Jus CivileCC BY-NC-SA Commercial Licence ISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

La riforma dell´impresa sociale: aspetti centrali e profili problematici della disciplina italiana ed il contesto europeo di riferimento (di Gianluca Riolfo, Ricercatore di Diritto commerciale – Università degli Studi di Verona)


La nuova disciplina dell’impresa sociale, introdotta con il decreto legislativo n. 112/2017, rappresenta indubbiamente una delle novità più interessanti del panorama legislativo recente in Italia.

Pur definendosi come “revisione” della pre-esistente disciplina, quella nuova pare dettare una regolamentazione per certi versi molto diversa (ed innovativa) tanto da rendersi necessaria una lettura attenta delle novità contenute nella legge.

Lo scritto prende in considerazioni alcuni aspetti di rilievo che caratterizzano le imprese sociali (oltre alla definizione e alla tipologia di attività che la stessa può svolgere, la riconosciuta possibilità di una parziale distribuzione dell’utile nonché le forme di governance immaginate dal legislatore – e che dovrebbero portare ad una maggiore partecipazione di utenti, lavoratori e terzi interessati).

La disamina è funzionale a tentare un inquadramento sistematico del modello nell’ordinamento giuridico italiano, evidenziandone le peculiarità in un mondo dell’impresa in continua evoluzione e nel cui ambito si vanno affermando in modo sempre più preponderante i principi della responsabilità sociale d’impresa ed emergono modelli “misti” di società (le c.d. società benefit) non più solo votate al profitto ma in grado di coniugare profit e non profit. Il tutto mentre si assiste ad una inesorabile ritirata dello Stato (sociale) come soggetto erogatore di quei servizi essenziali che ne hanno sempre caratterizzato l’azione (nel bene o nel male).

Parole chiave: impresa sociale – attività di interesse generale – assetti adeguati – public company – società benefit – responsabilità sociale d’impresa – società partecipate.

The reform of the social enterprise: central aspects and problematic profiles of the Italian regulation and the european context of reference.

The new discipline of the social enterprise, introduced with the legislative decree n. 112/2017, undoubtedly represents one of the most interesting innovations of the recent legislative panorama in Italy. While defining itself as a "revision" of the pre-existing discipline, the new one seems to dictate a regulation that is in some ways very different (and innovative), so much so that a careful reading of the innovations contained in the law is necessary.

The paper takes into consideration some important aspects that characterize social enterprises (in addition to the definition and type of activity that they can carry out, the recognized possibility of a partial distribution of profits as well as the forms of governance envisaged by the law - and which should lead to greater participation of users, workers and interested third parties).

The examination in this works is functional to attempt a systematic classification of the model in the Italian legal system, highlighting its peculiarities in a world of business in continuous evolution and in the context of which the principles of social responsibility of enterprise and “mixed” models of companies are strongly emerging (the so-called benefit companies) no longer devoted only to profit but able to combine profit and non-profit. All while we are witnessing an inexorable retreat of the State (previously defined as “social”) as a provider of those essential services that have always characterized its action (for better or for worse).

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. La nozione di impresa sociale (e, correlativamente, la nozione di “attività d’impresa di interesse generale”) - 3. La regola generale dell’assenza di lucro e la sua possibile deroga in concreto. Il finanziamento del­l’impresa sociale - 4. Assetti proprietari, governance e coinvolgimento di lavoratori, utenti ed altri interessati. Un’occasione persa - 5. Alcune riflessioni in chiusura: il sottile filo rosso che lega società benefit, imprese sociali e CSR nell’ambito del rinnovato contesto europeo di riferimento - NOTE


1. Introduzione

Il d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (rubricato «Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’art. 2, comma 2, lett. c) della l. 6 giugno 2016, n. 106») regolamenta l’impresa sociale attraverso l’abrogazione espressa della disciplina precedente contenuta nel d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155 [1].

Rispetto alla vecchia legge [2] il nuovo testo appare riformulato in maniera più accurata, implementato con una serie di previsioni (prima assenti) che vengono ad incidere, in particolar modo, su aspetti che la dottrina aveva considerato “critici” e mancanti di espressa regolamentazione nella disciplina preesistente [3].

Non va dimenticato come l’impresa sociale, a prescindere dalla forma organizzativa che andrà ad assumere, è comunque “ente del terzo settore” e, in quanto tale, viene disciplinata anche dal Codice del Terzo Settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117). Pertanto le fonti di regolamentazione sono, nell’ordine: il d.lgs. n. 112/2017, il d.lgs. n. 117/2017 [4], solamente per quelle norme che siano compatibili con la disciplina specifica dell’impresa sociale [5] e, in ogni caso (laddove manchino espresse disposizioni nei precedenti testi), le regole codicistiche che disciplinano il tipo di ente la cui forma sia stata adottata per esercitare la suddetta impresa sociale [6].

Nel contesto europeo di riferimento, sin dal 2011 la Commissione – con la Comunicazione «Iniziativa per l’imprenditoria sociale Costruire un ecosistema per promuovere le imprese sociali al centro dell’economia e dell’innovazione sociale» [7] – ha manifestato l’intenzione di porre l’imprenditoria sociale tra i temi di rilievo della propria agenda. Da allora ad oggi però le iniziative sono state relative e – comunque – di scarso impatto [8]. Ma nel dicembre del 2021 la stessa Commissione ha presentato un «Piano d’azione europeo per l’econo­mia sociale» volto a sviluppare il potenziale di crescita di imprese sociali, cooperative, fondazioni e associazioni non profit e aumentarne il contributo alle transizioni verde e digitale. Il Piano prende le mosse proprio dalla Comunicazione del 2011 e si propone, tra le altre cose, di dare vita ad un contesto giuridico uniforme entro cui inquadrare le diverse forme di imprese in senso lato sociali che si ritrovano nei diversi ordinamenti.

Gli effetti di questo nuovo piano di azione si vedranno nei prossimi anni ma, indubbiamente, l’inqua­dramento giuridico di queste tipologie di imprese costituisce un obiettivo di assoluto rilievo. Come avremo modo di sottolineare più avanti sarebbe necessario fornire una nozione nuova di impresa per quelle sociali [9], che si discosti dall’idea tradizionale per mettere in lice – e valorizzare – le particolarità dell’imprenditoria sociale.

