Il saggio si propone di indagare la questione della decorrenza dell’azione di riduzione alla luce dei differenti orientamenti formatisi in dottrina e in giurisprudenza in proposito, in particolar modo con riguardo all’ipotesi in cui la lesione dei diritti dei legittimari derivi da disposizioni testamentarie. L’indagine implica l’analisi di numerosi istituti giuridici del diritto successorio, e delle relazioni tra l’azione di riduzione ed altre azioni, non soltanto tipicamente successorie. Inoltre, essa offre lo spunto per esaminare in termini generali, e quindi al di là della materia successoria, l’effettiva rilevanza della tradizionale distinzione tra impedimenti di fatto e impedimenti di diritto rispetto alla decorrenza della prescrizione, muovendo dalla questione della conoscibilità da parte dei legittimari delle disposizioni testamentarie lesive dei loro diritti.
Parole chiave: azione – riduzione – prescrizione – decorrenza.
The essay is aimed at investigating the issue of the starting date for the reduction action in light of the various guidelines provided by scholars and case law in this regard, particularly with respect to cases where the infringement of the mandatory heirs’ rights results from provisions of the will. Several legal arrangements in succession matters are analysed in the context of the discussion, as well as the relationships between the reduction action and other actions, not only those typically belonging to the succession matters. Furthermore, the investigation gives the opportunity to assess in general terms, that is, beyond such matters, the actual importance of the traditional distinction between factual impediments and legal impediments with respect to the running of the limitation period, moving from the issue of the ability of the mandatory heirs to know the provisions of the will infringing their rights.
1. I differenti orientamenti sul dies a quo della prescrizione dell’azione di riduzione e la soluzione delle Sezioni Unite - 2. Perplessità e critiche della dottrina nei riguardi di tale soluzione - 3. Azione di riduzione e accettazione dell’eredità - 4. L’interesse ad agire nell’azione di riduzione - 5. L’orientamento tradizionale e le sue implicazioni - 6. Interferenze con altre azioni - 7. Impedimenti di fatto e decorrenza della prescrizione - NOTE
La questione della prescrizione dell’azione di riduzione delle disposizioni lesive dei diritti dei legittimarî ha formato oggetto di un dibattito giurisprudenziale e dottrinale, oggi piuttosto sopito, eppure vivace fino a qualche anno fa. Tale questione concerne, più precisamente, l’individuazione del dies a quo di tale prescrizione, non essendo invece controversa l’applicazione alla materia in esame del termine ordinario decennale della prescrizione, se si fa eccezione di un’opinione espressa in dottrina, secondo la quale il diritto del legittimario di agire in riduzione sarebbe imprescrittibile, in coerenza con la tesi sostenuta da quella stessa dottrina, secondo la quale il legittimario sarebbe titolare di un diritto reale sopra i beni oggetto delle disposizioni testamentarie o donative che ledano la sua quota di riserva [1].
Sul punto della data di decorrenza della prescrizione si erano invece delineati orientamenti differenti. Per meglio dire, l’orientamento più tradizionale della giurisprudenza, per anni pressoché incontrastato, secondo il quale tale data dovrebbe coincidere con quella di apertura della successione [2], al pari della prescrizione di altri diritti in materia successoria, è stato disatteso sul finire del secolo scorso da alcune pronunce di legittimità e di merito, anticipate peraltro da un precedente del 1970, secondo le quali la decorrenza della prescrizione, nel caso di successioni regolate da testamento, dovrebbe coincidere con la pubblicazione del testamento, poiché la possibilità per il legittimario di far valere il suo diritto presupporrebbe la conoscenza delle disposizioni lesive [3]. Attenendosi a questa seconda impostazione, si dovrebbe concludere che, nel caso di successione intestata, il momento di decorrenza della prescrizione sia invece quello dell’apertura della successione; anche se, in tale ipotesi di successione (almeno se integralmente intestata), non si pone la questione dell’esercizio dell’azione di riduzione, poiché un’ipotetica lesione dei legittimarî in concorso con altri eredi legittimi sarebbe solo virtuale, giacché opera la riduzione automatica prevista dall’art. 553 cod. civ. [4]. Tuttavia, si è osservato che, anche nell’ipotesi di successione testamentaria, se il relictum non bastasse ad integrare la legittima, e occorresse quindi impugnare per riduzione anche le donazioni, pur quando si facesse applicazione dell’orientamento da ultimo richiamato, incentrato sul profilo della conoscenza della lesione da parte del legittimario, il termine dovrebbe decorrere dall’apertura della successione, poiché questi, sin da tale data, avrebbe consapevolezza che la lesione dipende anche dalle donazioni [5].
A comporre il contrasto in tal modo creatosi sono quindi intervenute le Sezioni Unite della Cassazione, che, con una sentenza del 2004, si sono pronunciate discostandosi dall’una e dall’altra linea di pensiero, e hanno deciso che, quanto alla riduzione di disposizioni testamentarie, la prescrizione inizia a decorrere a partire dal momento dell’accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza di tali disposizioni, restando invece la sua decorrenza ancorata alla data di apertura della successione qualora si tratti di impugnare donazioni, “non essendo sufficiente il relictum a garantire al legittimario il soddisfacimento della quota di riserva” [6]. Si noterà che, con la riportata formulazione, si dà rilievo al dato oggettivo della insufficienza del relictum alla data di apertura della successione, indipendentemente dal profilo della conoscibilità di tale insufficienza.
La distinzione tra disposizioni testamentarie e donazioni, agli effetti della decorrenza della prescrizione, non aveva trovato risalto nella giurisprudenza precedente, le cui affermazioni di principio non avevano specifico riguardo al fatto che l’azione di riduzione potesse essere diretta, di volta in volta, nei confronti di disposizioni testamentarie ovvero di donazioni, sebbene tale distinzione debba darsi per implicita rispetto all’orientamento che ricollegava l’inizio della prescrizione alla pubblicazione del testamento.
La questione del dies a quo della prescrizione del diritto del legittimario non sembra invece aver richiamato particolarmente l’interesse della giurisprudenza formatasi successivamente alla sentenza delle Sezioni Unite, alla quale si è fatto richiamo più che altro in relazione alla riduzione di donazioni, per affermare che, in tal caso, la prescrizione decorre dall’apertura della successione, e dunque in relazione ad una ipotesi che non attiene al nucleo del principio fissato dalle Sezioni Unite, incentrato sulla lesione della legittima ad opera di disposizioni testamentarie [7].
Alla base di tale principio, vi è l’argomento secondo il quale, fino all’accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza della disposizione lesiva, la lesione del legittimario sarebbe meramente potenziale, facendosi attuale soltanto con l’accettazione: essa segnerebbe, pertanto, il momento a partire dal quale il diritto del legittimario, agli effetti dell’art. 2935 cod. civ., potrebbe essere fatto valere, poiché, prima di allora, vi sarebbe un impedimento di carattere propriamente giuridico al suo esercizio. Per tale ragione, la Cassazione, nel prendere posizione sul contrasto giurisprudenziale, ha reputato di dover disattendere il tradizionale orientamento, che ricollegava all’apertura della successione il suddetto momento; allo stesso tempo, però, condividendo l’affermazione contenuta in alcune delle sentenze rappresentative di quello stesso orientamento [8], secondo la quale la conoscenza della disposizione testamentaria lesiva sarebbe irrilevante ai fini della decorrenza della prescrizione, giacché la sua ignoranza costituirebbe un impedimento di mero fatto. L’affermazione è coerente con un principio più volte enunciato in materia di prescrizione in generale, secondo il quale non rileverebbero, appunto perché considerati impedimenti di fatto e non di diritto, gli stati di conoscenza relativi all’esistenza degli elementi costitutivi del diritto della cui prescrizione si tratta [9]. Ne conseguirebbe che, una volta intervenuta l’accettazione dell’eredità devoluta per testamento, non è d’ostacolo alla decorrenza della prescrizione il fatto che il legittimario non abbia conoscenza di tale accettazione.
Proprio su questa base è stata motivata la mancata adesione alla tesi accolta da quella giurisprudenza che riconnetteva alla pubblicazione del testamento la possibilità di esercitare il diritto di impugnazione del legittimario, sempre agli effetti dell’art. 2935 cod. civ., argomentata con il fatto che tale pubblicazione consentirebbe di rendersi conto della lesione della riserva del legittimario, creando, anzi, una presunzione di conoscenza iuris tantum delle disposizioni contenute nel testamento [10]. Quest’ultima affermazione è esplicitamente confutata nella sentenza delle Sezioni Unite, ove si sostiene che una tale presunzione non avrebbe riscontro nelle norme, né fondamento logico; e si adduce, in contrario, una serie di ragioni legate alle modalità e alla funzione della pubblicazione del testamento olografo (e del testamento segreto), nonché alla comunicazione del testamento pubblico ex art. 623 cod. civ., analiticamente illustrate in motivazione [11].
Dunque, non sarebbe l’elemento della conoscenza ad incidere sulla possibilità di esercizio del diritto, e, di conseguenza, sulla decorrenza della prescrizione, bensì il dato della attualità della lesione subita dal legittimario, determinata dall’accettazione dell’eredità; un dato, quindi, oggettivo (a prescindere dalla fondatezza o meno della tesi che riconduce all’accettazione l’attualità della lesione), indipendente dal dato soggettivo della conoscenza della disposizione lesiva, ma anche dal dato della sua conoscibilità, da valutare in base a parametri oggettivi.
Può essere interessante notare come il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, appunto fondato sulla decisiva rilevanza dell’accettazione dell’eredità, sia stato talora interpretato, anche molto autorevolmente, nel senso che tale accettazione sarebbe quella del legittimario leso, e non quella dei beneficiarî della disposizione lesiva. Coerentemente con tale lettura della sentenza, si è quindi rilevata l’impossibilità di fare applicazione del principio nell’ipotesi, non specificamente contemplata nella sentenza, di totale pretermissione del legittimario, non essendovi una delazione in suo favore; cosicché, nei riguardi di costui, la prescrizione inizierebbe a decorrere dall’apertura della successione, salvo che la pretermissione derivi da un testamento olografo, poiché, in tal caso, secondo la richiamata dottrina, la decorrenza prenderebbe data dalla pubblicazione del testamento [12].
Si tratta, però, di una lettura che non sembra riflettere l’effettivo contenuto del principio espresso nella sentenza, soprattutto alla luce di alcuni passaggî della motivazione, dai quali risulta chiara la contrapposizione tra la figura del legittimario leso e quella del beneficiario della disposizione testamentaria lesiva, la cui accettazione sarebbe, in tesi, decisiva ai fini della decorrenza della prescrizione [13]; in particolar modo nella parte in cui la Corte sottolinea che il legittimario può avvalersi dell’actio interrogatoria ex art. 481 cod. civ. per provocare l’accettazione del chiamato all’eredità per testamento, e sciogliere così l’incertezza legata alle possibili decisioni di questi in ordine all’acquisto dell’eredità. Non è dunque l’esercizio del proprio diritto di accettare l’eredità (sempre che non vi sia pretermissione totale) a condizionare e a rendere possibile – secondo l’impostazione delle Sezioni Unite – l’esercizio del diritto del legittimario di agire in riduzione (onde sarebbe lo stesso legittimario, attraverso l’esercizio di un suo diritto presupposto, a determinare il momento di decorrenza della prescrizione del diritto in questione), bensì l’esercizio dell’altrui diritto di accettare l’eredità da parte del rispettivo titolare. Riferita l’accettazione dell’eredità alla istituzione ereditaria in favore di altri, la posizione del legittimario pretermesso non è pertanto diversa da quella del legittimario semplicemente leso dal punto di vista della decorrenza della prescrizione: per l’uno e per l’altro la lesione della legittima assumerebbe concretezza con tale altrui accettazione ereditaria.
Al di là di tale alternativa interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite, la varietà di soluzioni prospettate dalla citata dottrina, tale da ricomprendere, sia pure in relazione a ipotesi differenti, tutti i criterî individuati dalla giurisprudenza per stabilire il momento di decorrenza della prescrizione (accettazione dell’eredità, sebbene riferita all’accettazione del legittimario stesso; apertura della successione; pubblicazione del testamento), è sintomatica della complessità della questione.
Le valutazioni espresse dai commentatori di tale sentenza sono eterogenee, ma, nel complesso, le critiche appaiono superiori ai consensi. Anche coloro che hanno mostrato di apprezzare nell’insieme il criterio con essa adottato hanno, in effetti, manifestato riserve e perplessità [14].
Certo, si tratta di un criterio che si espone ad alcuni rilievi immediati, come quello della impossibilità di applicazione alle disposizioni testamentarie a titolo particolare, in considerazione del modo di acquisto dei legati, che non richiede accettazione [15]. Ne consegue che, qualora la disposizione lesiva consista in un legato, la prescrizione prenderebbe data dall’apertura della successione.
Tale rilievo, di per sé, non infirma le basi del suddetto principio di diritto; piuttosto, ne circoscrive l’àmbito applicativo, non potendo operare in relazione alle disposizioni testamentarie indistintamente considerate, ma dovendo limitarsi alle sole disposizioni a titolo universale. Ciò, peraltro, comporta che, agli effetti della prescrizione dell’azione di riduzione, il legato verrebbe trattato nello stesso modo delle donazioni, creando così un disallineamento rispetto alla disciplina risultante dagli artt. 558 e 559 cod. civ. sul sistema di riduzione, uguale per tutte le disposizioni testamentarie, “senza distinguere tra eredi e legatarî”, e improntato alla regola della proporzionalità e della simultaneità, diversamente dal sistema di riduzione delle donazioni, basato sul criterio cronologico successivo e retrogrado.
Una tale distonia, però, non è argomento che valga di per sé a demolire il fondamento del principio espresso, giacché decorrenza della prescrizione dell’azione e modo di operare della riduzione attengono a piani diversi; cosicché non crea un vulnus del sistema l’assimilazione del legato alla donazione sotto il primo profilo, sebbene la legge lo equipari alla istituzione di erede sotto il secondo profilo. Del resto, anche ad altri effetti, come è noto, legati e donazioni sono assoggettati ad un medesimo trattamento giuridico, che – stando almeno alla lettera della legge – non riguarda invece le istituzioni di eredità (cfr. artt. 552, 553, 560, 561, 564 cod. civ.), sebbene, in realtà, alcune disposizioni testualmente dettate in relazione a legati e donazioni, o a donazioni soltanto, si reputino applicabili anche alle istituzioni di erede [16].
Né la sistematica del codice vigente riproduce quella dell’abrogato codice, che regolava separatamente la riduzione delle disposizioni testamentarie da quella delle donazioni [17]: l’una nel titolo II del libro terzo, intitolato alle successioni (artt. 821 ss. cod. abr.), l’altra nel titolo III del medesimo libro, intitolato alle donazioni (artt. 1091 ss. cod. abr.). Anche alla luce dell’attuale sistematica codicistica, è opinione da tempo consolidata quella che riconosce l’unitarietà dell’azione di riduzione, quale che sia l’atto del de cuius da impugnare, nonostante il diverso meccanismo di riduzione [18]. Semmai, è proprio tale unitarietà, che accomuna tutte le disposizioni testamentarie e gli atti di liberalità inter vivos, più che la distinzione tra legati e donazioni da un lato, e istituzioni di erede dall’altro, a suscitare qualche perplessità nel differenziare la decorrenza della prescrizione.
Colpisce comunque il fatto che le Sezioni Unite, chiamate a dirimere un contrasto di orientamenti, non abbiano precisato gli esatti limiti del principio espresso, il quale non può essere idoneo a regolare la prescrizione dell’azione di riduzione di tutte le disposizioni testamentarie, potendo operare solo quando si tratti di ridurre disposizioni a titolo universale; o, per meglio dire, in presenza di disposizioni testamentarie a titolo universale da ridurre (il senso di questa precisazione dovrebbe risultare più chiaro alla luce di quanto tra breve si dirà con riguardo all’ipotesi di disposizioni da ridurre di diversa natura).
Altro motivo di critica quasi intuitivo deriva dal rilievo delle difficoltà ed incertezze nelle quali verrebbe a trovarsi il legittimario con riguardo all’ipotesi di accettazione tacita dell’eredità [19], solo incidentalmente evocata nella sentenza di cui si discorre, senza far cenno a tali difficoltà [20]: per non rischiare di incorrere nella prescrizione, egli dovrebbe infatti farsi carico di individuare tutti gli atti e le condotte dei chiamati all’eredità potenzialmente idonei a comportare un’accettazione ex art. 475 cod. civ., e di svolgere valutazioni, spesso non semplici, intorno alla rilevanza di tali atti e condotte per stabilire se essi davvero integrino accettazione tacita, o se non siano invece espressione dei poteri di conservazione, di amministrazione temporanea e di vigilanza attribuiti al chiamato in pendenza dell’accettazione.
Il principio in esame è stato criticato anche in considerazione dell’ipotesi di lesione della legittima provocata da una pluralità di atti: disposizioni testamentarie, eventualmente sia a titolo universale, sia a titolo particolare, e atti di liberalità inter vivos. Attenendosi al suddetto principio, la decorrenza del termine di prescrizione per agire in riduzione dovrebbe individuarsi nella data di accettazione dell’ultimo dei chiamati all’eredità per testamento, poiché solo a tal punto si determinerebbe la lesione, nella sua effettiva misura; e ciò, anche in presenza di legati e di donazioni, che invece, in assenza di disposizioni testamentarie a titolo universale, determinerebbero la decorrenza della prescrizione a partire dall’apertura della successione. Il che equivarrebbe anche a dire che, nell’ipotesi cennata, fino all’accettazione dell’ultimo dei chiamati, il legittimario non potrebbe agire in riduzione, non solo nei confronti del chiamato che non abbia ancora accettato, ma neppure nei confronti dei legatarî; né – ove servisse, per la insufficienza della riduzione delle disposizioni testamentarie ad integrare la legittima – dei donatarî [21].
Secondo un’altra dottrina, invece, nel caso in cui la riduzione delle sole disposizioni testamentarie non bastasse ad integrare la quota di riserva, e occorresse perciò impugnare le donazioni, non potendosi ipotizzare una decorrenza differenziata della prescrizione, poiché l’azione è unica, il decorso della prescrizione dovrebbe prendere data dall’apertura della successione [22].
L’una e l’altra opinione assumono, dunque, che la decorrenza della prescrizione sarebbe la medesima per tutti gli atti del de cuius da impugnare con l’azione di riduzione. Il che appare corretto, senza possibilità di fare distinzione secondo che le impugnazioni siano proposte nello stesso processo, o invece in separati processi. È insegnamento comune, in effetti, quello che esclude la necessità di litisconsorzio nell’azione di riduzione [23], sia dal lato attivo, tale cioè da richiedere che tutti i legittimarî lesi agiscano nello stesso processo; sia dal lato passivo, tale cioè da richiedere che tutti i soggetti gratificati da disposizioni lesive dei diritti di uno o più legittimarî siano convenuti nello stesso processo. Dovrebbe pertanto ammettersi la possibilità di agire solo contro alcuni dei legittimati passivi [24], e perciò di domandare la riduzione di alcune disposizioni e non di altre (nel rispetto dei criterî legali sul modo di ridurre disposizioni testamentarie e donazioni [25]); come pure dovrebbe ammettersi che, chiesta la riduzione di una disposizione in un primo giudizio, possa chiedersi la riduzione di altre in successivi giudizî, fermi restando i limiti soggettivi dei rispettivi giudicati, che quindi investiranno le sole parti dei relativi processi; mentre l’estensione oggettiva del giudicato comporterà che la reintegrazione della quota del legittimario sarà limitata alla misura della lesione provocata dalle disposizioni testamentarie o dalle donazioni ridotte con la sentenza dalla quale il giudicato promana (potendosi, appunto, dare il caso di una pluralità di sentenze, che riducano disposizioni differenti, emesse nei confronti dei rispettivi beneficiarî).
La possibilità di un tale frazionamento della tutela giurisdizionale, tuttavia, non dovrebbe incidere sulla decorrenza della prescrizione. Il già rammentato carattere unitario dell’azione, e le relazioni tra i varî atti impugnabili determinate dal modo con il quale essi vanno ridotti (cfr. artt. 555, comma 2, 558 e 559 cod. civ.), non consentono di rendere indipendenti le relative impugnazioni agli effetti anzidetti, quand’anche tali impugnazioni siano separatamente proposte. Non potrebbe quindi condividersi l’ipotesi – qualora fosse riferita ad una medesima successione – prospettata da un Autore quale argumentum ab inconvenienti per disattendere il criterio elaborato dalle Sezioni Unite, alla cui stregua si determinerebbero differenti dies a quibus in relazione alla differente natura delle disposizioni lesive (data di apertura della successione rispetto a donazioni e legati; data di accettazione dell’eredità rispetto a istituzioni di erede), così da provocare una disparità di trattamento, che l’Autore definisce irragionevole, poiché il legittimario che intendesse impugnare una disposizione a titolo universale avrebbe molto più tempo a disposizione, a paragone con il caso in cui intendesse impugnare donazioni o legati [26]. Una decorrenza differenziata della prescrizione, determinata dalla natura della disposizione da impugnare, è bensì esplicitamente contemplata nella sentenza del 2004, ma deve intendersi riferita a successioni diverse (anche su questo aspetto, una precisazione da parte delle Sezioni Unite sarebbe stata opportuna).
Pertanto, quand’anche il legittimario ripartisse la sua tutela in differenti processi e nei riguardi di disposizioni di diversa natura, vi sarebbe la necessità di individuare un’unica data di decorrenza della prescrizione; la quale, facendo applicazione del principio stabilito dalle Sezioni Unite, andrebbe collocata nel punto più avanzato nel tempo tra i due presi in considerazione, ossia nel momento di accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza della disposizione testamentaria lesiva, piuttosto che in quello di apertura della successione. Tale conclusione si giustifica, non tanto perché, diversamente opinando, il suddetto principio finirebbe per essere disapplicato tutte le volte in cui, oltre a disposizioni testamentarie a titolo universale, vi fossero donazioni da ridurre; e neppure in considerazione di una ipotetica prevalenza delle esigenze del legittimario su quelle altrui di certezza e stabilità dei rapporti giuridici; quanto perché, se si muove dall’assunto che è tale accettazione a perfezionare la fattispecie della lesione della legittima, solo una volta completata tale fattispecie [27], potrà determinarsi, non solo l’esistenza di una lesione, che legati o donazioni potrebbero già bastare a provocare, ma anche la sua misura, la cui indicazione è necessaria per proporre l’azione, gravando sull’attore l’onere di indicare in quali limiti la riserva sia stata violata [28], e anche per capire se effettivamente debba farsi luogo a riduzione delle donazioni per l’insufficienza del relictum.
Come può notarsi, la soluzione fornita dalle Sezioni Unite non dà una risposta definitiva a tutte le possibili questioni, sollevandone, anzi, di nuove rispetto a quelle che si potrebbero riconnettere alla soluzione unitaria fornita dall’orientamento più tradizionale, che riconduce in ogni caso al momento di apertura della successione. Il dibattito che essa ha aperto a suo tempo, e che – come si è notato – ha perduto vivacità negli anni seguenti, meriterebbe perciò di essere ripreso.
Inoltre, sul piano della certezza dei rapporti giuridici, è facile osservare come l’applicazione del criterio accolto dalle Sezioni Unite, a paragone con gli altri criterî individuati dagli interpreti, possa condurre ad una dilatazione assai notevole del tempo disponibile per la proposizione dell’azione di riduzione. Infatti, ferma restando la possibilità di comprimere tale tempo attraverso l’actio interrogatoria, che comunque presuppone quantomeno la conoscenza di una vocazione in favore di altri, non potendosi certo proporre in incertam personam l’azione ex art. 481 cod. civ., si comprende come, appunto in applicazione del suddetto criterio, al decennio prescrizionale del diritto di accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza della disposizione lesiva potrebbe sommarsi l’ulteriore decennio, entro il quale si prescriverebbe l’azione di riduzione del legittimario leso.
Talora è stata ipotizzata una sorta di simmetria, o comunque di connessione molto stretta, tra il diritto di accettare l’eredità e quello di chiedere la reintegrazione della quota di riserva, dalla quale dovrebbe discendere una uniformità di disciplina rispetto alla decorrenza della prescrizione: vale a dire che la decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione, non regolata dalla legge, dovrebbe conformarsi – secondo alcuni autori – a quella della prescrizione del diritto di accettare l’eredità, regolata dall’art. 480, comma 2, cod. civ., che individua nel giorno dell’apertura della successione il dies a quo [29].
