può essere ritenuta applicabile anche al contratto in esame. Essa, infatti, senz’altro si applica all’appalto di prestazione continuativa o periodica di servizi per effetto del rinvio di cui all’art. 1677 cod. civ. Tale rinvio, a sua volta, è reputato estensibile analogicamente anche al contratto d’opera che abbia lo stesso oggetto [59].

Ora, poiché l’articolo da ultimo richiamato prevede già la necessità di un preavviso (per l’ipotesi in cui il contratto sia a tempo indeterminato), il significato precettivo della previsione dell’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017 consiste solo nel porre un limite all’autonomia privata nel regolarlo: in ogni caso, infatti, questo dovrà risultare sempre «congruo» [60].

Si tratta, come si evince dal rovesciamento del rapporto tra la volontà delle parti e il criterio legale della “congruità”, di un rafforzamento della tutela del lavoratore autonomo rispetto all’equilibrio tracciato dalla norma del codice; ma è evidente che questo correttivo alla libertà negoziale delle parti si giustifica nella misura in cui, in concreto, questa risenta di uno squilibrio di forza contrattuale: è proprio in un simile contesto che l’accordo delle parti rischia di non realizzare quel contemperamento di interessi che la norma del codice ha affidato all’autonomia privata.


7. Il divieto di abuso di dipendenza economica del lavoratore autonomo

Ci si potrebbe domandare se la presunzione di debolezza che giustifica la nullità delle clausole abusive operi anche al fine di sollevare il lavoratore autonomo dalla prova dello stato di dipendenza economica al­lorché lamenti un abuso dell’impresa committente ed invochi dunque le tutele dell’art. 9 l. n. 192/1998, richiamato dall’art. 3, comma 4, l. n. 81/2017.

Un tale esito interpretativo avrebbe senz’altro il merito di assegnare un reale significato innovativo (rispetto all’ordinamento previgente) a questa disposizione.

Sembra tuttavia da preferirsi la risposta negativa, sulla base del concorso di due argomenti, di ordine logico, prima ancora che giuridico: come si è visto, il legislatore pare presumere con riguardo all’elenco di clausole dell’art. 3, comma 1, cit. uno stato di debolezza che non sfocia necessariamente in una dipendenza economica, forma di asimmetria, questa, più grave, che legittima l’applicazione di una fattispecie dai contenuti elastici (un “abuso”) [61]. La presunzione ha dunque ad oggetto un quid minus rispetto alla dipendenza economica, la quale, dando invece accesso ad una tutela più ampia (in relazione alle condotte e alle clausole che possono dirsi “abusive”), dovrà essere dimostrata dall’interessato (anche sulla base di presunzioni, le quali, però, in questo caso, sono da intendersi presunzioni semplici, mezzi critici di prova ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.). Del resto, una simile ricostruzione trova conferma nella tecnica legislativa di rinvio alla norma di divieto, che, in assenza di ulteriori specificazioni, deve intendersi richiamata anche nei suoi presupposti di fatto [62].

Il richiamo ad una norma che regola i rapporti tra imprese e che, come attesta la sua collocazione nella l. n. 192/1998, è preordinata a regolare un contesto asimmetrico il cui paradigma è l’integrazione verticale di beni e servizi forniti da una parte nel processo produttivo dell’altra [63] solleva l’interrogativo di comprendere come il presupposto della dipendenza economica, maturato in quel contesto, si relazioni con la condizione di debolezza che può caratterizzare il lavoro autonomo [64].

Occorre prendere atto che il legislatore non ha confezionato una declinazione settoriale del divieto di abuso di dipendenza economica, ma si è limitato ad un espresso richiamo alla fattispecie “generale” dei rapporti tra imprese, precisando che tale estensione opera nei limiti della compatibilità («in quanto compatibile») [65].

In definitiva, non si potrà rinunciare ai presupposti specifici individuati dall’art. 9 cit., anche se, per effetto di questi, una parte delle situazioni in cui, di fatto, emerge la debolezza del lavoratore rimarrà priva di tutela; d’altra parte, sempre in forza del filtro della compatibilità, l’interprete non potrà fare a meno di declinare detti presupposti alla luce delle peculiarità che caratterizzano le relazioni economiche intrattenute dal lavoratore autonomo.

Per esemplificare, se si accoglie questa prospettiva, la dipendenza reddituale, che è un tipico indicatore della debolezza economica di chi presta la propria attività per un unico committente o per un ristretto gruppo di committenti, non cristallizza ancora quella «dipendenza» che è presupposto del divieto; occorrerà verificare, secondo la norma generale, anche la reale mancanza di alternative soddisfacenti sul mercato [66]. A sua volta, però, questo criterio non potrà essere interpretato nello stesso modo in cui lo è relativamente ai rapporti tra imprese [67]: dovrà essere invece tagliato sulla persona che lavora. Così, come è stato osservato, potrà essere annoverato tra gli investimenti idiosincratici (che, per la loro elevatissima specificità e conseguente scarsa convertibilità, hanno un effetto di lock-in su chi li effettua e, dunque, sono indicatori consolidati dell’assenza di alternative di mercato) l’impegno del «collaboratore in regime di committenza prevalente, consistente nel tempo e nelle energie lavorative profuse per acquisire il know-how necessario per coordinarsi con il ciclo produttivo del committente» [68]. In senso più elastico, potranno altresì rilevare le condizioni del mercato di riferimento [69], oltre che la continuità e la durata del rapporto intrattenuto con un soggetto, qualora questi dati indichino che, di fatto, il lavoratore autonomo non ha avuto modo di sviluppare un giro di affari significativo al di là di quella committenza [70].


8. La questione dei rimedi all’abuso di dipendenza economica: in particolare, all’abuso che consiste nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose

Il tema dei rimedi si intreccia strettamente al tipo di abusi in cui può concretizzarsi la condotta, vietata, di chi approfitti dell’altrui stato di dipendenza economica.

Comune ad ogni fattispecie d’abuso è senz’altro il risarcimento del danno; si profila altresì, per i casi in cui si tratti di un comportamento tenuto in modo prolungato, la strada dell’inibitoria.

L’effettività della tutela dipende però dall’esistenza di strumenti che consentano altresì di rimediare in forma specifica all’abuso, ossia di eliminarne le conseguenze sul piano giuridico.

Paradigmatici sono i casi in cui questo trovi cristallizzazione nel contratto.

In alcuni casi, appare sufficiente privare di effetti l’atto abusivo: ne costituisce un esempio l’invalidità del patto che attribuisca al committente la facoltà di modificare unilateralmente il contratto. La clausola è nulla e, dunque, l’atto unilaterale esercizio dello ius variandi inefficace. Con riguardo all’interruzione arbitraria della relazione economica, la privazione degli effetti della clausola contrattuale che eventualmente [71] la consentiva, rende illegittimo l’esercizio del recesso, con conseguenze che muteranno a seconda della disciplina del tipo contrattuale [72].

In generale, può ritenersi che l’invalidità della clausola determini la riespansione del diritto dispositivo, ossia di quelle norme che avrebbero trovato applicazione sin dal principio se il profilo non fosse regolato dalla clausola abusiva. Più problematico è quando l’abuso consista nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose in relazione all’equilibrio economico del contratto [73].

Rilevante è ad esempio l’ipotesi, su cui qui di seguito ci soffermeremo, di un compenso iniquo [74].

La riflessione può essere subito calata nel contesto del lavoro autonomo.

Come si è ricordato, l’iniquità del corrispettivo pattuito nell’ambito di una convenzione tra un professionista e una grande impresa può dare luogo, per espressa previsione di legge, ad un giudizio di vessatorietà della clausola e, in aggiunta, ad un intervento del giudice, volto a rideterminarlo «tenendo conto dei parametri» ministeriali.

Fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 13-bis l. n. 247/2012, la disciplina a tutela del lavoro autonomo tace al proposito, sì che occorre rifarsi alle disposizioni dell’art. 3 l. n. 81/2017.

Viene in gioco, in particolare, allorché ricorra il presupposto della dipendenza economica, la previsione dell’art. 9, comma 3, l. subf. e la conseguente nullità della clausola.

L’interrogativo riguarda le sorti del rapporto contrattuale nella sua globalità, atteso che, da un punto di vista civilistico, questo non può stare in piedi senza che sia determinato o determinabile l’oggetto di una delle prestazioni principali (artt. 1346 e 1418, comma 2, cod. civ.).

La premessa da cui occorre muovere è che, pur non essendo precisato dalla disposizione, la nullità prevista dall’art. 9, co. 3, cit. può intendersi come necessariamente parziale: non si procede dunque alla valutazione della volontà ipotetica delle parti ai sensi dell’art. 1419, comma 1, cod. civ. Questo esito interpretativo è il frutto di una riduzione teleologica della disposizione, che risponde alla particolare ratio protettiva della nullità (speciale): si esclude, cioè, che la prospettiva che il contraente debole perda l’affare discenda dalla valorizzazione di un interesse contrario del committente alla validità “per il resto” del contratto [75].

Certo, la nullità parziale non impone che il contratto debba sopravvivere anche quando questo non sia tecnicamente possibile [76]: ciò però induce l’interprete a verificare, prima di dare credito a questa conclusione, se vi sia spazio per un’integrazione del negozio che ne impedisca la caducazione.

In una prospettiva più generale, una cospicua corrente dottrinale ha ritenuto percorribile la strada dell’in­tegrazione giudiziale anche per colmare le lacune sopravvenute del regolamento contrattuale, fondandola sul­l’art. 1374 cod. civ. [77].

Anche in questa curvatura, al giudice andrebbe comunque riconosciuto un ruolo residuale, volto a concretizzare il criterio dell’equità, che trova applicazione, secondo l’ordine dello stesso art. 1374 cod. civ., in caso di assenza di leggi e usi [78].

A questa posizione può obiettarsi che l’ampio potere riconosciuto al giudice da questa norma si giustifica, anche se residuale, solamente se concepito per colmare le lacune originarie del contratto, secondo una linea che si riveli coerente (e non dunque in contrasto) con il regolamento negoziale stabilito dalle parti [79]. Del tutto diverso, invece, sarebbe l’ordine dei problemi sollevato dalle lacune sopravvenute, specialmente dove riguardino proprio l’equilibrio raggiunto nell’accordo. In tale caso, infatti, l’integrazione si porrebbe in rapporto non strumentale, ma “ostile” rispetto all’autonomia privata, le cui determinazioni verrebbero di fatti sostituite anziché completate dalla concretizzazione della clausola generale dell’equità [80].

Si è altresì proposto di ricorrere al meccanismo della sostituzione di clausole dell’art. 1339 cod. civ., che, in effetti, rappresenta la via dell’integrazione cogente delineata dalla legge [81].

Tale disposizione presuppone l’esistenza di una disposizione che individui il contenuto normativo che deve sostituire la determinazione pattizia, non potendo questo essere stabilito di volta in volta sulla base di una valutazione discrezionale dal giudice [82].

A tale proposito, si può osservare che dove il legislatore ha ammesso che l’assetto economico del contratto potesse essere residualmente stabilito all’esterno dello stesso, anche per il tramite del giudice, lo ha espressamente previsto, nell’ambito della disciplina di alcuni contratti tipici.

Diverse disposizioni prevedono che, qualora il corrispettivo non sia determinato o determinabile, il contratto, in deroga alla regola della nullità per carenza dei requisiti dell’oggetto, rimanga valido, ammettendo che questo elemento venga stabilito all’esterno dell’accordo e, residualmente, proprio dal giudice [83].

In questa riflessione, vengono in rilievo, in particolare, gli artt. 2225 e 2233 cod. civ., dettati nella disciplina del contratto d’opera.

Si tratta di comprendere se queste disposizioni che, come conferma la loro formulazione, sono state scritte per l’ipotesi di una lacuna originaria possano essere applicate anche colmare una lacuna sopravvenuta [84].

Diversi argomenti concorrono a fondare una risposta di segno positivo.

Anzitutto è da valorizzare la ratio di queste norme, che trovano corrispondenti anche in altri contratti tipici in cui il corrispettivo è in rapporto sinallagmatico con una prestazione di facere: ciò a cui mira il legislatore è evitare la caducazione del titolo da cui sorge l’obbligazione del compenso, onde evitare che la remunerazione di un fare umano complesso sia lasciata alla disciplina restitutoria [85].

Tale ratio è valida anche – e forse a maggior ragione – quando il rapporto è già entrato nella fase della sua esecuzione: di fatti, si è ritenuto (anche se il punto non è pacifico [86]) che i criteri legali suppletivi possano operare anche quando la pattuizione sull’ammontare del compenso, pur in astratto esistente, non possa essere dimostrata. Seguendo questo ragionamento, allora, ben si può sostenere che essi trovino applicazione pure nell’ipotesi in cui, per qualsiasi ragione (quale è appunto la nullità), i criteri pattizi non possano operare.