Fatte queste premesse, di seguito si indicano i profili di interesse della disciplina italiana che costituiscono delle novità (e che presentano indubbiamente delle possibili criticità) su cui si intende soffermarsi.

a) la nozione e qualifica di impresa sociale (e, correlativamente, la nozione di “attività d’impresa d’interesse generale”);

b) l’assenza di scopo di lucro e sua parziale deroga (nonché la possibilità di ricorrere a strumenti di finanziamento ordinari);

c) gli assetti proprietari, la governance interna dell’ente e il coinvolgimento di lavoratori, utenti ed altri soggetti interessati.

Su ciascuno di questi aspetti si cercherà di fornire alcuni spunti per una riflessione che, nell’ultimo paragrafo, vorrebbe essere di maggior respiro: come si inquadra la fattispecie dell’impresa sociale in un più ampio contesto (internazionale ma soprattutto europeo) in cui il tema della “sostenibilità sociale ed ambientale” dell’impresa è diventato centrale? Inoltre può individuarsi un qualche nesso tra l’emergere di nuove forme di impresa (oltre a quella “sociale” e a quella “sostenibile”), quale il modello della società benefit, e l’evidente arretramento dello Stato come fornitore di servizi di interesse generale?


2. La nozione di impresa sociale (e, correlativamente, la nozione di “attività d’impresa di interesse generale”)

Il previgente art. 1, d.lgs. n. 155/2006 [10], definiva l’impresa sociale come una «qualifica» che qualunque «organizzazione privata» (comprese le diverse tipologie codicistiche di società lucrative, ed escluse le cooperative) poteva assumere qualora avesse esercitato «in via stabile» e «principale» una «attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale», qualora la suddetta organizzazione privata avesse i requisiti previsti nei successivi articoli 2, 3 e 4 [11].

Il nuovo art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 112/2017, risulta modificato e più articolato. Impresa sociale, che resta una “qualifica”, può essere qualunque «ente» privato, comprese le società lucrative, che (nel rispetto della relativa normativa) eserciti «in via stabile e principale» una «attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale». Risulta altresì necessario che l’ente adotti «modalità di gestione responsabili e trasparenti» e che favorisca «il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alla loro attività».

Rispetto alla versione precedente, anzitutto, sparisce quella che poteva essere considerata una vera e propria definizione di “imprenditore sociale”, plasmata sulla definizione codicistica di cui all’art. 2082 cod. civ. [12] ma con l’individuazione delle particolari finalità (di interesse generale) e con il riferimento ai particolari “beni o servizi di utilità sociale”. Il legislatore oggi presuppone che l’attività esercitata dagli enti privati “sociali” (anche organizzati in forma societaria) sia impresa (nel senso di attività esercitata da un imprenditore) ma di interesse generale [13]. Ad ulteriore specificazione di quest’ultimo concetto, viene dichiarato come debba trattarsi di attività esercitata senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale [14].

Si noti come l’utilità sociale, prima riferita ai beni o servizi prodotti o scambiati, oggi costituisce una delle finalità (essenziali, che sostituisce il lucro) che l’impresa sociale persegue nell’esercizio della sua attività di interesse generale [15].

Sempre rispetto alla disciplina previgente, una considerevole novità è data dal fatto che oggi – oltre a quanto già visto sopra – si richiede che per essere tale l’impresa sociale debba avere una gestione responsabile e trasparente, nonché debba coinvolgere – nel modo più ampio possibile – lavoratori, utenti e altri soggetti interessati. Quest’ultimo aspetto, pur presente anche nella precedente normativa [16], non costituiva elemento definitorio della fattispecie ma solo obbligo organizzativo interno. Oggi invece il coinvolgimento di lavoratori, utenti e “altri” interessati diviene caratterizzante la stessa qualifica di impresa sociale. Le modalità di tale coinvolgimento sono poi esplicitate nel successivo articolo 11.

Per quanto riguarda la gestione “trasparente” il riferimento è, probabilmente, ad una necessaria disclosure di una serie di aspetti tra i quali assetti proprietari, compensi spettanti ai membri degli organi sociali, profilo morale e professionale delle persone chiamate a ricoprire ruoli di rilievo nell’impresa, obiettivi perseguiti e modalità del loro perseguimento, descrizione di eventuali criticità, modalità di utilizzo del patrimonio per il perseguimento degli obiettivi sociali, forme di coinvolgimento dei vari stakeholders, e così via [17].

Meno immediata è la comprensione di cosa integri una modalità di gestione “responsabile” [18]. Il primo pensiero va alla attenta valutazione dei rischi imprenditoriali, per evitare che scelte gestorie troppo azzardate possano mettere a rischio il patrimonio dell’ente. Si può immaginare quindi che, da un lato, dovranno essere creati meccanismi interni di scelta e di valutazione e controllo di tali scelte (quindi, in sostanza, assetti adeguati [19] al tipo di impresa che si va esercitando). Dall’altra, è ipotizzabile che le modalità di gestione responsabile (o meno) attuate potranno costituire elemento per valutare il comportamento di amministratori e controllori, con una probabile maggiore severità nell’individuazione di eventuali responsabilità ad esse legate (in virtù della particolarità delle attività esercitate e degli interessi coinvolti).

Con riferimento ai soggetti che possono assumere la “qualifica” di impresa sociale, permane l’esclusione (implicita) delle persone fisiche [20] nonché quella espressa delle pubbliche amministrazioni (come individuate dall’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001). Compare poi una ulteriore ipotesi di soggetto a cui non è consentito assumere la qualifica di impresa sociale, vale a dire la società unipersonale il cui unico socio sia una persona fisica (art 1, comma 2) [21]. Trova conferma invece l’impossibilità di acquisire la qualifica di impresa sociale per gli «enti i cui atti costitutivi limitino, anche indirettamente, l’erogazione dei beni e dei servizi in favore dei soli soci o associati» [22]. Sono infine espressamente escluse dall’applicazione della disciplina sull’im­presa sociale le fondazioni bancarie [23].

Pertanto i principali tipi di “enti” che possono assumere la qualifica di impresa sociale sono associazioni (riconosciute e non), fondazioni, società lucrative, società pubbliche miste [24], cooperative sociali e loro consorzi [25].

Il legislatore della riforma, introduce il concetto di «attività d’impresa di interesse generale» [26] (qualificante l’impresa sociale), concetto che viene esplicitato nell’art. 2 del d.lgs. n. 112/2017. Per quanto detto sopra, il nuovo articolo 2 si differenzia dall’omologo di cui al d.lgs. n. 155/2006, che era riferito alla definizione di «utilità sociale» ed elencava i «beni o servizi di utilità sociale» (cioè quelli «prodotti o scambiati» nei settori di cui all’elenco stesso).