Posto che il cennato parallelismo si svolge, per così dire, in una prospettiva unitaria, ossia dal punto di vista di un legittimario, che sia destinatario di una delazione ereditaria, e che veda però menomata la sua quota di riserva da disposizioni di cui potrebbe domandare la riduzione, laddove l’accettazione di eredità alla quale la sentenza delle Sezioni Unite annettono l’effetto di far decorrere la prescrizione del diritto del legittimario di agire in riduzione è quella proveniente del soggetto istituito con la disposizione da ridurre, tale parallelismo non si giustifica neppure nella cennata prospettiva.
Qualora egli sia stato pretermesso, ed intenda reclamare la sua quota di riserva (che non sia stata soddisfatta mediante donazioni o legati [30]), l’acquisto dell’eredità da parte sua sarà una conseguenza, non di un’accettazione di eredità, ma – come è stato autorevolmente osservato – di un meccanismo complesso, in cui l’atto di accettazione rimane assorbito, poiché il reclamo della quota non implica accettazione, consistendo in un atto di natura diversa, che, nella fattispecie di acquisto dell’erede necessario, sostituisce l’accettazione in ordine cronologico inverso rispetto a quello in cui l’accettazione si inserisce, completandola, nella fattispecie di acquisto dell’eredità per vocazione testamentaria o intestata. In questo caso, ad aprire il ciclo formativo dell’acquisto, vi è un atto di volontà del legittimario, e, a chiuderlo, la sentenza che accoglie la domanda; cosicché la delazione della quota coincide con l’acquisto [31].
Sulla effettiva posizione del legittimario pretermesso conseguente alla sentenza che accolga la sua domanda, oltre ad opinioni significativamente diverse in dottrina, si registra una certa ambiguità in giurisprudenza: alcune pronunce sembrano infatti ricollegare l’acquisto dell’eredità a tale sentenza, una volta divenuta definitiva; altre sembrano invece riconoscere al legittimario vittorioso nell’azione di riduzione la qualità di chiamato all’eredità, la quale dovrebbe perciò essere da costui ancora accettata (nel termine decennale di prescrizione, che dunque decorrerebbe dal giudicato formatosi sulla sentenza di riduzione) [32]; ma né dalle une, né dalle altre è dato di trarre indicazioni chiare ed univoche sul punto [33]. Se si conviene, però, che, nell’ipotesi di totale preterizione, l’acquisto dell’eredità prescinde dall’accettazione, ma avviene in virtù della sentenza di accoglimento dell’azione di riduzione, non si può ricollegare a tale sentenza l’effetto di una delazione ereditaria, soggetta ad accettazione [34].
Prendendo poi in esame l’ipotesi del legittimario leso ma non pretermesso, nel caso di azione diretta contro soggetti diversi da quelli chiamati come coeredi, egli sarà tenuto ad accettare con beneficio di inventario per rispettare la condizione di ammissibilità prevista dall’art. 564, comma 1, cod. civ.: la sua accettazione dovrà quindi precedere la proposizione dell’azione. Potrebbe peraltro accadere che egli agisca senza aver soddisfatto tale condizione, o perché abbia accettato puramente e semplicemente, o perché non abbia affatto accettato: in questo secondo caso, sarebbe la stessa proposizione dell’azione a fungere da atto di accettazione tacita, e quindi pura e semplice: in entrambi i casi, rimarrebbe esclusa la possibilità di una successiva accettazione beneficiata [35], e l’azione risulterebbe inammissibile.
Infine, nel caso di azione del legittimario leso ma non pretermesso, che sia diretta contro persone chiamate come coeredi, non soggetta perciò alla anzidetta condizione di ammissibilità, l’accettazione, beneficiata o meno, potrebbe precedere la proposizione dell’azione; ma potrebbe anche non precederla, poiché, come si è detto, la stessa proposizione dell’azione, in mancanza di accettazione precedente, varrebbe come accettazione (tacita) pura e semplice; senza incidenza, però, in questo caso, sull’ammissibilità dell’azione.
Accettazione dell’eredità e azione di riduzione hanno pertanto solo parziali spazî di coincidenza; il che non basta a giustificare la postulata necessità di uniformare i rispettivi regimi prescrizionali [36].
A parte i riferiti rilievi provenienti da numerosi studiosi, che mettono in luce perplessità e inconvenienti legati all’applicazione del principio contenuto nella sentenza delle Sezioni Unite, l’analisi critica dovrebbe rivolgersi innanzitutto verso il nucleo fondamentale della decisione assunta, ossia verso la tesi secondo la quale, come si è visto, la lesione del diritto del legittimario si consumerebbe soltanto con l’accettazione, e conseguente acquisto, dell’eredità da parte del chiamato (per testamento), poiché, in pendenza dell’accettazione, la lesione sarebbe solo potenziale.
La distinzione, tracciata nella sentenza delle Sezioni Unite, tra lesione potenziale, prima dell’accettazione, e lesione attuale, che consegue all’accettazione, come pure l’affermazione della assenza di danno in pendenza dell’accettazione (altrui), si riconducono al dato dell’acquisto dell’eredità per effetto dell’accettazione da parte del beneficiario della relativa disposizione testamentaria, e – come sopra si è accennato – possono inquadrarsi in termini di fattispecie complessa: al momento dell’apertura della successione, l’istituzione di un erede in pregiudizio dei legittimarî corrisponde ad una fattispecie in itinere, che l’accettazione dell’istituito potrà completare [37].
Più opinabile è l’ulteriore affermazione contenuta nella sentenza, secondo la quale, in tale situazione di pendenza, il legittimario “non sarebbe legittimato (per difetto di interesse) ad esperire l’azione di riduzione”. La sovrapposizione, rilevabile in tale proposizione, tra le condizioni dell’azione civile della legittimazione e dell’interesse appare infatti impropria. L’una, relativa alla individuazione dei soggetti titolari del diritto di azione, non pone questioni particolari rispetto ai legittimarî (si tratta, quindi, solo di verificare la qualità di legittimario in capo all’attore): se ciò non fosse già implicito nel sistema della successione necessaria, vi sarebbe comunque la disposizione dell’art. 557, comma 1, cod. civ. a riconoscere in claris la sussistenza di tale condizione dell’azione in capo a costoro. I problemi interpretativi suscitati dalla citata disposizione riguardano, semmai, altri soggetti, anche in considerazione al riferimento normativo agli aventi causa [38].
Qualche considerazione in più richiede invece l’analisi dell’interesse ad agire in riduzione. Essa richiama l’attenzione sulla natura dell’azione e della situazione giuridica sottostante. Si è già riferito della tesi che qualifica come diritto reale il diritto del legittimario, e delle difficoltà di inquadramento dell’azione di riduzione confessate, per così dire, dall’Autore che tale tesi ha sviluppato [39]. Da tale inquadramento della situazione giuridica sostanziale discenderebbe la natura reale della relativa azione, che potrebbe, secondo il tipo di richiesta in concreto formulata, atteggiarsi come azione dichiarativa, o invece di condanna. Si tratta, però, di una tesi isolata, pur trovando qualche riscontro in dottrine molto risalenti. L’opinione largamente maggioritaria attribuisce all’azione di riduzione natura personale di contenuto costitutivo, o, come spesso si afferma proprio con riguardo a tale azione, di accertamento costitutivo [40], idonea quindi a consentire la realizzazione di un diritto potestativo ad attuazione giudiziale necessaria. La natura personale dell’azione discende quindi dal fatto che, con essa, si fa valere un diritto potestativo, non un diritto di credito [41].
Il contenuto dell’azione, più in particolare, è configurato come richiesta di dichiarazione di inefficacia relativa, tale cioè da privare di effetti le disposizioni testamentarie o gli atti di liberalità inter vivos nei confronti del legittimario che abbia agito con esito favorevole per la loro riduzione; con ciò distinguendosi dall’azione di risoluzione, alla quale è stata talora assimilata [42], poiché l’atto di liberalità lesivo della legittima non è privato dell’attitudine a produrre i suoi effetti: piuttosto, è reso inefficace rispetto ai legittimarî che l’abbiano chiesta, nella misura occorrente per la reintegrazione della quota ad essi riservata [43]. Dalla risoluzione, che ha effetto retroattivo tra le parti (art. 1458 cod. civ.), si distingue altresì per la retroattività reale degli effetti [44], tale perciò da travolgere i diritti dei terzi acquirenti dal beneficiario della liberalità contro il quale l’azione di riduzione sia stata vittoriosamente proposta, benché sull’estensione nel tempo di tale retroattività le opinioni non siano del tutto concordi [45].
Non essendo previsto il litisconsorzio necessario passivo con altri eventuali beneficiarî di disposizioni lesive (e neanche il litisconsorzio necessario attivo tra legittimarî lesi), come già si è rammentato, ed essendo perciò possibile che alcuni di essi non siano attinti dalla domanda di riduzione del legittimario, i loro aventi causa non saranno esposti all’azione di restituzione verso il legittimario: la restituzione presuppone, infatti, l’avvenuta riduzione della disposizione avente ad oggetto il bene da restituire; il che implica che l’azione di riduzione sia stata proposta contro il soggetto gratificato da tale disposizione, che è il legittimato passivo. Se non è impugnata la disposizione con l’azione di riduzione nei confronti di tale soggetto, nemmeno può pretendersi la restituzione dal suo avente causa.
La sentenza di riduzione, pertanto, non produce il trasferimento dei beni oggetto della disposizione ridotta (“ridotta” in senso ampio, che può includere anche una dichiarazione di totale inefficacia della disposizione) all’asse ereditario, limitandosi a rendere inefficace tale trasferimento nei confronti del legittimario che abbia agito in riduzione [46]. Si è quindi affermato che la sentenza di riduzione opera in modo che, nei confronti di tale legittimario, i beni si considerino, non tanto come se rientrassero nel patrimonio del defunto, quanto, piuttosto, come se non ne fossero mai usciti [47].
La natura costitutiva dell’azione, e la natura potestativa del diritto del legittimario, sulle quali il consenso degli interpreti è molto ampio, stanno a significare che non vi è un rapporto obbligatorio tra il legittimario e i soggetti gratificati dalla liberalità lesiva della legittima, nonostante alcune affermazioni, anche autorevoli, in senso diverso [48]. Il diritto del legittimario è dunque il diritto a quella modificazione giuridica consistente nella dichiarazione di inefficacia totale o parziale – che, quindi, è inefficacia sopravvenuta (con effetto retroattivo) – delle disposizioni lesive; la quale è realizzabile solo attraverso l’azione di riduzione, pur ammettendosi la possibilità di soddisfare i diritti del legittimario per via stragiudiziale attraverso accordi di reintegrazione della legittima. Siffatti accordi, però, non possono qualificarsi come atti dovuti per i beneficiarî delle disposizioni lesive, alla stregua di contratti con i quali si dia esecuzione ad un obbligo legale di contrarre, appunto perché il beneficiario di una disposizione soggetta a riduzione non versa in una situazione di obbligo nei confronti del legittimario.
La cosiddetta lesione della legittima non è dunque propriamente una violazione di un diritto del legittimario; e la tutela in favore di questi non opera né sul piano della validità degli atti di liberalità del de cuius (che investirebbe, di riflesso, la validità degli atti di disposizione compiuti dai gratificati sui beni oggetto di tali atti), non dubitandosi della validità delle disposizioni eccedenti la disponibile [49]; né sul piano della responsabilità, alla quale corrisponderebbe, piuttosto, un’azione di condanna: non si configura, infatti, alcun illecito di chi riceva liberalità disposte dal de cuius in eccesso sulla disponibile.
Ciò che usa definirsi come lesione della legittima è, in realtà, il fatto obiettivo del superamento, ad opera di tali atti di liberalità, dei limiti di valore del patrimonio espressi con la disponibile, ossia l’esistenza di una certa relazione di valore tra la liberalità e la massa di calcolo derivante dalla riunione fittizia, quale appare al momento dell’apertura della successione [50]; in altre parole: quella situazione giuridica che impedisce al legittimario l’acquisto della porzione di beni cui ha diritto [51].
La conclusione è pienamente coerente con l’insegnamento della più autorevole dottrina processualistica, secondo la quale si può far questione di lesione solo in relazione a quei diritti che tale dottrina definisce “diritti a una prestazione”, intesi come “diritti che tendono a un bene della vita da conseguirsi in prima linea mediante la prestazione positiva o negativa di altri”, ricomprendendovi anche i diritti assoluti. Di lesione non potrebbe invece farsi questione in relazione ai diritti potestativi, che, esaurendosi nel potere di produrre un effetto giuridico, ed esercitandosi con una semplice dichiarazione di volontà, eventualmente con il concorso della sentenza del giudice, non possono essere lesi da alcuno [52].
Qualificati in tal modo l’azione di riduzione e il diritto del legittimario, la questione dell’interesse ad agire finisce per rivestire connotati particolari: quella stessa dottrina processualistica poco sopra richiamata, e non solo quella, avvertono, infatti, che, in relazione alle azioni costitutive, la condizione dell’interesse ad agire non assume rilievo, poiché lo stesso diritto potestativo al mutamento dello stato giuridico non si può diversamente soddisfare che mediante la sentenza di riduzione [53].
È quindi inappropriato il riferimento della Cassazione alla mancanza di interesse ad agire in riduzione prima dell’accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza della disposizione “lesiva” (nel senso sopra chiarito). Sul punto specifico si sono in effetti levate critiche da alcuni commentatori. In particolare, si è osservato che l’affermazione della mancanza di interesse ad agire per la riduzione se non vi sia stata accettazione dell’eredità da parte del chiamato, proprio perché nelle azioni costitutive la questione dell’interesse non ha una specifica rilevanza, equivale a riconoscere l’inesistenza del diritto di agire in riduzione [54].
Abbandonando dunque l’ingannevole prospettiva dell’interesse ad agire [55], e ricondotta la questione sul terreno del diritto da tutelare, occorre allora domandarsi se, in pendenza dell’accettazione dell’eredità da parte del chiamato in forza di disposizione testamentaria lesiva, tale diritto già esista, e se esso possa esercitarsi.
A sostegno di tale tesi si afferma che il diritto del legittimario di conseguire una porzione dei beni del defunto sorgerebbe con l’apertura della successione, e che la lesione deriverebbe già dalla delazione in favore di altri della porzione che spetterebbe al legittimario; con ciò contestando il criterio accolto dalle Sezioni Unite, secondo il quale tale lesione, prima dell’accettazione del chiamato, sarebbe solo potenziale [56]. Altra dottrina, anch’essa critica verso tale criterio, pone l’accento sulla posizione giuridica provvisoria attribuita al chiamato in pendenza dell’accettazione, e sostiene che il fatto stesso della delazione in favore di altri soggetti sottrae l’eredità al legittimario, il quale non può imputarla in conto della sua legittima, ed è, già al momento dell’apertura della successione, in grado di verificare se quanto abbia ricevuto dal de cuius soddisfi o meno tale suo diritto. La stessa dottrina, peraltro, ammette che, finché l’eredità non sia stata accettata, è sempre possibile che la lesione venga meno (per esempio, per una chiamata in sostituzione, o per un fenomeno di accrescimento, in favore del legittimario); sostenendo però che ciò non basterebbe a definire potenziale la lesione, e che anche una lesione sicuramente attuale potrebbe sempre venir meno [57].
Affermare che il diritto del legittimario di agire in riduzione sorge già con l’apertura della successione per negare la rilevanza dell’accettazione dell’eredità ai fini del decorso della prescrizione, da un lato, appare una petizione di principio; dall’altro, non risolve il problema, giacché è necessario verificare se quel diritto, quand’anche sia già sorto, trovi impedimenti al suo esercizio. Se si dovesse ragionare nella logica del rapporto obbligatorio, occorrerebbe domandarsi, non solo se esso sia sorto, ma anche se sia esigibile [58]. Trattandosi di un diritto potestativo, e dunque di un diritto alla modificazione di situazioni giuridiche, si tratta di stabilire quali siano le situazioni giuridiche da modificare (ope iudicis, nel caso in esame), e, in specie, la situazione soggettiva di pertinenza altrui, ossia del soggetto destinatario dell’istituzione ereditaria, contro il quale la tutela del legittimario andrebbe esperita: se quella corrispondente alla qualità di chiamato all’eredità, o quella di erede. Ciò è, appunto, quanto occorre stabilire.
Con riguardo all’affermazione secondo la quale il legittimario, sin dall’apertura della successione, sarebbe già nella condizione di verificare se il valore di quanto ricevuto dal de cuius corrisponda o meno al valore che la legge gli riserva, può osservarsi che, se davvero si assume l’irrilevanza della conoscenza della disposizione lesiva, e dunque del testamento, da parte del legittimario rispetto al decorso della prescrizione, la possibilità o meno di rendersene conto risulta ininfluente (v. però infra, par. 7).
Quanto invece al rilievo della immediata sottrazione dell’eredità al legittimario per effetto della delazione in favore altrui, e alla conseguente impossibilità di imputare in conto della propria legittima la parte di beni oggetto della disposizione lesiva [59], è innegabile che tale sottrazione vi sia, e che il legittimario non possa disporre della quota riservatagli dalla legge sebbene il chiamato non abbia ancora accettato; e tuttavia è quella stessa dottrina che formula tale rilievo ad indicare la possibilità che, data la provvisorietà del quadro giuridico che si delinea tra il momento di apertura della successione e quello, eventuale, dell’accettazione dell’eredità da parte del chiamato, tale quadro possa mutare, in caso di mancata accettazione da parte del chiamato, a cui dovesse eventualmente seguire, per effetto di chiamata successiva del legittimario, il subentro di questi nel diritto di accettare, o il suo acquisto ereditario in virtù di accrescimento. Una tale provvisorietà ed instabilità di situazioni, anche a prescindere dalla definizione in termini di potenzialità o di attualità della lesione dei diritti del legittimario, indurrebbe a reputare intempestiva la proposizione dell’azione prima dell’accettazione, come anche più avanti si avrà modo di argomentare meglio.
Meno significativo appare il dato della impossibilità, per il legittimario, nella fase in questione, di imputare in conto della propria legittima l’eredità destinata ad altri. L’art. 564, comma 1, cod. civ. stabilisce una diretta e necessaria correlazione tra imputazione ex se e azione di riduzione: se la porzione di beni oggetto di tale disposizione fosse imputabile, non potrebbe chiedersi la riduzione della relativa disposizione nella misura corrispondente a quella porzione di beni; e viceversa: imputazione e riduzione vanno di pari passo, sia pure, per così dire, in direzioni opposte; e ciò, indipendentemente dal momento in cui l’operazione contabile di imputazione avvenga.
È vero, peraltro, che l’imputazione non è unicamente funzionale alla riduzione. Osserva in proposito la dottrina che l’imputazione dovrebbe farsi, in un primo tempo, in sede di riunione fittizia, per completare l’operazione di conteggio necessaria a stabilire l’entità della quota disponibile e della quota indisponibile, e poi in fase di ricomposizione della quota, ossia di riduzione [60]; e, ancora, che ad essa deve farsi luogo anche nella successione ab intestato, nell’ipotesi di concorso di legittimarî con successibili non legittimarî, ed anche quando si tratti semplicemente di determinare la quota spettante al legittimario sui beni ereditarî nel concorso con eredi istituiti nella disponibile [61]. Tali rilievi della dottrina trovano riscontro anche nella giurisprudenza di legittimità, che, in una pronuncia molto recente, dopo aver precisato che l’imputazione non è una condizione dell’azione di riduzione, a differenza dell’accettazione con beneficio di inventario (quando l’azione sia rivolta contro soggetti non chiamati come coeredi) [62], ha affermato che essa è una prodromica operazione di natura esclusivamente contabile, diretta alla verifica della effettiva lesione della legittima, e, ancor prima, alla precisa determinazione della stessa entità della legittima, non solo in vista dell’azione di riduzione, ma anche del riscontro della violazione del divieto di cui all’art. 549 cod. civ., e dell’eventuale ricalcolo delle quote ab intestato in applicazione dell’art. 553 cod. civ. [63]; ed altresì – come deciso da una pronuncia ancor più recente – in caso di concorso di legittimarî non istituiti non in quote determinate, ma genericamente nella disponibile [64]. La prima delle due richiamate pronunce, nel ribadire il consolidato principio secondo il quale il legittimario, quando introduca il giudizio di riduzione, deve indicare puntualmente le componenti patrimoniali necessarie a ricostruire il relictum e il donatum ai fini della riunione fittizia o dell’imputazione ex se, precisa che, qualora talune componenti di tali due voci emergano dagli atti di causa (ad esempio, qualora i convenuti individuino donazioni o beni relitti non indicati dall’attore), l’omessa allegazione di tali componenti da parte dell’attore non preclude la decisione sulla domanda di riduzione, e che il giudice deve comunque procedere, anche con l’eventuale ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio, alle operazioni di riunione fittizia ai fini della verifica della eventuale lesione.
È il giudice, dunque, nel giudicare sulla domanda di riduzione, o sull’accertamento della redistribuzione delle quote prevista dall’art. 553 cod. civ. in caso di contestazione, o anche sulla validità o efficacia di disposizioni che appongano pesi o condizioni sulla legittima, a svolgere la suddetta operazione di calcolo sulla base degli elementi acquisiti al processo [65]. È quindi in tali contesti che la disposizione istitutiva, in ipotesi lesiva dei diritti di un legittimario, assumerà rilievo ai fini dell’imputazione; e l’imputabilità o meno in conto della legittima della parte di beni oggetto della disposizione testamentaria a titolo universale in favore altrui si rifletterà sul relativo giudizio, in termini di riducibilità o meno, parziale o totale, di tale disposizione; di riduzione automatica ex art. 553 cod. civ.; di verifica dell’osservanza del divieto ex art. 549 cod. civ. di imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimarî [66].
Non sembra dunque che le riferite ragioni di critica verso il criterio elaborato dalle Sezioni Unite bastino a convalidare l’orientamento tradizionale, che collega alla apertura della successione la decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione. Può essere utile allora affrontare la questione da altri punti di vista, per verificare se sia esatto concludere che, in quella particolare fase di hereditas delata nondum adquisita, il diritto potestativo del legittimario di agire in riduzione contro il chiamato all’eredità può esercitarsi prima ancora che questi abbia esercitato il suo diritto, anch’esso potestativo [67], di far propria l’eredità che gli è offerta.
In tale fase, come è ben chiaro, la sorte dell’eredità è ancora incerta, e l’attribuzione al chiamato di poteri di conservazione e amministrazione non è un elemento decisivo per risolvere la questione in ragione del carattere interinale di tali poteri. Non è dato di sapere ancora se il chiamato acquisterà l’eredità, e immaginare che l’azione di riduzione sia proposta nei confronti di un soggetto che potrebbe non diventare erede, pone più di un dubbio. Qualora, ad esempio, il chiamato, una volta convenuto in giudizio, rinunciasse all’eredità, e a lui subentrasse nel diritto di accettare uno dei chiamati ulteriori, il legittimario, per tutelare i suoi diritti, dovrebbe agire contro l’ulteriore chiamato ex novo, senza potersi giovare di eventuali risultati favorevoli dell’azione originariamente proposta.
A questo riguardo, va considerata l’ipotesi in cui il giudizio di riduzione contro il primo chiamato si sia già definitivamente concluso prima che operi la chiamata successiva: in questo caso, il giudicato sulla riduzione non sarà opponibile al nuovo chiamato, che non è un avente causa dal primo agli effetti dell’art. 2909 cod. civ. Pertanto, qualora il nuovo chiamato acquisti poi l’eredità e il possesso dei beni ereditari, il legittimario vittorioso non potrà agire nei suoi confronti – né di coloro che abbiano da lui acquistato tali beni, con l’azione ex art. 563 cod. civ. – per la restituzione dei beni ereditarî avvalendosi del giudicato ottenuto nei confronti del primo chiamato. Sarà dunque necessario proporre nei suoi confronti una nuova azione di riduzione.
L’altra ipotesi da considerare è quella in cui, al momento in cui operasse la chiamata successiva, il giudizio sia ancora in corso; in particolare, quando sia stata emessa una sentenza non definitiva di riduzione: in questo secondo caso, a prescindere dalla inopponibilità di tale sentenza al chiamato ulteriore, il quale non è un successore a titolo particolare del rinunciante agli effetti dell’art. 111 c.p.c., quale che sia il titolo della sua chiamata [68], l’esito finale del giudizio dovrebbe risolversi in una sentenza di inammissibilità per sopravvenuta carenza di legittimazione passiva [69]: tale legittimazione spetta, infatti, al beneficiario della disposizione lesiva, e tale non potrebbe qualificarsi il chiamato che abbia perduto il diritto di accettare.