Ciò – si badi – non significa ammantare di imperatività i criteri legali; non si instaura alcun confronto diretto tra questi e la pattuizione che ha stabilito il corrispettivo [87]: si pone invece riparo ad una lacuna che origina per effetto dell’invalidità della clausola, la quale, a sua volta, discende da una disposizione peculiare che sanziona l’eccesso abusivo dell’autonomia privata.

Si può dunque concludere il ragionamento affermando che, nel caso di un compenso iniquo, allorché la clausola che lo prevede sia il risultato di un abuso di dipendenza economica, alla conseguente nullità che discende dall’applicazione dell’art. 9, comma 3, cit., potrà seguire l’integrazione del contratto per mezzo del diritto dispositivo. Qualora il contratto concretamente stipulato consista in un contratto d’opera, potranno trovare applicazione, a seconda dei casi, gli artt. 2225 e 2233 cod. civ. [88].


9. Considerazioni conclusive: sull’effettività delle tutele, alla luce delle peculiarità delle singole categorie (con uno sguardo rivolto ai lavoratori della cultura)

L’estensione di alcuni strumenti elaborati dall’avanguardia del diritto civile contemporaneo, sensibile alle asimmetrie informative o economiche che alterano il libero gioco degli scambi, può essere considerato un sicuro passo in avanti nella tutela del lavoro autonomo c.d. genuino [89].

Qui, la contaminazione, che percorre tutto il diritto privato dei contraenti deboli, tra la tutela della libertà negoziale e le istanze della concorrenza, si arricchisce ulteriormente, dovendo prendere in considerazione le esigenze di protezione della persona dalla prospettiva costituzionalmente rilevante del lavoro.

La tecnica della l. n. 81/2017, che combina norme ad hoc per i contratti del lavoratore autonomo con il rinvio a discipline che attengono ai rapporti tra imprese, consegna all’interprete alcuni nodi da sciogliere, ma tempera, dall’altro lato, l’universalismo della protezione, su cui si appuntano le critiche di molti commenti (v. supra, par. 5).

Si delinea, infatti, una struttura di tutela per cerchi concentrici. Infatti, come si è visto, della regola-rinvio sui termini di pagamento, di cui all’art. 2 l. cit., possono avvantaggiarsi tutti i lavoratori autonomi; diversamente, l’art. 3 l. cit., nel considerare nulle talune clausole e abusivo il rifiuto di stipulare il contratto in forma scritta, muove dal presupposto – almeno secondo la ricostruzione qui sostenuta – che sussista una asimmetria tra le parti; della più pervasiva protezione offerta dal divieto di abuso di dipendenza economica potranno invece giovarsi solo quei lavoratori che dimostrino di trovarsi in questa condizione. Su questo quadro, si innesta l’art. 13-bis, l. n. 247/2012, il quale trova sì applicazione a prescindere dalla dipendenza economica – ritenuta in re ipsa in considerazione del potere negoziale di determinate categorie di imprese committenti –, ma incide su un fascio di rapporti limitato alla luce di criteri soggettivi (rapporti tra professionisti con c.d. “grandi imprese”) e oggettivi (rapporti regolati da «convenzioni unilateralmente imposte»).

Il sistema delle tutele civilistiche trova però un sostanziale punto debole nel rischio di scarsa effettività, sul lato pratico.

Concentrandosi sugli abusi contrattuali, su cui abbiamo soffermato in via prevalente l’attenzione in questo contributo, ritroviamo le criticità già documentate nei contesti di origine delle norme sui rapporti B2B richiamate, ovvero di quelle sul cui modello sono state elaborate le previsioni scritte dal legislatore a tutela specifica del lavoro autonomo.

Iniziamo dalla norma che vieta l’abuso di dipendenza economica, che, in assenza di determinazioni legislative – se non nel raggio di azione dell’art. 13-bis cit. – costituisce il piano su cui deve muoversi la riflessione a proposito delle garanzie di un equilibrio economico minimo delle prestazioni contrattuali [90].

La prospettiva suggerita dal divieto sembra realizzare un compromesso ragionevole tra la libertà delle parti nello stabilire il compenso e la tutela del contraente debole.

Qui, infatti, il compenso particolarmente inadeguato è sindacato non in sé, ma perché frutto di un abuso, ossia dell’approfittamento, da parte di un’impresa forte, della condizione di debolezza del lavoratore autonomo. Ad essere protetta, è allora la stessa libertà negoziale, a fronte di eccessi resi possibili dai turbamenti che possono nascere per effetto di squilibri di forza [91].

Proprio l’apprezzabile assenza di un automatismo genera dall’altro lato gravose difficoltà probatorie che rendono particolarmente complicato, per il lavoratore, avvalersi del rimedio.

In questo senso, possono essere accolte favorevolmente quelle disposizioni che, rappresentando espressione diretta del divieto ovvero del principio ad esso sotteso (si pensi all’inefficacia delle clausole ex art. 3, comma 1, cit.), incidono sull’onere della prova della parte debole.

Non sembra invece destare problemi, sul piano dell’effettività, la concretizzazione giudiziale che può rendersi necessaria a seguito della caducazione di una clausola (nulla ex art. 9, comma 3, l. subf.). Il rinvio al diritto dispositivo comporta l’applicazione di norme che orientano la valutazione equitativa del giudice. I criteri suggeriti da queste norme, e, in particolare, il riferimento contenuto nell’art. 2225 cod. civ. alla quantità di lavoro che richiede una determinata prestazione, hanno il pregio di prendere quest’ultima in considerazione nella sua globalità, così consentendo di ricomprendervi l’attività di studio e preparatoria che caratterizza peculiarmente numerose categorie di lavoratori autonomi, specialmente quelli della cultura [92].

Se, dunque, nonostante una certa farraginosità, l’ordinamento già consentirebbe una correzione ragionevole del contratto a favore della parte debole, un significativo ostacolo al raggiungimento di questo risultato consiste nelle remore che, in concreto, il lavoratore autonomo può nutrire nel percorrere questa strada.

L’invalidità di protezione della clausola, presupposto della conseguente integrazione, può essere fatta valere dal contraente debole. Questo soggetto, però, proprio a causa della condizione di dipendenza economica in cui si trova, difficilmente si determinerà in questo senso, se non quando la relazione con il committente entri in una fase patologica, che prelude alla sua fine.

Una simile decisione presa dal lavoratore autonomo nel contesto di una monocommittenza a condizioni squilibrate ma stabili finirebbe infatti per minare quella stabilità, esponendolo al rischio di perdere la propria fonte di reddito [93].

Lo stesso discorso vale anche per clausole che definiscono aspetti del rapporto diversi, ma parimenti imposti dall’impresa committente: a fronte di un lavoratore che, “ribellandosi”, agisca per ottenere una pronuncia giudiziale di nullità ex art. 9, comma 3, cit. – con il rischio che, peraltro, l’azione non vada a buon fine, considerato l’elevato standard probatorio – non è da escludersi che l’impresa committente scelga di sciogliersi, appena possibile, dalla relazione economica.

Alla luce di ciò, potrebbe giustificarsi un intervento del legislatore che, in modo più invasivo per l’auto­nomia privata, vieti talune pratiche in contesti circoscritti, come risultato di un’attenta ponderazione degli interessi coinvolti. Il divieto, poi, potrebbe essere assoluto oppure ammettere la sua non applicazione in talune circostanze, che potrebbe invocare e dimostrare la parte interessata.

Un esempio, nel campo del lavoro culturale, sono le clausole che stabiliscono l’esclusiva della prestazione artistica. Queste clausole, già di per sé perniciose perché, per un verso, rendono più difficile invocare la tutela sul piano teorico e, per altro verso, contribuiscono col tempo a creare una vera e propria situazione di dipendenza economica, possono avere un effetto ancora più pregiudizievole per alcune categorie di lavoratori, come, ad esempio, i musicisti, per i quali, come si è osservato, è fondamentale accrescere la propria professionalità moltiplicando le occasioni per esibirsi, davanti a pubblici diversi [94].

Vi è poi la categoria degli abusi che non sono cristallizzati in clausole contrattuali, ma consistono in condotte che si inseriscono nella fase esecutiva del contratto (ad esempio, l’esercizio del diritto di recesso), oppure nella fase precontrattuale.

Per questi, si apre la strada del risarcimento del danno e dell’inibitoria. Tali rimedi incontrano il limite del rischio, che portano con sé, di “stigmatizzare” il lavoratore che li eserciti, con la conseguenza di rendere per lui più difficile l’accesso a nuove opportunità professionali [95].

A fronte del c.d. “fattore paura”, elemento che sancisce la contraddizione tra il carattere necessariamente riservato della legittimazione ad avvalersi dei rimedi e la remora delle persone interessate a ricorrervi, il legislatore europeo ha valorizzato altrove – in altri contesti particolarmente sensibili del mercato – gli strumenti del public enforcement, che affidano ad un’autorità indipendente la vigilanza e l’irrogazione di sanzioni alle imprese che violano le regole [96].

L’introduzione di un apparato di sanzioni amministrative ad hoc nella l. n. 81/2017 [97] gioverebbe indubbiamente anche alla tutela del lavoro autonomo e avrebbe ripercussioni positive, riteniamo, pure sui singoli rapporti [98].

È stata del resto documentata l’importanza, specialmente per le grandi imprese, dell’immagine commerciale presso il pubblico degli utenti, che costituisce una leva che le ha spinte a correggere i propri comportamenti [99].

Nella prospettiva non di sostituire i fondamentali rimedi del diritto privato, ma di completare il panorama della tutela civilistica del lavoro autonomo, merita di essere ulteriormente sviluppata l’attenzione per le buone pratiche anche in quest’ambito, attraverso strumenti, noti ad altre normative di protezione [100], che incoraggiano l’adozione di codici di condotta, oppure che raccolgono prassi virtuose, coinvolgendo i gruppi che rappresentano gli interessi di categoria [101].

Sembra dunque, in conclusione, che questa nuova articolazione del diritto privato dei contraenti deboli («il quarto contratto») trovi il suo principale limite del non essere accompagnata, come invece accade in altri ambiti, da una parallela tutela pubblicistica, la quale si rivela invero essenziale per assicurare l’effettività della protezione in ogni momento della relazione economica tra parti con posizioni di forza diseguale.


NOTE

[1] Sul principio ricondotto al brocardo francese (la cui paternità è attribuita a A. Fouillée, La science sociale contemporaine, Librairie Hachette et Cie., 1880, 410, ad es. da F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Giuffrè, 2015, 504, anche se, come rileva V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica e squilibrio nei contratti tra imprese. Norma, sistema, tutela, prospettive, Giuffrè, 2020, 127, nt. 17, non vi è al proposito sicurezza), e sulla sua progressiva erosione, specialmente ad opera della giurisprudenza, anche grazie ad un agganciamento della buona fede codicistica alla solidarietà di cui all’art. 2 Cost., v. il testé citato V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 131 ss.

[2] Sul c.d. «terzo contratto» (espressione coniata da R. Pardolesi, nella prefazione a G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti. Un’analisi economica e comparata, Giappichelli, 2004) e le questioni che ruotano attorno a questa figura, v. le ancora attuali riflessioni contenute nel volume G. Villa, G. Gitti (a cura di), Il terzo contratto, Il Mulino, 2008. I tratti comuni tra la disciplina dei rapporti B2C e B2B hanno indotto una parte della dottrina a considerarli espressione di un sistema complessivo del «contratto asimmetrico»: v., in particolare, V. Roppo, ad es., in Prospettive del diritto contrattuale europeo. Dal contratto del consumatore al contratto asimmetrico?, in Corr. giur., 2009, 267 ss.; Id., Il contratto del duemila, Giappichelli, 2011, 3ª ed., 65 ss. Le differenti tecniche di tutela, che rispondono alle difformi esigenze sottese a queste due epifanie della debolezza di forza contrattuale, sono alla base dell’opposta convinzione, prevalente in dottrina, che sia necessario considerare ciascuna classe di casi nella sua specificità, necessità appunto suggerita anche dalla diversa nomenclatura: v., tra gli altri, A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in Riv. dir. civ., 2008, I, 515 ss.; L. Nonne, La nullità nei contratti del consumatore come modello per il c.d. terzo contratto, in Contr. impresa, 2016, 979 ss. Vi è poi da considerare l’elevata frammentarietà della disciplina dei rapporti B2B, che, come è stato di recente scritto, «non è superata dalla ragione unificante della tutela»: v. F. Di Marzio, Contratto e impresa, in Enc. dir., I Tematici, I, a cura di G. D’Amico, Giuffrè, 2021, 345, che pure ne rileva il «nucleo a un tempo espansivo e aggregante» nel «divieto di abuso di dipendenza economica».

[3] Per un quadro sintetico ed esauriente di questa disciplina, v. M. Girolami, Nullità di protezione, in Enc. dir., I Tematici, I, cit., 712 ss.