Abbiamo detto come l’utilità sociale, oggi, diventa una delle finalità da perseguire attraverso l’attività d’impresa “di interesse generale”. Questa costituisce il nuovo nucleo essenziale dell’impresa sociale e su di essa si appunta l’attenzione del legislatore del 2017.

L’incipit dell’articolo ribadisce nella sostanza quanto già affermato nel primo comma dell’art. 1, cioè che l’impresa sociale esercita in via stabile e principale una o più attività d’impresa di interesse generale per perseguire finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Ciò, da un lato, conferisce una particolare solennità al carattere qualificante la fattispecie in oggetto. D’altra parte il legislatore ci suggerisce come l’impresa sociale possa anche esercitare una o più attività di interesse generale.

Queste ultime sono le attività di impresa che hanno ad oggetto la lunga elencazione di cui alle lett. da a) a v) [27]. Al fine di non appesantire eccessivamente la trattazione si rimanda alla lettura dell’articolo e si segnalano solamente quelle attività che non comparivano nel previgente art. 2, d.lgs. n. 155/2006, vale a dire:

– interventi, servizi e prestazioni di cui alle l. n. 104/1992 [28] e n. 112/2016 [29] (in materia di soggetti disabili [30]);

– attività culturali di interesse sociale con finalità educativa [31];

– tutti gli interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e miglioramento delle condizioni dell’ambiente e all’utilizzazione «accorta e razionale» delle risorse naturali [32];

– attività prima non previste quali ricerca scientifica di particolare interesse sociale (lett. h)); organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale (lett. i)) [33]; radiodiffusione sonora a carattere comunitario (lett. j)) [34]; organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso (lett. k)) [35]; attività di prevenzione del bullismo e di contrasto della povertà educativa (lett. l)) [36]; attività commerciali, produttive, di educazione e informazione, di promozione, di rappresentanza, di concessione in licenza di marchi di certificazione nell’ambito o a favore di filiere di commercio equo e solidale [37] (lett. o)); servizi finalizzati all’inserimento o al reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori molto svantaggiati e persone svantaggiate o con disabilità (lett. p)); alloggio sociale e ogni altra attività di carattere residenziale temporaneo volta a soddisfare bisogni sociali, sanitari, culturali, formativi o lavorativi (lett. q)) [38]; accoglienza umanitaria ed integrazione sociale dei migranti (lett. r)); microcredito (lett. s)); agricoltura sociale (lett. t)) [39]; organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche (lett. u)); riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata (lett. v)) [40].

Si nota quindi il deciso ampliamento delle tipologie di attività [41] che, in quanto di interesse generale, possono essere esercitate dall’impresa sociale la quale può fare decisamente “molto” di quanto sino a poco tempo fa era chiamato a fare lo Stato (sociale) [42].

Ma le previsioni in tema non si esauriscono qui. Infatti, da un lato si prevede espressamente la possibilità di aggiornare, periodicamente, la lista delle attività di interesse generale (attraverso decreto del Presidente del Consiglio dei ministri; art. 2, comma 2).

Poi si conferma l’interpretazione del concetto di “principalità” che, in una con quello di stabilità [43], caratterizza l’impresa sociale. Come nella disciplina previgente, il comma 3 ritiene svolta in via principale l’attività d’impresa (di interesse generale) quando i relativi ricavi sono «superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’impresa sociale». La definizione dei criteri di computo è demandata ad un apposito decreto ministeriale poiché, data la formulazione della norma, non pareva potersi ritenere ancora applicabile il “vecchio” D.M. 24 gennaio 2008. In data 22 giugno 2021 è stato quindi emanato un apposito decreto del Ministero dello sviluppo economico in cui sono stati fissati (art. 2) i «criteri di computo dei ricavi dell’impresa sociale» [44]. A di là del permanere dei dubbi, già sollevati in passato dalla dottrina [45], in merito all’efficacia di tale criterio nell’individuare l’attività prevalente, è evidente come l’impresa sociale possa svolgere “anche” un’attività d’impresa vera e propria accanto a quella di interesse generale (che deve essere prevalente ma non esclusiva).

Infine si conferma la previsione per cui, a prescindere dall’attività esercitata (quindi, «indipendentemente dal suo oggetto» [46], che potrà non rientrare una delle lettere di cui al comma 1), è considerata attività di interesse generale l’impresa che operi – pur sempre per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale [47] – avendo una parte dei dipendenti che sono lavoratori molto svantaggiati o persone svantaggiate o con disabilità, persone beneficiarie di protezione internazionale (come definite dal d.lgs. n. 251/2007) e persone senza fissa dimora (iscritte nel registro previsto dall’art. 2, comma 4, l. n. 1228/1954) che, per le condizioni di povertà in cui versano, non riescano a reperire e mantenere in autonomia una abitazione [48].

In definitiva, si nota come vi sia stato un deciso ampliamento degli ambiti di intervento delle imprese sociali. Oggi più di un tempo occorre domandarsi se, ed in quali termini, si possano porre questioni di tutela della concorrenza tra imprese del terzo settore e tra imprese ordinarie ed imprese del terzo settore [49].


3. La regola generale dell’assenza di lucro e la sua possibile deroga in concreto. Il finanziamento del­l’impresa sociale

Un secondo aspetto di reale novità è la parziale deroga al divieto assoluto, prima invece granitico, di perseguire un parziale lucro anche nell’impresa sociale.

Il nuovo art. 3, comma 1, conferma che gli utili eventuali e gli avanzi di gestione sono destinati «all’attività statutaria o ad incremento del patrimonio», ciò salvo l’eccezione di cui al comma 3 (su cui torneremo subito appresso).

Al fine di realizzare tale obiettivo la legge vieta la distribuzione (diretta o indiretta) dei suddetti utili ed avanzi di gestione, di fondi e riserve in qualunque modo denominate, a fondatori [50], soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali [51]. Tale divieto vale anche nel caso di recesso, esclusione o, con riferimento agli eredi del soggetto defunto, morte: quindi ogni ipotesi di scioglimento del singolo vincolo sociale (o meglio, associativo) non attribuisce il diritto al rimborso delle somme conferite.

Con riferimento alle ipotesi di scioglimento anticipato del singolo rapporto sociale la legge, per le imprese sociali che abbiano la forma di uno dei tipi di società lucrative, ammette che la possibilità di rimborsare al socio «il capitale effettivamente versato ed eventualmente rivalutato [52] o aumentato» nei limiti previsti dal successivo comma 3 [53].