Il legittimario nemmeno potrebbe giovarsi dell’effetto interruttivo della prescrizione determinato dalla domanda giudiziale – unico atto con il quale egli può, di sua iniziativa, conseguire tale effetto – nei confronti del primo chiamato, non essendo concepibile, nei rapporti tra il legittimario e i chiamati successivi, un’applicazione analogica della regola dettata dall’art. 1310 cod. civ. in materia di obbligazioni solidali.
La proposizione della domanda nei confronti del chiamato che non abbia ancora accettato potrebbe quindi rivelarsi inutile qualora poi l’originario convenuto non volesse o non potesse accettare; con il rischio che, nel frattempo, il diritto di agire contro i chiamati ulteriori si estingua per prescrizione, il cui decorso – nella prospettiva ora adottata, della immediata esperibilità dell’azione di riduzione non appena aperta la successione – inizierebbe da tale momento.
Evidentemente diversa è la situazione rispetto alla riduzione di donazioni e legati, dai quali derivano acquisti di diritti perfezionatisi in epoca anteriore o, rispettivamente, contestuale all’apertura della successione. È appena il caso di notare, peraltro, in relazione ai legati, che tale osservazione vale nei limiti in cui si aderisca all’opinione prevalente, secondo la quale l’acquisto del legato avviene automaticamente all’apertura della successione (fatte salve le ipotesi di delazione sospesa o differita, come nel caso in cui la disposizione sia sottoposta a condizione sospensiva o a termine), sebbene sia eliminabile mediante rinunzia. Aderendo alla diversa tesi, secondo la quale l’acquisto del legato si compirebbe una volta decorso il termine ex art. 650 cod. civ. senza che sia intervenuta la rinunzia [70], la relativa disposizione finirebbe per essere più assimilabile, ai fini della questione in esame, alla istituzione di erede.
Prescindendo dall’attualità o meno della lesione, quindi, è l’incertezza sul soggetto che effettivamente acquisterà l’eredità che rende incongruo l’avvio di un giudizio nei confronti di un soggetto rispetto al quale la qualità ereditaria è, questa sì, solo potenziale. In altre parole, più che la considerazione per la posizione del legittimario leso, in potenza o in atto, è quella per la posizione del beneficiario della disposizione testamentaria lesiva, che induce a concludere per la necessità di attendere che questi accetti l’eredità, prima di dar corso all’azione, ferma restando la possibilità di abbreviare l’attesa mediante l’esperimento dell’actio interrogatoria.
Il ruolo centrale che la successione necessaria svolge nel diritto italiano delle successioni comporta che l’azione di riduzione si trovi ad entrare assai spesso in relazione con numerose altre azioni, non solo tipicamente successorie. Nel quadro di questa indagine, non interessa richiamare, se non per occasionali cenni, gli elementi che distinguono l’azione di riduzione da ciascuna di tali azioni: interessa, piuttosto, verificare l’esistenza di eventuali reciproche influenze tra l’una e le altre sul piano della prescrizione.
a) Relazioni particolarmente strette intercorrono tra l’azione di riduzione e quella di divisione, spesso proposte cumulativamente nello stesso processo, ove la prima assume carattere pregiudiziale rispetto alla seconda, poiché il suo accoglimento può portare a una diversa determinazione della iniziale misura del concorso dei coeredi sui beni ereditarî[71]. In passato, si è talora affermato che deve considerarsi implicita nella domanda di divisione anche quella di riduzione una volta accertata la lesione[72], mentre oggi si esclude con nettezza una tale implicazione [73]. Piuttosto, si è affermato che nella proposizione di una domanda di divisione, cumulata con una di riduzione, dovrebbe reputarsi implicitamente proposta una domanda di restituzione [74]. Peraltro, è stato rilevato in dottrina che, nei casi previsti dall’art. 560 cod. civ., la restituzione conseguente a riduzione assume funzione divisoria, comportando lo scioglimento dello stato di indivisione in cui la cosa viene a trovarsi tra il legittimario e il beneficiario della disposizione ridotta: la norma, di cui al comma 1 del citato articolo, secondo la quale la riduzione si fa separando dall’immobile la parte occorrente per integrare la quota riservata, infatti, benché apparentemente riferita alla riduzione, concerne piuttosto l’azione di restituzione contro il donatario o l’onorato testamentario, e sta a significare che la restituzione deve essere ordinata previa divisione della cosa [75]. Da questo punto di vista, sarebbe dunque la domanda restitutoria a contenere implicitamente quella divisoria.
Ma, a parte i rapporti tra divisione e restituzione, l’imprescrittibilità della divisione esclude la rilevanza di una ipotetica incidenza su di essa della prescrizione dell’azione di riduzione; la quale, a sua volta, in quanto pregiudiziale alla divisione, non avrebbe modo di subire gli effetti del decorso del tempo in attesa della definizione di giudizî divisorî.
b) Lo stesso può dirsi per i rapporti con la collazione, la quale, secondo l’opinione più volte espressa dalla giurisprudenza, parteciperebbe della imprescrittibilità dell’azione di divisione, alla quale è preordinata[76]. La distinzione tra riduzione e collazione, quanto a soggetti, presupposti, funzioni ed effetti, è ampiamente messa in luce in letteratura, a partire dai testi istituzionali, ed è riprodotta in numerose pronunce, correlate alle frequenti occasioni di sovrapposizione tra i due istituti. Tale sovrapposizione si spiega sia con il fatto che, attraverso la collazione, è talora possibile l’eliminazione di fatto di eventuali lesioni della legittima, sebbene ciò non esima il legittimario, che volesse conseguire la quota di legittima in natura, dal proporre l’azione di riduzione, che è l’unico mezzo per ottenere tale risultato, laddove la collazione può farsi con imputazione del valore[77]; sia, e ancor più significativamente, con il potenziale conflitto tra le due azioni, che può determinarsi in alcune ipotesi, nelle quali può pervenirsi ad esiti notevolmente diversi in termini di valori conseguibili dai legittimarî lesi, secondo che si faccia applicazione prioritaria dell’una rispetto all’altra, rendendosi pertanto necessario stabilire in quale senso debba correttamente risolversi l’alternativa. Il problema, poco esplorato dalla giurisprudenza, è stato invece affrontato dalla dottrina, sia quella più risalente, che, argomentando dal carattere di inderogabilità delle norme sulla riduzione, ha affermato la necessità di fare innanzitutto applicazione di tali norme, e poi di quelle sulla collazione [78]; sia quella più recente, che, attraverso una attenta analisi della questione, anche nei varî aspetti applicativi, è giunta alla medesima conclusione, sostenendo che la tutela dei legittimarî deve operare a prescindere dalla divisione ereditaria e prima che essa sia domandata dai coeredi [79].
La riconosciuta priorità dell’azione di riduzione rispetto alla collazione conduce alla stessa osservazione sopra svolta in relazione alla divisione: l’una non ha bisogno di attendere l’esito dell’altra; la quale, a sua volta, in quanto imprescrittibile, è insensibile al trascorrere del tempo necessario allo svolgimento del giudizio di riduzione.
c) Particolarmente intenso è il legame tra riduzione e restituzione; al punto, che, in passato, alcuni interpreti attribuivano all’azione di riduzione una natura mista, comprensiva anche dell’aspetto restitutorio[80]. Tuttora, si discorre spesso di “azione di riduzione in senso stretto”, per rimarcare la distinzione con l’azione di restituzione. L’emanazione del codice del 1942 ha definitivamente chiarito la distinzione tra le due azioni, come pure si intende dalla Relazione del Guardasigilli al Codice Civile, che, al n. 271, 4), con riferimento all’azione di restituzione contro i terzi, nella quale si afferma di aver corretto, nell’art. 563, l’imprecisa qualificazione di “azione per riduzione e per la rivendicazione”, presente nell’abrogato codice (art. 1096, mutuata dal code civil, che tuttora, all’art. 924-4, prevede la “action en réduction ou revendication”)[81]. Nella Relazione non si fa invece menzione dell’azione di restituzione contro il beneficiario della donazione o della disposizione testamentaria che ledano la legittima, a cui si attribuisce generalmente natura personale, al pari dell’azione di riduzione, con la quale ha in comune il soggetto passivamente legittimato, ossia, appunto il beneficiario anzidetto; e diversamente dall’azione contro il terzo avente causa dal beneficiario, a cui si attribuisce natura reale.
Entrambe le azioni restitutorie, comunque, presuppongono l’accoglimento dell’azione di riduzione, che non è sufficiente ad ottenere il recupero dei beni, limitandosi a produrre l’inefficacia della disposizione. Esse rimangono perciò precluse in caso di estinzione per prescrizione o per rinuncia di tale azione.
Nel rapporto tra riduzione e restituzione, avuto riguardo al problema del tempo, val la pena di considerare l’aspetto della contestuale proponibilità delle due domande giudiziali, tenuto conto della ricorrente affermazione, secondo la quale l’azione di restituzione è proponibile una volta passata in giudicato la sentenza di accoglimento dell’azione di riduzione [82]. In proposito, sembra potersi cogliere un generale favore verso la possibilità di proporre le due azioni nello stesso processo quando la restituzione sia richiesta al beneficiario della liberalità impugnata per riduzione [83]. Meno chiaro è se ciò sia possibile quando, avendo egli alienato i beni, la restituzione debba richiedersi contro i suoi aventi causa, tenuto conto della diversità tra le due azioni restitutorie [84] (ovviamente convenendo nel relativo giudizio anche costoro, sia pure ai soli fini della domanda di restituzione, non essendo passivamente legittimati rispetto alla domanda di riduzione). Nella dottrina più recente tale possibilità è stata riconosciuta, peraltro con il rilievo della difficoltà che essa presenta, legata al fatto che l’azione contro il subacquirente esige la previa escussione del suo dante causa, secondo quanto dispone l’art. 563, comma 1, cod. civ.; talché l’azione dovrebbe essere proposta in forma di domanda di condanna condizionata, ove l’evento dedotto in condizione sarebbe l’esito infruttuoso di tale escussione [85]. A questo proposito, può osservarsi che l’escussione richiesta dalla citata disposizione non è necessariamente da intendersi come formalità procedurale da osservare prima di proporre l’azione, bensì come adempimento di natura sostanziale: si reputa pertanto sufficiente la prova della incapienza del beneficiario della disposizione; prova che, in linea di principio, dovrebbe fornire il legittimario, attore in restituzione [86]. Se così è, il condizionamento della condanna, e della relativa domanda, all’evento della infruttuosa escussione non appare necessario, almeno quando non vi siano beni da aggredire nel patrimonio del donatario [87].
La proposizione cumulativa delle due azioni scongiura la possibilità che il tempo necessario allo svolgimento del giudizio relativo alla prima possa sottrarsi al decorso di una eventuale prescrizione della seconda. Ma, anche qualora l’azione di restituzione fosse proposta successivamente all’azione di riduzione, un rischio del genere non sarebbe ravvisabile. Infatti, se il presupposto della restituzione è l’accoglimento definitivo della domanda di riduzione, id est il giudicato della dichiarazione di inefficacia della disposizione lesiva, il decorso della prescrizione del diritto alla restituzione non potrebbe che prendere data dalla formazione di tale giudicato, senza che ciò consenta di qualificare l’azione restitutoria come actio iudicati della sentenza di riduzione [88]: si tratta, invece, di un’autonoma azione di cognizione, a contenuto condannatorio, il cui esercizio non è possibile, anche agli effetti di cui all’art. 2935 cod. civ., prima che sia intervenuto il giudicato di accoglimento della domanda di riduzione.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se abbia senso interrogarsi sui rischi di prescrizione dell’azione di restituzione, in ipotesi ricollegabili all’esercizio – necessario, ma non sufficiente, per il recupero del bene, come si è rammentato – dell’azione di riduzione, dal momento che il diritto del legittimario vittorioso in riduzione di recuperare i beni oggetto delle disposizioni ridotte dovrebbe reputarsi imprescrittibile, almeno con riferimento al diritto di restituzione verso i terzi acquirenti, da far valere con l’azione ex art. 563 cod. civ. Si è già detto che a tale azione l’opinione dominante attribuisce natura reale, e non perché il legittimario in quanto tale sia titolare di un diritto reale, ma perché, ottenuta la riduzione della liberalità lesiva, egli agisce in qualità di erede contro il terzo avente causa dal beneficiario della liberalità, che abbia da questi acquistato la proprietà. Se, come in precedenza rilevato, la dichiarazione di inefficacia relativa prodotta dal giudicato di riduzione comporta che, nei confronti del legittimario attore, i beni dei quali il de cuius abbia disposto con l’atto di liberalità ridotto si considerano come mai usciti dal suo patrimonio, vuol dire che il legittimario vittorioso in riduzione ne ha la proprietà come suo successore (ammesso che il dante causa ne fosse proprietario). Tale azione si fonda cioè sul titolo ereditario, mentre il titolo dell’azione di riduzione è rappresentato dalla qualità di legittimario, non da quella di erede [89], come mostra anche il fatto che il legittimario pretermesso, agendo in riduzione, non potrebbe far valere tale qualità, che acquisterà invece solo in séguito all’accoglimento della domanda. Pertanto, il legittimario attore non è tenuto a fornire la prova della proprietà, similmente a colui che esperisce la petitio hereditatis, dalla quale però l’azione di restituzione si distingue perché ha per oggetto singoli beni, in ciò ricordando piuttosto l’azione di rivendicazione. L’azione in discorso è stata perciò definita come un autonomo tipo di azione reale, non soggetta a prescrizione, al pari della petizione di eredità e della rivendicazione, con caratteristiche che la accomunano per certi aspetti, e la differenziano per altri, dall’una e dall’altra [90].
Uguale conclusione dovrebbe trarsi in relazione all’azione di restituzione contro il beneficiario della disposizione lesiva, alla quale l’opinione prevalente riconosce tuttavia natura personale. Eppure, anche in tal caso il fondamento della restituzione è costituito dal titolo ereditario. Si osserva, però, che, se alla sentenza di riduzione fosse collegata immediatamente un’azione petitoria, il legittimario dovrebbe poterla senz’altro esperire contro i terzi possessori, ai quali siano stati trasferiti i beni dal beneficiario della liberalità ridotta; mentre egli deve innanzitutto insistere nell’azione contro quest’ultimo per ottenerne la condanna al pagamento dell’equivalente in denaro, potendo agire contro i terzi acquirenti solo dopo aver constatato la sua insolvenza. Proprio il requisito della previa escussione di tale beneficiario sarebbe l’indice più eloquente della natura personale dell’azione di restituzione nei suoi confronti [91]. Il beneficiario, dunque, pur quando abbia alienato il bene oggetto della disposizione in suo favore, mantiene la legittimazione passiva all’azione di restituzione, il cui oggetto si è trasformato in diritto all’equivalente pecuniario, come accade nelle azioni personali di restituzione [92]. In definitiva, il legittimario fa valere la pretesa restitutoria contro tale beneficiario, bensì sulla base del titolo ereditario, ma – si afferma – tale pretesa assume il carattere di pretesa di natura personale, fondata sulla inefficacia sopravvenuta del titolo di acquisto [93].
Alla natura personale della pretesa dovrebbe conseguire la prescrittibilità del diritto restitutorio, secondo le regole generali, e dunque nell’ordinario termine decennale. Sicuramente prescrittibile è anche il cennato diritto all’equivalente pecuniario, come lo sono altri crediti, di natura essenzialmente indennitaria, che possono discendere dal vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, di contenuto essenzialmente indennitario (cfr. art. 560 cod. civ., comma 2, ultimo periodo; art. 561, comma 1, secondo periodo, cod. civ., quale risulta dalla riforma del 2005; art. 562 cod. civ., come può argomentarsi dal riferimento al valore della donazione che non può recuperarsi dal donatario). Senonché, su tale termine non può influire il tempo necessario ad ottenere il giudicato sulla domanda di riduzione, perché, come già detto, i suddetti diritti possono farsi valere a partire da tale giudicato.
d) Il tempo necessario per ottenere la sentenza di riduzione potrebbe peraltro avere incidenza su un altro termine riguardante la restituzione: si tratta del termine ventennale previsto dall’art. 563, comma 1, civ., nel testo derivante dalla riforma introdotta dalla l. n. 80/2005, trascorso il quale senza che sia stata nel frattempo proposta l’azione di riduzione, e non sia stata notificata e trascritta l’opposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 563 cod. civ., gli acquisti di immobili degli aventi causa dai donatarî soggetti a riduzione in rimangono stabilizzati, ossia non più esposti alle azioni di restituzione dei legittimarî[94]. Il problema, dal punto di vista del legittimario che persegua la tutela reale, deriva dal fatto che, in base al testo della menzionata disposizione, per far salvo il diritto alla restituzione verso il subacquirente, è l’azione di restituzione a dover essere proposta entro il ventennio, il quale decorre dalla data della trascrizione della donazione; cosicché potrebbe darsi il caso che, non essendo ancora trascorso il ventennio al momento dell’apertura della successione, il legittimario che agisca per la riduzione contro il donatario, sia pure senza indugio (trattandosi di impugnare una donazione, il diritto di agire potrebbe esercitarsi già a partire dal momento di apertura della successione, sia che si aderisca all’orientamento tradizionale, sia che si aderisca al criterio stabilito da Cass. n. 20644/2004), e rimanga in attesa dell’esito definitivo di questa prima di promuovere l’azione di restituzione (così come dovrebbe essere per quanti non reputino proponibile l’azione di restituzione contestualmente a quella di riduzione, o comunque prima che si sia formato il giudicato su quest’ultima), esponendosi al rischio che, nel frattempo, l’intero periodo ventennale si consumi, e l’acquisto del terzo si consolidi definitivamente, precludendo al legittimario la possibilità di agire per la restituzione.
Tale inconveniente è stato rilevato dalla dottrina che ha analizzato le questioni poste dall’introduzione della riforma del 2005, la quale ha segnalato gli effetti distorsivi della relativa disciplina, se interpretata in modo letterale; tra l’altro, notando la disparità di trattamento che, a tale stregua, si determinerebbe rispetto alla disciplina dell’art. 561 cod. civ., secondo la quale l’onere imposto al legittimario per ottenere la libertà dai pesi e dalle ipoteche costituiti dal sui beni immobili e mobili registrati dal donatario è quello di proporre entro il ventennio l’azione di riduzione; mentre, nel caso di alienazione del bene, la proposizione dell’azione di riduzione ugualmente tempestiva non porrebbe il legittimario al riparo dal rischio di perdita dell’azione contro il terzo acquirente.
Al problema può ovviarsi se, forzando il dato letterale, si interpreta la norma nel senso che l’azione da proporre entro il ventennio è quella di riduzione, e non quella di restituzione, così come suggeriscono alcuni autori, non senza opinioni contrarie [95].
e) Le interferenze con l’azione di riduzione probabilmente più vistose, sul piano della prescrizione, e non soltanto su tale piano, sono quelle derivanti dalla proposizione dell’azione di simulazione, dunque di un’azione non tipicamente successoria. La rilevanza di tale relazione tra le due azioni è testimoniata dall’imponente produzione giurisprudenziale nella quale essa viene in rilievo, con esiti non sempre condivisi dalla dottrina. Si aggiunga che, proprio attraverso l’azione di simulazione, in connessione con riforme legislative relativamente recenti, è venuto ad infrangersi per via interpretativa il principio, fino ad allora sempre tenuto fermo, che esclude l’accesso alla tutela giurisdizionale della legittima prima della morte dell’ereditando. Un tale vulnus, che comunque ha limiti ben definiti, attiene all’esercizio del diritto di opposizione attribuito al coniuge e ai parenti in linea retta dall’art. 563, comma 4, cod. civ., come modificato dalla l. n. 80/2005, al quale poco sopra si è fatto cenno; e consiste nel riconoscimento dell’esperibilità, da parte dei soggetti anzidetti, anche prima dell’apertura della successione, dell’azione di accertamento della simulazione di atti che dissimulino donazioni, allo scopo di potere utilmente esercitare il diritto di opposizione, ossia di poter notificare l’opposizione, e soprattutto di poterla trascrivere sull’immobile oggetto della donazione dissimulata, così provocando la sospensione di tale termine[96]. L’esperibilità ante mortem dell’azione di simulazione non si fonda su una lesione della legittima, che, in quella fase, non potrebbe avere carattere di attualità, ma su quello di una astratta potenzialità lesiva dell’atto di liberalità dissimulato. Essa non è, dunque, direttamente finalizzata all’esercizio dell’azione di riduzione, bensì a creare il presupposto per notificare e trascrivere l’atto opposizione, in vista di eventuali azioni di riduzione e di restituzione, le quali rimangono proponibili solo post mortem[97].
Una volta aperta la successione, invece, il coordinamento tra le due azioni è diretto, e il loro un esercizio congiunto è un’evenienza molto frequente, alla quale si riconnette l’abbondante casistica giurisprudenziale, a cui si è fatto prima riferimento. L’ipotesi più comune è proprio quella della simulazione di un atto a titolo oneroso che dissimuli un atto donativo; simulazione relativa, perciò, il cui accertamento conduce a un incremento del donatum. L’accertamento della simulazione può dunque essere preordinato all’impugnazione per riduzione della donazione dissimulata; oppure ad acquisire, attraverso la collazione, i beni oggetto dell’atto dissimulato alla massa ereditaria. Ma può anche accadere che l’atto dissimulato sia invalido (per esempio, per difetto di forma), sicché dall’accertamento della simulazione discende un incremento del relictum, poiché il bene invalidamente donato, sotto l’apparenza di un atto oneroso, non è mai uscito dal patrimonio del defunto; accertamento, dunque, che il legittimario può avere interesse ad ottenere. Un tale risultato potrebbe, evidentemente, derivare anche dalla dichiarazione di simulazione assoluta di un atto, oneroso o gratuito, con il quale il defunto durante la sua vita abbia disposto di suoi beni. Si è precisato che, in tali casi, il legittimario integra la legittima mediante la petitio hereditatis contro il simulato acquirente, non con l’azione di riduzione [98].
La questione essenziale che si pone in materia riguarda la posizione del legittimario rispetto agli atti simulati: se egli, in specie, debba considerarsi terzo, e quindi in posizione antagonista rispetto al de cuius, ovvero, in quanto suo erede, nella sua stessa posizione, di parte del negozio simulato. Tale questione ha principalmente rilievo rispetto al regime della prova della simulazione, poiché, secondo il caso, sarà consentita, o invece preclusa, la prova per testimoni e presunzioni, in conformità alla disciplina dettata dall’art. 1417 cod. civ.; ma assume rilievo anche rispetto alla decorrenza della prescrizione.
Al rapporto tra simulazione e riduzione si riconnette altresì la questione della necessità dell’accettazione con beneficio di inventario nei casi previsti dall’art. 564, comma 1, cod. civ. per l’azione di riduzione. Si afferma, infatti, che l’accettazione beneficiata opera come condizione di ammissibilità anche dell’azione di simulazione qualora essa sia proposta insieme con l’azione di riduzione [99], negli stessi limiti in cui essa opera rispetto a quest’ultima, cosicché non sarà richiesta quando ad agire sia il legittimario del tutto pretermesso [100].
La contestuale proposizione delle due azioni è il presupposto sulla base del quale il legittimario viene considerato terzo rispetto al negozio simulato, e quindi ammesso a provare la simulazione senza limiti in ordine ai mezzi di prova [101], sebbene poi si ammetta che il legittimario possa avvalersi del medesimo regime probatorio anche quando, oltre alla simulazione dell’atto oneroso, si deduca l’invalidità dell’atto dissimulato, o si deduca la simulazione assoluta, non potendosi applicare due regimi probatorî diversi rispetto al medesimo atto simulato [102]. Mentre si esclude che il legittimario possa agire per la simulazione in qualità di terzo quando tale azione sia proposta in funzione dell’acquisizione mediante collazione del bene donato dietro l’apparenza di un atto a titolo oneroso (v. infra).
Il profilo della prova della simulazione non è di specifico interesse in questa sede. Basterà perciò riferire, quindi, che la critica di parte della dottrina si è indirizzata soprattutto verso l’affermazione secondo la quale il legittimario agisce come terzo, con il conseguente regime probatorio di favore, solo quando contestualmente agisca in riduzione, poiché solo in tal caso – questa è la tesi contestata – egli assumerebbe una posizione antagonista rispetto a quella del defunto, cioè di opposizione alla volontà negoziale da questi manifestata. Il che comporta che il legittimario nemmeno sarebbe legittimato ad agire per la simulazione quando non agisse per chiedere la riduzione della liberalità, magari perché gli è preclusa l’azione per il fatto di avere accettato l’eredità puramente e semplicemente, e la liberalità sia stata disposta in favore di soggetti non chiamati come coeredi. Si contesta, dunque, l’asserita indisgiungibilità tra simulazione e riduzione come presupposto per il riconoscimento della qualità di terzo del legittimario rispetto al negozio simulato, osservandosi in contrario che la simulazione potrebbe giovare alla tutela del legittimario, non soltanto ai fini dell’azione di riduzione della liberalità simulata, ma, più in generale, ai fini della riunione fittizia [103].