[4] La frontiera più recente è quell’articolazione delle relazioni B2B che riguarda i rapporti tra piattaforme digitali e imprese che si avvalgono dei servizi da queste offerti per raggiungere i loro clienti finali (P2B). Viene in rilevo, in particolare, la disciplina del Reg. (UE) n. 1150/2019. L’attenzione nei confronti di questa nuova declinazione dello squilibrio di potere negoziale è alla base anche del nuovo Reg. (UE) n. 1925/2022, Digital Markets Act (legge sui mercati digitali), il cui obiettivo principale consiste nel garantire «mercati equi e contenibili nel settore digitale», contrastando lo strapotere delle imprese di grandi dimensioni che forniscono nel­l’ambiente digitale «servizi di piattaforma di base» (cc.dd. gatekeeper). Si considerino, inoltre, le recenti modifiche all’art. 9, l. subf., ad opera della l. 5 agosto 2022, n. 118: da un lato, per la prima volta intervenendo sulle disposizioni che definiscono l’abuso di dipendenza economica (ma seguendo uno schema noto, v. infra, par. 7), il legislatore ha codificato una presunzione relativa di dipendenza economica a proposito dei rapporti tra una piattaforma digitale e l’impresa per la quale i servizi di intermediazione dalla prima offerti abbiano «un ruolo determinante per raggiungere gli utenti finali o i fornitori»; dall’altro, l’elenco esemplificativo di comportamenti che costituiscono abusi vietati è stato arricchito di ulteriori pratiche che riguardano tali rapporti («fornire informazioni o dati insufficienti in merito all’ambito o alla qualità del servizio erogato»; «richiedere indebite prestazioni unilaterali non giustificate dalla natura o dal contenuto dell’attività svolta»; in generale, tutte le «pratiche che inibiscono od ostacolano l’utilizzo di diverso fornitore per il medesimo servizio, anche attraverso l’applicazione di condizioni unilaterali o costi aggiuntivi non previsti dagli accordi contrattuali o dalle licenze in essere»). Su queste novità, v. le perplessità di M. Maugeri, Subfornitura e abuso di dipendenza economica. Fra diritto civile e diritto della concorrenza, Giappichelli, 2022, 101 ss., la quale, in primo luogo, con riguardo alla presunzione relativa, osserva che spetta pur sempre all’impresa che invochi la tutela dell’art. 9 cit. la non semplice dimostrazione del carattere “determinante” del ruolo della piattaforma nella sua economia (che in sostanza si traduce nella dimostrazione dell’assenza di alternative soddisfacenti sul mercato); per altro verso, ad avviso della A., le nuove esemplificazioni di abuso introdotte dalla novella sembrano essere ripetitive di quelle già esistenti, con l’eccezione della pratica relativa alle informazioni fornite, dove, però, il tasso di incertezza legato alla loro “sufficienza” appare eccessivamente elevato.

[5] Il profilo dell’equo compenso per i professionisti è oggetto di attenzione anche in un recente disegno di legge (D.d.l. n. 2419, approvato dalla Camera dei Deputati il 13 ottobre 2021), attualmente in discussione, che intende riscrivere la disciplina degli artt. 13-bis l. n. 247/2012 e 19-quaterdecies d.l. n. 148/2017.

[6] L’art. 1, comma 2, l. n. 81/2017 esclude espressamente dal campo di applicazione della tutela ivi prevista i piccoli imprenditori, come definiti dall’art. 2083 cod. civ: in punto, v. O. Razzolini, Jobs Act degli autonomi e lavoro esclusivamente personale. L’ambito di applicazione della legge 81 del 2017, in L. Fiorillo, A. Perulli (a cura di), Il jobs act del lavoro autonomo e del lavoro agile, Giappichelli, 2017, 22 ss. In effetti, non è in discussione che il prestatore d’opera possa contemporaneamente rivestire la qualifica di “imprenditore”, ben potendo questi, pur essendo dotato di un’organizzazione imprenditoriale, avvalersi prevalentemente del proprio lavoro per eseguire la prestazione oggetto del contratto. In breve, la natura dell’attività del soggetto non è decisiva nel qualificare i contratti da questo compiuti: cfr. M. Tescaro, Unitarietà e centralità del contratto d’opera nel panorama dei contratti di servizi, Wolters Kluwer-Cedam, 2017, 120 ss. D’altro canto (ivi, 119 s.), per comprendere se gli strumenti di cui si doti il prestatore lo contraddistinguano, ad un tempo, come imprenditore (eventualmente piccolo), occorre domandarsi in quale rapporto questi si pongano con l’attività esercitata: se il rischio che caratterizza quest’ultima dipende dalle qualità e dalle energie psico-fisiche del prestatore, questi non è un imprenditore, mentre ad opposto risultato si giunge qualora tale rischio sia da imputare alla struttura organizzata (di persone e strumenti). L’esclusione del piccolo imprenditore è stata comunque criticata in dottrina, anche alla luce delle difficoltà di distinguere nella pratica tra le due figure: v. F. Ferraro, Prime osservazioni sulle tutele civilistiche del lavoro autonomo non imprenditoriale, in Riv. it. dir. lav., 2018, I, 507.

[7] D.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, attuativo della direttiva 2000/35/CE, più volte oggetto di successive modifiche. Su questa disciplina la letteratura è sterminata: per un quadro delle principali questioni civilistiche, v. i saggi raccolti in A.M. Benedetti, S. Pagliantini (a cura di), I ritardi nei pagamenti, Giuffrè, 2016 e per una sintesi recente v. A. Zaccaria, sub art. 1219, in G. Cian (a cura di), Commentario breve al codice civile, Wolters Kluwer-Cedam, 2022, 1296 ss.

[8] Tra i principali obiettivi dei nuovi oneri formali, vi è ancora la protezione della parte debole, che passa attraverso l’indicazione documentale di alcuni contenuti fondamentali individuati dalla legge e ritenuti indispensabili per una decisione consapevole del contraente (c.d. forma-contenuto): sul tema, v. S. Pagliantini, Neoformalismo contrattuale, in Enc. dir., Annali, IV, Giuffrè, 2011, 775 ss.; L. Modica, Formalismo negoziale e nullità: le aperture delle Corti di merito, in Contr. e impr., 2011, 16 ss.; P. Gaggero, Neoformalismo negoziale di “protezione” e struttura della fattispecie contrattuale, ivi, 2016, 1463 ss.; U. Breccia, La forma, in C. Granelli (a cura di), Formazione, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2006, 535 ss.; F. Addis, «Neoformalismo» e tutela dell’imprenditore debole, in Obbl. e contr., 2012, 12 ss.

[9] Sottolinea gli angusti limiti dell’ambito di applicazione soggettivo della legge A. Alaimo, Lo “Statuto dei lavoratori autonomi”: dalla tendenza espansiva del diritto del lavoro subordinato al diritto dei lavori. Verso una ulteriore diversificazione delle tutele?, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 625, che osserva come, in base «ad una rigorosa esegesi», l’estensione delle regole dell’art. 13-bis l. n. 247/2012 operi solo a favore del lavoro autonomo professionale (richiamando l’art. 19-quaterdecies cit. «le prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81» e non, dunque, tutta la categoria di lavoratori autonomi da quest’ultima legge tutelati). Invero, anche il d.d.l. n. 2419 cit., si osservi, prevede l’applicazione delle norme lì proposte ai «rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile (…)».

[10] Come ha messo in luce l’indagine di S. Bologna, A. Soru (a cura di), Dietro le quinte. Indagine sul lavoro autonomo nell’au­diovisivo e nell’editoria libraria, in Quaderni della Fondazione Giacomo Brodolini, 62, maggio 2022, reperibile all’indirizzo internet https://www.fondazionebrodolini.it/sites/default/files/pubblicazioni/file/Q62%20def.pdf, il lavoro della cultura presenta debolezze specifiche. In particolare, nell’audiovisivo, la c.d. «democratizzazione» di strumenti tecnologici più performanti e molto meno costosi (anche perché consentono di azzerare gli sprechi di materiale, ad esempio di pellicola cinematografica, per errori commessi), ha permesso l’accesso al mercato di soggetti meno “esperti”, più giovani e mediamente più disposti ad accettare condizioni contrattuali al ribasso (v. ivi, 41 ss.). Lo stesso si è registrato con riguardo al settore dell’editoria libraria, in particolare con riferimento alle nuove figure professionali che l’evoluzione dei supporti della lettura dei contenuti (audiolibri, podcast, e-book) e del modo di diffonderli in rete (attraverso, ad esempio, i cc.dd. book influencer) ha sviluppato, contribuendo ad esternalizzare in modo sempre più massiccio il lavoro in questo campo (v., ivi, 103 ss.). In entrambi i settori considerati ha infatti preso piede un fenomeno di “dipendenza” del tutto particolare, suggestivamente denominato «ricatto» o «trappola della passione» (v. ivi, 67 e 110), che spinge a sopportare e a fare propria la «cultura dello sgobbo» (ivi, 90). A queste considerazioni si aggiungono alcune valutazioni, parimenti preziose, in relazione agli squilibri strutturali di potere negoziale tra le OTT (le principali piattaforme sule mercato, Over-the-top) attive nella distribuzione e chi produce e lavora sui contenuti intellettuali prodotti, che rivelano, per questi ultimi, margini di profitto sempre più risicati.

[11] C. Scognamiglio, Il c.d. jobs act dei lavoratori autonomi: verso un’ulteriore articolazione della categoria del contratto?, in Corr. giur., 2017, 1183 s.

[12] V., ad es., il già citato 62 d.l. n. 1/2012 (e, oggi, la disciplina del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 198); v. pure l’art. 17, comma 3, d.l. n. 1/2012, che tipizza alcuni comportamenti che integrano abuso di dipendenza economica nei rapporti tra imprese di distribuzione del carburante e grandi imprese fornitrici o titolari degli impianti: cfr. V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 92 ss.

[13] Su cui M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Giuffrè, 2003, 1 ss.; Ead., Subfornitura e abuso di dipendenza economica, cit., 59 ss.

[14] La doppia anima della disposizione è stata valorizzata in dottrina, la quale, con una ricca varietà di sfumature, ne ha enfatizzato ora la natura concorrenziale, ora quella contrattuale. Così, da quest’ultima prospettiva, il divieto di abuso di dipendenza economica è stato considerato un ulteriore sviluppo delle clausole generali nel diritto dei contratti (cfr., ad es., con riguardo alla buona fede: F. Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica. Profili ricostruttivi e sistematici, ESI, 2002, 297; E. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica. Oltre la subfornitura, in Concorrenza e merc., 2012, 624 ss.; cfr. pure P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 351); da altri viene invece sottolineata l’at­titudine del divieto, analogamente agli strumenti antitrust, a garantire un efficiente funzionamento del mercato (v. M. Libertini, La responsabilità per abuso di dipendenza economica: la fattispecie, in Contr. impresa, 2013, 2, il quale ammonisce che, in entrambi i casi, la norma, essendo attuativa di principi generali accolti nell’ordinamento, è passibile di applicazione analogica). Sulla differenza tra il divieto di abuso di posizione dominante e quello di abuso di dipendenza economica, caratterizzato quest’ultimo dalla dimensione relazionale, che mette in secondo piano la finalità conformativa del mercato, v. però A. Barba, Studi sull’abuso di dipendenza economica, Wolters Kluwer-Cedam, 2018, 24 ss. Come risulta dallo stesso art. 9 cit., che prende in considerazione sia abusi che si traducono in clausole contrattuali sia quelli che consistono in condotte estranee al contratto, non sembra possibile ridurre la complessità della ratio dell’intervento legislativo, di cui occorre dunque tenere conto in sede interpretativa. Sul lato contrattuale, non può essere trascurata la natura di norma speciale del divieto, che va valorizzata nella valutazione della sua vocazione espansiva, anche per il tramite dello strumento analogico: cfr., in punto, la ricostruzione di V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., passim, che mette in risalto la contraddizione tra un atteggiamento sempre più disinibito della giurisprudenza nell’avvalersi di clausole generali per sindacare il contenuto del contratto e la scarsa applicazione dell’art. 9 cit., che pure è volto alla tutela contro lo squilibrio dei rapporti contrattuali tra imprese (ivi, 226 ss.). Sembra possibile cogliere una circolarità nella duplice prospettiva della norma, allorché si consideri che questa disposizione mira a reprimere un abuso della libertà negoziale che, in positivo, si traduce in una protezione della libertà degli altri soggetti attivi nello stesso mercato. Infatti, il limite posto all’eccesso che sfocia in una compromissione vistosa dell’equilibrio del contratto e i rimedi conseguenti sono strumentali a ripristinare «artificialmente condizioni corrispondenti ad una libertà contrattuale non presente al momento della trattativa», nell’ottica di favorire la concorrenzialità: v. F. Di Marzio, Contratto e impresa, cit., 350 ss.