Quest’ultimo comma 3 diviene quindi centrale per comprendere in quale modo si ammette la realizzazione di un parziale fine di lucro (soggettivo) nelle imprese sociali a forma societaria. Ecco allora che in quest’ultima tipologia è possibile decidere (comma 3. lett. a)) di destinare «una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti» [54] per:

1) l’aumento gratuito del capitale (sottoscritto e versato dai soci [55]). Tale aumento gratuito non può essere superiore alla variazione «dell’indice nazionale generale annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati», calcolato dall’ISTAT. Si noti come tale variazione percentuale, che costituisce un limite all’aumento gratuito, è quella che si è avuta nell’esercizio sociale in cui sono «sono stati prodotti» gli utili o gli avanzi di gestione che vengono utilizzati (non quello in cui si decide di utilizzare tali fondi per aumentare il capitale) [56];

2) la distribuzione di utili ai soci, da realizzarsi attraverso la distribuzione di somme di denaro (in proporzione alle quote o azioni già detenute [57]), oppure mediante aumento gratuito di capitale [58] o, ancora, attraverso l’emissione di strumenti finanziari. Il parametro di riferimento (vale a dire il limite massimo per realizzare tale distribuzione) è esattamente quello già previsto dal codice civile in relazione alle cooperative a mutualità prevalente (art. 2514, comma 1, lett. a)): posto sempre che si possono utilizzare meno del 50% degli utili o avanzi di gestione, la «distribuzione» [59] non può superare l’interesse «massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato».

Secondo la lett. b) del comma 3, è poi possibile (a mio avviso per ogni impresa sociale, quindi anche per quelle costituite in forma societaria di cui alla lett. a)) utilizzare meno della metà degli utili o degli avanzi di gestione per «erogazioni gratuite in favore di enti del Terzo settore diversi dalle imprese sociali, che non siano fondatori, associati, soci dell’impresa sociale o società da queste controllate». Tali erogazioni devono essere finalizzate a finanziare la «promozione di specifici progetti di utilità sociale». Questa ipotesi non costituisce l’esplicitazione di una forma di lucratività attenuata; ricorda un po’ la c.d. “mutualità esterna” che può essere perseguita dalle cooperative e che, in riferimento alle imprese sociali, può voler significare un ulteriore ampliamento delle possibili aree di intervento dell’ente [60].

Tornando alle previsioni del comma 2, in parte conformandosi a quanto già previsto del previgente articolo 3 ma ampliandone la casistica, la legge indica le ipotesi in cui determinate operazioni o accordi costituiscono indiretta distribuzione di utili (vietata, se non nel caso e nei limiti di quanto abbiamo appena visto). Si tratta di:

– versamento di compensi individuali [61] ad amministratori, sindaci e a «chiunque» rivesta cariche sociali, che non siano «proporzionati» all’attività svolta, alle responsabilità assunte a alle specifiche competenze, o «comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni» [62] (lett. a));

– versamento di retribuzioni, a lavoratori subordinati o autonomi, superiori del 40% rispetto a quelli previsti (con riferimento alle medesime qualifiche) nei «contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria» [63]. A parte il fatto che poco comprensibile appare il riferimento ai “lavoratori autonomi” per l’ap­plicazione della percentuale di incremento, diversamente che dalla norma previgente è oggi possibile derogare alla regola di base (quindi, in altri termini, pagare di più senza ricadere nel divieto di distribuzione indiretta di utili) per «comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle» sole attività di interesse generale relative ad interventi e prestazioni sanitarie, formazione universitaria e post-universitaria nonché ricerca scientifica di particolare interesse sociale [64] (lett. b));

– il riconoscimento di una “remunerazione” a strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote [65], e a soggetti diversi da banche e intermediari finanziari autorizzati [66], superiore a due punti in più del limite massimo relativo alla distribuzione di dividendi (lett. c)). Il che pare voler significare che la sottoscrizione di strumenti finanziari (anche partecipativi [67]) consente di ottenere una remunerazione della somma impiegata maggiore rispetto a quella riconoscibile ai soci a titolo di dividendo [68];

– acquisto di beni o servizi per corrispettivi «superiori al loro valore normale», salvo che non vi siano «valide ragioni economiche» che giustifichino il pagamento di un prezzo maggiore [69] (lett. d));

– cessione di beni o prestazione di servizi (quindi, quelli prodotti o scambiati dall’impresa sociale) a condizioni più favorevoli «di quelle di mercato» [70] a favore di tutta una serie di soggetti che possano in qualche modo trarre da rapporti, patrimoniali o personali in essere con l’impresa stessa (ed esclusivamente in ragione di tali qualità, quindi non se si tratti di soggetti che sono “anche” beneficiari, o utenti), un indebito vantaggio rispetto ai beneficiari o utenti delle prestazioni oggetto dell’attività d’impresa [71]. Si potrà forse ritenere quindi che, ad es., un socio e utente possa beneficiare di un prezzo di favore (ma come praticato agli utenti o beneficiari in genere). Ciò salvo che «tali cessioni o prestazioni» – in favore dei soci, associati e partecipanti almeno – «non costituiscano l’oggetto dell’attività di interesse generale» di cui al precedente articolo 2 [72] (lett. e));

– corresponsione di interessi passivi superiori a 4 punti rispetto al «tasso annuo di riferimento» [73], se il prestito (di ogni specie [74]) è concesso da soggetti diversi da banche o intermediari finanziari autorizzati [75] (lett. f)).

Si dovrà verificare se, ed in quali termini, la parziale remunerazione del capitale investito dai soci nel­l’impresa sociale in forma societaria renda oggi la stessa una forma di impresa “attraente”. Si dovrà anche valutare se il meccanismo prefigurato dal legislatore del 2017 consenta la “finanziabilità” della suddetta impresa sociale: si tratta di uno dei principali problemi emersi in sede di applicazione della prima disciplina (quella portata dal d.lgs. n. 155/2006). Si noti come la riforma ammetta sia la parziale remunerazione del capitale investito dai soci (a cui verrà anche restituito in caso di scioglimento del singolo rapporto sociale ma anche in caso di scioglimento volontario dell’ente o di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale [76]) e anche la remunerazione (in misura anche maggiore) per i sottoscrittori di strumenti finanziari “diversi”. Come si è avuto modo di sottolineare, da tale divieto di distribuzione “indiretta” (e a maggior ragione quella “diretta”) viene esclusa la distribuzione di utili ed avanzi di gestione secondo il meccanismo dei ristorni proprio delle società cooperative, se correlati ad attività di interesse generale di cui all’articolo 2, effettuata ai sensi dell’art. 2545-sexies del codice civile e nel rispetto di condizioni e limiti stabiliti dalla legge o dallo statuto. La condizione per effettuare legittimamente tali forme di distribuzione è che lo statuto o l’atto costitutivo indichino i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e alla qualità degli scambi mutualistici e che si registri un avanzo della gestione mutualistica.