A questo riguardo, deve però darsi atto di alcune pronunce, che sembrano aver recepito tali ragioni di critica, e che riformulano il principio di diritto in termini più ampî rispetto a quello poco sopra richiamato, riconoscendo la qualità di terzo al legittimario che agisca per la simulazione ogniqualvolta questi ne richieda l’accertamento in funzione del conseguimento della legittima, indipendentemente dal fatto che, insieme con la domanda di simulazione, sia stata proposta una domanda di riduzione (o anche di nullità o inefficacia) della donazione dissimulata, reputandosi sufficiente che la simulazione sia fatta valere in funzione di un effetto dipendente dalla riunione fittizia: per esempio, ai fini dell’applicazione dell’art. 553 cod. civ. [104].
La questione della posizione del legittimario rispetto agli atti simulati – se egli sia terzo, o invece parte – si pone altresì, come accennato, anche rispetto al tema di più specifico interesse in questa sede: quello della prescrizione. Vale a dire che la prescrizione dell’azione di simulazione relativa, che, come si è visto, viene in considerazione soprattutto in relazione all’ipotesi di atto oneroso simulato che dissimuli una donazione, secondo un principio consolidatosi in giurisprudenza, prende una differente decorrenza nei due diversi casi: dalla data di apertura della successione ove il legittimario agisca in qualità di terzo; dalla data dell’atto simulato ove invece agisca in qualità di parte [105]. Ne discende che, se l’azione di simulazione è preordinata a quella di riduzione, o comunque – facendo applicazione del più ampio principio poco sopra esposto – in funzione di un effetto dipendente dalla riunione fittizia, essa potrà proporsi nel decennio dalla apertura della successione. Diversamente, ad esempio se la simulazione fosse esperita per acquisire ai fini della divisione, previa collazione il bene uscito dal patrimonio del de cuius con la donazione dissimulata alla massa ereditaria, la prescrizione inizierà a decorrere dalla data dell’atto simulato.
Si sostiene in proposito che, diversamente dal caso in cui ad agire sia la parte, rispetto al quale il diritto derivante dal contratto dissimulato sorge di solito alla data di stipulazione del contratto, quando ad agire sia il terzo, la prescrizione decorre solo dal momento in cui la simulazione gli arrechi danno, richiamandosi in proposito la norma dell’art. 1415, comma 2, cod. civ. (“i terzi possono fare valere la simulazione nei confronti delle parti quando essa pregiudica i loro diritti”) [106]; il che si verificherebbe nel momento di apertura della successione, in cui l’atto compiuto dal de cuius assumerebbe l’idoneità a ledere i diritti del legittimario [107]; qualità che, del resto, si acquisisce in quel medesimo momento. Si dovrebbe intendere, dunque, che, prima di allora, vi sarebbe un impedimento giuridico all’esercizio dell’azione di simulazione.
Potrà notarsi che i riferiti principî poggiano su due premesse: la prima, e più generale, è quella della prescrittibilità, nel termine ordinario decennale, dell’azione di simulazione relativa, che, in tal modo, si distinguerebbe dall’azione di simulazione assoluta, per certo imprescrittibile; la seconda, e più specifica, è quella della decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione dalla data di apertura della successione. Quest’ultima, come si è visto sin dalle prime pagine di questo scritto, non è certo materia incontroversa. Qualora, pertanto, si dovesse convenire che il momento di decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di riduzione debba essere altrove collocato che nella data di apertura della successione, da quel diverso momento dovrebbe pure iniziare a decorrere il termine di prescrizione dell’azione di simulazione relativa connessa con l’azione di riduzione, ed anzi con la riunione fittizia [108].
L’effettiva importanza di quest’ultimo rilievo è peraltro limitata, ove si consideri che la casistica in tema di simulazione di atti connessi alla tutela dei legittimarî, concerne, pressoché in tutti i casi, donazioni dissimulate da atti onerosi: si è visto, infatti, che, quando l’azione di riduzione sia volta ad impugnare donazioni lesive della legittima, la prescrizione di tale azione comunque decorre dalla data di apertura della successione. Il che, peraltro, può dirsi quando siano solo atti donativi a formare oggetto dell’impugnazione per riduzione, poiché, invece, quando si impugnino anche disposizioni testamentarie, la questione del dies a quo della prescrizione dell’azione di riduzione si ripropone: come indicato nelle pagine che precedono, l’applicazione del criterio enunciato da Cass., sez. un., n. 20644/2004 comporta, rispetto ad una medesima successione, non già l’individuazione di date di decorrenza differenziate secondo la natura degli atti da impugnare, ma la fissazione di un’unica data di decorrenza, che dovrebbe individuarsi nella data dell’ultima delle accettazioni di eredità da parte dei soggetti istituiti eredi con le disposizioni testamentarie lesive, sia pure potenzialmente, dei diritti dei legittimarî.
Particolare attenzione merita la premessa più generale, ossia l’affermazione secondo la quale l’azione di simulazione relativa, diversamente dall’azione di simulazione assoluta, non sarebbe imprescrittibile, ma sarebbe soggetta a prescrizione nell’ordinario termine di cui all’art. 2946 cod. civ. Tale regola giurisprudenziale, in realtà, non sempre è formulata allo stesso modo: in alcune delle numerose pronunce in materia, essa è espressa proprio negli scarni termini appena esposti; in altre, con maggiore articolazione concettuale, si puntualizza che l’azione di simulazione è di per sé sempre imprescrittibile, indipendentemente dal fatto che si tratti di simulazione assoluta o relativa; e che, tuttavia, il decorso del tempo può colpire i diritti che presuppongono l’esistenza del negozio dissimulato, così esercitando una influenza indiretta sull’azione di simulazione.
Di tale diversità mostra di avvedersi una recente sentenza della Corte di Cassazione, che, svolgendo una ricognizione di alcuni suoi precedenti, tenta una sintesi delle diverse declinazioni del principio, affermando che anche la sua più concisa enunciazione attiene sempre all’ipotesi di azioni volte a far valere il diritto nascente dal contratto dissimulato, o comunque a trarne effetti in proprio favore; con la precisazione che il vantaggio che se ne può trarre va inteso “con esclusivo riferimento ai diritti nascenti dal negozio dissimulato”, e che, qualora si sostenga che tale negozio è privo di effetti giuridici, come quando se ne invoca la nullità, la prescrizione non opera [109].
Se le riferite precisazioni hanno il pregio di chiarire che l’azione di simulazione è di per sé sempre imprescrittibile, l’approdo interpretativo di tale giurisprudenza nondimeno si risolve in una impropria trasposizione all’azione di simulazione – trattata, per così dire, come “azione-mezzo” – dei caratteri dell’azione che potremmo definire “azione-fine” [110]. Una forzatura siffatta è talora motivata con il richiamo all’interesse ad agire: si è talora affermato, infatti, che la lesione dei diritti del legittimario, che l’apertura della successione determinerebbe, renderebbe “attuale e concreto” l’interesse ad agire di questi per la simulazione del contratto che dissimuli l’atto di liberalità lesivo [111]; ma il richiamo all’interesse ad agire per la simulazione è rinvenibile anche al di fuori della correlazione con l’azione di riduzione [112].
In tal modo, però, si sovrappongono aspetti eterogenei, per di più soggetti a regole processuali del tutto diverse: da un lato, una condizione dell’azione, il difetto della quale è rilevabile anche d’ufficio in qualunque fase del processo; dall’altro, una causa di estinzione del diritto dedotto in giudizio, la cui rilevanza è rimessa alla disponibilità, e alla sollecitudine, della parte convenuta, titolare del potere di eccezione, da esercitarsi entro brevi e perentorî termini. Il coordinamento tra interesse ad agire e prescrizione andrebbe perciò ricostruito nel modo seguente: qualora il convenuto proponga (fondatamente) l’eccezione di prescrizione nelle forme e nei termini di legge, si determina il venir meno dell’interesse dell’attore ad agire in simulazione, che quindi non potrebbe dirsi mancante ab origine. La sopravvenuta carenza di una condizione dell’azione dovrebbe condurre ad una pronuncia in rito di inammissibilità della domanda di simulazione, e ad un rigetto nel merito, per prescrizione, della domanda fondata sul contratto dissimulato. La doverosa distinzione tra le due domande non consente, invece, di discorrere di prescrizione dell’azione di simulazione.
Altre volte, per giustificare la decorrenza della prescrizione dell’azione di simulazione finalizzata alla riduzione di liberalità lesive, si è evocata l’altra condizione dell’azione civile, ossia la legittimazione ad agire, connessa con l’acquisizione della qualità di legittimario, appunto in coincidenza con l’apertura della successione [113]; ma si tratta di un dato puramente soggettivo, che non può essere determinante rispetto alla possibilità di esercizio del diritto di dedurre la simulazione, e nemmeno del diritto di richiedere la riduzione, e quindi alla decorrenza delle relative prescrizioni. All’apertura della successione consegue l’acquisto della qualità di legittimario, alla quale si riconnette la legittimazione ad agire, ma non per ciò stesso può concludersi che questi possa sin da allora proporre l’azione.
Se si evitassero inopportune commistioni tra le due azioni, non sarebbe necessario mutuare la decorrenza della cosiddetta prescrizione dell’azione di simulazione da quella dell’azione di riduzione in ragione della “terzietà” del legittimario rispetto all’atto simulato del de cuius: sarebbe sufficiente riconoscere che l’azione volta ad accertare la simulazione di un atto oneroso che ne dissimuli uno gratuito non pone di per sé un problema di prescrizione, occorrendo poi autonomamente valutare se sia stata tempestivamente proposta l’azione di riduzione contro tale atto, che di certo non inizia a prescriversi prima dell’apertura della successione.
A ben vedere, la giurisprudenza formatasi in tema di prescrizione nei rapporti tra simulazione e riduzione, ed anzi, più ampiamente, in tema di simulazione nelle controversie ereditarie, fa applicazione del principio elaborato con riguardo all’influenza del tempo sull’azione di simulazione nella sua versione più semplificata ed imprecisa, e muove dunque dall’idea che l’azione di simulazione relativa sarebbe soggetta ad una sua propria prescrizione; salvo, poi, cercare di salvaguardare le ragioni dei legittimarî, che rimarrebbero frustrate se si facesse decorrere tale prescrizione dalla data del contratto simulato, ogniqualvolta tale data precedesse di oltre dieci anni quella di apertura della successione, prima della quale l’azione di riduzione non è certamente proponibile, ricollegando a questa stessa data, con gli argomenti sopra illustrati, il dies a quo della prescrizione. Se si riconoscesse, piuttosto, l’imprescrittibilità dell’azione di simulazione, non sarebbe necessario percorrere tale via per preservare i diritti dei legittimarî dagli effetti del decorso del tempo. Ma, anche a prescindere da tale agevole constatazione, può osservarsi che, applicando il principio anzidetto così come chiarito e delimitato dal recente arresto della Cassazione, potrebbe giungersi a conclusioni sensibilmente diverse da quelle alle quali generalmente perviene la giurisprudenza anzidetta.
Come si è riferito, infatti, nel richiamato precedente la Cassazione ha affermato che la prescrizione viene in considerazione solo quando si intendano trarre effetti di favore dal contratto dissimulato, specificando che ciò vale “con esclusivo riferimento ai diritti nascenti dal negozio dissimulato”, e, di conseguenza, non quando se ne deduca l’inefficacia. Ora, benché, nel caso deciso con tale sentenza si trattasse della nullità del negozio dissimulato, e quindi della sua inefficacia originaria, le illustrate puntualizzazioni dovrebbero nondimeno applicarsi anche alle ipotesi di inefficacia sopravvenuta, conseguente ad impugnazioni di tale negozio, inclusa pertanto l’azione di riduzione, volta a provocare l’inefficacia relativa dell’atto di liberalità del de cuius, allo scopo di veder reintegrata la legittima, che non è certo un diritto che nasce da quell’atto, ma che, anzi, da quell’atto è lesa. Se si conviene su questo, si dovrà anche convenire che, indipendentemente dal momento della decorrenza, una questione di prescrizione dell’azione di simulazione in relazione a quella di riduzione non avrebbe neppure ragion d’essere.
Che vi sia una differenza sostanziale tra le due “versioni” del principio in discorso, in effetti corrispondenti a due diversi principî nonostante i cennati tentativi di reductio ad unum, è confermato dalle non poche sentenze emesse in casi nei quali la simulazione di un atto oneroso è stata dedotta per acquisire alla massa dividenda, attraverso la collazione, i beni oggetto di una donazione dissimulata. Tali sentenze hanno affermato che l’obbligo di collazione sorge solo dopo che sia stata dichiarata la simulazione dell’atto; che colui che chiede la collazione non può considerarsi terzo rispetto all’atto dissimulato, ma subentra nella posizione del de cuius, anche ai fini della prescrizione dell’azione di simulazione, già presente nel patrimonio di costui; che, pertanto, oltre a non beneficiare del regime di maggior favore rispetto alla prova della simulazione, egli subisce gli effetti della prescrizione decennale dell’azione intesa ad accertarla, la quale decorre dalla data dell’atto simulato [114]. Infatti, se si fosse avuto riguardo, non già alla simulazione di per sé, come azione capace di estinguersi per prescrizione, bensì ai diritti nascenti dal contratto dissimulato, la questione della prescrizione neppure si sarebbe dovuta porre, dal momento che la collazione, come la divisione, è imprescrittibile [115].
Una rimeditazione, ad opera della giurisprudenza, su questi temi sarebbe perciò auspicabile.
Si è visto come il principio enunciato da Cass., sez. un., n. 20644/2004, secondo il quale la prescrizione dell’azione di riduzione rivolta contro disposizioni testamentarie (a titolo universale, si è precisato) inizia a decorrere dal momento dell’accettazione da parte del chiamato all’eredità in forza della disposizione testamentaria lesiva, abbia disatteso i due diversi criterî sino ad allora applicati: quello più tradizionale e prevalente, che individuava nella data di apertura della successione il giorno di decorrenza della prescrizione dell’azione; e l’altro, minoritario, che faceva coincidere tale giorno con la data di pubblicazione del testamento olografo. Si è pure visto come le Sezioni Unite abbiano preso posizione in senso fortemente critico nei confronti di quest’ultimo orientamento, respingendo con nettezza la configurabilità di una presunzione di conoscenza dovuta alla pubblicazione del testamento, affermata in alcune pronunce rappresentative di tale orientamento; e comunque giudicando ininfluente, agli effetti della decorrenza della prescrizione, la eventuale ignoranza della disposizione lesiva, reputata come mero impedimento di fatto, che non pregiudicherebbe la possibilità di esercizio del diritto. Si è quindi notato che tale conclusione è coerente con un’affermazione ricorrente nella giurisprudenza in materia di prescrizione in generale [116].
Si comprende, allora, come la questione della decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione offra spunti di riflessione e di indagine, che attengono ad un àmbito molto più vasto di quello della tutela dei legittimarî, poiché interessano i caratteri generali dell’istituto della prescrizione. Proprio l’ampiezza della indicata sfera di interesse non consente di sviluppare tali spunti con la dovuta completezza in questa sede; ma l’importanza dell’argomento merita almeno lo svolgimento, in questo più limitato contesto di indagine, di qualche sintetica considerazione, inducendo a domandarsi se il criterio che attribuisce rilevanza alla pubblicazione del testamento, accolto anche da dottrina autorevole [117], non debba essere rivalutato, soprattutto in una prospettiva più generale, nella quale la specifica questione qui trattata può essere collocata. Del resto, anche in una materia in cui l’aspetto della decorrenza della prescrizione è specificamente disciplinato dalla legge, ossia in materia di accettazione dell’eredità, alla quale l’azione di riduzione è spesso – forse troppo spesso, come già rilevato – accostata, se l’opinione prevalente esclude che l’ignoranza dell’esistenza del testamento, anche se occultato, possa impedire la decorrenza della prescrizione a partire dall’apertura della successione, come indicato dall’art. 480, comma 2, cod. civ., autorevole dottrina ha nondimeno sostenuto, in contrario, che la decorrenza della prescrizione del diritto di accettare l’eredità prenderebbe data dalla pubblicazione del testamento [118].
Certo, è difficile convenire con l’affermazione secondo la quale la lesione del diritto del legittimario verrebbe ad esistenza con la pubblicazione del testamento [119], dal momento che, indipendentemente dalla questione della esecutività del testamento non pubblicato, la pubblicazione potrebbe anche non avere luogo, come anche osservato dalle Sezioni Unite nella sentenza del 2004 [120]. Forse, non è neppure decisiva, per stabilire la data di decorrenza della prescrizione dell’azione, l’individuazione del momento in cui la lesione si determina, se è vero che il legislatore del 1942, introducendo una norma che non era presente nel codice del 1865 (quella di cui all’art. 2935 cod. civ.), ha recepito, in materia di prescrizione, non la teoria della violazione, bensì quella della realizzazione; cosicché il termine di prescrizione decorrerebbe, non dal momento della lesione del diritto, bensì da quello in cui esso sia effettivamente tutelabile [121]. E può anche prescindersi dal verificare la fondatezza della ipotizzata presunzione di conoscenza derivante dalla pubblicazione del testamento, trattandosi di un aspetto relativo alla prova della conoscenza [122], dovendosi piuttosto accertare la rilevanza di tale elemento per il diritto sostanziale. Sembra quindi più utile domandarsi se la conoscenza dei fatti generatori del diritto (del legittimario, in questo contesto) ne condizioni o meno la possibilità di esercizio, e condizioni, di conseguenza, la decorrenza della relativa prescrizione, in applicazione della disposizione, per la verità poco perspicua, dell’art. 2935 cod. civ.
In realtà, il quadro interpretativo in argomento si presenta molto incerto ed instabile, poiché, a cospetto del principio, spesso ribadito, che reputa insignificante l’ignoranza di tali fatti rispetto alla decorrenza della prescrizione, può registrarsi una molteplicità di pronunce che, per contro, attribuiscono alla conoscenza – effettiva, o anche solo oggettivamente possibile – degli elementi costitutivi del diritto un ruolo decisivo rispetto alla possibilità di esercitarlo, e quindi all’ignoranza di tali elementi l’idoneità a precludere il decorso della prescrizione, così mettendo in seria discussione la reale “tenuta” della distinzione tra impedimenti di diritto all’esercizio del diritto, tradizionalmente identificati dalla pendenza di una condizione sospensiva o di un termine iniziale, e impedimenti di fatto, come dato discriminante agli effetti dell’interpretazione e dell’applicazione dell’art. 2935 cod. civ. [123].
Il terreno principale, ma non esclusivo, nel quale tale dato è riscontrabile è quello della responsabilità extracontrattuale, segnatamente in materia di danni alla persona, ove, com’è noto, l’interpretazione è andata ben oltre la dilatazione della nozione di “fatto”, quale momento di decorrenza della prescrizione breve quinquennale, che emerge dalla disposizione dell’art. 2947 cod. civ., sì da ricomprendervi anche l’evento dannoso derivante dal “fatto”, in mancanza del quale, per vero, il diritto risarcitorio neppure sorgerebbe [124]: è andata ben oltre, poiché neanche lo storico realizzarsi di tale elemento della fattispecie dell’illecito aquiliano è apparso sufficiente, in progresso di tempo, rispetto alla possibilità di esercizio del diritto al risarcimento del danno; come non lo è più apparso, da una certa epoca in avanti, il momento della sua esteriorizzazione, e quindi della sua conoscibilità da parte del danneggiato, per lungo tempo assunto come riferimento per la determinazione del dies a quo del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, essendosi affermata la necessità, a tal fine, che il danneggiato abbia la possibilità di rendersi conto anche della riferibilità causale del danno ad una condotta dolosa o colposa con l’uso dell’ordinaria diligenza, e in base ai dati di esperienza e delle conoscenze scientifiche disponibili, onde ne possa apprezzare il carattere di ingiustizia (c.d. principio della “rapportabilità causale”).
Alcune pronunce della Suprema Corte ricostruiscono l’evoluzione dell’interpretazione giurisprudenziale, individuando le tappe più significative di tale percorso, attraverso le quali si è passati dal riconoscere rilevanza, ai fini della determinazione dell’exordium praescriptionis, al momento della verificazione del fatto al riconoscerla, invece, alla esteriorizzazione del danno, rendendo in tal modo mobile il limite temporale; per poi soppiantare anche tale criterio, basato sulla oggettiva conoscibilità e percepibilità del danno, ormai reputato inappagante, con quello, sopra descritto, della “rapportabilità causale” [125].
La rilevanza, ai fini della decorrenza della prescrizione, della conoscibilità dei fatti costitutivi del diritto – da valutarsi secondo il parametro dell’ordinaria diligenza, rimanendo perciò ininfluente l’ignoranza soggettiva – è stata riconosciuta, non solo in relazione ad ipotesi di danni alla persona, ma anche di danni a cose [126]. Più in generale, l’applicazione di tale criterio ha finito per travalicare l’àmbito della responsabilità extracontrattuale, e della responsabilità in genere, per estendersi all’esercizio di diritti e azioni di diversa natura. Tale è il caso del diritto del creditore di agire in revocatoria, in relazione al quale si è ormai consolidata l’interpretazione dell’art. 2903 cod. civ. che, superando il dato letterale, ed espressamente evocando la necessità di coordinare tale norma con quella dell’art. 2935 cod. civ., fa decorrere la prescrizione quinquennale, non dalla data dell’atto da revocare, ma dalla data della sua trascrizione (ove per esso sia prevista tale forma di pubblicità) [127]. Tale è anche il caso del diritto del terzo di rendere irrevocabile la stipulazione in suo favore con la dichiarazione prevista dall’art. 1411, comma 2, cod. civ., in merito al quale si è stabilito che la mancata conoscenza della stipulazione da parte del terzo condiziona la possibilità giuridica di esercitare tale diritto [128]. E ciò è avvenuto ad opera di pronunce che spesso si sono richiamate alla sopra menzionata giurisprudenza in tema di risarcimento del danno da fatto illecito [129], con ciò mostrando che i principî elaborati in tale materia non possono essere solo ad essa circoscritti.
Altre pronunce si sforzano di rendere compatibili i suddetti principî con quello dell’irrilevanza degli impedimenti soggettivi e degli ostacoli di mero fatto, spesso esemplificati per mezzo della ricorrente formula, secondo la quale sarebbero ininfluenti ai fini della decorrenza della prescrizione il fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull’esistenza di tale diritto, il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento [130]. Ma, per attenersi alle ipotesi poco sopra citate, non potrebbe negarsi che l’accordo intercorso tra promittente e stipulante in favore del terzo sia il fatto generatore del diritto di questi; eppure, la conoscenza da parte sua di tale accordo, come si è illustrato, è reputata in grado di condizionare il suo diritto di renderla irrevocabile con l’apposita dichiarazione. Né potrà sfuggire la possibilità di ravvisare più di un aspetto di similitudine tra la posizione del terzo ignaro destinatario della prestazione pattuita inter alios e quella del soggetto beneficiario di una disposizione testamentaria, che parimenti ignori l’esistenza del testamento (ci si allontanerebbe troppo dal nucleo del discorso se ora ci si volesse soffermare sulle differenze tra il modo di acquisto del diritto del terzo verso il promittente, il modo di acquisto dell’eredità e il modo di acquisto del legato; e sulla diversa rilevanza, quanto ai primi due, della dichiarazione di cui all’art. 1411, comma 2, cod. civ. e, rispettivamente, di quella di cui all’art. 475 cod. civ.).
Potrebbe dirsi, riprendendo le parole di una delle pronunce qui richiamate, che ha trattato funditus del problema, sia pure nel cennato àmbito della responsabilità aquiliana, che si è molto ristretto il principio secondo il quale l’impossibilità che preclude la decorrenza della prescrizione non può essere quella dipendente da impedimenti come l’ignoranza del fatto costitutivo del diritto; e che tale principio va riferito, più limitatamente, all’ignoranza strettamente soggettiva, non dipendente cioè da una condizione comune a chiunque adotti la normale diligenza, al quale perciò non potrebbe addebitarsi un difetto colpevole di attività [131].