Il concomitante rilievo di diritto concorrenziale della fattispecie regolata dalla norma ha trovato definitiva conferma con la novella del 2001 (l. 5 marzo 2001, n. 57), che ha introdotto il comma 3-bis all’art. 9. Tale disposizione prevede il potere sanzionatorio del­l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), «qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato». Infine, con la modifica operata dalla l. 11 novembre 2011, n. 180, l’abuso derivante da una violazione «diffusa e reiterata» delle norme contro i ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali (d.lgs. n. 231/2002) è sanzionato «a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica».

[15] La definizione che reca questa disposizione individua fattispecie nelle quali, con la relazione contrattuale, la subfornitrice si impegna ad una prestazione di fare su prodotti semilavorati o materie prime fornite dalla committente («subfornitura di lavorazione») oppure a fornire beni o servizi finiti destinati ad essere integrati nell’attività produttiva della committente («subfornitura industriale»). Presupposto per entrambe le forme è che la subfornitrice sia tenuta a conformarsi a «progetti esecutivi, conoscenze tecniche o tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente» (c.d. «dipendenza progettual-tecnologica»): v. R. Natoli, Contratti di subfornitura, in Trattato dei contratti, V, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2014, 352 ss.

[16] L’assunto è nettamente dominante in dottrina: v., a titolo esemplificativo, G. Iudica, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, in Contr., 1998, 411 s.; R. Leccese, Nozione e contenuto del contratto, in V. Cuffaro (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Jovene, 1998, 41 ss.; L. Renna, L’abuso di dipendenza economica come fattispecie transtipica, in Contr. impr., 2013, 2; R. Natoli, Contratti di subfornitura, cit., 382; C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Giuffrè, 2021, III ed., 369; G. Doria, La subfornitura. L’araba fenice del diritto civile: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, in questa Rivista, 2021, 454 ss. Appare invece ormai minoritaria la tesi sostenuta all’indomani dell’entrata in vigore della nuova disciplina secondo la quale il legislatore avrebbe costruito un nuovo tipo contrattuale, seppure caratterizzato da una certa embrionalità, tipica delle novità normative: cfr. V. Franceschelli, Subfornitura: un nuovo contratto commerciale, in Id., Subfornitura, Giuffrè, 1999, 9 ss. I tratti distintivi della definizione dell’art. 1 l. cit. sono, da un lato, la strumentalità della prestazione rispetto al processo produttivo del committente e, dall’altro lato, le direttive dettagliate di quest’ultimo: v. R. Leccese, Nozione, cit., 22 ss. Elemento comune delle fattispecie disciplinate dalla norma è la «subordinazione imprenditoriale» dell’impresa subfornitrice rispetto alla committente, nel senso che l’attività di quest’ultima «si conforma alle specifiche esigenze del committente ed è quindi insuscettibile di essere immessa nel mercato della concorrenza»: C.M. Bianca, Diritto civile, 3, cit., 366. Secondo una autorevole lettura differente, fermo che «la questione della tipicità/transtipicità della subfornitura rischia (…) di diventare meramente nominalistica», tale fattispecie contrattuale, attesa la predominanza del “fare” (alla luce delle direttive tecniche dell’impresa cliente) sul “dare”, potrebbe essere definita come un sottotipo esclusivo dell’appalto: v. M. Maugeri, Subfornitura e abuso di dipendenza economica, cit., 20 s., che riprende la tesi di A. Musso, La subfornitura, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Zanichelli-Il Foro it., 2003, 64 ss.

[17] V., ad es., le pronunce segnalate da V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit.,163, nt. 126, tra cui: Trib. Bari, ord. 2 luglio 2002, in Foro it., 2002, I, 2179; Trib. Roma, 20 maggio 2002; 16 agosto 2002; 12 settembre 2002, tutte in Foro it., 2002, I, 3207; Trib. Torino, 8 novembre 2006, in Dejure; Trib. Roma, 5 maggio 2009; 24 settembre 2009; 10 febbraio 2010; 17 marzo 2010, tutte in Foro it., 2011, I, 256. Più di recente, la tesi è stata sostenuta anche da App. Milano, 24 giugno 2021, in One legale.

[18] M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, cit., 133 s., che dalla dissonanza assiologica tra la disciplina della subfornitura e l’art. 9 trae ulteriore argomento per concludere nel senso di un diverso ambito di applicazione tra i due insiemi di norme.

[19] L’affermazione, contenuta in un obiter dictum delle Sezioni Unite della S.C. in sede di regolamento di giurisdizione (Cass., Sez. un., ord. 25 novembre 2011, n. 24906), è in linea con la dottrina assolutamente dominante (v., oltre a M Maugeri, citata nella nota precedente, anche per una ricca rassegna di voci a sostegno di questa tesi, P. Doria, Subfornitura, cit., 477 s.; v. altresì E. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica, cit., 624 ss.; R. Sacco, La volontà, in Id., G. De Nova [a cura di], Il contratto, UTET, 2016, 600; C.M. Bianca, Diritto civile, 3, cit., 370 s.; per un’autorevole voce contraria, C. Castronovo, L’eclissi del diritto civile, Giuffrè, 2015, 103 ss.) ed è stato confermato dalla giurisprudenza successiva (v., per tutte, la recenti pronunce Cass., 19 maggio 2021, n. 13600 e App. Milano 10 febbraio 2022, in One legale). Alcuni, peraltro, hanno però proposto alcune restrizioni. Secondo un orientamento (Trib. Roma, 21 gennaio 2022, in One legale; v. pure V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica «fuori dal contratto» tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. dir. civ., 2000, II, 399), il divieto dovrebbe applicarsi unicamente a quei contratti che, come la subfornitura, si collocano in un contesto coordinato, finalizzato alla realizzazione di un unico processo economico (con la conseguente esclusione dei contratti bancari): a questa impostazione si può obiettare che essa sembra legata ad un ragionamento analogico, che, però non è richiesto se non si muove dalla superata premessa che l’art. 9 riguardi, nel suo perimetro d’origine, i soli rapporti di subfornitura; ad avviso di parte della dottrina (D. Maffeis, Abuso di dipendenza economica, in Aa.Vv. [a cura di], La subfornitura. Legge 18 giugno 1998, n. 192, Giuffrè, 1998, 78), il divieto è applicabile esclusivamente a quelle situazioni nelle quali il rapporto si iscrive in una dinamica tale per cui i soggetti assumono il ruolo di fornitore e cliente (con la conseguente esclusione, oltre ai contratti bancari, anche delle transazioni e delle garanzie).

[20] Non si dubita, in ogni caso, dell’applicabilità della disposizione anche ai piccoli imprenditori ex art. 2083 cod. civ., i quali, fatte salve le eccezioni di legge (tra cui non figura quella dell’art. 9 cit.), sono sottoposti alla stessa disciplina dell’imprenditore non piccolo: v., per tutti, R. Leccese, Nozione, cit., 34.

[21] V. R. Natoli, L’abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato, Jovene, 2004, 104 ss.; Ph. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Giuffrè, 2006, 99 ss.; V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 30 ss.; v. pure E. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica, cit., 640 ss., il cui ragionamento si iscrive però nell’ottica di un principio generale del diritto dei contratti (la buona fede) di cui l’art. 9 cit. sarebbe, in sostanza, una conferma. Nella dottrina giuslavoristica, l’idea di una nozione di impresa più ampia di quella ricavabile dall’art. 2082 c.c. è condivisa anche da A. Perulli, Il Jobs Act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale, in Riv. it. dir. lav., 2017, I, 185.

[22] Come ricorda V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 30 s., nt. 28, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea considera impresa qualsiasi soggetto che svolge un’attività economica (CGUE, 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner), ossia offre beni o servizi sul mercato (Trib. UE 4 marzo 2003, causa T-319/99, Fenin).

[23] V. Ph. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, cit., 101.

[24] Del resto, un simile percorso ha riguardato pure la disciplina delle clausole sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali, anch’essa di matrice europea, ma relativa ai rapporti tra “imprese”, oggi definite dall’art. 2, n. 3), dir. 2011/7/UE, come «ogni soggetto organizzato, diverso dalle pubbliche amministrazioni, che agisce nell’ambito di un’attività economica o professionale indipendente, anche quando tale attività è svolta da una sola persona».

[25] Così, infatti, sulla natura della disposizione, A. Perulli, Ibidem, a cui aderisce F. Martelloni, I rimedi nel “nuovo” diritto del lavoro autonomo, in Lav. dir., 2017, 530. Prima della novella, parte della dottrina era già giunta alla conclusione dell’applicabilità dell’art. 9 cit. a tutela dei lavoratori autonomi: A. Perulli, Un “Jobs Act” per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in Dir. rel. ind., 2015, 109; D. Del Biondo, L’abuso di dipendenza economica nei confronti dei lavoratori autonomi, in M.T. Carinci (a cura di), Dall’impresa alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Giuffrè, 2015, 432; R. Catalano, Profili di convergenza tra “impresa” e “professionista”: la questione dell’ambito del divieto di abuso di dipendenza economica, in Rass. dir. civ., 2015, 1173 ss.; v. pure E. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica, cit., 640.

[26] V. oltre al già citato D. Del Biondo, L’abuso di dipendenza economica, cit., 435 s. (il quale suggerisce altresì di non trascurare l’ipotesi in cui, viceversa, sia lo stesso professionista a trovarsi in una posizione di predominio), G. Cavallini, Il divieto di abuso di dipendenza economica e gli strumenti del “nuovo” diritto civile a servizio del lavoro autonomo, in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Wolters Kluwer-Cedam, 2018, 291; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 523 e v. pure Id., [Non] buona la prima. Il divieto di abuso di dipendenza economica del lavoratore autonomo alla prova della giurisprudenza, in Arg. dir. lav., 2021, 738 s., che ritiene che la norma non sia una «inutile ripetizione», se non altro perché essa consente di fare rientrare nell’ambito di applicazione del divieto anche i lavoratori autonomi lontani dalla nozione di piccolo imprenditore, quali gli occasionali e i professionisti che esercitano l’attività individualmente o solo avvalendosi di ausiliari.

[27] In effetti, molte pronunce di merito hanno negato la retroattività dell’art. 3 l. n. 81/2017, anche nella parte in cui richiama il divieto di abuso di dipendenza economica (v., ad es., App. Venezia, 1° marzo 2022; Trib. Roma, 11 luglio 2019; App. Roma, 24 settembre 2021; Trib. Modena, 20 gennaio 2021, tutte in One legale; App. Bologna, 15 dicembre 2020, Arg. dir. lav., 2021, 729, con nota di F. Ferraro, [Non] buona la prima, cit. Sulla medesima linea anche Cass., 17 aprile 2020, n. 7904, che, per escludere la retroattività dell’art. 13-bis l. n. 247/2012, argomenta anche dall’irretroattività della stessa l. n. 81/2017.

[28] Su questo canone ermeneutico (e sui suoi limiti), v. G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Giuffrè, 1980, 151 s. e 371 s.

[29] R. Natoli, L’abuso di dipendenza economica, cit., 111 ss.; Id., Contratti di subfornitura, cit., 384 s. e, sulla stessa linea, v. pure G. D’Amico, Formazione del contratto, in Enc. dir., Annali, II, 2, 2008, Giuffrè, 598 ss., sulla scorta del rilievo che l’abuso potrebbe concretizzarsi alla luce degli investimenti specifici sostenuti dall’impresa in posizione di debolezza che le impediscono, in concreto, di rivolgere altrove, sul mercato, la propria attività; Id., Giustizia contrattuale, in Enc. dir., Tematici, I, cit., 598, ammette la possibilità di «intervenire (anche) sul contenuto del contratto, vietando direttamente (e sancendo la nullità di) quelle clausole contrattuali che siano espressione dello sfruttamento abusivo della posizione di “dominanza relativa” che un contraente abbia acquisito nei confronti dell’altro», salvo lasciare aperto il dubbio che in tale posizione il soggetto possa trovarsi (solo) in ragione di una preesistente relazione contrattuale, che, in quanto a monte dell’applicazione del divieto, sarebbe esclusa dal raggio di azione di quest’ultimo.

[30] R. Natoli, Contratti di subfornitura, cit., 384.