Si può pertanto ritenere che, quantomeno laddove la forma assunta sia quella della società per azioni, potranno essere emesse particolari categorie di azioni, obbligazioni ed altri strumenti finanziari a cui riconoscere, in misura diversa, un rendimento [77].

Va infine segnalato come il legislatore ammetta, per gli enti del terzo settore «dotati di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese» [78], quindi le imprese sociali ma non solo, di poter ricorrere all’isti­tuto del patrimonio destinato ad uno specifico affare (ex art 2447-bis e ss. cod. civ.). In tal senso l’art. 10, Codice del Terzo settore.

Da un punto di vista più generale, nell’ambito del non-profit, lo strumento dei patrimoni destinati diventa utilizzabile da qualunque ente che abbia personalità giuridica, estendendosi dall’ambito codicistico proprio (le società per azioni) ad ogni tipo di società, alle associazioni riconosciute, alle cooperative sociali. Si dovranno attentamente approfondire le modalità e le finalità di costituzione e l’effettiva funzionalità dello strumento nell’ambito specifico del Terzo settore [79].


4. Assetti proprietari, governance e coinvolgimento di lavoratori, utenti ed altri interessati. Un’occasione persa

Pare ora necessario soffermarsi, seppur brevemente, sulle questioni legate agli assetti proprietari e alla governance dell’impresa sociale. E ciò in particolare per comprendere con quali meccanismi si possa attuare il coinvolgimento di lavoratori, utenti, beneficiari ed altri interessati all’attività di tale impresa, che – per lo stesso legislatore – costituisce uno degli elementi caratterizzanti l’impresa sociale stessa (si ricordi la definizione contenuta nell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 112/2017).

Se nell’impresa tradizionale uno o più imprenditori decidono di produrre o scambiare beni o servizi al fine di ottenere un guadagno da tale attività, impegnando proprie risorse ed eventualmente coinvolgendo altri soggetti investitori a cui viene riconosciuta una remunerazione del capitale conferito, nell’impresa sociale i primi interessati ai risultati dell’attività dovrebbero essere i beneficiari, gli utenti e, non ultimi i lavoratori. In sostanza, la collettività di riferimento (a seconda del tipo di bene o servizio oggetto dell’attività) necessità di trovare uno o più imprenditori che si assumano l’impegno di realizzare beni o servizi di cui quella collettività necessita, riconoscendo ad essi una minima remunerazione per l’investimento fatto in termini patrimoniali e di impegno, ma non consentendo agli stessi di essere (o diventare) i padroni dell’impresa per realizzare un interesse esclusivamente egoistico [80].

Ammesso che una prospettiva di questo tipo possa ritenersi condivisibile e, soprattutto, realizzabile, quando si considerano gli assetti proprietari e la governance societaria il pensiero va a forme di impresa “democratica” dove manca un socio o un gruppo di soci di comando. A forme di controllo e sanzione verso (ed anche a meccanismi che possano garantire il ricambio di) amministratori, dirigenti e membri degli organi di controllo non fedeli alla mission sociale prevista. Ad assetti interni che permettano a tutti i soci, almeno quando rappresentino minoranze minime, di poter far sentire la loro voce e soprattutto a meccanismi di coinvolgimento di coloro che, pur non essendo soci, sono i reali interessati ai particolari beni o servizi prodotti o scambiati dalla società.

Rispetto a quanto ci si poteva aspettare di trovare nella disciplina dell’impresa sociale manca ogni tentativo di dar vita ad una forma di “public company [81]: il particolare interesse generale perseguito e le finalità sociali e solidaristiche che caratterizzano l’operare di detta impresa avrebbero potuto portare alla previsione di limiti al possesso azionario, soluzione adottata ad es. nelle cooperative [82]. Nel d.lgs. n. 112/2017 invece, l’art. 4, comma 1, ribadisce quanto già prevedeva il “vecchio” art. 4, d.lgs. 155/2006: all’attività di direzione e coordinamento di un’impresa sociale si applicano le norme codicistiche ed essa si avrà (e quindi sarà lecita) quando un soggetto abbia la facoltà di nominare la maggioranza dei componenti dell’organo di gestione [83]. Solamente una società unipersonale con un socio unico persona fisica, enti con scopo di lucro e pubbliche amministrazioni non possono esercitare attività di direzione e coordinamento o detenere, in qualsiasi modo, il controllo (ex art. 2359 cod. civ.) [84].

Allo stesso modo non si rinvengono meccanismi obbligatori di tutela delle minoranze o di altre categorie di soggetti interessati (si pensi ai possessori di strumenti finanziari, o ai lavoratori). Si farà applicazione delle disposizioni che disciplinano il particolare tipo di ente (societario o no) che costituisce forma dell’impresa sociale. Nulla vieta tuttavia ai fondatori di introdurre limiti al possesso azionario, meccanismi di tutela delle minoranze [85] o di potenziale espressione degli interessi dei vari stakeholders [86].

Dal punto di vista della governance interna gli articoli 7, 10 e 11 contengono indubbie innovazioni rispetto alle previsioni dei previgenti articoli 8, 11 e 12 ma, anche in questo caso, il legislatore ha perso l’occasio­ne di introdurre regole maggiormente in grado di garantire l’effettivo perseguimento degli obiettivi di utilità sociale e di interesse generale.

Va notato anzitutto come, con riferimento all’organo gestorio (art. 7) non vi sia nessuna regola speciale, di fatto demandandosi all’applicazione delle regole ordinarie proprie del tipo di organizzazione adottato. In considerazione delle previsioni di cui agli articoli 26, 27 e 28 del Codice del Terzo settore [87], l’organo di gestione delle associazioni (riconosciute e non) è disciplinato attraverso l’ampio richiamo alla normativa codicistica relativa a società per azioni e a responsabilità limitata (per quanto concerne competenze, organizzazione, conflitto di interessi e responsabilità) [88]. Quest’ultima disciplina, quindi, trova estesa applicazione per quasi tutte le imprese sociali divenendo regolamentazione generale.