Le espressioni più recenti di tale linea di pensiero danno risalto al profilo dell’effettività del diritto, ossia della possibilità concreta di esercitarlo, quale valore da comparare e mantenere in una equilibrata relazione con quello della certezza giuridica dei rapporti; talché la prescrizione non può essere intesa come strumento che non rispetti un siffatto “equilibrio sistemico”, alla stregua del quale il termine prescrizionale non può iniziare a decorrere se non quando vi siano le condizioni per una “possibilità consapevole” di esercitare il diritto [132]. A dare concretezza alla possibilità di esercizio del diritto, cioè, vi è anche l’insieme delle informazioni alle quali il titolare ha accesso, o potrebbe avere accesso usando l’ordinaria diligenza, necessarie, appunto, a fornire tale consapevolezza.
Sulla effettività della tutela del diritto, muovendosi dunque nella cosiddetta “ottica rimediale”, oltre che sul criterio della ragionevolezza, si fondano gli approdi interpretativi della giurisprudenza comunitaria e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che hanno ravvisato nei termini di prescrizione (e di decadenza) previsti dagli ordinamenti nazionali il rischio di limitazioni all’accesso ad un “effective remedy”, e di creazione di ipotesi di “immunità dall’azione” [133].
Né si può fare a meno di rilevare la manifesta e univoca tendenza delle legislazioni di altri Paesi, rilevabile da recenti riforme, che, a fronte della fissazione di termini ordinarî di prescrizione piuttosto brevi, ravvisa nel difetto di conoscibilità degli elementi costitutivi del diritto un impedimento al decorso della prescrizione, oppure una causa di sospensione di tale decorso (ben più ampia, dunque, rispetto all’ipotesi del doloso occultamento del debito ad opera del debitore in danno del creditore, prevista dall’art. 2941, n. 8, cod. civ.), peraltro prevedendo regole di chiusura, che stabiliscono, accanto ai suddetti brevi termini, termini molto più ampî, oltre i quali, indipendentemente da qualunque circostanza, il diritto non può più essere esercitato, con ciò contemperando le esigenze di equità riferibili alla posizione del titolare del diritto con quelle di certezza dei rapporti giuridici. Regole analoghe si rinvengono nei Principî di diritto contrattuale europeo, nel Draft Common Frame of Reference, come pure nei Principî Unidroit [134].
Anche il legislatore italiano, sia pure in discipline settoriali, ha talora assegnato determinante rilievo alla conoscibilità e percepibilità del danno ai fini della decorrenza della prescrizione: segnatamente in tema di risarcimento di danni derivanti dall’impiego di energia nucleare, nonché da prodotti difettosi [135].
La stessa disciplina codicistica delle successioni contiene norme in cui il profilo della conoscenza risulta decisivo rispetto alla decorrenza della prescrizione di impugnative negoziali per vizî della volontà. A questo riguardo, se gli artt. 482 cpv., 526 cpv. e 761 cpv. cod. civ., nel prevedere che la prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento, rispettivamente dell’accettazione dell’eredità, della rinuncia all’eredità e della divisione, decorre dal momento di cessazione della violenza o della scoperta del dolo, risultano sostanzialmente conformi alla regola in tema di annullamento del contratto (art. 1442 cpv. cod. civ.), rispondendo alla stessa esigenza di tutela dell’attore, nonché autore del negozio, che sia stato vittima della violenza o del dolo, di maggiore interesse appare la norma di cui all’art. 624, comma 3, cod. civ., che fa decorrere la prescrizione dell’azione di annullamento del testamento “dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell’errore”. In questa ipotesi, e diversamente dalle altre citate, infatti, si tratta dell’impugnazione di un atto del quale l’attore non è l’autore, e non è quindi il portatore dell’interesse che la norma intende tutelare.
Sul significato del termine “notizia”, sostanzialmente equivalente a “scoperta”, non vi è unità di vedute tra gli interpreti: non è chiaro, cioè, se la norma esiga la effettiva conoscenza del vizio da parte dell’attore (il quale può essere “chiunque vi abbia interesse”), o se sia sufficiente la oggettiva possibilità di conoscerlo [136]. In entrambe le ipotesi, è certo che il legislatore abbia attribuito l’idoneità ad impedire il decorso della prescrizione ad un impedimento che diremmo “di fatto”, quale è l’ignoranza del vizio di volontà del testatore – eventualmente anche intesa come impossibilità di conoscere adottando la diligenza ordinaria – in capo al soggetto interessato all’impugnazione. Potrebbe peraltro osservarsi che l’attribuzione, ad opera della legge, di una siffatta idoneità ad un determinato impedimento rende l’impedimento di ordine giuridico, e non meramente di fatto. Ciò è quanto afferma un illustre Autore in riferimento all’art. 624, comma 3, cod. civ., al riguardo sostenendo che la regola ivi enunciata costituisce “applicazione pura e semplice dell’art. 2935 cod. civ.”, muovendo tuttavia dalla premessa – è bene precisarlo – che la “notizia” di cui la disposizione fa parola è la conoscenza effettiva dell’interessato, sì che il “fatto” rilevante per la norma è proprio tale conoscenza (e quindi il suo contrario: la mancata effettiva conoscenza), rimanendo insignificante, dal suo punto di vista, il dato della conoscibilità in senso oggettivo, a cui si riconnetterebbe un onere di diligenza dell’interessato, che l’Autore, infatti, recisamente esclude [137].
Di tale norma la giurisprudenza ha affermato, in un’occasione, la natura eccezionale [138], ma la dottrina più attenta al riguardo discorre, piuttosto, di specialità [139], con ciò mostrandone l’attitudine, ove possa scorgersi identità di ratio, ad una applicazione analogica in presenza di lacune normative, come quella sul dies a quo della prescrizione dell’azione di riduzione. Ma, a prescindere dalla questione dell’analogia, e dunque dalla ricerca di una eadem ratio, che accomuni l’annullabilità del testamento per vizio della volontà e la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, e ponendosi in una prospettiva più generale, giova qui richiamare l’opinione di un importante studioso dell’istituto della prescrizione, il quale, con riguardo al connotato della specialità ravvisabile nella norma in esame, ha osservato che tale connotato sarebbe effettivamente configurabile se il termine “notizia” fosse da intendersi nel senso della conoscenza effettiva da parte dell’interessato, ma non anche se il senso fosse quello della oggettiva emersione del vizio di volontà del testatore, e il “dover conoscere” fosse così reso equivalente alla conoscenza effettiva, poiché, in tal caso, non vi sarebbe deroga allo ius commune, e la disposizione in esame sarebbe in armonia con la regola generale [140]. Ciò, perché, se gli impedimenti di fatto non sono d’ostacolo alla possibilità legale di esercizio del diritto, e non provocano quindi il differimento dell’esordio della prescrizione, nondimeno la possibilità legale deve apprezzarsi secondo il criterio obiettivo del dover conoscere [141].
Tali osservazioni sembrano quindi offrire la conferma dell’importanza, anche al di fuori dell’area della responsabilità civile, della conoscenza dei fatti generatori del diritto soggetto a prescrizione, sia pure “oggettivizzata” alla stregua del criterio del dover conoscere; in pari tempo confermando la necessità di un’armonizzazione dell’interpretazione, oggi troppo frammentata, della norma dell’art. 2935 cod. civ. In questa luce, potrebbe allora acquisire determinante rilevanza, ai fini della decorrenza del diritto del legittimario di agire in riduzione, la sua conoscenza delle disposizioni testamentarie lesive dei diritti che la legge gli riserva; conoscenza in qualunque modo acquisita, indipendentemente, dunque, dal tema della relativa prova, e perciò da ipotetiche presunzioni legali, talora ravvisate nella pubblicazione del testamento.
[1] È la tesi di L. Ferri (Dei legittimari, Art. 536-564, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja, G. Branca, Libro secondo – Delle successioni, Bologna-Roma, 1971, 225 ss.). L’Autore, che dichiara la sua difficoltà di inquadramento della questione della prescrizione dell’azione di riduzione (“uno dei problemi che più mi hanno tormentato, e che non mi è riuscito di inquadrare in modo soddisfacente”), contesta all’opinione dominante, attestata sulla tesi della prescrizione decennale, di porsi il problema della prescrizione in relazione all’azione in sé considerata, prescindendo dal diritto sostanziale che essa è intesa a tutelare, e che l’Autore qualifica, appunto, come diritto reale sui beni relitti o donati (125 ss.). Muovendo poi dall’assunto che la legittima sia pars bonorum, ossia una quota di utile netto, e non pars hereditatis (op. cit., 6-7), Egli rivolge a quella dottrina, oggi ormai recessiva, che attribuisce al legittimario la qualità di erede l’accusa di incoerenza là dove essa sottolinea le differenze tra azione di riduzione e petizione di eredità – prescrittibile l’una, imprescrittibile l’altra –, sostenendo che tale distinzione non si concilierebbe con la tesi della qualità ereditaria del legittimario, e che le due azioni, a tale stregua, dovrebbero finire per coincidere; con conseguente imprescrittibilità anche dell’azione di riduzione (come affermato da una lontana pronuncia di merito, richiamata nell’opera citata: Trib. Venezia, 15 luglio 1960, in Foro. it., 1960, I, 1416). Riconosce invece maggiore coerenza nell’affermare la prescrittibilità dell’azione di riduzione ad altra dottrina, che ravvisa in tale azione lo strumento per rendere inefficaci le disposizioni lesive, e quindi per poter conseguire la quota di eredità. La tesi del Ferri, della natura reale del diritto del legittimario, che, almeno nella vigenza del codice del 1942, non ha altri sostenitori, è stata duramente criticata da L. Mengoni (Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu, F. Messineo, continuato da L. Mengoni, terza ed., Milano, 1992, 61-62, nota 53), il quale sostiene l’inconsistenza della costruzione sistematica che discende da tale tesi, prendendo le distanze da “dogmatizzazioni” come quella che porta il Ferri ad affermare che i beni relitti, in presenza di legittimarî, sono gravati da un diritto reale, e che dunque l’erede e il legatario ricevono tali beni così gravati, cosicché, se ne dispongono a loro volta, li trasferiscono con l’inerente onere o diritto, al pari di beni ipotecati o pignorati.
[2] Cass., sez. II, 28 novembre 1978, n. 5611; Cass., sez. II, 7 maggio 1987, n. 4230; Cass., sez. II, 22 ottobre 1988, n. 5731; Cass., sez. II, 26 gennaio 1990, n. 459; Cass., sez. II, 25 gennaio 1992, n. 817; Cass., sez. II, 7 agosto 1996, n. 7259; Cass., sez. II, 25 novembre 1997, n. 11809. In dottrina: R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, vol. I, Milano-Messina, 1948, 434; V. R. Casulli, Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Noviss. Dig. It., vol. XV, Torino, 1968, 1063; Gius. Azzariti, Diritti dei legittimari e loro tutela, Padova, 1975, 170; L. Mengoni, op. cit., 320; P. Vitucci, La prescrizione, in Il Codice Civile – Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1990, tomo primo, 139-140; G. Tamburrino, Successione necessaria (diritto privato), in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, 1375.
[3] Cass., sez. II, 15 giugno 1999, n. 5920; App. Trento, 19 dicembre 1998, in Nuovo dir., 1999, 849, con nota di V. Santarsiere (Disposizioni testamentarie lesive della legittima – diritto di riduzione e prescrizione); App. Brescia, 3 maggio 2000, in Giust. civ., 2000, I, 3293, con nota adesiva di D. Moscuzza (Il dies a quo del termine di prescrizione dell’azione di riduzione). La sentenza del 1970 richiamata nel testo è Cass. 17 gennaio 1970, n. 99, e ha anticipato l’orientamento che emerge dalle pronunce appena citate. In dottrina, oltre alla nota appena citata: V. Carbone, Digesto – Disc. priv. – sez. civ., vol. XVII, Torino, 1998, 620 (per la verità, in termini non del tutto chiari: “La prescrizione comincia a decorrere dal giorno dell’apertura della successione, salvo che il presupposto dell’azione di riduzione venga in essere in un momento posteriore, come, per esempio, nell’ipotesi di dichiarazione giudiziale di filiazione naturale maturata dopo la morte del de cuius, ovvero dalla data della pubblicazione del testamento, dalla quale deriva una presunzione iuris tantum di conoscenza delle disposizioni lesive”); C.M. Bianca, Diritto civile 2.2, Le successioni, quinta ed., Milano, 2015, 210 (sulla posizione del Bianca, v. pure infra, par. 2 e nota 12).
[4] Secondo alcuni autori, l’art. 553 cod. civ. prevedrebbe una vera e propria azione di riduzione: L. Ferri, op. cit., 115 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, quarta ed., Milano, 2015, tomo I, 528-529.
[5] V. Barba, La successione dei legittimari, Napoli, 2020, 363.
[6] Cass., sez. un., 25 ottobre 2004, n. 20644.
[7] V., p.es., Cass., sez. II, 30 giugno 2015, n. 13407; Trib. Latina, 31 gennaio 2020, in Red. Giuffrè, 2020. V. poi Cass., sez. II, 8 settembre 2021, n. 24169, ove si afferma, senza citare Cass. n. 20644/2004, che l’azione di riduzione di donazioni si prescrive a partire dall’apertura della successione. Si tratta, in realtà, di un obiter dictum, reso nel contesto di un’argomentazione volta a sottolineare la differenza tra azione di riduzione e petitio hereditatis, e a ribadire il principio ormai consolidato, secondo il quale il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione, potendo acquisire la qualità di erede solo in séguito al vittorioso esperimento dell’azione di riduzione. V. poi la giurisprudenza formatasi sulla questione, che sarà più avanti ripresa, della prescrizione dell’azione di simulazione di atti a titolo oneroso che dissimulino donazioni, che si intenda impugnare con l’azione di riduzione. In tali ipotesi, si afferma pressoché costantemente che l’azione di simulazione (relativa) inizia a prescriversi dalla data di apertura della successione, in concomitanza con la prescrizione dell’azione di riduzione, e alcune delle pronunce in argomento indicano la ragione di tale decorrenza con il fatto che, al momento di apertura della successione, si concretizza la lesione della quota di riserva del legittimario, ma, appunto, in relazione, a donazioni (Cass., sez. II, 30 luglio 2004, n. 14562; Cass., sez. II, 5 gennaio 2017, n. 138). Non vi è contraddizione, dunque, con quanto affermato da Cass. n. 20644/2004.
[8] Cfr. Cass. n. 11809/1997, cit.
[9] Si tratta di principio affermato in numerose occasioni in giurisprudenza, di recente ribadito da Cass., sez. II, 14 gennaio 2022, n. 996: “Come ha infatti più volte evidenziato questa Corte, l’impossibilità di far valere il diritto è solo quella che deriva da cause giuridiche che ostacolano l’esercizio del diritto e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali l’art. 2941 c.c. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione, tra le quali non rientra l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sull’esistenza di tale diritto e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (v. in particolare Cass, 3584/2012)”. Sul punto, v. infra, par. 7.
[10] Così Cass. n. 5920/1999, cit.
[11] In particolare, la Corte ha affermato al riguardo: a) che la pubblicazione del testamento potrebbe anche mancare; b) che essa va richiesta dalla persona che si trovi nel possesso del testamento, la quale potrebbe non coincidere con il soggetto chiamato in base ad esso, cosicché dalla richiesta di pubblicazione non potrebbe desumersi l’accettazione dell’eredità da parte del chiamato; c) che, in ogni caso, alla richiesta di pubblicazione anche da parte del chiamato non sarebbe ricollegabile un’accettazione di eredità, potendo esser fatta in adempimento dell’obbligo di cui all’art. 620 cod. civ., a meno che il chiamato non si qualifichi come erede nel relativo verbale. Afferma, poi, quanto alla comunicazione del testamento pubblico ex art.623 cod. civ., che essa potrebbe valere come presunzione di conoscenza per i destinatarî della comunicazione, ma non per il legittimario leso.
[12] Così, C.M. Bianca, Diritto civile 2.2, Le successioni, quinta ed., Milano, 2015, 210. Nello stesso senso, D. Achilli, Azione di riduzione e simulazione: prescrizione, limiti probatori e condizioni dell’azione, in Dir. e giust., fasc. 6, 2017, 12 ss.
[13] Ad esempio, dove si afferma: “… il legittimario, fino a quando il chiamato in base al testamento non accetta, rendendo attuale quella lesione di legittima che per effetto delle disposizioni testamentarie era solo potenziale, non sarebbe legittimato (per difetto di interesse) ad esperire l’azione di riduzione”.
[14] Cfr. F.C. Follieri, Azione di riduzione e decorrenza del termine di prescrizione, in Vita not., 2005, 855 ss., spec. 860 ss.
[15] Cfr. M. Leo, Una soluzione che non sembra tener conto delle modalità di acquisto del legato, in Guida al diritto, 2004, n. 44, 17 ss.
[16] Così è per l’art. 560 cod. civ., in tema di riduzione di legati e donazioni di immobili; per l’art. 561 cod. civ., sulla libertà da pesi e ipoteche degli immobili oggetto di restituzione conseguente a riduzione; per l’art. 563 cod. civ., sulla riduzione di donazioni di beni immobili alienati a terzi: si reputa infatti che tali norme siano applicabili, per identità di ratio, anche alla riduzione delle disposizioni testamentarie a titolo universale: cfr. F. Santoro-Passarelli (Dei legittimari, in Commentario del codice civile, diretto da M. D’Amelio, Libro delle Successioni a causa di morte e delle Donazioni, Firenze, 1941, 306, 307, 323. Con riguardo a quest’ultimo articolo (in specie, al corrispondente articolo del libro delle successioni, emanato con R. D. 26 ottobre 1939, n. 1586), l’illustre Autore rileva che l’”angusta formulazione legislativa” dipende da un difetto di coordinamento, dovuto al fatto che tale articolo, nel codice precedente, era scritto a proposito delle donazioni); A. Pino, La tutela del legittimario, Padova, 1954, 31 (il quale afferma che “se non vi è una particolare ratio da ricercarsi volta per volta, tutte le norme dettate per la riduzione delle donazioni (art. 563) o delle donazioni e legati (art. 560 e 561) si estendono anche alla riduzione della istituzione di erede”; ma non concorda sul riferito rilievo del Santoro-Passarelli, e sostiene che la genesi della formulazione dell’art. 563 cod. civ. deriva dal fatto che i compilatori trascrissero tali norme dal codice del 1865, senza avvedersi che esse erano la riproduzione di quelle del codice francese, ispirato a principî diversi: v. pure infra, nota 18); C.M. Bianca, op. cit., 220, nota 174, 226; U. Perfetti, Legittimari, in E. del Prato (a cura di), Le successioni, Bologna, 2020, 224, 232, 234, 235. In giurisprudenza, v. Cass., sez. II, 22 marzo 2001, n. 4130; Cass., sez. II, 25 luglio 2017, n. 18280. V. però App. Venezia, 31 ottobre 2018, n. 2962 (in Redaz. Giuffrè, 2019), la quale ha escluso che l’art. 560, comma 1, cod. civ., si applichi alle istituzioni di erede, perché lo stato di comunione ereditaria che si viene a creare (o a modificare, secondo che vi sia preterizione totale o lesione senza preterizione) tra il legittimario e il beneficiario della disposizione istitutiva potrebbe sciogliersi solo con l’azione di divisione ereditaria sull’intero patrimonio del defunto. Anche rispetto alla regola di cui all’art. 564, comma 2, cod. civ., sulla imputazione ex se di legati e donazioni, si afferma che l’imputazione dovrebbe ricomprendere anche i beni che si ricevono in qualità di erede: così, L. Ferri, op. cit., 217-218; G. Capozzi, op. cit., 542; V. Barba, op. cit., 316. Come nota, però, A. Palazzo (Riduzione (azione di), in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII), la disciplina introdotta dal d.l. n. 35/2005, che ha inciso sull’art. 563 (e sull’art. 561) cod. civ., ed in applicazione della quale non è più esperibile l’azione restitutoria contro gli aventi causa del donatario una volta decorso il ventennio dalla trascrizione della donazione senza che sia stata notificata (e poi trascritta) al donatario e ai suoi aventi causa l’opposizione alla donazione ad opera dei soggetti indicati dalla norma, riduce l’interpretazione tradizionale della dottrina, secondo la quale l’art. 563 cod. civ., benché riferito alle sole donazioni, si applicherebbe anche alle disposizioni testamentarie lesive della legittima.
[17] Nel vigore del codice precedente, si era sostenuta, infatti, la tesi della diversità delle azioni di riduzione in funzione della diversa natura delle disposizioni da ridurre: cfr. F. Degni, Lezioni di diritto civile. La successione a causa di morte. La successione testamentaria, II, Padova, 1934, 287.
[18] A. Pino, op. cit., 24 ss. L’Autore svolge una accurata analisi storico-comparatistica, con particolare riguardo alla trasposizione di alcune norme del Code civil nel nostro codice del 1865 sulla impugnazione di atti del de cuius lesivi della legittima, per confutare le tesi intese a distinguere le relative azioni secondo che si tratti di impugnare disposizioni testamentarie o invece donazioni lesive della legittima (o anche secondo che si tratti di istituzioni di erede o invece di legati), appunto concludendo per la unicità dell’azione. In giurisprudenza, sottolineano la unitarietà dell’azione di riduzione Cass., sez. II, 1 dicembre 1993, n. 11873; Cass., sez. II, 2 dicembre 2015, n. 24521, anche in considerazione della disciplina, appunto unitaria, dettata in materia di trascrizione (art. 2652, n. 8, cod. civ.) delle domande di riduzione di donazioni e di disposizioni testamentarie.
[19] F.C. Follieri, op. cit., 861.
[20] La sentenza vi fa cenno nel contesto – già sopra richiamato (nota 11) – di una ricognizione della disciplina e della funzione della pubblicazione del testamento, volta a confutare il riferito orientamento, che a tale pubblicazione ricollega la data di decorrenza della prescrizione dell’azione di riduzione, là dove la Corte precisa che alla pubblicazione del testamento può essere ricondotta l’accettazione tacita di eredità (e quindi la decorrenza della prescrizione del diritto di agire in riduzione) solo quando il chiamato assuma nel relativo verbale la qualità di erede.
[21] Così. E. Bilotti, Tre questioni in tema di tutela dei legittimari: la decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di riduzione; la nullità per preterizione della divisione testamentaria e la posizione giuridica del legittimario pretermesso; la disposizione testamentaria dell’usufrutto universale a favore del coniuge con istituzione ex asse dei figli, in Nuova giur. civ. comm., 2005, parte prima, 825. Le ulteriori questioni menzionate nel titolo dell’opera rispetto a quella della prescrizione dell’azione sono oggetto della sentenza delle Sezioni Unite, ma esulano dal tema qui in esame, e non occorre richiamarle, se non con riferimento alla posizione del legittimario pretermesso in relazione alla nullità della divisione ex art. 735 cod. civ.: sul punto, la sentenza afferma che il legittimario escluso dall’eredità potrebbe far valere la nullità proponendo la relativa azione dichiarativa, la quale assorbirebbe l’azione di riduzione, che dunque il legittimario pretermesso non avrebbe l’onere di proporre. L’Autore rileva in proposito che tale soluzione si fonderebbe sulla tesi, diffusa in passato, secondo la quale il legittimario, anche se escluso dal testatore, acquisterebbe (accettando) la qualità ereditaria in forza di una vocazione ex lege (p. 826); mentre gli interpreti contemporanei concordano generalmente sul fatto che la qualità di erede può essere conseguita dal legittimario preterito solo attraverso il vittorioso esperimento dell’azione di riduzione (v. infra). V. pure A. Palazzo (op. loc. cit.), il quale, nel quadro di una trattazione relativa all’opposizione alla donazione ex art. 563, comma 4, cod. civ., rileva che Cass., sez. un., n. 20644/2004 “fa decorrere il termine decennale per l’esperimento dell’azione di riduzione dall’accettazione dell’eredità, quando, oltre all’atto di liberalità, vi siano altre disposizioni ereditarie del medesimo dante causa, da cui possa derivare una lesione”.
[22] V. Barba, op. cit., 365.
[23] V. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Milano, 2022, 206. In giurisprudenza, v. Cass., sez. II, 27 agosto 2020, n. 17926.
[24] Così, U. Perfetti, op. cit., 204-205. Nella sentenza citata nella nota precedente si legge: “L’azione può quindi essere esercitata nei confronti di uno solo degli obbligati alla integrazione della quota spettante al legittimario e spiegare effetto solamente nei suoi confronti in caso di accoglimento”, sebbene la definizione di “obbligati alla integrazione della quota spettante al legittimario” non possa reputarsi corretta per le ragioni che saranno in séguito chiarite.