[31] V., anche per ulteriori argomenti di carattere sistematico, V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 72 ss.: in particolare, osserva l’A. che l’opinione dottrinale in esame rischierebbe di comportare «una sovrapposizione funzionale» (ivi, 73) tra la norma speciale che vieta l’abuso di dipendenza economica e il principio generale che sanziona l’abuso del diritto. Infatti, la prima smarrirebbe la sua utilità se, come il secondo, si limitasse a sindacare unicamente l’esercizio di un diritto, lasciando intatto il patto che a quel diritto dà origine, anche nell’ipotesi in cui esso sia il frutto di un eccesso di libertà negoziale (v. anche infra, nota 72). Il punto è che è proprio questo abuso – e non, dunque, semplicemente l’affidamento nei confronti di un determinato equilibrio contrattuale – a costituire il cuore della norma settoriale. Si noti, per inciso, che la citata sovrapposizione è considerata da chi sostiene l’op­posta visione come il «reale punto di saldatura tra la teorica dell’abuso del diritto e il divieto di abuso di dipendenza economica»: R. Natoli, Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, in Contr., 2010, 526, che ivi spiega: «Nell’uno e nell’altro caso il giudice è chiamato a sindacare la conformità tra l’esercizio di un diritto e l’interesse in virtù del quale il diritto stesso è riconosciuto. Non è chiamato, né nell’uno né nell’altro caso, a sindacare, in senso ampio, la libertà contrattuale». La giurisprudenza ha infine accolto una nozione di abuso di dipendenza economica che comprende anche la valutazione dell’equilibrio originario del rapporto contrattuale: v., in questo senso, Trib. Massa, 26 febbraio 2014 e 15 maggio 2014, entrambe in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 218, con nota di V. Bachelet, La clausola squilibrata è nulla per abuso di dipendenza economica e il prezzo lo fa il giudice; v., poi, seppure in obiter dictum Cass., 20 luglio 2022, n. 22719 (secondo cui, però, esula dal campo di applicazione dell’art. 9 cit. il contratto di transazione, con il quale le parti prevengano o pongano fine a liti scaturenti dai rapporti tra loro intercorsi). Osserva, infine, C. Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in Eur. dir. priv., 2006, 414 s., nt. 37, che, anche a volere circoscrivere la ratio della norma alla tutela degli investimenti specifici sostenuti dall’impresa dipendente, occorre rilevare che questi possono essere sostenuti pure in fase precontrattuale, proprio allo scopo di aggiudicarsi l’affare.

[32] Da un’analisi della più recente giurisprudenza possono evincersi i parametri principali dai quali può desumersi la reale assenza di alternative valide sul mercato: premesso che questo stato, perché rilevi, deve risultare inevitabile, sul piano oggettivo (non deve, ad esempio, risultare da una autoimposizione, ad esempio per effetto di una clausola di esclusiva liberamente pattuita: App. Milano, 16 febbraio 2022, in One legale), rilevanti sono, ad esempio, la dimensione dell’impresa e la conseguente capacità di differenziare la propria attività, l’adeguamento organizzativo e gli investimenti specifici effettuati alla luce dell’esigenze del partner contrattuale (Cass., 21 gennaio 2020, n. 1184), le condizioni di mercato nel settore in cui è attiva la società che lamenta l’abuso (App. Torino, 8 aprile 2021, in One legale).

[33] V., per tutti, V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 230 ss. (oltre ai riferimenti citati dall’A. ivi, 236, nt. 311). In giurisprudenza, oltre alle pronunce citate alla nota precedente, v., tra le ultime, ad es., Trib. Milano, 19 marzo 2021, e Trib. Milano, 15 luglio 2022, entrambe in One legale.

[34] Come si è visto, nuove ipotesi esemplificative sono state recentemente introdotte nell’art. 9, comma 2, l. subf. con riguardo ai rapporti tra piattaforme e imprese (v. supra, nota 4).

[35] Cass. n. 1184/2020, cit., suggerisce un «criterio teleologico di valutazione» della condotta dell’impresa in posizione di supremazia che passa dall’enucleazione della causa dell’operazione economica realizzata: «occorre l’individuazione di una condotta contraria alla buona fede, in cui il potere di dettare le condizioni contrattuali trasli nell’illecita imposizione di clausole o di patti contrari alla cd. razionalità del mercato». In forza di questo criterio, deve emergere che il comportamento in questione, oltre ad essere pregiudizievole, è altresì «privo di un senso oggettivo e non si possa giustificare sulla base delle necessità dell’impresa, vuoi di tipo economico, vuoi di tipo industriale e tecnico, nell’ambito dei propri processi produttivi o distributivi». Si rivela, in definitiva, «uno sviamento del diritto rispetto alla sua funzione tipica, le facoltà ed i poteri inerenti a un diritto soggettivo venendo utilizzati dal titolare per perseguire un interesse diverso da quello per il quale gli sono stati attribuiti».

[36] Riconduce l’abuso di dipendenza economica all’abuso del diritto la stessa Cass. n. 1184/2020, cit. In giurisprudenza, i tratti dell’istituto, che, come è noto, non è codificato, sono ormai consolidati, in base allo schema di Cass., 18 settembre 2009, n. 20106, ex multis in Resp. civ. prev., 2010, 345, con nota di A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione: v., da ultime, Cass., 30 settembre 2021, n. 26541, con riguardo ad un’ipotesi di abuso di autonomia negoziale perpetrato al fine di sottrarre l’immobile agli effetti del provvedimento di assegnazione della casa familiare; Cass., 22 novembre 2019, n. 30555, con riguardo alla nullità di protezione; Cass., Sez. Un., 4 novembre 2019, n. 28314, in tema di uso selettivo delle azioni restitutorie conseguenti alla nullità di protezione.

[37] V. ancora, da ultima, Cass. n. 1184/2020, cit.

[38] In questo senso V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 92 ss., che osserva come il primo tentativo legislativo di rivitalizzare il divieto ex art. 9 l. subf. accordando all’AGCM un potere sanzionatorio per le ipotesi più rilevanti (tale intento emerge chiaramente dalla lettura degli atti preparatori del comma 3-bis dell’art. 9, riportati da M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, cit., 8 ss.) si fosse rivelato infruttuoso.

[39] Con riguardo all’art. 62 cit., riconosciuto dalla dottrina lo stretto legame tra questa disposizione settoriale e il più generale divieto di abuso di dipendenza economica (v., ad es., G. Biferali, Nullità a tutela dell’impresa “dipendente” e filiera agroalimentare, in Eur. dir. priv., 2015, 618 ss. e E. Capobianco, L’abuso di dipendenza economica, cit., 649 s.), l’interpretazione che è parsa più convincente (infine adottata dall’AGCM – v. l’art. 2 della delibera AGCM 6 febbraio 2013, n. 24220 recante il «Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di disciplina delle relazioni commerciali concernenti la cessione di prodotti agricoli e alimentari» – anche sulla scorta dell’indicazione dell’art. 1, comma 1, d.m. n. 199/2012) è quella che ha ristretto l’applicazione del divieto contemplato da questa disposizione alle sole situazioni caratterizzate da un squilibrio tra le posizioni di forza contrattuale (non giungendosi, però, al punto di richiedere, come per la dipendenza economica, l’assenza di alternative sul mercato). La giustificazione della protezione in una situazione di disparità tra le imprese parte del rapporto è stata condivisa anche dalla dir. 2019/633/UE che ha individuato, come criterio per rilevarla e stabilire così l’ambito di applicazione dell’armonizzazione minima, alcune fasce di fatturato. In fase di attuazione della direttiva, il legislatore italiano ha però infine scelto di estendere la protezione dalle pratiche sleali a prescindere dal fatturato delle imprese coinvolte: ne è risultata una disciplina differenziata, dove alcune pratiche sono vietate in assoluto (lista nera) oppure in quanto non previamente «concordate in termini chiari e univoci» (lista grigia: si tratta di elenchi attuativi dell’art. 3, par. 1 e 2 dir.); altre pratiche, presupponendo una «imposizione», ancora sottendono un divario di potere negoziale, che deve essere dunque accertato. Sul punto, v. S. Gatti, Dall’art. 62 d.l. n. 1/2012 all’attuazione della direttiva 2019/633/UE sulle pratiche commerciali sleali nella filiera agricola e alimentare: ambito di applicazione e rimedi civilistici, in Contr. impresa Europa, 2022, 218 ss.

[40] Il mancato coordinamento legislativo tra le due discipline è considerato come un difetto vistoso da A. Alaimo, Lo “Statuto dei lavoratori autonomi”, cit., 612. Critico anche C. Scognamiglio, Caso Foodora: dilatazione della nozione di lavoro subordinato o costruzione di uno statuto normativo del lavoratore autonomo debole?, in Corr. giur., 2018, 1040.

[41] Per una più approfondita disamina delle disposizioni contenute nell’art. 13-bis cit., v S. Monticelli, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione rimediale dell’abuso nell’esercizio dell’autonomia privata, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 299 ss.; G. Alpa, L’equo compenso per le prestazioni professionali forensi, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 716 ss.

[42] Ad esempio, la clausola che riserva al cliente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto (art. 13-bis, comma 5, lett. a]) è già «inefficace» in base all’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017; ancora, la nullità del patto che consente al cliente di rifiutarsi di stipulare in forma scritta il contratto, con riguardo agli elementi essenziali (art. 13-bis, comma 5, lett. b]), completa la previsione dell’art. 3, comma 2, cit., che considera «abusivo» il rifiuto, da parte del committente, di stipulare il contratto in tale forma.

[43] V., in argomento, F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 532 ss. Ai sensi dell’art. 13-bis, comma 2, cit., «si considera equo il compenso (…) quando risulta proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione (…), e conforme ai parametri» ministeriali. Il potere del giudice di correggere la clausola difforme non si traduce però nella mera applicazione di tali parametri, di cui, infatti, questi solamente «tiene conto» in questa fase. Sul punto, vanno richiamate infine le osservazioni critiche formulate dall’AGCM prima che le disposizioni dell’art. 13-bis cit. entrassero in vigore: ad avviso dell’Autorità, queste violerebbero il principio europeo che vieta l’introduzione di minimi tariffari, ammessi solo quando questi integrino una misura coi caratteri di non discriminatorietà, necessarietà rispetto ad «un motivo imperativo di interesse generale» e proporzionalità rispetto a tale obiettivo (cfr. art. 15 dir. 2006/123/CE); v. però, criticamente su tali osservazioni, S. Monticelli, L’equo compenso, cit., 317 ss. L’impianto è sostanzialmente confermato anche nel d.d.l. n. 2419 cit., dove però l’art. 3, comma 6, si preoccupa di dettagliare ulteriori criteri che il giudice deve considerare nella sua «rideterminazione secondo i parametri previsti dai decreti», valorizzando «l’opera effettivamente prestata e chiedendo, se necessario, al professionista di acquisire dall’ordine o dal collegio a cui è iscritto il parere sulla congruità del compenso o degli onorari, che costituisce elemento di prova sulle caratteristiche, sull’urgenza e sul pregio dell’attività prestata, sull’importanza, sulla natura, sulla difficoltà e sul valore dell’affare, sulle condizioni soggettive del cliente, sui risultati conseguiti, sul numero e sulla complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate». La disposizione prevede, infine, la facoltà del giudice di ricorrere, «quando sia indispensabile ai fini del giudizio», ad una consulenza tecnica.

[44] Analogamente a quanto accaduto per l’«inefficacia» ex art. 1469-quinquies cod. civ. in tema di clausole vessatorie nei rapporti B2C (v., ad es., A. Bellelli, sub art. 1469-quinquies, 1° e 3° comma, cod. civ., in G. Alpa, S. Patti [a cura di], Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, I, Giuffrè, 1997, 689 ss.; V. Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria del potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, 769), anche per quella in commento la dottrina ha ritenuto trattarsi di una nullità speciale (v., ad es., M. Mattioni, La tutela del lavoro autonomo nelle transazioni commerciali [art. 2] e le clausole e le condotte abusive [art. 3, commi 1-3], in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve, cit., 282; contra, però, A. Barba, Studi sull’abuso, cit., 191 ss.).

[45] Nel senso che le tutele contrattuali della l. n. 81/2017 sarebbero, in generale, modulabili alla luce «della effettiva sussistenza ed entità di una condizione di debolezza del lavoratore autonomo», v. M. Pallini, Gli incerti confini dell’ambito di applicazione dello statuto del lavoro autonomo, in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve, cit., 248. Ragiona in termini di una agevolazione probatoria come espressione della volontà legislativa di «tipizzare una fattispecie settoriale di abuso di dipendenza economica», V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 112 s., che conclude per la tesi secondo cui la presunzione normativa non ammetterebbe la prova contraria (ivi, 116).

[46] Per l’opinione secondo cui la norma si applicherebbe a prescindere da una disparità di forza contrattuale, v. anche F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 506. Nella dottrina civilistica, sembrano muovere da questa idea anche le riflessioni di M.C. Venuti, Il Jobs Act dei lavoratori autonomi e le strategie di tutela del contraente debole nei rapporti “b2b”: il meticciamento delle regole come preludio a possibili approdi uniformi e le sfide per l’interprete, in questa Rivista, 2018, 550, che, nel tracciare un confronto tra la disciplina dell’art. 3, comma 1, l. n. 81/2017 e quella degli artt. 33 ss. cod. cons., paragona tali clausole a quelle della lista nera dell’art. 36 cod. cons.

[47] L’adozione di una tecnica di tutela del contraente debole nei rapporti B2B che richiama la strategia già adottata per la protezione del consumatore (il riferimento è in particolare alla disciplina delle clausole vessatorie) non è passata inosservata alla dottrina civilistica, la quale ha messo in evidenza il «meticciamento» delle tutele: v., in particolare, M.C. Venuti, Il Jobs Act dei lavoratori autonomi, cit., 549 ss.