Nell’art. 7, d.lgs. n. 112/2017, il legislatore consente agli statuti di «riservare a soggetti esterni all’im­presa sociale la nomina di componenti degli organi sociali» ma «in ogni caso» la maggioranza degli stessi va scelta dai soci o dagli associati [89]. Meglio avrebbe fatto la legge, se riteniamo valide le premesse prima formulate, ad obbligare qualunque impresa sociale ad inserire clausole vincolanti nello statuto a garanzia del potere di nomina di almeno un amministratore a beneficio di categorie di soci o associati, o di minoranze qualificate, o di utenti e beneficiari [90]. Invece solamente per quelle di maggiori dimensioni [91] (quelle che abbiano cioè superato due dei limiti indicati nell’art. 2435-bis, comma 1, cod. civ., ridotti però della metà) lo statuto deve contenere la disciplina delle modalità di nomina di «almeno» un componente dell’organo di gestione e uno dell’organo di controllo da parte dei lavoratori e, solo «eventualmente», degli utenti [92].

Non si prevede nulla circa il fatto che gli amministratori debbano essere associati o soci: si potrebbe ritenere che tale requisito valga per le associazioni (ex art. 26, comma 2, Codice del terzo settore) e per le società di persone (sulla base della disciplina civilistica), non necessariamente invece per le società di capitali [93].

Due regole speciali, a valere a prescindere dalla forma adottata dall’impresa sociale:

– la presidenza dell’ente non è mai attribuibile a rappresentanti di società con un unico socio persona fisica, enti con scopo di lucro e amministrazioni pubbliche socie o associate;

– lo statuto deve prevedere «specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza» per poter assumere cariche sociali (la mancanza delle quali, per disciplina generale, comporterà ineleggibilità o decadenza) [94].

Sempre con riferimento agli amministratori di un’impresa del terzo settore, la particolare diligenza richiesta per svolgere tale incarico, l’assenza di conflitti di interesse, la necessità di assetti organizzativi adeguati [95], efficienti, funzionali e tali da attenuare i potenziali rischi d’impresa, sono tutti aspetti che potevano essere in qualche modo rimarcati e sottolineati. Lo si dovrà fare negli statuti o, comunque, in via interpretativa ancora una volta utilizzando le categorie societarie relative. Allo stesso modo, e sempre nell’ottica di un’impresa sociale avvicinabile alla public company, poteva risultare funzionale la previsione di particolari diritti di azione delle minoranze qualificate (promozione dell’azione di responsabilità o revoca dei gestori) o di beneficiari, lavoratori e utenti (si pensi, ad es., ad una forma particolare, adattata alle imprese del terzo settore, di azione di responsabilità ex art. 2395 cod. civ. [96]).

Tra i doveri degli amministratori, oltre a quelli “ordinari”, va rimarcata la presenza di uno specifico dovere caratteristico dell’impresa sociale [97], vale a dire la redazione del bilancio sociale. Tale documento, da depositare presso il registro delle imprese e da pubblicare sul sito internet dell’impresa, va redatto secondo linee guida ministeriali [98] deve dare conto degli aspetti più caratteristici di un’impresa sociale (in particolare, la governance interna e gli assetti proprietari, il coinvolgimento degli stakehoders [99], gli obiettivi prefissati ed il livello di raggiungimento degli stessi, la natura dell’attività esercitata, le dimensioni della stessa e “la valutazione dell’impatto sociale” generato o generabile [100]).

Per quanto riguarda l’organo di controllo, l’art. 10 detta una disciplina per così dire “minima” (essendo fatte salve le «disposizioni più restrittive relative alla forma giuridica» adottata [101]), riguardante l’obbligo di nomina di uno o più sindaci ed i requisiti che gli stessi debbono possedere (ex artt. 2397, comma 2, e 2399 cod. civ.). I doveri dell’organo sono quelli di cui all’art. 2403, comma 1, cod. civ., con l’aggiunta delle funzioni di monitoraggio proprio dell’organismo di vigilanza, ai sensi delle disposizioni del d.lgs. n. 231/2001 [102].

Compiti “nuovi” per i sindaci sono quello di monitorare l’osservanza «delle finalità sociali da parte del­l’impresa sociale, avuto particolare riguardo alle disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 11 e 13», nonché quello di attestare «che il bilancio sociale sia stato redatto in conformità alle linee guida» prima richiamate. Tale attività di monitoraggio dovrà trovare espressa menzione nel bilancio sociale [103].

Per poter esercitare le funzioni loro proprie i sindaci possono «in qualsiasi momento procedere ad atti di ispezione e controllo. A tal fine, essi possono chiedere agli amministratori notizie, anche con riferimento ai gruppi di imprese sociali, sull’andamento delle operazioni o su determinati affari» (art. 10, comma 4, d.lgs. n. 112/2017). Si noti come, anche in questo caso, il legislatore parafrasi i contenuti dell’art. 2403-bis, commi 1 e 2, cod. civ. [104]: è vero che si tratta di una disciplina “minima”, poiché si applicheranno poi le disposizioni più stringenti legate alle particolari forme organizzative adottate ma meglio avrebbe fatto il legislatore ad estendere anche gli altri poteri e doveri che il codice attribuisce all’organo di controllo (ricevere denunce, convocare l’assemblea, convocare l’organo di amministrazione, impugnare le delibere dell’organo gestorio, partecipare alle riunioni di quest’ultimo). Ciò avrebbe reso più efficiente, in qualunque impresa sociale (a prescindere quindi dalla forma giuridica adottata) l’attività di monitoraggio e vigilanza. E ciò proprio perché la suddetta attività di controllo non può ritenersi essere svolta a beneficio solamente dei soci ma anche, e soprattutto, di utenti, lavoratori e beneficiari (che, nell’intento del legislatore, devono essere coinvolti in quanto diretti interessati all’attività dell’impresa sociale) [105].

Ancora una volta si ritorna quindi al tema del “coinvolgimento” degli stakehoders. Salvo quanto detto sopra con riferimento alla necessità di prevedere statutariamente meccanismi che consentano (almeno ai lavoratori) di nominare un rappresentante nell’organo di gestione e nell’organo di controllo, l’art. 11 prevede genericamente che «nei regolamenti aziendali o negli statuti» debbano essere «previste adeguate forme di coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati» all’attività dell’impresa sociale. Al di là delle difficoltà di individuazione dell’adeguatezza delle forme di coinvolgimento [106], il legislatore si premura di specificare (comma 2) che «per coinvolgimento deve intendersi un meccanismo di consultazione o di partecipazione mediante il quale lavoratori, utenti e altri soggetti direttamente interessati (...) siano posti in grado di esercitare un influenza sulle decisioni dell’impresa sociale, con particolare riferimento alle questioni che incidano direttamente sulle condizioni di lavoro e sulla qualità dei beni o dei servizi».