[25] La stessa dottrina richiamata nel testo, pur definendo la questione opinabile, ammette tale possibilità, almeno in relazione alle disposizioni testamentarie, salvo il caso in cui il testatore abbia espresso una preferenza nella riduzione ex art. 558, comma 2, cod. civ., precisando, come è logico, che una scelta siffatta può andare in pregiudizio solo del legittimario che si sia in tal senso determinato, non certo del beneficiario contro il quale sia stata chiesta la riduzione. Diversamente, rispetto alle donazioni, l’ordine previsto per legge da seguire per la loro riduzione esclude l’arbitrio del legittimario (V. Barba, op. cit., 341). Il principio di inderogabilità dell’ordine di riduzione delle donazioni, tradizionalmente reputato intangibile, è stato recentemente messo in discussione. Si è sostenuta infatti la validità di accordi modificativi di tale ordine, che, senza incidere sui diritti dei legittimarî, si fondino sul consenso dei donatarî che risulterebbero sfavoriti dall’alterazione del criterio legale. Tali accordi non configurerebbero patti successorî istitutivi o rinunciativi, potendo, semmai, configurare patti dispositivi, i quali, però, non sarebbero necessariamente nulli, in quanto non comporterebbero la lesione dei principî di cui la lettera della legge (l’art. 458 cod. civ.) è espressione (così, G. Perlingieri, Derogabilità del criterio cronologico di riduzione delle donazioni e divieti dei patti successori, in Dir. succ. fam., 2020, 169 ss.).
[26] M. Quargnolo, Il termine iniziale di prescrizione dell’azione di riduzione, in Riv. dir. civ., 2005, 760-761.
[27] Osserva U. Perfetti (op. cit., 206), che, in mancanza dell’accettazione, non si perfeziona la fattispecie in grado di pregiudicare il diritto del legittimario, a differenza della donazione e del legato, la lesività dei quali si manifesta già al momento dell’apertura della successione. Con riguardo a donazioni e legati, peraltro, potrebbe osservarsi, ragionando in termini di perfezionamento della fattispecie, che l’apertura della successione, più che “manifestare” il carattere lesivo di tali liberalità, lo determina. La “manifestazione” attiene di per sé al profilo della conoscibilità di tale carattere lesivo, e dunque ad un aspetto che, secondo il punto di vista espresso dalle Sezioni Unite, non assumerebbe rilevanza.
[28] Sugli oneri di allegazione e di prova ai quali è soggetto il legittimario attore nel giudizio di riduzione, v. ampiamente Cass., sez. II, 2 settembre 2020, n. 18199.
[29] Cfr. P. Vitucci, op. cit., 140. A tale impostazione sembra aderire A. Bucelli (Azione di riduzione e decorrenza della prescrizione: l’ultima parola alle Sezioni unite della Cassazione, in Giur. it., 2005), che pur segnala ragioni di perplessità in merito a tale affermazione, osservando che, se l’esercizio dell’azione di riduzione dovesse equivalere ad accettazione tacita dell’eredità, occorrerebbe applicare l’art. 480 cod. civ. V. poi S. Sammartano, Termine decennale nella successione, in Vita not., 1999, 1254, secondo il quale dall’art. 480 cod. civ. “si può evincere indirettamente il dies a quo”. L’Autore spiega l’affermazione facendo riferimento al caso del legittimario pretermesso, che agendo in riduzione, compie un atto di accettazione dell’eredità, il quale deve essere compiuto entro dieci anni dall’apertura della successione, e non dalla pubblicazione del testamento. Sul rapporto tra esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario pretermesso e accettazione dell’eredità, v. subito appresso nel testo.
[30] L’ipotesi di soddisfazione della quota di riserva mediante donazioni o legati in conto di legittima è richiamata da L. Ferri (op. cit., 7) a sostegno della sua già rammentata tesi, secondo la quale la legittima non è quota di eredità, ma pars bonorum. Più recentemente si è affermato che l’attribuzione al legittimario della qualità di erede può essere strumentale a fargli conseguire la quota di patrimonio riservatagli dalla legge, ma che essa non è una necessità generale, come mostra il fatto che la legittima può essere soddisfatta mediante donazioni. L’acquisto della qualità di erede non è quindi l’interesse protetto dalla legge, ma uno strumento tecnico, talora necessario per realizzare l’interesse realmente protetto, consistente, appunto, nel conseguimento di una quota del patrimonio decennale ereditario (V. Barba, op. cit., 26 ss., in linea con il pensiero del Mengoni, per il quale la riserva non è finalizzata a far acquistare al coniuge e ai parenti in linea retta la qualità di erede, ma a consentire loro di ottenere una certa porzione del patrimonio, fornendo loro, a tale scopo, il titolo ereditario, come quello che offre una tutela più forte: L. Mengoni, op. cit., 61).
[31] Così L. Mengoni, op. cit., 239-240, per il quale il reclamo della quota di riserva non è un’accettazione “ora per allora”. Egli afferma che la regola espressa dall’art. 459 cod. civ., secondo la quale “non è erede chi non vuole”, ha ragion d’essere rispetto ad una eredità deferita senza la volontà del chiamato; mentre, nel caso del legittimario preterito che reclami la sua quota, la vocazione a tale quota si apre proprio con un suo atto di volontà, ossia con la domanda di riduzione. V. pure G. Grosso, A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, Torino, 1977, 89, ove si discorre al riguardo di delazione assoggettata a un particolare regime, per il fatto che essa comporta il potere del chiamato di determinare il verificarsi della successione a proprio favore, non per il tramite di “mero atto di accettazione”, ma tramite l’esperimento utile dell’azione di riduzione; e si solleva altresì il dubbio se, nel frattempo, spettino al legittimario i poteri di conservazione del patrimonio ereditario che normalmente spettano al chiamato.
[32] V. infatti A. Pino, op. cit., 133, per il quale il termine per accettare l’eredità decorrerebbe dalla sentenza di riduzione. Tale opinione è reputata “insostenibile” dal Mengoni (op. loc. ult. cit.).
[33] Affermano che, con l’accoglimento (definitivo) dell’azione di riduzione, il legittimario pretermesso acquista la qualità di erede: Cass., sez. II, 15 giugno 2006, n. 13804; Cass., sez. II, 29 maggio 2007, n. 12496; Cass., sez. I, 20 novembre 2008 (la quale evoca in proposito “il costante orientamento di questa Corte”); Cass., sez. II, 7 febbraio 2020, n. 2914 (non proprio esplicitamente: “le attuali ricorrenti non avrebbero potuto acquistare la qualità di eredi fino a quando non fosse stata ridotta la donazione”; affermazione che non esclude la diversa lettura); Cass., sez. II, 13 gennaio 2010, n. 368; Cass., sez. II, 25 luglio 2017, n. 18280; Cass., sez. VI, 26 ottobre 2017, n. 25441; Cass., sez. II, 11 febbraio 2022, n. 4528 (che sottolinea la necessità, a tal fine, del passaggio in giudicato della sentenza). Affermano invece che, in tal modo, egli acquista la qualità di chiamato all’eredità: Cass., sez. II, 3 dicembre 1996, n. 10775; Cass., sez. III, 12 gennaio 1999, n. 251; Cass., sez. II, 7 ottobre 2005, n. 19527. Nessuna di tali sentenze, tuttavia, dà specifico rilievo alla distinzione. Si è precisato in dottrina che l’acquisto della qualità di erede da parte del legittimario preterito consegue all’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione unitamente alla delazione ex lege prodottasi con la rimozione dell’effetto preclusivo delle disposizioni lesive ridotte (così, M.C. Tatarano, (La successione necessaria, in R. Calvo, G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni e delle donazioni, seconda ed., Napoli, 2013, Tomo primo, 521). Osserva G. Perlingieri, muovendo dalla distinzione tra vocazione e delazione (contra, C.M. Bianca, op. cit., 61, per il quale tale distinzione, che non ha riscontro nella legge, porta a duplicare lo stesso concetto), che il legittimato pretermesso, il quale non può acquistare l’eredità al momento dell’apertura della successione, similmente al chiamato sotto condizione sospensiva, e diversamente dal legittimario semplicemente leso, deve considerarsi vocato (ex lege), ma non delato; sì che, fino all’esercizio dell’azione di riduzione e all’ottenimento della relativa sentenza costitutiva, non può acquistare l’eredità, ma può soltanto condizionare l’accettazione espressa (non necessariamente beneficiata, e semmai contenuta nell’atto introduttivo del giudizio) e il conseguente acquisto al buon esito del giudizio di riduzione (G. Perlingieri, L’acquisto dell’eredità, in R. Calvo, G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni e delle donazioni, cit., 217).
[34] V. però l’obiezione sollevata da V. Barba, op. cit., 386-387, il quale sostiene che la sentenza di riduzione non attribuisce al legittimario pretermesso automaticamente la qualità di erede, ma la posizione di chiamato alla quota ereditaria, osservando che, in tal modo, il legittimario potrà accettare con beneficio di inventario. Secondo l’Autore, la diversa opinione sarebbe irrazionale, e anche incostituzionale, poiché costringerebbe il legittimario pretermesso all’alternativa di dover accettare puramente e semplicemente o di non dover agire con l’azione di riduzione. Secondo Gius. Azzariti (op. cit., 61 ss., 152; e già in Il legittimario è erede?, in Dir. e giur., 1933, 33 ss.), il legittimario che non sia investito della qualità ereditaria non può conseguirla con l’azione di riduzione; per effetto del cui accoglimento, quindi, egli non diviene partecipe di una comunione ereditaria; altrimenti, tale azione si trasformerebbe in una petitio hereditatis. Potrebbe – sempre secondo l’Azzariti – determinarsi una comunione, ma non equiparabile alla comunione ereditaria provocata dalla delazione di più eredi (v. invece Cass., sez. II, 4 dicembre 2015, n.24755: “Quando l’azione di riduzione riguarda le disposizioni a titolo universale con le quali sono stati nominati eredi testamentari, il legittimario interamente pretermesso acquista, con la riduzione, la qualità di erede pro quota, che lo rende partecipe della comunione ereditaria”). Anche per L. Ferri (op. cit., 10-11), la riduzione non incide sulla istituzione di altri nell’eredità, rimuovendola in tutto o in parte, per far spazio al legittimario come erede in tutto o in parte.
[35] Cfr. Cass., sez. II, 19 ottobre 2012, n. 18068, la quale richiama il principio già altre volte espresso dalla Corte, secondo il quale l’esperimento dell’azione di riduzione implica un atto di accettazione tacita pura e semplice dell’eredità, escludendo la possibilità di una successiva accettazione beneficiata.
[36] Nel quadro delle considerazioni riferite in nota 31, il Mengoni (op. cit., 37) espressamente discorre di estraneità dell’art. 459 cod. civ. al regolamento della successione necessaria. In giurisprudenza, v. Cass., sez. II, 20 giugno 2019, n. 16623, la quale sottolinea le “le differenti nature dell’azione di riduzione e dell’accettazione di eredità: la prima … di contenuto patrimoniale; l’altra, strettamente personale, ed implicante profili di carattere morale e sociale”. La stessa sentenza coglie però alcuni aspetti di analogia tra le due situazioni (v. infra, nota 38).
[37] V. nota 27.
[38] La questione si è posta, in particolare, rispetto ai creditori del legittimario, ai quali la maggioranza degli interpreti riconosce il potere di agire in riduzione nell’esercizio dell’azione surrogatoria nell’inerzia del legittimario debitore. V. F. Santoro-Passarelli, Dei legittimari, cit., 316; A. Pino, op. cit., 68 ss.; L. Mengoni, op. cit., 241 ss. La legittimazione surrogatoria dei creditori del legittimario è stata affermata anche in virtù dell’argumentum a fortiori offerto dall’ultimo comma dell’art. 557 cod. civ., dal quale si deduce (in questo caso, mediante l’argumentum a contrario) che i creditori del defunto sono legittimati a proporre l’azione in caso di accettazione pura e semplice dei legittimarî (così divenendo creditori personali del legittimario, per effetto della confusione dei patrimonî), giacché la suddetta disposizione esclude che essi possano agire se vi sia stata accettazione con beneficio di inventario: se quindi sono ammessi ad agire, in tale caso, i creditori del defunto, non vi sarebbe ragione di escludere i creditori personali “originarî” del legittimario. L’esercizio dell’azione in via surrogatoria presuppone, inoltre, l’inerzia del legittimario; il che pone il problema della discrezionalità del legittimario nell’esercizio dell’azione, almeno quando la sua inattività non sia valutabile come comportamento concludente, significativo della volontà di non esercitare il diritto, o proprio di rinunziarvi (v. in proposito U. Perfetti, op. cit., 207 ss.). In tal caso, l’esercizio dell’azione dei creditori richiede la rimozione, tramite l’azione revocatoria, dell’atto di disposizione del legittimario. L’esercizio surrogatorio dell’azione di riduzione potrebbe anche fondarsi su un’applicazione analogica dell’art. 524 cod. civ.: cfr. Cass., sez. II, 20 giugno 2019, n. 16623; App. Napoli, 12 gennaio 2018, n. 118, in Riv. not., 2018, II, 649, riferite in particolare alla legittimazione dei creditori del legittimario totalmente pretermesso. La seconda pronuncia si esprime anche sulla legittimazione del curatore del fallimento, nel caso di legittimario fallito, ammettendo tale legittimazione sulla base dell’art. 43 l.f., e quindi in via diretta. La sentenza della Cassazione, che mostra adesione alle posizioni della dottrina sopra citata, tratta in termini ampî, con un articolato ragionamento di ordine sistematico, il problema della legittimazione dei creditori. Essa muove dalle seguenti affermazioni: che i creditori del legittimario vanno ricompresi nella categoria degli “aventi causa”, di cui all’art. 557, comma 1, cod. civ.; che il diritto del legittimario ha contenuto patrimoniale e non è indisponibile, e che non sussistono, quindi, da tale punto di vista, limiti all’applicazione dell’art. 2900 cod. civ.; che la legittimazione dei creditori del legittimario può anche ricavarsi dalla disposizione dell’ultimo comma dell’art. 557 cod. civ., il quale non ammette i creditori del defunto all’esercizio dell’azione qualora il legittimario abbia accettato con beneficio di inventario, ammettendoli pertanto nel caso di accettazione pura e semplice, la quale rende tali creditori anche creditori personali dell’erede in conseguenza della confusione dei patrimonî; cosicché non vi è ragione di distinguere costoro dagli originarî creditori personali del legittimario (v. sopra). Ponendosi, a questo punto, il problema rispetto ai creditori del legittimario totalmente pretermesso, la Corte sostiene la necessità di valorizzare la norma dell’art. 524 cod. civ., ravvisando “forte analogia” tra la situazione in esame e quella assunta nella fattispecie regolata da tale norma (e tuttavia richiamando le differenti nature dell’azione di riduzione e dell’accettazione di eredità: v. nota 36), e sottolinea che, poiché l’impugnazione ivi prevista non comporta accettazione dell’eredità in capo al chiamato rinunciante, tale norma non prende in considerazione la qualità di erede, ma si limita ad attribuire una speciale legittimazione ai creditori del rinunciante, riconducibile ad una peculiare figura di surrogatoria. Da ciò potrebbe farsi discendere la speciale legittimazione surrogatoria dei creditori, la quale realizzerebbe una interferenza di natura eccezionale nella sfera del debitore, contemperando gli interessi dei creditori, anche rispetto ai casi di preterizione di comodo (c.d. “diseredazione amica”), con il principio secondo il quale nessuno può essere costretto ad acquisire contro la sua volontà la qualità di erede. Per V. Barba, op. cit., 332 ss., la soluzione accolta in tale sentenza non corrisponderebbe ad una forma di esercizio dell’azione in via surrogatoria, ma ad un’ipotesi speciale di matrice giurisprudenziale. Secondo questo Autore, i creditori del legittimario non potrebbero essere ricompresi nella categoria degli aventi causa. Contra A. Pino, L. Mengoni, opp. locc. citt. Nella dottrina più recente, il problema è trattato estesamente da M. Tatarano, Il sistema delle tutele dei creditori particolari del legittimario leso, in Dir. succ. fam., 2019, 207 ss., e da I.L. Nocera, La tutela dei creditori del legittimario, Torino, 2020, 26 ss., 119 ss.
[39] V. nota 1.
[40] F. Santoro-Passarelli, Appunti sulla successione necessaria, Padova, 1936, 75; A. Pino, op. cit., 63; L. Mengoni, op. cit., 229, il quale così spiega la definizione: accertamento della lesione di legittima e delle altre condizioni dell’azione, al quale segue automaticamente la modificazione giuridica che forma il contenuto del diritto del legittimario; G. Capozzi, op. cit., 525; U. Perfetti, op. cit., 204. Cass., sez. II, 26 novembre 1987, n.8780; Cass., sez. III, 13 maggio 2021, n.12872. Sugli effetti dell’azione di riduzione, v. pure, ampiamente, V. Barba, op. cit., 377 ss., il quale mette in particolare evidenza, fra tali effetti, quello di ridefinizione delle quote ereditarie.
[41] L. Mengoni, op. cit., 229, nota 17. Afferma invece F. Messineo (Azione di riduzione e azione di restituzione per lesa legittima, in Riv. dir. civ., 1943, 132) che l’azione di riduzione, in una prima fase, accerta la lesione della legittima, e che, in questa fase, “è indubbiamente azione personale, mirante a far valere un diritto di credito, così come ritiene l’opinione corrente”. La seconda fase corrisponde, invece, all’azione di restituzione proposta contro lo stesso beneficiario della disposizione lesiva, nei confronti del quale è stata pronunciata la sentenza di riduzione.
[42] L. Coviello, Successione legittima e necessaria, Milano, 1938, 374; R. de Ruggiero, F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, cit., 431 ss. Secondo Gius. Azzariti, op. cit., 169, le cose acquistate da coloro ai quali sono state attribuite dal de cuius devono intendersi acquistate puramente e semplicemente nei limiti della porzione disponibile, e sotto condizione risolutiva per la porzione eccedente; condizione il cui verificarsi dipende dall’esercizio dell’azione di riduzione e dal processo di accertamento a cui dà luogo, sì che la sentenza di riduzione è costitutiva del titolo di acquisto per il legittimario, che, a séguito della risoluzione del diritto dei successori testamentarî, diventa titolare dei beni a lui riservati dalla legge. V. pure nota seguente.
[43] Così F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1954, 239, che assimila invece l’azione di riduzione all’azione revocatoria ex art. 2901 cod. civ., sottolineandone però la diversità quanto alla posizione dei terzi acquirenti (cfr. artt. 563 e 2901, comma 4, cod. civ.). Egli, peraltro, in precedenti opere (Appunti sulla successione necessaria, cit., 75; Dei legittimari, cit., 307), aveva affermato che l’azione di riduzione è da considerare un’azione di risoluzione (un’azione di accertamento costitutivo – scrive l’illustre Maestro – diretta ad ottenere la risoluzione della disposizione lesiva, e non l’annullamento).
[44] Secondo L. Ferri (op. cit., 204-205), in coerenza con la tesi da lui sostenuta, secondo la quale il legittimario sarebbe titolare di un diritto reale, la sentenza di accoglimento dell’azione di riduzione non avrebbe efficacia retroattiva reale, poiché il diritto reale del legittimario sorgerebbe con l’apertura della successione: piuttosto, l’azione di riduzione avrebbe efficacia reale.
[45] Sull’effetto retroattivo della sentenza che accoglie la domanda di riduzione, U. Perfetti (op. loc. ult. cit.) rileva una mancanza di sintonia tra la dottrina e la giurisprudenza: l’una orientata a sostenere che la dichiarazione opererebbe retroattivamente, a partire dalla data di apertura della successione; l’altra a sostenere che l’inefficacia opererebbe ex nunc. L’Autore, dichiarando di prestare adesione alla prima tesi, richiama in proposito Cass., sez. I, 11 giugno 2003, n. 9424 e Cass., sez. II, 12 aprile 2002, n. 5323, che appunto affermano l’efficacia ex nunc della sentenza di riduzione. Di efficacia ex nunc discorre pure Cass., sez. II, 25 luglio 2017, n. 18280. Tuttavia, la giurisprudenza di merito più recente mostra di recepire la tesi della retroattività della dichiarazione di inefficacia, a partire dal momento di apertura della successione: Trib. Messina, 16 settembre 2021, n. 1561, in Guida al dir., 2022, 3; Trib. Marsala, 13 gennaio 2021, n.15, in Redaz. Giuffrè 2021; Trib. Teramo, 16 novembre 2020, n.910, in Redaz. Giuffrè, 2021. Questa sembra, in effetti, la soluzione corretta, poiché la retroattività è propria delle azioni costitutive di impugnazione negoziale, pur non essendo propria delle azioni costitutive in genere; le quali, anzi, ordinariamente producono effetti ex nunc (G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1953, 180). Per la definizione dell’azione di riduzione come azione di impugnativa negoziale, v. L. Mengoni, op. cit., 230.
[46] G. Bonilini, op. cit., 207.
[47] L. Mengoni, op. cit., 234. Il M. precisa in proposito che il legittimario acquista i beni, non in forza della sentenza di riduzione, bensì della vocazione necessaria, e quindi di un titolo legale, che si produce in suo favore per l’effetto della sentenza, consistente nella inopponibilità dell’acquisto dell’onorato o del donatario.
[48] A. Cicu, Successione legittima e dei legittimari, Milano, 1947, 130-131, il quale afferma, anche per escludere la natura reale del diritto del legittimario, che “egli ha un diritto contro il legatario o il donatario cui corrisponde un obbligo per cui costoro rispondono con tutto il loro patrimonio; il che è caratteristico del diritto di credito. Che se, sussistendo nelle mani di costoro il bene legato o donato, il legittimario ha diritto ad avere in tutto o in parte questo bene, ciò non implica che l’azione sia reale; potendo il bene esser considerato oggetto di un’obbligazione di restituzione. Di richiesta di restituzione della cosa donata parla infatti l’art. 563”. Sembrerebbe, tuttavia, che il Cicu, pur volendo espressamente trattare della natura dell’azione di riduzione, stia qui prendendo in esame l’aspetto, conseguenziale, della restituzione, probabilmente in coerenza con quella concezione che ravvisava nell’azione di riduzione una natura mista, tale da ricomprendere anche l’aspetto restitutorio, come sembra pure confermare la seguente affermazione, che si legge a pag. 134 della stessa opera: “l’azione di riduzione può essere esercitata anche contro i terzi acquirenti dei beni lasciati per testamento o donati, sempre che sia riuscita infruttuosa l’azione contro eredi legatari e donatari”. V. poi Cass. n. 4130/2001 e Cass. n. 18280/2017, cit., che palesemente echeggiano le affermazioni del Cicu, là dove dichiarano: “Il legittimario, dunque, non ha un diritto reale sui beni legati o donati: egli ha un diritto contro il legatario o il donatario, cui corrisponde una obbligazione, per cui costoro rispondono con tutto il loro patrimonio (il che raffigura la caratteristica del diritto di credito)”. Correttamente, invece, le citate Cass. n. 11809/1997 e n. 7259/1996 affermano che il diritto del legittimario ad ottenere la riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di riserva è di tipo personale, ma non obbligatorio: ne consegue l’impossibilità di interrompere il decorso della prescrizione ex art. 2943, comma 4, cod. civ. mediante un atto di costituzione in mora, poiché un tale effetto è realizzabile solo con riferimento alla prescrizione dei diritti ai quali corrisponde un dovere di comportamento. Ed infatti, l’applicazione di tale norma alla prescrizione dei diritti potestativi è stata sempre negata. Sulla disciplina dell’interruzione della prescrizione in riferimento ai diritti potestativi, v. di recente M. Bianca, Prescrizione e diritti potestativi. Riflessioni attuali sulla distinzione tra prescrizione e decadenza, in Riv. it. scienze giur., 2021, 12, 391 ss., ove l’Autrice nota come la norma dell’art. 2943, comma 4, cod. civ., in tema di interruzione della prescrizione, abbia suscitato il dibattito sul rapporto tra diritti di credito e diritti potestativi, e il correlato dibattito tra azione e diritto, anche in considerazione di alcune disposizioni del codice, che fanno riferimento alla “prescrizione dell’azione”. Il carattere personale dell’azione di riduzione, costantemente affermato da dottrina e giurisprudenza, almeno del nostro tempo, sta soprattutto a significare che non si tratta di azione reale: ne segue, sotto il profilo della legittimazione passiva, che essa non va proposta nei confronti dell’attuale titolare del bene, ma contro i beneficiarî della disposizione lesiva, pur quando non siano più titolari del bene.