[48] Sulle nullità di cui all’art. 6 l. subf., v. M.A. Livi, Le nullità, in V. Cuffaro (a cura di), La subfornitura, cit., 169 ss.; M.P. Suppa, Subfornitura (contratto di), in Enc. giur., XXX, Treccani, 2001, 7 ss.

[49] V., per tutti, C.M. Bianca, Diritto civile, 3, cit., 347: «La trattativa attesta che il contenuto del contratto è il risultato della comune volontà delle parti e non del potere impositivo del professionista».

[50] A. Perulli, Il Jobs Act degli autonomi, cit., 178 s.; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 541.

[51] M.C. Venuti, Il Jobs Act dei lavoratori autonomi, cit., 549.

[52] Sulla scorta di un ragionamento analogo a quello che è stato proposto per l’elenco di pratiche vietate per l’art. 62 d.l. n. 1/2012, prima della sua abrogazione: (supra, nota 39).

[53] Come è stato sottolineato dai primi commentatori della nuova legge, questa disposizione non regola la facoltà di recesso, né aggiunge requisiti di sostanza al suo esercizio: A. Alaimo, Lo “Statuto dei lavoratori autonomi”, cit., 613 s.; F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 515; cfr. pure A. Perulli, Il Jobs Act degli autonomi, cit., 186 s., secondo cui una diversa lettura sarebbe paradossale, in quanto ingiustificatamente peggiorativa rispetto alla tutela già prevista dal codice civile. Sottolinea l’«ottica procedimentale» della previsione di un termine di preavviso anche I. Zoppoli, Abuso di dipendenza economica e lavoro autonomo: un microsistema di tutele in difficile equilibrio, in Riv. it. dir. lav., 2019, I, 116, che l’A. mette a confronto con la «prospettiva sostanziale» della più incisiva tutela offerta dall’art. 9 l. subf., norma che considera, tra le potenziali fattispecie di abuso di dipendenza economica, «l’in­terruzione arbitraria delle relazioni commerciali». Tale disposizione ha però un più ristretto ambito di applicazione: v. infra, par. 7.

[54] V., in particolare, con riguardo all’art. 2227 cod. civ., M. Tescaro, Unitarietà e centralità del contratto d’opera, cit., 436; con riferimento all’art. 2237 cod. civ., l’A. (ivi, 445), pur considerando il contenuto di tale ultimo articolo come un’applicazione del principio generale espresso dalla prima disposizione citata, ne sottolinea la maggiore inclinazione a considerare l’aspetto fiduciario del rapporto tra committente e cliente, agevolando così, sul lato economico, l’esercizio del recesso da parte di quest’ultimo (l’indennizzo dovuto non prende in considerazione il mancato guadagno).

[55] Cfr., in relazione all’art. 2237 cod. civ., sempre M. Tescaro, Unitarietà e centralità del contratto d’opera, cit., 452 s. V. però A. Perulli, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e prestazioni professionali, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo, e continuato da L. Mengoni, Giuffrè, 1996, 727 ss., il quale, nel trattare la questione se l’apposizione di un termine ad un rapporto di durata implichi una rinuncia convenzionale al recesso di cui all’art. 2237 cod. civ., osserva come la natura straordinaria del potere conferito ex lege al committente (che si fonderebbe, nella visione dell’A., sulla particolare fiduciarietà della relazione contrattuale) ne giustifichi il riconoscimento a prescindere dal tipo di rapporto, istantaneo o di durata, e dall’esistenza o meno di un termine di efficacia.

[56] M. Mattioni, La tutela del lavoro autonomo, cit., 277 s.

[57] V. F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 514. Ivi, l’A. si chiede se tale disposizione, unitamente all’art. 14, comma 1, 81/2017, sulla sospensione del rapporto in caso di malattia, infortunio o maternità, abbia il significato di costruire un nucleo «rudimentale» della tutela specifica del «lavoro autonomo continuativo». L’A. giunge ad una soluzione negativa, osservando come entrambe le disposizioni si giustifichino alla luce di un dato tecnico relativo alla prestazione, la quale anziché essere uno actu, soddisfa un interesse che «si protrae per tutto il tempo in cui l’obbligazione si adempie». Del resto, con riguardo al recesso, la previsione del preavviso è tipica nel diritto civile con riguardo ai rapporti di durata: si pensi, oltre alla somministrazione (art. 1569 cod. civ. su cui infra), al mandato oneroso a tempo indeterminato (art. 1725, comma 2, cod. civ.: salva la giusta causa) e alla subfornitura (art. 6, comma 2, l. n. 192/1998, che ha contenuto analogo alla norma della l. n. 81/2017 ora in esame).

[58] Tali norme, piuttosto, come è stato osservato con riguardo all’art. 2227 cod. civ. (A. Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 326), tramutano l’esecuzione parziale dell’opera sino a quel momento realizzata in una sorta di adempimento parziale, di fatto consentendo l’applicazione dei principi propri del recesso dai contratti di durata (irretroattività). Risponde a questo principio anche l’art. 2237 cod. civ., con la differenza che, in questo caso, eccezionalmente (A. Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 715), il recedente non è tenuto a rimborsare al prestatore anche l’utile mancato. Di là da questa ricostruzione, il principio secondo cui al prestatore è dovuto un indennizzo commisurato all’attività svolta prima del recesso del committente trova conferma in altre disposizioni dei contratti tipici: v. artt. 1734 (commissione), 1738 (spedizione) cod. civ.; ma v. pure anche l’art. 1671 cod. civ., in tema di appalto, che commisura l’inden­nizzo alle spese sostenute, ai lavori eseguiti e al mancato guadagno. Con riguardo al mandato oneroso (non irrevocabile), posto che solo in caso di recesso senza giusta causa da un contratto a tempo indeterminato sorge, ai sensi dell’art. 1725, comma 2, cod. civ., l’obbligo del mandante recedente di risarcire il danno al mandatario, occorre osservare, con autorevole dottrina, che quest’ultimo ha in ogni caso diritto, per effetto dello scioglimento del contratto, ad un «compenso proporzionale all’opera fino a quel momento prestata ed al rimborso di tutte le anticipazioni e spese»: v. A. Luminoso, Mandato, commissione, spedizione, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo, e continuato da L. Mengoni, Giuffrè, 1984, 468.

[59] M. Tescaro, Ibidem, nonché, 145 s.; v. pure L. Fernandez del Moral Dominguez, Il contratto d’opera in generale, in P. Sirena (a cura di), I contratti di collaborazione, Utet, 2011, 702 e, con riguardo specificamente all’art. 1569 cod. civ., ivi, 763; D. Giacobbe, G. Giacobbe, Il lavoro autonomo. Contratto d’opera. Artt. 2222-2228, in Il Codice Civile. Commentario, fondato da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Giuffrè, 2009, 2ª ed., 74 s.

[60] Nella disciplina codicistica, a tenore dell’art. 1569 cod. civ., il parametro della congruità (avuto riguardo alla natura del contratto di somministrazione) qualifica ex lege il solo preavviso da rispettare allorché non sia stato pattuito un termine oppure questo non sia stabilito dagli usi.

[61] Cfr. F. Ferraro, Prime osservazioni, cit., 525, che evidenzia la gradazione delle tutele che consente il richiamo al divieto ex art. 9 l. subf., citando l’esempio del recesso: v. supra, nota 53.

[62] Sarebbe invece assoluta la presunzione contemplata dall’art. 17, comma 3, d.l. n. 1/2012, in relazione a condotte delle grandi imprese titolari di impianti di distribuzione di carburante o fornitrici – quelle che, in particolare, hanno lo «scopo di ostacolare, impedire o limitare, in via di fatto tramite previsioni contrattuali, le facoltà attribuite dal presente articolo al gestore» – che il legislatore ha stabilito integrare un «abuso di dipendenza economica, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192»: così V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 115 s.

[63] Cfr. A. Barba, Studi sull’abuso, cit., 162 ss., il quale, però, condivisibilmente ricorda (ivi, 164 s.) che l’art. 9 cit. ha un ambito di applicazione più ampio di quello descritto dalla relazionalità-dipendenza tecnica e tecnologica che contraddistingue la definizione di subfornitura (art. 1 l. n. 192/1998).

[64] Il riferimento è, in particolare, alla condizione del lavoratore genuinamente autonomo (non, dunque, quella di chi opera nel­l’ambito di un rapporto sostanzialmente subordinato “mascherato”), soggetto la cui forza sul mercato si è via via diversificata, disvelando situazioni di debolezza contrattuale e reddituale, che dipendono specialmente da rapporti continuativi di monocommittenza o committenza prevalente: v. sull’argomento, A. Perulli, Il Jobs Act degli autonomi, cit., 176, nt. 5; M. Pallini, Gli incerti confini, cit., 229 ss. (anche per riferimenti comparatistici). Come osservano gli autori appena citati, il concetto di lavoratore autonomo genuino ma «economicamente dipendente» è noto anche nella dimensione europea. Per un verso, la necessità di distinguere il lavoro autonomo «fittizio» e quello «genuino» è alla base di uno degli obiettivi specifici della proposta di direttiva COM (2021) 762 final, del 9 dicembre 2021, «relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali» (v., in particolare, gli artt. 3 ss., a proposito della «corretta determinazione della situazione occupazionale»); per altro verso, le specifiche esigenze di tutela delle fasce più deboli di lavoratori autonomi è oggetto di attenzione in alcuni atti delle istituzioni dell’Unione, sin dal Libro verde della Commissione UE «Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo», del 22 novembre 2006 (v. poi anche il parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema «Nuove tendenze del lavoro autonomo: il caso specifico del lavoro autonomo economicamente dipendente», 2011/C 18/08).

[65] Sull’importanza di declinare gli indicatori della dipendenza economica alla luce delle prospettive combinate del diritto civile e del diritto del lavoro, I. Zoppoli, Abuso di dipendenza economica, cit., 101 ss.

[66] V., in motivazione, App. Roma, 24 settembre 2021, cit.; anche secondo il ragionamento – in obiter dictum – di App. Venezia, 1° marzo 2022, cit., il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che la sua attività lavorativa era fondamentalmente dedicata al committente di cui si lamenta l’abuso e «fosse prestata con spese e investimenti non riutilizzabili con il resto della clientela». Rileva la difficile ricorrenza di questo presupposto nei rapporti di lavoro autonomo G. D’Amico, Giustizia contrattuale, cit., 599, nt. 61.

[67] Dove, in ogni caso, il concetto va interpretato secondo criteri economici e non giuridici: M. Libertini, La responsabilità per abuso di dipendenza economica, cit., 10 ss.

[68] G. Cavallini, Il divieto di abuso, cit., 293.

[69] I. Zoppoli, Abuso di dipendenza economica, cit., 109, che osserva che, per valutare questo parametro della dipendenza economica, «l’interprete dovrà necessariamente compiere un’indagine che non è necessariamente incentrata sulla relazione giuridica dei contraenti, ma anche allargata ad una prospettiva economica».

[70] In questo senso, potrà altresì assumersi che il dato della dipendenza reddituale rilevi come indice presuntivo di una dipendenza economica, che ha rilievo, dunque, sull’onere della prova del lavoratore autonomo. Per converso, l’assenza di una simile condizione può risultare indicativa, quand’anche il rapporto sia proseguito per molto tempo, dell’esistenza di ulteriori alternative sul mercato, ciò che esclude, come si è visto, la dipendenza economica: per questa ragione App. Bologna, 15 dicembre 2020, cit. ha ritenuto (ad abundantiam, dato che l’applicabilità dell’art 9 l. subf. era stata esclusa ratione temporis: v. supra nota 27) che non ricorresse quest’ultimo stato in capo alla professionista ricorrente, la quale, nonostante avesse intrattenuto una partnership con la casa di cura resistente di durata ultratrentennale, risultava avere avuto un considerevole giro d’affari anche al di fuori della relazione contrattuale con quest’ultima. A margine di questa pronuncia, si osservato che non potrebbe a priori escludersi la dipendenza economica del lavoratore autonomo nei confronti di un’impresa, per la sola circostanza che questi abbia, oltre ad essa, una pluralità di committenti: M. Biasi, Il corto raggio delle tutele “civilistiche” nel lavoro autonomo non imprenditoriale, in Dir. rel. ind., 2021, 507. Questa posizione può essere condivisa sino a che non si traduca, come pure è stato sostenuto con l’intento sottolineare la differenza tra «dipendenza economica “giuscommercialistica”» e «dipendenza economica “giuslavoristica”», in una sostanziale obliterazione del requisito dell’assenza, sul mercato, di alternative soddisfacenti: sembra andare invece in questa direzione F. Ferraro, [Non] buona la prima, cit., 743. Sulla declinazione del concetto di dipendenza economica del lavoratore autonomo per questo A., v. amplius Id., Professioni intellettuali e abuso di dipendenza economica, in Corr. giur., 2018, 220 s. Del resto, non sembra esservi una relazione biunivoca nemmeno tra lavoro economicamente dipendente e mono-committenza o committenza prevalente, nel senso che la prima condizione potrebbe ricorrere anche senza la seconda, proprio quando si tratti di un committente significativo per il lavoratore autonomo, e nella cui organizzazione si sia integrato per un tempo prolungato. Ciò che certamente raccomanda sul piano metodologico il necessario adeguamento del citato criterio al contesto del lavoro autonomo, che attiene, come è noto, a persone senza organizzazione di impresa (vista anche l’esclusione dell’art. 1, comma 2, l. n. 81/2017), è un’attenta ponderazione della singola vicenda, nella sua concretezza, alla luce dei parametri ora ricordati, assieme ad un confronto con la posizione di forza del committente: v., sul punto, C. Scognamiglio, Caso Foodora, cit., 1039.