Si tratta di una disposizione all’evidenza programmatica, di principio, di non immediata applicazione, ma che suggerisce ciò che poi dovrà trovare concreta esplicitazione nel singolo statuto [107]. Un meccanismo sicuramente percorribile sarebbe quello di dar vita a comitati interni (all’organo di gestione o di controllo), rappresentativi dei diversi interessi, a cui attribuire pareri obbligatori ma non vincolanti [108], ma le soluzioni possono essere le più varie. Ancora una volta però, i suddetti meccanismi dovrebbero farsi rientrare negli assetti adeguati di una impresa sociale, con ogni conseguenza derivante da ciò. Si potrebbe fondatamente sostenere che la “socialità” dell’impresa sociale debba trovare realizzazione, oltre che nella tipologia di attività esercitata, anche nelle peculiari forme organizzative in qualche modo tratteggiate dal legislatore.

Si tenga poi conto del fatto che, «in ogni caso», gli statuti «devono» prevedere «i casi e le modalità della partecipazione dei lavoratori e degli utenti, anche tramite loro rappresentanti, all’assemblea degli associati o dei soci» [109]. Anche per realizzare tale coinvolgimento gli statuti dovranno immaginare meccanismi particolari, che per altro sono già presenti nella disciplina delle società azionarie (si pensi agli strumenti finanziari partecipativi di cui agli articoli 2346, ultimo comma, o – per i lavoratori in specifico – 2349, ultimo comma, cod. civ.). Il discorso merita per altro ben altro approfondimento.

A chiosa delle considerazioni sopra riportate va richiamato il D.M. 7 settembre 2021 («Adozione delle linee guida per l’individuazione delle modalità di coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e degli altri soggetti direttamente interessati alle attività’ dell’impresa sociale (21A05746)») [110] con cui il Ministero del lavoro – in adempimento alle previsioni di cui all’art. 11 del d.lgs. n. 112/2017 – fornisce quelli che potremmo definire dei suggerimenti [111] per attuare il coinvolgimento all’interno dell’impresa sociale di lavoratori, utenti e beneficiari.

Le linee guida sono funzionali, secondo il ministero, a costituire «il quadro generale in materia di coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati alle attività delle imprese sociali» (§ 1, pt. 1, Allegato 1 al decreto), considerando anche il fatto che – rispetto alla previgente disciplina dell’impresa sociale – la nuova normativa avrebbe aumentato «il livello minimo di coinvolgimento dei lavoratori e degli stakeholders, in coerenza con la logica partecipativa sottostante alla governance dell’impresa sociale, che, anche a livello europeo, viene considerata una delle principali caratteristiche distintive delle organizzazioni dell’economia sociale» (§ 1, pt. 2, Allegato 1 al decreto).

Che le forme di coinvolgimento dei soggetti richiamati nella legge costituiscano elementi dell’organiz­zazione societaria è confermato dal fatto che decreto in commento valuti opportuno il trasferimento «dall’at­to costitutivo allo statuto» delle eventuali modalità per realizzare il suddetto coinvolgimento. Tale «scelta del legislatore del 2017 obbedisce a ragioni di forma e di sostanza: sotto il primo profilo, lo statuto, in quanto atto destinato a contenere le norme sull’organizzazione e sul funzionamento dell’impresa sociale, rappresenta uno strumento maggiormente appropriato ai fini della specificazione delle forme e modalità di coinvolgimento in parola rispetto all’atto costitutivo, espressione, quest’ultimo, della volontà degli associati o dei soci di dar vita ad un’impresa sociale» (ancora § 1, pt. 2).

Prima di fissare le «modalità di coinvolgimento», il decreto ha cura di precisare come esse «devono comunque garantire l’efficacia delle iniziative adottate, attraverso il contemperamento degli interessi dell’im­presa sociale con quelli dei lavoratori, degli utenti e degli eventuali stakeholders», salvi in ogni caso gli «obblighi informativi previsti dalla normativa vigente» (ad. es., quelli del datore di lavoro in tema di sicurezza, o quelli nei confronti dei consumatori).

Salvo esistano delle prassi più favorevoli, il coinvolgimento di lavoratori, utenti e terzi interessati si basa fondamentalmente su “oneri” [112] informativi e comunicativi [113]: quindi, anzitutto, un “coinvolgimento passivo”, anche se – prosegue il decreto – deve permettere «ai lavoratori, alle rappresentanze sindacali, nonché eventualmente alle rappresentanze [114] degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati alle attività (intendendosi per tali i soggetti portatori di un interesse concreto, anche diffuso, i volontari operanti nell’im­presa, gli stakeholders, i soggetti rappresentativi di interessi anche diffusi ma puntualmente individuati) – queste ultime necessariamente costituite e operanti attraverso forme individuate dai regolamenti o statuti sociali – di procedere ad un esame adeguato delle informazioni fornite e formulare, sempre con modalità individuate dai regolamenti o statuti sociali, eventuali pareri non vincolanti da fornire all’organo amministrativo» (§ 2, a)[115].

Di maggior efficacia dovrebbe essere invece la «consultazione», le cui modalità «devono essere espressamente previste dallo statuto dell’impresa sociale, oppure, ove esso ne faccia rinvio, dai regolamenti aziendali» (§ 2, b)). Essa si sostanzia non solo nell’interlocuzione con le rappresentanze die vari soggetti interessati ma anche realizzata con modalità «più estese, anche a carattere periodico (ad esempio con cadenza annuale), come quelle telematiche (consultazione on-line degli utenti)» [116]. I caratteri che il decreto attribuisce alla consultazione sono quelli della «regolarità, intesa come stabilità della stessa nel tempo, e dell’effettività, intesa come concreta idoneità (…) a promuovere la partecipazione dei lavoratori e degli utenti». Per realizzarla si indicano, quali possibili soluzioni, «la costituzione di comitati, ovvero la costituzione di assemblee speciali rappresentative dei lavoratori o degli utenti, oppure l’adozione di ulteriori procedure che, nel rispetto dei canoni (…) descritti, garantiscono il coinvolgimento attivo dei lavoratori e degli utenti» [117].

I compiti attribuiti a tali articolazioni organizzative interne, secondo il decreto, dovrebbero essere: l’espressione di «pareri sulle materie oggetto di informazione», la nomina di «un rappresentante ai fini della partecipazione all’organo assembleare dell’impresa sociale» (laddove previsto dalla legge), nonché la nomina di «un rappresentante nell’organo di amministrazione e nell’organo di controllo, qualora ricorrano i presupposti» di legge. In tali ambiti «i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti degli utenti e degli altri soggetti individuati come direttamente interessati, con riferimento alle specifiche tematiche di rispettivo interesse, dovranno poter formulare, secondo le modalità previste dagli statuti o dai regolamenti, proposte o pareri non vincolanti da far pervenire all’organo di amministrazione dell’impresa sociale» [118].