[49] Con la nullità è invece sanzionata la violazione del divieto di imporre pesi o condizioni sulla legittima (art. 549 cod. civ.). Secondo alcuni interpreti, si tratterebbe invece di annullabilità, e, secondo altri ancora, di inefficacia, anche relativa (v. in proposito, L. Mengoni, op. cit., 93 ss.; V. Barba, op. cit., 232 ss.; G. Bonilini, op. cit., 197).
[50] A. Pino, op. cit., 61.
[51] L. Mengoni, op. cit., 228.
[52] G. Chiovenda, Istituzioni, cit., 16. Altra questione è quella della nascita di un diritto potestativo dalla lesione di un diritto personale, come nel caso della risoluzione del contratto per inadempimento; o dei diritti di riscatto previsti nel caso di violazione di diritti di prelazione legale. Il Chiovenda precisa che tutti i diritti, anche quelli assoluti, quando sono fatti valere nel processo, si dirigono verso una determinata persona (p. 17).
[53] G. Chiovenda, op. cit., 178. Nota C. Consolo, in Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, undicesima ed., Torino, 2017, 595 ss., che, per la dottrina classica, l’interesse ad agire è in re ipsa, sottolineando la necessità di distinguere in proposito tra azioni costitutive non necessarie e azioni costitutive necessarie, e convenendo che, rispetto a queste ultime, l’interesse ad agire “si dilegua” (cfr., per esempio, C. Mandrioli, A. Carratta, Diritto processuale civile, I, ventiquattresima ed., Torino, 2015, 55, ove si afferma che, nel caso della giurisdizione costitutiva necessaria, l’interesse ad agire è in re ipsa, ossia nell’affermazione del semplice fatto costitutivo del diritto alla modificazione giuridica). Il Consolo, tuttavia, scorge qualche limitato spazio di rilevanza dell’interesse ad agire nelle azioni costitutive necessarie, e menziona l’ipotesi di un’azione di annullamento di un testamento proposta dall’erede legittimo, escluso dall’eredità ad opera di quel testamento, che non avrebbe senso decidere nel merito qualora constasse agli atti l’esistenza di un precedente testamento dello stesso contenuto, ormai non più impugnabile.
[54] E. Bilotti, op. cit., 825.
[55] Già mezzo secolo prima di Cass. n. 20644/2004, la dottrina aveva segnalato l’irrilevanza del profilo dell’interesse ad agire in riduzione: A. Pino, op. cit., 74-75.
[56] G. Tedesco, In tema di azione di riduzione e divisione fatta dal testatore, in Giust. civ., 2005, I, 354, il quale si richiama a A. Pino (La tutela del legittimario, cit., 74 ss.) per sostenere che l’azione di riduzione pure sorge in quel momento. Questo Autore afferma, in effetti, che l’azione di riduzione sorge con l’apertura della successione, ma l’affermazione non attiene alla trattazione della questione della prescrizione, bensì di quella dell’interesse ad agire in riduzione. Alla prescrizione Egli fa cenno in altro luogo dell’opera citata (p. 62), non già affrontando lo specifico problema della decorrenza (anche se, dall’insieme delle sue osservazioni, è dato di intendere che, a suo parere, per regola generale, la prescrizione dovrebbe iniziare a decorrere dall’apertura della successione), ma esaminando la rilevanza di circostanze estrinseche all’atto rispetto alla sua idoneità a ledere la legittima, soprattutto con riguardo alla individuazione dei successibili: per esempio, rispetto al caso di figli del de cuius che sopravvengano alla sua morte nel periodo legale, o al caso di sopravvenuto accertamento giudiziale di paternità o maternità (oggi espressamente regolato, in relazione all’accettazione di eredità, dall’art. 480, comma 2, cod. civ., al quale il d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, ha aggiunto il seguente periodo: “In caso di accertamento giudiziale della filiazione il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa”. La stessa regola era già applicata dalla giurisprudenza in riferimento all’azione di riduzione: v. Cass., sez. II, 12 marzo 1986, n. 1648. La questione era già stata affrontata da Corte Cost., 29 giugno 1983, n. 191, che aveva rilevato la necessità di una interpretazione logico-sistematica del combinato disposto degli artt. 480 e 2935 cod. civ. La questione si è posta anche in relazione a successioni apertesi prima della riforma del diritto di famiglia ex lege n. 151/1975, seguite da dichiarazioni giudiziali dello status di figlio naturale del defunto intervenute dopo l’entrata in vigore della riforma: v. Cass., sez. II, 7 febbraio 1987, n. 1261; Cass., sez. I, 11 giugno 1987, n. 5076; Trib. Genova, 6 giugno 1990, in Giust. civ., 1990, I, 2416, con nota di V. Santarsiere, Effetti successori della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, con apertura della successione infra il 20 settembre 1975).
[57] E. Bilotti, op. cit., 825-826.
[58] Cfr. P. Vitucci, op. cit., 82 ss. Muovendo dall’idea che, agli effetti dell’art. 2935 cod. civ., “la possibilità che il diritto sia fatto valere è quella che si offre nel momento in cui non è richiesto il soddisfacimento dell’interesse tutelato, sebbene esso sia attuale”, in riferimento ai diritti di credito l’Autore rileva che l’attualità dell’interesse è segnata dalla esigibilità della prestazione.
[59] Si è già notato come, nonostante la riduttiva formulazione dell’art. 564, comma 2, cod. civ., che riferisce l’imputazione ex se solo ai legati e alle donazioni, essa debba in realtà ricomprendere tutto quanto il legittimario abbia acquistato dal de cuius a titolo liberale, e quindi anche a titolo di eredità.
[60] S. Piras, La successione per causa di morte. Parte generale. La successione necessaria, Milano, 1965, 248. L’Autore coglie la ratio dell’onere di imputazione a carico del legittimario, e dunque della detrazione che essa comporta, in un motivo di equità, consistente nello scopo di ridurre al minimo il sacrificio che gli altri successibili subiscono in conseguenza dell’esperimento dell’azione di riduzione. V. pure L. Barassi, Istituzioni di diritto civile, quarta ed., Milano, 1948, 284, per il quale l’imputazione corrisponde a un’esigenza di tutela dei terzi, poiché la riduzione ne “ferisce gravemente i diritti”.
[61] Così, L. Mengoni, op. cit., 257.
[62] Rileva in proposito A. Pino (op. cit., 108) che la mancata imputazione di donazione o legati ricevuti non dà luogo a una pronuncia in rito di inammissibilità, ma può dar luogo ad una pronuncia di rigetto nel merito perché in tutto o in parte infondata, non potendo il legittimario lamentare una lesione.
[63] Cass. n. 18199/2020, cit. Si tratta di una sentenza dalla articolata motivazione, che ripercorre i varî orientamenti sugli oneri di allegazione e di prova del legittimario che agisca in riduzione, collocandosi sul versante meno rigorista. Che la riunione fittizia sia funzionale anche alla c.d. riduzione automatica ex art. 553 cod. civ. si trova già affermato in Cass., sez. II, 6 marzo 1980, n. 1521. V. pure infra, nota 103.
[64] Cass., sez. II, 5 maggio 2022, n. 14193.
[65] Non solo il meccanismo di tutela previsto dall’art. 553 cod. civ. non esige la proposizione di alcuna azione da parte del legittimario, ma neppure l’applicazione del divieto di cui all’art. 549 cod. civ., essendo sufficiente che il legittimario, qualora gli sia richiesto di dare esecuzione a quanto disposto dal testatore, eccepisca l’invalidità (o l’inefficacia, secondo una diversa interpretazione della disposizione: cfr. G. Bonilini, op. cit., 197). Ciò non vuol dire, ovviamente, che non possano sorgere liti relative all’applicazione di tali norme.
[66] È opinabile se il compimento della riunione fittizia e dell’imputazione possano essere oggetto di una domanda autonoma. Si consideri in proposito il seguente principio di diritto, recentemente espresso dalla S.C.: “La ricostruzione dell’intero patrimonio del defunto, mediante la riunione fittizia di ciò che è stato donato in vita a ciò che è rimasto al momento della morte, e l’imputazione alla quota del legittimario di quanto egli ha ricevuto dal defunto, costituiscono i necessari antecedenti dell’azione di riduzione; di conseguenza le richieste volte all’esatta ricostruzione sia del relictum, sia del donatum, mediante l’inserimento di altri beni, non costituiscono domande, ma deduzioni che attengono ai presupposti dell’azione di riduzione e come tali da ritenere implicitamente contenute nella domanda introduttiva” (Cass., sez. II, 10 gennaio 2020, n. 17926). Tuttavia, la rilevanza dell’affermazione secondo la quale le richieste di formazione della riunione fittizia non costituiscono domande andrebbe collocata nello specifico contesto del processo deciso con la citata sentenza, nel quale era stata effettivamente proposta un’azione di riduzione, e si era posta una questione di novità della domanda in relazione a nuovi elementi da computare nella formazione della massa fittizia.
[67] Cfr. C.M. Bianca, op. cit., 60-61, il quale definisce tale diritto come potere autonomo di modificare nel proprio interesse una preesistente situazione giuridica.
[68] Per la rappresentazione, v. art. 468, comma 2, cod. civ., dal quale ben si intende che il rappresentante succede direttamente all’ereditando, e non attraverso il rappresentato. Il fatto che l’acquisto del chiamato successivo sia indipendente dalla successione del chiamato precedente è ancora più evidente nelle ipotesi di sostituzione testamentaria e di accrescimento, ed altresì nel caso in cui debba aprirsi la successione legittima ex art. 523 cod. civ. Ciò esclude, appunto, che il chiamato ulteriore possa qualificarsi, dopo la formazione del giudicato sull’azione di riduzione proposta contro il primo chiamato, avente causa da quest’ultimo, verso il quale il giudicato possa “fare stato”; o, prima della formazione di tale giudicato, suo successore a titolo particolare, a cui possa opporsi la sentenza ex art. 111, comma 3, cod. proc. civ.
[69] La legittimazione, attiva o passiva, quale condizione dell’azione, deve essere accertata con riferimento alla situazione esistente al momento della decisione, non al momento della domanda: il principio è stato di recente riaffermato da Cass., sez. VI, 9 novembre 2021, n. 32792; Cass., sez. I, 16 marzo 2022, n. 8584).
[70] Per una critica recente alla nozione di acquisto ipso iure del legato, v. E. Damiani, Il legato, in E. del Prato, Le successioni, cit., 318 ss., il quale qualifica la rinunzia al legato come rifiuto impeditivo, appunto perché l’acquisto consisterebbe in una fattispecie complessa, composta dalla disposizione a titolo particolare e dallo spirare del tempo senza che l’onorato rifiuti.
[71] Cfr. Cass., sez. VI, 17 luglio 2019, n. 1284.
[72] Così, App. Firenze, 8 febbraio 1950, in Foro it., 1950, Rep., voce: Successioni legittime e testamentarie, n. 85, c. 1962, citata da A. Pino (op. cit., 86, nota 30).
[73] Ex multis, Cass., sez. II, 23 gennaio 2007, n. 1408; Cass., sez. II, 12 giugno 2007, n.13706; Cass., sez. II, 7 gennaio 2019, n.125. V. pure Cass., sez. II, 3 settembre 2013, n. 20143 e Cass., sez. II, 29 ottobre 2015, n. 22097; Cass., sez. II, 4 settembre 2020, n. 18468, le quali precisano che il giudicato sullo scioglimento della comunione non comporta un giudicato implicito sulla insussistenza di una lesione della legittima, e che il legittimario che sia stato parte nel relativo giudizio sarà pertanto libero di agire successivamente in riduzione contro altri coeredi deducendo una tale lesione. Uno degli elementi discriminanti tra le due azioni più spesso messo in evidenza è il fatto che la divisione, a differenza della riduzione, presuppone necessariamente una comunione tra eredi.
[74] Cass. n. 18280/2017, cit.
[75] L. Mengoni, op. cit., 276.
[76] Cfr. Cass., sez. II, 2 febbraio 1979, n. 726; Cass., sez. VI, 6 maggio 1991, n. 4986; Trib. Trento, 9 novembre 2015, n. 1045, in Redaz. Giuffrè, 2016.
[77] Cfr. Cass., sez. II, 10 dicembre 2021, n. 39368, che quindi ammette il legittimario ad agire contestualmente in riduzione pur quando la collazione possa condurre alla eliminazione della lesione in termini di valore. V. in proposito il quale, precisando che le norme sulla riduzione, in quanto inderogabili, devono applicarsi prima di quelle sulla collazione, afferma che tra riduzione e collazione vi è esclusione reciproca, e che la collazione può essere invocata, non per la reintegrazione della legittima, ma dopo che questa sia stata reintegrata e per la redistribuzione delle liberalità, il valore delle quali eccede l’ammontare espresso con la indisponibile.
[78] A. Pino, op. cit., 90 ss.
[79] V. Barba, op. cit., 392 ss., il quale lamenta la mancata presa di posizione della giurisprudenza sul problema.
[80] V., in proposito, F. Messineo (Azione di riduzione e azione di restituzione, cit.), il quale, scrivendo all’indomani dell’entrata in vigore del codice attuale, notava come i trattatisti dell’epoca non avessero sufficientemente messo in luce che la legge prevedeva, non una sola azione, ma due (p. 129), definendo “impressionante” il fatto che molti autori contemporanei non cogliessero tale distinzione perché influenzati dalla dottrina formatasi nel vigore del codice abrogato (p. 138). Con riguardo all’azione di restituzione, il Messineo sottolineava la “radicale diversità” tra l’azione di restituzione contro il gratificato dalla disposizione ridotta e quella contro i terzi acquirenti, affermando – all’inverso di quanto la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie reputano – la natura reale della prima, e la natura “schiettamente personale” della seconda. V. poi A. Pino, op. cit., 78 ss., con i richiami alla dottrina che sosteneva tale tesi. V. pure la citazione tratta dall’opera di Cicu, in nota 48, in cui l’illustre Autore afferma che l’azione di riduzione può essere proposta anche contro i terzi acquirenti dei beni lasciati per testamento o donati.
[81] Secondo L. Ferri (op. cit., 169 ss.), sostenitore della tesi secondo la quale il legittimario sarebbe titolare di un diritto reale, non potrebbe imporsi a costui di proporre due distinte azioni: l’azione sarebbe una sola, di accertamento della lesione, e di condanna: un’unica azione in duplice aspetto.
[82] Trib. Monza, 27 giugno 1996, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 459; Trib. Ancona, 2 agosto 2017, n. 1317, in Redaz. Giuffrè, 2017.
[83] V. in proposito A. Pino, op. cit., 82; L. Mengoni, op. cit., 234, 236, nota 41; M.C. Tatarano, op. cit., 587; V. Barba, op. cit., 410. V. poi Cass. n. 18280/2017, cit., la quale ha ravvisato in una domanda di divisione proposta contestualmente ad una di riduzione l’implicita proposizione di una domanda di restituzione. Ciò vale evidentemente ad ammettere che riduzione e restituzione possano contestualmente richiedersi. Nel caso specifico la restituzione era rivolta nei confronti dei medesimi soggetti beneficiarî della disposizione impugnata per riduzione. V. pure Cass., sez. II, 26 febbraio 1993, n. 2453.
[84] Sembra escluderlo L. Mengoni, op. cit., 299, che pur ammette, come si è visto, il cumulo delle due azioni quando la restituzione sia richiesta nei confronti dello stesso beneficiario della disposizione lesiva. Egli specifica (op. cit., 305) che, nell’azione di restituzione contro gli onorati testamentarî e i donatarî la causa petendi della prima è un effetto immediato della riduzione; mentre l’azione contro i terzi acquirenti si ricollega a una fattispecie complessa, nella quale al giudicato di riduzione si aggiunge la infruttuosa escussione dei beni di colui contro il quale il giudicato è stato emesso.
[85] S. Delle Monache, Tutela dei legittimari e limiti nuovi all’opponibilità della riduzione nei confronti degli aventi causa dal donatario, in Riv. not., 2006, 311, nota 16.
[86] Cass., sez. II, 1 marzo 2011, n. 5042; Trib. Savona, 5 dicembre 2015, in Redaz. Giuffrè, 2016, le quali affermano che il rispetto di tale formalità esige che vi sia un patrimonio da aggredire. Secondo U. Perfetti, op. cit., 235, sarebbe sufficiente al legittimario allegare l’inesistenza di beni da escutere nel patrimonio del donatario, spettando al terzo acquirente convenuto in restituzione di indicare quali siano i beni aggredibili.
[87] Con riferimento alla domanda di restituzione contro il beneficiario della disposizione lesiva, si afferma che essa è di regola proposta condizionatamente alla domanda di riduzione (A. Pino, op. cit., 149): la condizionalità, da questo punto di vista, dipende dal fatto che la dichiarazione di inefficacia relativa, in cui la riduzione consiste, è il presupposto necessario della restituzione.
[88] Così, L. Mengoni, op. cit., 236, in relazione all’azione contro il beneficiario della disposizione lesiva. Quanto all’azione contro i suoi aventi causa, la diversità tra i legittimati passivi dell’azione di riduzione e quelli dell’azione di restituzione rende ancor meno sostenibile che questa possa atteggiarsi come actio iudicati basata sulla sentenza di riduzione.
[89] Cfr. Cass., sez. II, novembre 2000, n. 14864; Cass. n. 18468/2020, cit.
[90] L. Mengoni, op. cit., 305-306. Per G. Tamburrino (op. cit., 1376), si tratterebbe di una vera e propria rivendicazione, che nulla avrebbe a che fare con la petitio hereditatis. Secondo C.M. Bianca (op. cit., 221), la qualità di erede che la riduzione delle disposizioni a titolo universale comporta consentirebbe al legittimario di esercitare l’azione di petizione di eredità per conseguire i beni ereditarî in possesso dei coeredi. Afferma M.C. Tatarano (op. cit., 566) che il fatto che, con la sentenza di riduzione, si determina la delazione ex lege del legittimario, e che questi, in virtù di essa, e non della sentenza, acquista i beni che erano a lui riservati (cfr. supra, nota 47) comporta che il legittimario non può agire contro l’erede testamentario beneficato dalla disposizione lesiva (né contro i suoi aventi causa) con la petizione di eredità, potendo esperire tale azione solo nei confronti di chi possiede i beni ereditarî in qualità di erede apparente o senza titolo. V. poi A. Grosso, G. Burdese, op. cit., 366, secondo i quali la legittimazione dell’erede a proporre la petizione di eredità consentirebbe di ricavare il riconoscimento in suo favore di un diritto assoluto a sé stante a che nessuno si impossessi senza titolo particolare di beni ereditarî.
[91] L. Mengoni, op. cit., 307. Osserva A. Pino, op. cit., 128, che la sentenza di riduzione non fa sorgere nell’onorato un obbligo di trasferire il diritto al legittimario, ma si limita a rendere inefficace, rispetto a lui, il titolo di acquisto. V. pure V. Barba, op. cit., 410 ss.
[92] Così anche C.M. Bianca (op. cit., 221-222), il quale sottolinea come, con la trasformazione del diritto restitutorio in diritto all’equivalente in denaro, si faccia applicazione del principio dell’indebito (art. 2037 cod. civ.).
[93] L. Mengoni, op. loc. ult. cit.
[94] Al riguardo si è osservato che il principio di retroattività reale del giudicato di riduzione ha subìto, in conseguenza della riforma, una severa limitazione in sede di restituzione contro il terzo acquirente. Il legittimario diviene in tal modo creditore del donatario escusso nel suo patrimonio personale poiché il bene donato in vita transita definitivamente nel patrimonio del terzo, immune da ogni sanzione restitutoria: così. A. Palazzo, op. cit., 2.
[95] Così, V. Barba, op. cit., 458; S. Delle Monache, op. cit., 310 ss.; G. Sicchiero, Questioni aperte sull’opposizione alle donazioni ex art. 563 cod. civ. (anche per le donazioni ante riforma), in Vita not., 2022, 105-106. Contra, A. Palazzo, Vicende delle provenienze donative dopo la L. n. 80 del 2005, in Vita not., 2005, 765, il quale distingue secondo che la restituzione debba richiedersi al donatario ovvero ai suoi aventi causa: nel primo caso, secondo l’Autore, è l’azione di riduzione a doversi proporre nel ventennio; nel secondo caso, è invece l’azione di restituzione.
[96] La natura di tale termine è controversa: secondo alcuni autori, si tratterebbe infatti di un termine di prescrizione (C.M. Bianca, op. cit., 227); secondo altri, di decadenza (S. Delle Monache, op. cit., 312); secondo altri ancora, di un termine di durata, posto nell’interesse del terzo, che risponderebbe alle esigenze del mercato immobiliare (R. Caprioli, Le modificazioni apportate agli artt. 561 e 563 c.c. Conseguenze sulla circolazione dei beni immobili donati, in Riv. not., 2005, 1027).
[97] Cfr. Cass., sez. II, 9 maggio 2013, n. 11012; App. Roma, 3 giugno 2017, in Resp. civ. prev., 2018, 636; Cass., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22457; Cass., sez. II, 11 febbraio 2022, n. 4523. Si veda poi il commento a quest’ultima sentenza di G. Sicchiero (Questioni aperte, cit., 106 ss.), il quale nega la necessità di far precedere l’atto di opposizione dall’accertamento della simulazione, poiché tale accertamento è presupposto per l’azione di riduzione, non per l’opposizione.
[98] Cass., sez. II, 9 maggio 2019, n. 12317.
[99] Cfr. Cass., sez. VI, 22 giugno 2017, n. 15546: “costituisce principio costantemente ribadito da questa Corte quello secondo cui l’azione di simulazione relativa proposta dall’erede in ordine ad un atto di disposizione patrimoniale del “de cuius” stipulato con un terzo, che si assume lesivo della quota di legittima ed abbia tutti i requisiti di validità del negozio dissimulato (nella specie una donazione in favore di un altro erede), deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione prevista dall’art. 564 cod. civ, con la conseguenza che l’ammissibilità dell’azione è condizionata dalla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario. Tuttavia l’esigenza del rispetto di tale condizione non ricorre quando l’erede agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in tale ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva dell’atto consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, in realtà mai usciti dal patrimonio del defunto”.
[100] Cass., sez. II, 3 luglio 2013, n. 16635; Cass., sez. II, 24 marzo 2014, n. 6888; Cass., sez. II, 30 maggio 2014, n. 12221; Cass., sez. II, 22 agosto 2018, n. 20971; Cass., sez. II, 19 novembre 2019, n. 30079.
[101]Cass., sez. II, 17 ottobre 2016, n. 20960; Cass., sez. II, 21 dicembre 2021, n. 41132.
[102] Cass., sez. II, 13 giugno 2018, n. 15510; Cass., sez. II, 9 maggio 2019, n. 12317; Cass., sez. II, 8 settembre 2021, n. 24178.
[103] A. Pino, op. cit., 102 ss.; Gius. Azzariti, op.cit., 157 ss., il quale riferisce dei contrastanti orientamenti della giurisprudenza dell’epoca sul punto (unicamente citando Cass., 15 ottobre 1953, n. 3385); L. Mengoni, op. cit., 205 ss.; V. Barba, op. cit., 192 ss. In particolare, il Mengoni ravvisa nel contestato principio giurisprudenziale una indebita identificazione tra riunione fittizia e riduzione, osservando che una tale identificazione non ha riscontro nella disposizione dell’art. 556 cod. civ., la quale non pone un limite del genere, ossia un vincolo di strumentalità della riunione fittizia rispetto alla riduzione; e che essa è frutto di una suggestione indotta dal testo dell’art. 822 del codice del 1865, che prospettava le operazioni di calcolo della legittima come mezzi preordinati alla riduzione. L’Autore sottolinea che l’azione di simulazione non è necessariamente preordinata alla riduzione, essendo funzionale innanzitutto alla ricostruzione esatta del patrimonio ereditario, e quindi alla riunione fittizia, appunto da non sovrapporre alla riduzione; e rileva in proposito che il legittimario che accetti puramente e semplicemente, sebbene non possa chiedere l’integrazione della legittima con i beni donati ad estranei, ha interesse a chiederne la riunione fittizia quando sia chiamato all’eredità insieme con coeredi non legittimarî, o con altri legittimarî avvantaggiati dal de cuius sulla disponibile. V. poi oltre alle sentenze citate nelle note 63 e 64, la recente Cass., sez. II, 14 marzo 2022, n. 8174, che ha cassato la sentenza del giudice a quo per avere erroneamente escluso dalla riunione fittizia una donazione fatta a soggetti non coeredi in ragione della dichiarata inammissibilità dell’azione di riduzione dovuta alla mancata osservanza da parte dell’attore della condizione prevista dall’art. 564, comma 1, cod. civ. Tale esclusione – secondo la S.C. – costituisce violazione della disciplina della riunione fittizia, là dove essa prevede il cumulo tra relictum e donatum, indipendentemente dalla concreta esperibilità dell’azione di riduzione; cosicché l’inammissibilità dell’azione di riduzione è ininfluente ai fini della determinazione della quota di legittima.