[71] Come osserva M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica e recesso: i diversi rimedi, in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, spec. 966 ss., un’interruzione arbitraria delle trattative ai sensi dell’art. 9 l. subf. non necessariamente si fonda su una clausola gravosa o discriminatoria, da caducare: se ricorrono i presupposti della dipendenza economica, la clausola che prevede la facoltà di recesso può essere legittima; eppure, il comportamento dell’impresa forte, in quanto lesivo dell’affidamento di quella debole, può risultare comunque abusivo.

[72] Pare opportuno menzionare qui la celebre Cass. n. 20106/2009, cit., che ha affermato, in quell’ipotesi, il dovere del giudice di valutare il carattere eventualmente abusivo dell’esercizio del diritto di recesso ad nutum, previsto contrattualmente. Il discorso è condotto alla luce delle clausole generali, facendo leva, in particolare, sulla buona fede oggettiva (della cui violazione, l’abuso del diritto costituirebbe «criterio rilevatore»). Senza richiamare qui la mole di contributi che hanno commentato con varietà di accenti – spesso critici – l’uso in questa pronuncia della buona fede in senso oggettivo (v. i numerosi citati in V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 190, nt. 184), può osservarsi come, di per sé, quest’ultima, anche quando chiamata ad assolvere una funzione integrativa, non consente di sindacare la validità delle clausole che attribuiscono un diritto ad una parte (risultato a cui si sarebbe potuti pervenire per il tramite dell’art. 9, comma 3, l. subf.), ma solo di verificare la correttezza dell’esercizio di tale diritto.

[73] In argomento, v. A. D’Adda, La correzione del «contratto abusivo»: regole dispositive in funzione «conformativa» ovvero una nuova stagione per l’equità giudiziale?, in A. Bellavista, A. Plaia (a cura di), Le invalidità nel diritto privato, Giuffrè, 2011, 386 ss., che, condivisibilmente distingue le ipotesi di meccanica riespansione del diritto dispositivo da quelle in cui «le regole legali siano chiamate a colmare lacune che comprometterebbero l’autosufficienza del regolamento negoziale» (ivi, 387, corsivo dell’A.). V. anche, più di recente, Id., Integrazione, in Enc. dir., I Tematici, I, cit., 627 ss. Occorre tenere conto che l’A. riconduce nell’alveo delle clausole che delineano l’assetto di base del rapporto – e per le quali, dunque, la riespansione del diritto dispositivo non può dirsi “naturale” e, quindi, automatica, ma richiede un’ulteriore giustificazione – anche le pattuizioni che regolano la durata del rapporto contrattuale, i termini di pagamento e le conseguenze del ritardo.

[74] Nell’ambito delle relazioni contrattuali tra imprese nella filiera agricola e alimentare, nel divieto di imporre condizioni ingiustificatamente gravose di cui all’art. 62 cit., erano state ricondotte le clausole che determinano un prezzo eccessivamente basso per il produttore. L’attenzione ai prezzi è stata successivamente resa più evidente in occasione dell’attuazione della dir. 2019/633/UE: l’art. 5, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. n. 198/2021 annoverano, tra le «altre pratiche commerciali sleali» vietate, rispettivamente, l’acquisto «attraverso il ricorso a gare e aste elettroniche a doppio ribasso» e l’imposizione della vendita «a prezzi al di sotto dei costi di produzione». L’art. 7 cit., infine, limita l’ammissibilità della vendita c.d. sottocosto, stabilendo, al comma terzo, un meccanismo di sostituzione automatica del prezzo, che il legislatore ancora espressamente all’art. 1339 cod. civ. Sull’attenzione all’equilibrio economico del contratto in questo campo nell’assetto vigente, v. G. D’Amico, La giustizia contrattuale nelle filiere agro-alimentari, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 415 ss.; A. Iuliani, Il controllo sull’equilibrio economico dello scambio nei contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari. Note a prima lettura sul d.lgs. 8 novembre 2021, n. 198, ivi, 749 ss.

[75] V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 261 ss. In argomento v. anche S. Pagliantini, Alla ricerca della nullità di protezione B2B (tra dogmatica edittale e circolo ermeneutico), in Pers. mercato, 2022, 340 ss., che fonda la riduzione teleologica sull’argomento dell’ordine pubblico di protezione, declinato sulle esigenze di tutela nei rapporti B2B. In sostanza, mentre di norma, in base all’ordine pubblico, si procede a colmare una lacuna nelle norme imperative vietando ciò che da esse non risulta espressamente vietato, ma che tale deve intendersi alla luce dei principi alle stesse sottese, qui, sulla scorta dello stesso principio, l’effetto è quello di impedire la conseguenza voluta dalla norma generale (l’art. 1419, comma 1, cod. civ.), «a difesa dell’impresa vessata, evitando che si dica nullo un contratto se la sua caducazione premierebbe l’impresa scorretta». Come rileva questo A., occorre sul piano comparatistico rilevare la novità dell’art. 1184, comma 2, cod. civ. francese, il quale cristallizza, come limite generale all’estensione della nullità parziale all’intero contratto, la contrarietà di un simile esito allo scopo della comminatoria: «Le contrat est maintenu lorsque la loi répute la clause non écrite, ou lorsque les fins de la règle méconnue exigent son maintien». L’introduzione di una simile norma è auspicata nell’ordinamento italiano, anche al fine di contrastare un atteggiamento eccessivamente libero della giurisprudenza, che rischia di portare all’eccesso opposto di una disapplicazione dell’art. 1419, comma 1, cod. civ., anche al di fuori, cioè, dei presupposti che giustificherebbero una riduzione teleologica: v., per un’indagine approfondita sul punto, V. Bachelet, La “decodificazione” giurisprudenziale dell’art. 1419, primo comma, c.c. e le sue fattispecie, in Europa dir. priv., 2021, 553 ss.

[76] Un indice normativo a conferma di questo assunto si rinviene nell’art. 6 dir. 93/13/CEE, che precisa che la nullità parziale di protezione non si estende in linea di principio all’intero contratto, sempre che questo possa rimanere in piedi senza le clausole abusive.

[77] V., sia pure con diverse declinazioni G. D’Amico, L’integrazione cogente del contratto mediante il diritto dispositivo, in Id., S. Pagliantini (a cura di), Nullità per abuso ed integrazione del contratto, Giappichelli, 2013, 261 s., che discorre di un’inter­pretazione evolutiva. V. pure S. Pagliantini, Appunti a margine di Cass. 9735/2013: l’art. 1374 e la lacuna sopravvenuta, ivi, 203 ss.; Id., Profili sull’integrazione del contratto abusivo parzialmente nullo, ivi, 110 ss.; A. Federico, Nuove nullità ed integrazione del contratto, in A. Bellavista, A. Plaia (a cura di), Le invalidità nel diritto privato, cit., 329 ss.; C. Sartoris, Nullità di protezione e integrazione del contratto, in Riv. dir. priv., 2020, 626 ss. Cfr. infine F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. dir. civ., 2005, 699, nt. 105.

[78] Cfr. C. Sartoris, Nullità di protezione, cit., 627. Insiste sulla residualità dell’intervento giudiziale anche nell’ambito di applicazione dell’art. 1374 cod. civ. A. D’Adda, Integrazione, cit., 634. Del resto, va considerato che non sembra ammissibile un potere generalizzato del giudice di controllo del contenuto del contratto, al di fuori, cioè, degli spazi disegnati dalle norme che, in determinati contesti, ciò consentano: v. lo stesso G. D’Amico, Giustizia contrattuale, cit., 600 ss., che di conseguenza, invita alla cautela di fronte all’atteggiamento oltranzista della giurisprudenza, che, sulla scorta dei principi generali, si è in questo portata ben oltre i limiti delle fattispecie delineate dal diritto positivo.

[79] V. A. D’Adda, Integrazione, cit., 616. Se, ab origine vi è un difetto in relazione ad un aspetto essenziale del rapporto, un’integrazione è ipotizzabile, in termini generali, solo se si tratta di un profilo qualificabile come tale per il fatto di dare attuazione al contenuto del rapporto già definito dalle parti (nel senso che si tratta di profili imprescindibili per eseguire le obbligazioni contrattuali: ad esempio, il tempo e il luogo dell’adempimento), non, invece, quando si tratti di definire tale contenuto (ad esempio una delle prestazioni principali): cfr. ivi, 612 s., che fa salve le norme speciali che, appunto, consentono di completare il negozio anche con riferimento ad un elemento essenziale (v. infra, in questo par.).

[80] Cfr. ancora A. D’Adda, La correzione del «contratto abusivo», cit., 380 ss. e Id., Integrazione, cit., 616 e 634; rileva l’A (rispettivamente ivi, 382 e ivi, 616) che anche le tecniche di correzione del contratto parzialmente nullo sono state oggetto, sul piano generale, di una disciplina legislativa specifica (art. 1339 cod. civ., che fa riferimento alle sole regole cogenti di origine legale), rispetto alla quale esula e non risulta armonico l’art. 1374 cod. civ. (che richiama, in aggiunta, anche gli usi e l’equità). Contro la tesi di un’equità correttiva si esprime anche la recente analisi di G. Sicchiero, Un nuovo ruolo per l’equità ex art. 1374, in Giur. it., 2020, 2317 ss., che, pur criticando la tesi che riduce l’art. 1374 cod. civ. a norma meramente ricognitiva di ipotesi già contemplate dalla legge, precisa che questa norma può fondare un potere del giudice a rimedio di sopravvenienze eccezionali non regolate (quale può essere la pandemia da Covid-19), «ma non costituisce lo strumento per discutere il contenuto economico dei patti» (ivi, 2322).

[81] M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economicai, cit.,181 ss., che muove dall’assunto che all’art. 1339 cod. civ., per quanto disposizione eccezionale (e quindi insuscettibile di estensione analogica), vada riconosciuto un ambito di applicazione utile.

[82] A. D’Adda, La correzione del «contratto abusivo», cit., 379 s.; Id., Integrazione, cit., 633 s.; V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 290 ss. È stata d’altra parte ammessa, invece, la possibilità che la sostituzione automatica della clausola pattizia con un parametro legale operi quando la nullità discenda, anziché dalla violazione di un contenuto imperativo, dall’abuso dello spazio lasciato all’autonomia privata in relazione ad un determinato profilo della disciplina del rapporto (c.d. «diritto dispositivo a derogabilità condizionata»): cfr. S. Pagliantini, Alla ricerca della nullità di protezione B2B, cit., 344. Va osservato, in ogni caso, che, nella sua più compiuta formulazione (v. M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica, cit., 189 ss., oltre ai rilevanti chiarimenti in Ead., Abuso di dipendenza economica e recesso, cit., 965, nt. 22), la tesi che fonda l’integrazione sull’art. 1339 cod. civ. è il risultato di una riflessione che giunge a ritenere che l’art. 9 l. subf. (in particolare, il secondo comma, che sanziona l’imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie) non solo vieti un fascio di condotte e clausole contrattuali, ma anche imponga una misura-limite, ragionevole sulla base della logica del mercato, che, di conseguenza, assumerebbe altresì il ruolo di parametro di integrazione. L’applicazione diretta dell’art. 1339 cod. civ., alla luce di queste premesse, non sarebbe impedita dalla necessità di una concretizzazione giudiziale, atteso che il giudice è chiamato esclusivamente a ricavare un dato, oggettivamente predeterminabile per relationem. In dottrina, si dubita però che la norma speciale dell’art. 9 l. subf. abbia effettivamente un contenuto positivo di imporre una logica di mercato all’impresa che contragga con altra in condizione di abuso di dipendenza economica (come sembra ritenere M.R. Maugeri, Abuso di dipendenza economica e recesso, ibidem e Ead., Subfornitura e abuso di dipendenza economica, cit., 92 s., nt. 155): v. V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 292 ss.