[104] Cass. n. 12317/2019, cit.; Cass., sez. II, 31 luglio 2020, n. 16515; Cass., sez. II, 31 luglio 2020, n. 16535.
[105] Cass., sez. II, 6 novembre 1986, n. 6493; Cass., sez. II, 6 agosto 1990, n. 7909; Cass., sez. II, 30 luglio 2004, n. 14562; Cass., sez. II, 21 febbraio 2007, n. 4021; Cass., sez. II, 29 febbraio 2016, n. 3932; Cass., sez. II, 5 gennaio 2017, n. 138; Cass., sez. III, 6 marzo 2018, n. 5159.
[106] Così, Cass. n. 6493/1986, cit. Tale sentenza ha cassato App. Ancona, 1 marzo 1983, la quale aveva respinto la domanda di simulazione dichiarandola prescritta, individuando la data di decorrenza della prescrizione in quella del contratto simulato, anziché in quella di apertura della successione, benché l’accertamento della simulazione fosse stato richiesto in funzione della reintegrazione nella quota di legittima.
[107] Così, Cass. n. 14562/2004; Cass., n. 138/2017, cit. Nella prima delle due, peraltro, si aggiunge, meno comprensibilmente, che quello stesso momento coinciderebbe con quello di acquisto della qualità di erede.
[108] Coglie il problema, senza trattarne specificamente, Cass. n. 3932/2016, cit., là dove, riferendosi all’apertura della successione quale data di decorrenza dell’azione di simulazione finalizzata alla proposizione dell’azione di riduzione, precisa, poi, in parentesi: “o comunque dallo stesso termine a partire dal quale è esperibile l’azione di riduzione”, evidentemente assumendo che tale data possa non coincidere con l’apertura della successione.
[109] Cass., sez. II, 7 gennaio 2019, n. 125, ove si legge: “Vero è che questa Corte regolatrice ha più volte affermato che, mentre l’azione di simulazione assoluta di un contratto è imprescrittibile, quella di simulazione relativa è soggetta alla prescrizione ordinaria (v. sent. 24.6.1969 n. 2267, 29.1.1971 n. 220, 7.6.1974 n. 1757, 7.8.1979 n. 4569), ma è altrettanto vero che essa ha sempre fatto riferimento a tale ultima azione “in quanto tendente ad individuare il reale contratto voluto dalle parti, a contenuto diverso da quello del contratto simulato, e a far valere il diritto nascente dal contratto dissimulato”, in tal modo delimitandone lo stesso concetto all’ipotesi in cui la parte che agisce miri ad ottenere l’adempimento del negozio realmente voluto o, comunque sia volto a trarne qualche effetto a proprio favore”; e ancora: “il discrimine tra azione di simulazione assoluta e di simulazione relativa in senso proprio sta nel fatto che con la prima si mira soltanto a far dichiarare l’inesistenza di qualsiasi mutamento della realtà giuridica preesistente al negozio simulato, mentre con la seconda si tende a far emergere il reale mutamento di detta realtà voluto dalle parti in luogo di quello apparentemente posto in essere, in modo e al fine di potersene in qualche modo avvantaggiare, con la conseguenza che solo in quest’ultimo caso deve parlarsi di prescrizione, per altro con esclusivo riferimento ai diritti nascenti dal negozio dissimulato. Allorquando, quindi, pur prospettandosi l’esistenza di un negozio dissimulato sotto quello apparente, si sostenga che esso, per una qualsiasi ragione, è privo di ogni effetto giuridico, l’azione non è tesa a far valere una simulazione relativa, poiché nessuna pretesa viene accampata sulla base del negozio dissimulato del quale, anzi, si invoca la nullità, e non è soggetta, perciò, a prescrizione”. Il problema delle diverse posizioni della giurisprudenza in argomento era stato già rilevato da Cass., sez. VI, 6 maggio 1991, n. 4986, ma con una diversa percezione rispetto a quella che emerge dalla sentenza appena citata (v. infra, nota 115).
[110] Secondo L. Mengoni (op. cit., 321), la regola giurisprudenziale che afferma la prescrittibilità dell’azione di simulazione relativa corrisponde, sul piano del linguaggio, a una sorta di metatesi, che trasferisce ad un’azione una qualità propria di un’altra in ragione del rapporto di pregiudizialità tra le due.
[111] Cass., sez. II, 16 gennaio 1997, n. 382, Cass. n. 14562/2004, cit. Fa riferimento all’interesse ad agire anche L. Mengoni (op. loc. ult. cit.), osservando che parlare di prescrizione dell’azione di simulazione è un “un traslato poco raccomandabile”.
[112] Cass., sez. VI, 6 maggio 1991, n. 4986; Cass., sez. VI, 27 agosto 2013, n. 19678; Cass., sez. VI, 10 maggio 2016, n. 9401.
[113] Cass. n. 6493/1986, cit.
[114] Cfr. Cass. n. 7909/1990; Cass. n. 4021/2007; Cass. n. 3932/2016; Cass. n. 5159/2018, cit.
[115] A questa conclusione è esattamente pervenuta Cass., n. 4986/1991, cit., che, argomentando dalla autonoma imprescrittibilità del diritto di chiedere la collazione, ha cassato la sentenza impugnata, che aveva rigettato, in quanto prescritta, la domanda volta ad ottenere la collazione di alcune donazioni dissimulate. La sentenza dà atto di una non univocità degli orientamenti della stessa Corte sul punto della cosiddetta prescrizione dell’azione di simulazione, laddove, come si è riferito, per Cass. n. 125/2019, le diverse posizioni sarebbero comunque conciliabili.
[116] V. note 8 e 9.
[117] V. note 3 e 12.
[118] Cfr. G. Perlingieri (L’acquisto dell’eredità, cit., 341), il quale aderisce all’orientamento maggioritario, riferendo della differente opinione del Cicu, per il quale la decorrenza della prescrizione del diritto di accettare prenderebbe data dalla pubblicazione del testamento.
[119] Così, App. Brescia, 3 maggio 2000, cit., la quale afferma che con la pubblicazione del testamento la lesione si è manifestata ed è venuta storicamente ad esistenza, facendo in tal modo coincidere la produzione della lesione con la sua manifestazione esteriore. L’affermazione della inesistenza della lesione prima della pubblicazione è condivisa dall’Autore che ha annotato la sentenza (D. Moscuzza, op. cit., 3298). Va notato che la corte bresciana, nel rimarcare la differenza tra disposizioni testamentarie e donazioni agli effetti della decorrenza della prescrizione, ossia nel precisare che l’impugnazione per riduzione delle donazioni può essere esperita già a partire dall’apertura della successione, motiva tale conclusione con il fatto che le donazioni sono “già trascritte a carico del de cuius e, quindi, già ben note”; con ciò ponendo l’accento, non sulla natura e sugli effetti proprî di tali atti di liberalità, bensì sulla loro pubblicità, e quindi sulla loro conoscenza (legale).
[120] V. nota 11. Si afferma generalmente che la pubblicazione è circostanza esterna all’atto testamentario, che non ne condiziona la validità e l’efficacia, agendo semmai come presupposto per la sua esecuzione coattiva ex art. 620 cod. civ., surrogabile da un accertamento giudiziale sui requisiti di forma del testamento e sul suo contenuto nel caso di impossibilità di sua produzione: Cass., sez. II, 24 febbraio 2004, n.3636; Cass., sez. II, 23 giugno 2005, n.13487. Non è quindi in alcun modo preclusa, né condizionata, una esecuzione spontanea in difetto di pubblicazione o del suddetto accertamento.
[121] Cfr. C. Ruperto, Prescrizione e decadenza, in Giur. sist. dir. civ. e comm., diretta da W. Bigiavi, Torino, 1985, 101 ss., ove si ricorda che la dottrina attribuisce alla norma dell’art. 2935 cod. civ. valore interpretativo della previgente disciplina. V. in proposito anche P. Vitucci, op. cit., 75 ss., secondo il quale la decorrenza della prescrizione sarebbe determinata dall’attualità dell’interesse a reagire ad uno stato di insoddisfazione dell’interesse tutelato: la formula legislativa usata dall’art. 2935 cod. civ. dovrebbe perciò intendersi nel senso che il termine di decorrenza sarebbe segnato dal momento in cui, pur essendo attuale l’interesse del titolare del diritto, questi non si sia attivato per ottenerne la realizzazione.
[122] App. Trento, 19 dicembre 1998, cit.; Cass. n. 5920/1999, cit.
[123] Osserva A. Guarneri (L’exordium praescriptionis, in Riv. dir. civ., 2013,1139) che sarebbe errato e fuorviante un inquadramento in termini unitarî e generalizzanti delle circostanze impeditive del decorso della prescrizione, segnatamente ove tale inquadramento comprenda l’affermazione della irrilevanza degli impedimenti di fatto, richiamando anche le incertezze della dottrina sulla reale natura, di fatto o di diritto, di taluni impedimenti.
[124] Secondo M. Franzoni (L’illecito, in Trattato della responsabilità civile, diretto da M. Franzoni, seconda ed., Milano, 2010, 38 ss.), il “fatto illecito” comprende necessariamente l’evento dannoso, poiché la sola azione contraria al diritto non è di per sé fonte di responsabilità; e tale dato si coordina con la disposizione dell’art. 2947, comma 1, cod. civ., nel senso che il “giorno in cui l’evento si è verificato” è quello nel quale le conseguenze pregiudizievoli si riflettono nel patrimonio o nella situazione soggettiva della vittima. Secondo P. Vitucci (op. cit., 106), tale interpretazione della norma è coerente con quella che Egli fornisce dell’art. 2935 cod. civ. (v. supra, nota 121), poiché la manifestazione dell’evento dannoso determina l’attualità dell’interesse ad agire. V. ancora A. Iannaccone, sub art. 2947 in La prescrizione, a cura di P. Vitucci, in Il codice civile – Commentario, diretto da P. Schlesinger, tomo secondo, Milano, 1999, 172 ss.; G. Travaglino, La prescrizione e l’illecito extracontrattuale, in A. Batà, V. Carbone, M.V. De Gennaro, G. Travaglino, La prescrizione e la decadenza, Ipsoa, 2001, 176. Sia in dottrina, sia in giurisprudenza, peraltro, si sono levate voci in dissenso con tale orientamento, al quale si è contestato di voler stravolgere la lettera e la ratio della norma, la quale vorrebbe impedire l’esposizione a tempo indefinito del soggetto passivo alla pretesa risarcitoria: Cass., sez. II, 28 gennaio 2004, n. 1547. La sentenza è favorevolmente commentata da P.G. Monateri, La prescrizione e la sua decorrenza dal fatto: una sentenza da elogiare, in Danno e resp., 2004, 389. V. pure dello stesso Autore, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Le fonti delle obbligazioni, 3, Torino, 1998, 373 ss.
[125] Tale ricostruzione è rinvenibile soprattutto nelle note e coeve sentenze emesse nel 2008 dalle Sezioni Unite in materia di danno biologico da emotrasfusione c.d. lungolatente, ove si sottolinea come l’individuazione del dies a quo della prescrizione sia stata affidata dal legislatore del 1942 ad “indicazioni piuttosto scarne e molto generiche”, e come la norma dell’art. 2935 cod. civ. sia “assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni”, notando come nei tre decennî precedenti si fosse assistito ad un “sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del ‘42: ciò a tal punto che oggi l’istituto della prescrizione presenta ormai una vistosa differenza tra le regole operazionali ed il formante legislativo (principalmente, l’art. 2947 c.c., comma 1)” (Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, nn. 576; 579; 580; 581; 583; 584). Ma è rinvenibile anche in successive sentenze di legittimità, relative ad ipotesi diverse di danno aquiliano: p.es. in Cass., sez. III, 21 giugno 2011, n. 13616, in materia di danni da illecito trattamento di dati personali.
[126] Ad esempio, in materia di responsabilità del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per danni da straripamento di fiumi: cfr. Cass., sez. un., 29 gennaio 2021, n. 2146; Cass., sez. un., 9 febbraio 2022, n. 4115.
[127] Cass., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1210; Cass., sez. III, 24 marzo 2016, n. 5889; Cass., sez. III, 15 maggio 2018, n. 11758. Contra: Cass., sez. II, 15 febbraio 2007, n.3379, che si attiene al dato letterale della norma, escludendo la rilevanza della trascrizione. Anche la giurisprudenza di merito recente è generalmente orientata nel senso indicato.
[128] Cass., sez. III, 12 dicembre 2017, n. 29636, che ha cassato la sentenza del giudice a quo, la quale aveva invece ravvisato in tale mancata conoscenza un semplice impedimento di fatto, irrilevante rispetto alla decorrenza della prescrizione, in applicazione comune principio del quale si è riferito. Si legge nella motivazione che “nella logica della stipulazione del contratto a favore di terzo deve ammettersi che, prioritariamente ad ogni altra vicenda, il terzo debba essere informato dell’esistenza del diritto, senza la quale comunicazione il terzo stesso non può essere messo in condizioni di esercitare la propria dichiarazione di voler approfittare della stipulazione in suo favore”.
[129] Così, le sentenze in materia di revocatoria citate in nota 127. Una di esse (Cass. n. 5889/2026) si richiama anche al coordinamento con l’azione revocatoria fallimentare, che si prescrive a partire dalla data di dichiarazione del fallimento, e non da quella dell’atto da revocare.
[130] Cfr. Cass., sez. II, 19 luglio 2018, n. 19193, che appunto esclude la rilevanza di tali impedimenti, sempre che “il danno sia percepibile all’esterno e conoscibile da parte del danneggiato”.
[131] Cass. n. 13616/2011, cit. Nella decisiva importanza attribuita all’”agire consapevole” del titolare del diritto è stata còlta una significativa apertura verso una qualificazione dell’inerzia come un comportamento concludente e, appunto, consapevole, in quanto essa sia in grado di generare l’affidamento della controparte (F. Criscuolo, Tempo, inerzia e disponibilità del diritto, in Riv. it. scienze giur., 2021, 404), sulla scia di una originale ricostruzione di un Autore, secondo il quale l’inerzia andrebbe qualificata, non come mero fatto, bensì come atto, sì che la sua valutazione da parte dell’ordinamento non potrebbe tenere conto soltanto del mero dato oggettivo del trascorrere del tempo, nel quale non sia compiano atti di esercizio, dovendo invece estendersi agli aspetti soggettivi (ci si riferisce a A. Auricchio, Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971, 17 ss. e passim, sulla quale v. pure S. Patti, Inerzia e prescrizione nel pensiero di Alberto Auricchio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2019, 143). Essa acquisirebbe perciò rilevanza – secondo questa ricostruzione – nei limiti in cui possa integrare, in termini di significato socialmente condiviso, un comportamento omissivo in senso proprio, non identificabile con la mera inattività. L’importanza che possa eventualmente riconoscersi all’affidamento dei terzi, e, in particolar modo, del soggetto passivo, provocato dall’inerzia del titolare del diritto ha suggerito alla dottrina un accostamento al principio elaborato dalla giurisprudenza tedesca della Verwirkung, in applicazione della quale il ritardo nell’esercizio del diritto può condurre alla negazione della sua tutela, qualora il ritardo sia da interpretare come manifestazione tacita della volontà di rinuncia al diritto, e generi perciò un affidamento della controparte in tal senso; sì che il ritardato esercizio di tale diritto, ancorché osservante del termine legale di prescrizione, si risolverebbe in un abuso del diritto, in violazione dell’obbligo di buona fede (Cfr. F. Criscuolo, op. cit., 404 ss., e ampiamente, S. Patti, Tempo, prescrizione e Verwirkung, Modena, 2020, oltre all’altra sua opera, poco sopra citata). Riconducendosi alla nozione di abuso del diritto, la giurisprudenza italiana ha talora recepito tale figura, respingendo la domanda con la quale il diritto era stato esercitato dopo un lungo periodo di inattività del titolare, e tuttavia prima del compimento del termine di prescrizione, ravvisando l’abuso nel “subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio” (Cass., sez. III, 14 giugno 2021, n. 16743). Cass., sez. III, 15 marzo 2004, n. 5240 aveva invece escluso che potesse darsi ingresso, nel nostro ordinamento, alla Verwirkung, cosicché il mero ritardo nell’esercizio di un diritto non costituisce motivo per negarne la tutela, a meno che tale ritardo non sia la conseguenza di una inequivoca rinuncia tacita.
[132] Cfr. Cass. n. 2146/2021, cit.
[133] V. al riguardo M. Bona, Appunti sulla giurisprudenza comunitaria e CEDU in materia di prescrizione e decadenza: il parametro della “ragionevolezza”, in Resp. civ. prev., 2007, 1709 ss., il quale sottolinea l’obbligo dei giudici nazionali di conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, del Tribunale europeo di primo grado e della Corte CEDU (pp. 1713-1714).
[134] L’art. 2224 del code civil, quale risulta dalla riforma dell’istituto della prescrizione recata dalla legge n. 2008-561 del 17 giugno 2008, stabilisce che il termine di prescrizione delle azioni personali e di quelle mobiliari è di cinque anni, decorrenti dal giorno in cui il titolare del diritto ha preso conoscenza, o avrebbe dovuto prendere conoscenza, dei fatti che gli permettono di esercitarlo. Analoga regola, quanto alla decorrenza del termine, in questo caso trentennale, è prevista per le azioni reali immobiliari (art. 2227). L’art. 2232 prevede però, con alcune esclusioni (fra le quali, le azioni reali immobiliari), un termine di sbarramento (délai butuoir) di vent’anni a contare dal giorno in cui il diritto è sorto, oltre il quale, dunque, il diritto non è esercitabile. La prescrizione dell’azione di riduzione, peraltro, è fissata in cinque anni a contare dall’apertura della successione, o in due anni dalla presa di conoscenza della lesione della riserva, non potendo comunque eccedere i dieci anni a contare dalla morte del de cuius. In Germania, per effetto della Schuldrechtsmodernisierung, attuata con la legge del 26 novembre 2001, è stato abbreviato il termine ordinario di prescrizione da trenta a tre anni (par. 195), che decorre dalla data dell’ultimo giorno dell’anno in cui il diritto è sorto, o in cui il debitore ha avuto conoscenza dei fatti generatori del diritto, o dell’identità del debitore, o in cui avrebbe dovuto conoscere tali circostanze se non fosse incorso in colpa grave (par. 199). Lo stesso paragrafo contiene disposizioni più specifiche, fra le quali quella che fissa il limite di trent’anni per l’esercizio di diritti che dipendono dalla conoscenza di disposizioni mortis causa, indipendentemente dalla conoscenza o meno di tali disposizioni. Il par. 202 ha poi fatto venir meno il preesistente divieto di stipulare patti sulla durata della prescrizione, che però non può essere prolungata oltre trent’anni. Alla conoscenza effettiva degli elementi costitutivi del diritto e dell’identità del soggetto passivo fa invece riferimento il codice civile olandese in relazione ad alcune azioni (configurando perciò la prescrizione come un istituto del processo), di cui agli artt. 309, 310 e 311; anch’esso però stabilendo un termine molto più lungo, compiuto il quale l’azione non è più proponibile in alcun caso. La disciplina della prescrizione dettata dai Principî di diritto contrattuale europeo e dal Draft Common Frame of Reference, prevalentemente riferita al rapporto obbligatorio, si avvale dell’istituto della sospensione della prescrizione per attribuire rilevanza alla conoscenza dei fatti costitutivi del diritto: così, fissando in tre anni il termine ordinario di prescrizione, si prevede che esso rimanga sospeso se il creditorei non conosceva, o non poteva ragionevolmente conoscere, l’identità del debitore o dei fatti generatori del diritto (artt. 14:301 PECL e III. – 7: 301 DCFR), o in caso di impedimento che va oltre il potere di controllo del creditore, e che questi non avrebbe potuto prevedere (artt. 14:303 PECL e III. – 7: 303 DCFR). Tale disciplina consente alle parti di stipulare accordi sulla prescrizione, che ne modifichino la durata, aumentandola o diminuendola (artt. 14: 601 PECL e III. – 7: 601 DCFR). L’art. 10.2 dei Principî Unidroit prevede invece che il termine ordinario di prescrizione è di tre anni, e decorre dal giorno successivo al giorno in cui il creditore è a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza dei fatti per effetto dei quali il suo diritto può essere esercitato; ma che, in ogni caso, il termine massimo di prescrizione è di dieci anni, e decorre dal giorno successivo al giorno in cui il diritto può essere esercitato. L’art. 10.8 prevede poi la sospensione per causa di forza maggiore, ossia di impedimento estraneo alla sfera di controllo del creditore ed imprevedibile. Anche i Principî Unidroit riconoscono la validità di accordi sulla durata della prescrizione, sia pure entro certi limiti massimi e minimi (art. 10.3). Su tali argomenti, v. le considerazioni di S. Patti, Certezza e giustizia nel diritto della prescrizione in Europa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, 21, spec. 26 ss.; e di G. Anzani, L’irragionevole diversità dei termini prescrizionali nelle due specie di responsabilità civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 1365 ss.
[135] Cfr. art. 23, comma 1, l. 31 dicembre 1962, n. 1860 (“Impiego pacifico dell’energia nucleare”), come modificato dal D.P.R. 10 maggio 1975, n. 519: “le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell’identità dell’esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza”; e art. art. 13, commi 1 e 2, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 (“Attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai sensi della L. 16 aprile 1987, n. 183, art. 15”), oggi art. 125 cod. cons: “Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravità sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria”. Il capoverso del citato art. 23 l. n. 1860/1962 prevede, peraltro, che “nessuna azione è proponibile decorsi dieci anni dall’incidente nucleare”; norma nella quale parrebbe di doversi ravvisare un’ipotesi di decadenza.
[136] L’interpretazione nel primo senso trova conferma sia nella dottrina più risalente (F. Messineo, Momento iniziale di prescrizione dell’azione di annullamento per vizio della volontà testamentaria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 1073 ss., spec. 1079, 1081, 1082), sia nella dottrina contemporanea (S. Pagliantini, La pluralità di regimi normativi del testamento annullabile, in Riv. not., 2008, 811 ss.). Sembra orientata nel senso opposto l’opinione di P. Vitucci (op. cit., 135-136), soprattutto in ragione della formulazione impersonale nella quale tale termine è usato (“si è avuta notizia”), la quale potrebbe voler significare che la norma intenda dare rilievo al fatto oggettivo della emersione del vizio, piuttosto che allo stato soggettivo dell’attore. È chiaro che, se dovesse aversi riguardo alla conoscenza in senso soggettivo ed effettivo, potrebbero aversi differenti date di decorrenza della prescrizione, in relazione ai possibili differenti momenti di acquisizione della notizia da parte dei varî potenziali interessati, il cui numero è indefinito, tenuto conto della legittimazione aperta prevista dalla norma rispetto alla proposizione dell’azione in questione. Per il Messineo, l’effettiva conoscenza esigerebbe la comunicazione della copia del verbale di cui agli artt. 620 e 621, o del testamento pubblico alla cancelleria del tribunale; il che implica l’avvenuta pubblicazione del testamento, e, anzi, la comunicazione ex art. 623 cod. civ. dell’esistenza del testamento all’erede. Tutto ciò potrebbe, peraltro, non bastare agli effetti della conoscenza effettiva, perché il vizio potrebbe essere appreso in un momento successivo a quello della notizia circa il contenuto della disposizione testamentaria.
[137] F. Messineo, op. ult. cit., 1079, dove Egli afferma che, se il fatto della appresa notizia non si verifica, non sorge la possibilità e la potestà dell’interessato di valersi dell’azione: questi non è in grado di scegliere fra l’agire e il non agire per l’annullamento, e quindi neppure di impedire o di interrompere il decorso del termine prescrizionale proponendo l’azione. V. pure C. Cicero (La sanatoria del testamento redatto per violenza o dolo e non revocato, in Riv. not., 2011, 242), per il quale “trova qui applicazione, inevitabilmente, l’art. 2935 c.c., secondo il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”.
[138] Cass., sez. II, 27 giugno 1992, n. 8063, la norma in esame “costituisce uno dei casi, eccezionali, in cui l’ordinamento dà rilievo ad impossibilità di mero fatto di esercitare il diritto”.
[139] P. Vitucci, op. loc. ult. cit.; S. Pagliantini, op. loc. cit.
[140] P. Vitucci, op. cit., 136.
[141] P. Vitucci, op. cit., 106.