[83] V., in relazione all’art. 1657 cod. civ. concernente l’appalto (ma l’affermazione potrebbe essere ripetuta anche per le altre disposizioni che si inseriscono in questa cornice), M. Dellacasa, Parti, oggetto, prezzo e forma dell’appalto, in Trattato dei contratti, III.1, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2014, 151 s.; in giurisprudenza, Cass., 5 aprile 2000, n. 4192.

[84] Secondo A. D’Adda, La correzione del «contratto abusivo», cit., 380 ss. e Id., Integrazione, cit., 616 e 634, ciò che consente, in questo caso, l’applicazione delle regole del diritto dispositivo alla lacuna determinata dalla caducazione di una clausola è la possibilità di considerare detta clausola difforme come una deroga abusiva del diritto dispositivo. Così, mimando la regola di sistema desumibile dal meccanismo di cui all’art. 1339 cod. civ., la determinazione pattizia (che, a differenza di quanto presuppone lo stesso art. 1339 cod. civ., non è qui illegittima per il solo fatto di essere difforme da quella legale, ma per l’avere abusato dell’autonomia in relazione a quel profilo riconosciuta dalla legge), è sostituita dal parametro stabilito dalla norma, dato che è proprio la rilevante difformità da questo ad avere «attivato quello “scrutinio” del patto che può condurre all’accertamento del suo carattere abusivo e quindi alla sua caducazione». La linearità di questo ragionamento, nel caso del corrispettivo iniquo per effetto di un abuso di dipendenza economica (ipotesi che l’A. non considera direttamente nella sua indagine: A. D’Adda, Integrazione, cit., 628, nt. 101), è però interrotta dalla considerazione che a determinare l’abusività della clausola non è l’entità della deroga dal diritto suppletivo, quanto l’es­sere stata questa il frutto di un abuso reso possibile da una particolare asimmetria. Nondimeno proprio la necessità di porre riparo ad un abuso, unitamente alla valorizzazione della valutazione legislativa che ritiene preferibile salvare un contratto anziché lasciarlo alla nullità integrale – che discenderebbe dall’indeterminatezza e indeterminabilità dell’oggetto – sembrano argomenti sufficienti, in questo caso, per ritenere comunque applicabili le regole particolari del diritto suppletivo anche in relazione al corrispettivo. Ritiene percorribile la strada di integrare, per il tramite delle norme in parola, la lacuna determinata dalla nullità ex art. 9, comma 3, l. subf. della clausola sul corrispettivo anche V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 304; Id., La clausola squilibrata è nulla, cit., 230. V. pure A. Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Eur. dir. priv., 1999, 379, che considera le prestazioni pecuniarie oggetto del corrispettivo le uniche lacune conseguenti alla nullità ex art. 9, comma 3, l. subf. in relazione all’equilibrio economico fondamentale del contratto suscettibili di integrazione, grazie a numerose norme dei contratti tipici, che, peraltro, l’A. ritiene suscettibili di applicazione analogica (sul punto, v. anche infra, nota seguente).

[85] Questa ratio è individuata con chiarezza, con riguardo alla corrispondente norma dell’appalto, da L.V. Moscarini, L’appalto, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, UTET, 1984, 716. Proprio questa ratio è considerata il filo conduttore delle numerose disposizioni che fissano criteri legali suppletivi di determinazione del corrispettivo in contratti del professionista o imprenditore al punto che, pur configurando, come si è appena ricordato, una deroga alla regola che fa discendere dall’indeterminabilità del­l’oggetto la nullità, essa è comunque considerata espressione di un diverso principio di determinabilità necessaria (v., in particolare, G. Gitti, Problemi dell’oggetto, in G. Vettori [a cura di], Regolamento, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, Giuffrè, 2022, 2ª ed., 24 ss.), che rende tali disposizioni non isolate nell’ordinamento (v. V. Caredda, sub art. 1657 c.c., in A. Luminoso [a cura di], Codice dell’appalto privato, Giuffrè, 2016, II ed., 345 e M. Pennasilico, Il corrispettivo, in V. Cuffaro [a cura di], I contratti di appalto privato, in Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno, G. Gabrielli, Giuffrè, 2011, 126).

[86] Sempre in relazione all’appalto, v., ad es., Cass. 5 aprile 2000, n. 4192; contra, Cass. 28 novembre 1984, n. 6193; il contrasto giurisprudenziale è riportato da M. Pennasilico, Il corrispettivo, cit., 125, cui si rinvia per ulteriori riferimenti.

[87] La giurisprudenza nega che possa essere sindacata la misura del corrispettivo, quando questa sia liberamente pattuita dalle parti (v. Cass., 22 novembre 1995, n. 12905). In direzione contraria, si è peraltro pronunciata di recente una parte della dottrina, ad avviso della quale gli artt. 2225 e 2233 cod. civ. sarebbero espressione di un principio inderogabile che, in negativo, impone all’autonomia privata un limite. In base a questa visione, la libertà negoziale non potrebbe spingersi al punto che il compenso risulti in aperta contraddizione con i criteri del «lavoro normalmente necessario» e del «decoro della professione» (parametri, questi, che rivelerebbero la centralità, nella prospettiva dell’ordinamento, della tutela dell’attività lavorativa della persona, anche senza indulgere nell’argomento, contro il quale è ancora orientato il diritto vivente – ad es., Cass., 28 giugno 2017, n. 16213 – dell’applicazione diretta dell’art. 36 Cost. ai rapporti di lavoro autonomo): cfr. M. Tescaro, Unitarietà e centralità del contratto d’opera, cit., 321 ss., che spiega che una simile contraddizione potrebbe emergere dalla circostanza che quanto pattuito stia al di sotto dei minimi dei parametri di riferimento eventualmente stabiliti (presunzione iuris tantum: ivi, 325). La nullità della clausola discenderebbe anche qui non dalla violazione di un preciso contenuto, ma dal superamento di confini dell’autonomia privata dettati dal legislatore alla luce di un bilanciamento di interessi (che forse giustifica altresì la collocazione del contratto d’opera nel Libro V del codice). La conseguenza che l’A. ricava, per il caso di un superamento di tali confini, è «un potere correttivo, da parte del giudice, della parte del contratto relativa al corrispettivo, sia pure solo in casi estremi».

[88] Poiché la tutela del lavoratore autonomo si applica anche ai rapporti «che hanno una disciplina particolare ai sensi dell’articolo 2222 del codice civile», ossia che rientrano nella disciplina dei contratti tipici di cui al libro IV – occorrerà verificare se esista una norma nel tipo rilevante che consenta, allo stesso modo, una integrazione (ad esempio, l’art. 1709 c.c. in tema di mandato). In realtà, potrebbe ritenersi la ricerca superflua nella misura in cui, come sopra si è detto (supra, note 84 e 85), si riconosce che, dove previste, queste norme siano espressione di un principio generale che le rendono suscettibili, in caso di lacuna, di applicazione analogica.

[89] V. supra, nota 64.

[90] Considera l’art. 9 l. subf., richiamato in quanto compatibile, dall’art. 3, comma 4, l. n. 81/2017, come «spiraglio normativo» per un riconoscimento del diritto del professionista ad un equo compenso in termini più ampi di quelli ricavabili dall’art. 13-bis l. n. 247/2012, P.P. Ferraro, Le deleghe sulle professioni organizzate in ordini e collegi e le proposte in discussione in materia di tariffe professionali, in in G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve, cit., 341.

[91] Sulla chiave di lettura dell’art. 9 l. n. 192/1998 che la ritiene espressione di una giustizia contrattuale di tipo «procedurale» anziché «sostanziale», v. V. Bachelet, Abuso di dipendenza economica, cit., 230 ss.

[92] Questa criticità, emersa con riguardo ai lavoratori dello spettacolo in S. Bologna, A. Soru (a cura di), Dietro le quinte, cit., 79, può essere immaginata anche per la generalità delle prestazioni artistiche e, più estensivamente, intellettuali.

[93] Nel lavoro culturale, si è già segnalato un altro importante fattore che induce i lavoratori autonomi a “sopportare” le condizioni ingiustificatamente gravose: il c.d. «ricatto della passione». V. supra nota 10.

[94] V. R. Semenza, O. Razzolini, A. Pilati, Conclusioni, in S. Bologna, A. Soru (a cura di), Dietro le quinte, cit., 161.

[95] Sottolineano la paura dei lavoratori autonomi «di passare per piantagrane», e quindi di essere sostituti anche grazie all’ampia offerta di lavoro nel settore della cultura R. Semenza, O. Razzolini, A. Pilati, Conclusioni, cit. 162.

[96] In questa direzione si è mossa la dir. 2019/633/UE, cit., che, come si è segnalato, prevede una doppia lista, nera (art. 3, par. 1) e grigia (art. 3, par. 2), e obbliga gli Stati ad adottare un apparato di sanzioni e ad individuare un’autorità di contrasto competente ad irrogarle (art. 4). Ad un tempo, si prevede il diritto della parte debole (i fornitori), nonché delle organizzazioni di tali soggetti e delle associazioni delle organizzazioni, di presentare denuncia, assicurando, dove occorra per evitare il rischio di ritorsioni commerciali, la tutela della riservatezza del denunciante (art. 5). Per una panoramica della direttiva, v. L. Russo, La direttiva UE sulle pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare: una prima lettura, in Riv. dir. civ., 2019, 1418 ss.; S. Pagliantini, Dal B2C al B2B: una prima lettura della dir. (UE) 2019/633 tra diritto vigente ed in fieri, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 220 ss.; A. Jannarelli, La “giustizia contrattuale” nella filiera agro-alimentare: considerazioni in limine all’attuazione della direttiva n. 633 del 2019, in Giust. civ., 2021, 199 ss. e, sulla sua attuazione nell’ordinamento italiano, ex aliis, A. Jannarelli, Il d.lgs. n. 198 del 2021, attuativo della direttiva n. 633/2019, sulle pratiche scorrette nella filiera agroalimentare: una prima lettura, in Giust. civ., 2022, 739 ss.; S Pagliantini, L’attuazione della direttiva 2019/633/UE e la toolbox del civilista, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 393 ss.

[97] Intendendosi per tale un apparato sanzionatorio ulteriore e più specifico di quello previsto dallo stesso art. 9, comma 3-bis, l. cit., il quale, come si è visto supra, nota 14, riguarda i soli casi di abuso di dipendenza economica che abbiano l’effetto di incidere sul gioco della concorrenza.

[98] Specialmente qualora si prevedesse, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 27, comma 7, cod. cons. nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette, un meccanismo procedurale che consenta all’impresa “sotto accusa” di evitare la sanzione, impegnandosi a «porre fine all’infrazione, cessando la diffusione ella stessa o modificandola in modo da eliminare i profili di illegittimità». Ancora, si consideri lo spunto che proviene dall’art. 13, par. 2, lett. b), dir. 2005/29/CE, come modificata dalla dir. 2019/2161/UE, che annovera tra i criteri di cui tenere conto per la determinazione della sanzione da irrogarsi le «eventuali azioni intraprese dal professionista per attenuare il danno subito dai consumatori o per porvi rimedio».

[99] V., in punto, con riguardo alle partiche commerciali scorrette nei rapporti tra imprese e consumatori, C. Granelli, Pratiche commerciali scorrette: le tutele, in Enc. dir., I Tematici, I, cit., 827 ss.

[100] V., ad es., con riguardo alle «buone pratiche commerciali» nella filiera agroalimentare, l’art. 6, d.lgs. n. 198/2021, che prevede la possibilità di utilizzare a fini pubblicitari la dicitura «Prodotto conforme alle buone pratiche commerciali nella filiera agricola e alimentare», fermo il controllo dell’autorità designata per il contrasto alle pratiche sleali (l’ICQRF); v. su questa norma L. Vizzoni, Il rilievo delle buone pratiche nella filiera agroalimentare, in Nuove leggi civ. comm., 2022, 734 ss. Un modello di codice di condotta è invece previsto, con riguardo alle pratiche B2C, dall’art. 27 bis cod. cons.

[101] Occorre muovere dalla consapevolezza che, come sottolinea S. Bologna, Introduzione, in Id., A. Soru (a cura di), Dietro le quinte, cit., 13 s., il problema è anche “educativo” e, di fatti, tende ad accentuarsi per i lavoratori più giovani: «Riteniamo quindi che sia un dovere morale degli istituti di formazione, università pubbliche e accademie private educare i giovani alla solidarietà, intesa non come pulsione morale e problema del dover essere, ma proprio come strategia di mercato, in quanto l’esperienza ci dice che, in tutti i settori, una volta che si abbassano le tariffe o i salari, è estremamente complicato poi aumentarli. Accettare di lavorare per un euro meno del collega significa porsi nella condizione di avere sempre qualcuno disposto a portarti via il lavoro con un altro euro di meno. È quindi una strategia suicida, che ha già portato dei guasti. Molti intervistati con un’anzianità lavorativa precedente l’introduzione del digitale denunciano questa spaccatura generazionale in atto tra di loro e i giovani che escono dalle scuole disposti a sostituirli accettando compensi irrisori».