Pur non essendo vincolanti i pareri espressi, l’organo di gestione dovrà essere chiamato a «fornire adeguata motivazione, per iscritto, dell’eventuale mancata adesione ai pareri formulati» (una sorta di comply or explain interno). Su tali basi si può immaginare il sorgere di eventuali responsabilità in capo agli amministratori o facoltà di revoca motivata.

Oltre all’informazione e alla consultazione, appena descritte, il decreto prevede che gli statuti o i regolamenti debbano prevedere un terzo meccanismo, detto della «partecipazione» (§ 2, e)), vale a dire «la possibilità per i rappresentanti dei lavoratori, degli utenti e degli altri soggetti interessati, (…) almeno uno per ciascuna categoria, di prendere parte alle assemblee ordinarie e straordinarie dei soci o degli associati dell’im­presa, senza diritto di voto [119]. Gli stessi potranno, secondo le modalità previste dagli statuti o dai regolamenti, richiedere la parola nelle assemblee ordinarie; devono essere consultati in quelle straordinarie sui punti dell’ordine del giorno riguardanti le questioni» eccezionali e che incidano «notevolmente» sui diritti delle varie categorie di interessati che giustificano, secondo le previsioni della lett. c) del decreto stesso, l’obbligo di consultazione “straordinario” di cui si è detto poco sopra [120].

Le ultime previsioni del decreto (titolate «Tutela dei diritti», § 3) definiscono i compiti di monitoraggio – in capo all’organo di controllo societario – dell’effettivo rispetto delle previsioni in ordine al coinvolgimento dei vari soggetti indicati dalla legge. Non solo, sempre l’organo di controllo è chiamato a dare conto di tale attività nell’ambito del bilancio sociale (come specificato anche nel decreto ministeriale 4 luglio 2019, linee guida per la redazione del bilancio sociale, e in particolare al paragrafo 6, punti 3 e 8). Da ciò si deve evincere che sorgano particolari responsabilità in capo all’organo di controllo, tipiche solamente dell’impresa sociale [121].

Sono tuttavia fatti salvi eventuali controlli esterni, se previsti dalla legislazione di settore (ad es., Ispettorati territoriali del lavoro e altre amministrazioni pubbliche competenti, oppure soggetti deputati alla vigilanza sulle cooperative).

In chiusura, due riflessioni: anzitutto, la rilevanza di adeguati assetti organizzativi ed amministrativi è evidente. Solo una determinata conformazione di tali assetti appare idonea a rendere effettivamente “sociale” l’impresa. Non seguire le previsioni di legge e le linee guida nel confezionare tali assetti potrebbe essere fonte di responsabilità (oltre che di perdita della qualifica di “impresa sociale”). Tuttavia, chi potrebbe essere chiamato a rispondere? Non è così scontato che i responsabili siano gli amministratori: essi, nella logica codicistica generale, sono esclusivamente responsabili per la predisposizione di assetti adeguati. Ma nel caso dell’impresa sociale, i vari meccanismi di partecipazione – come visto – vanno inseriti nello statuto o in regolamenti. Nel primo caso allora la competenza (e la relativa responsabilità) parrebbe in capo ai soci, i quali dovrebbero essere vincolati nell’organizzare la loro imprese dal rispetto delle disposizioni del d.lgs. n. 112/2017 e delle linee guida ministeriali. Nel caso invece i meccanismi di partecipazione siano previsti in regolamenti, si dovrà capire quale organo societario sia chiamato a predisporre tali regolamenti (dato che il legislatore non lo precisa). Avendo natura organizzativa, potrebbe ritenersi competenza degli amministratori predisporre ed adottare i suddetti regolamenti, di tal ché si rientrerebbe in quella competenza “esclusiva” nella gestione organizzativa che, in via generale, è attribuita all’organo gestorio.

In secondo luogo, forse avrebbe potuto il nostro legislatore rendere il terzo settore, e l’impresa sociale in particolare, laboratorio per tentare l’implementazione di un modello organizzativo (previsto nel codice civile ma relativamente poco usato nelle imprese italiane lucrative): il sistema dualistico di stampo tedesco (artt. 2409-octies e ss., cod. civ.).

Proprio le particolarità che caratterizzano l’impresa sociale, la presenza di interessi esterni di cui si debba tener conto, l’utilità di una proprietà non concentrata e la conseguente necessità di maggior attenzione e monitoraggio sull’attività dei gestori, potevano suggerire al legislatore l’introduzione del modello dualistico (o comunque di meccanismi che in parte ne replichino gli elementi caratterizzanti [122]). Il consiglio di sorveglianza, titolato a nominare e revocare i gestori, a vigilare sul loro operato e a poter (eventualmente) anche esprimere indirizzi generali, nonché ad approvare il bilancio, potrebbe rivelarsi il “contenitore” entro cui far incontrare (ed anche scontrare) i diversi interessi coinvolti al fine di elaborarne una “sintesi” da tradurre poi in gestione operativa. L’assemblea verrebbe sì svuotata in buona parte delle proprie prerogative ma, laddove i diversi interessi (di soci e stakeholders) fossero adeguatamente rappresentati, a beneficio di un organo composto da soggetti chiamati a rispondere e obbligati ad agire professionalmente del loro operato.

Il modello dualistico è modello “a geometria variabile”, ampiamente strutturabile a livello statutario. L’impresa sociale potrebbe costituire banco di prova dell’efficacia dello stesso in un ambiente diverso da quello in cui è nato e si è sviluppato (il sistema tedesco), con l’opportunità di inserire forme più o meno intense di cogestione, rimaste invece escluse nella disciplina codicistica delle società lucrative ma, forse, più accettabili per una impresa “speciale” come dovrebbe essere quella “sociale”.


5. Alcune riflessioni in chiusura: il sottile filo rosso che lega società benefit, imprese sociali e CSR nell’ambito del rinnovato contesto europeo di riferimento

Può essere utile tentare in fine una sintesi dei vari aspetti sui cui si è discusso ma da una prospettiva più ampia, tale da abbracciare i diversi modelli di impresa che si sono affermati di recente o il cui sviluppo è ancora in corso.

Pare fuori discussione che il mondo dell’impresa sia scosso, oggi, nelle sue fondamenta. Si sta affermando prepotentemente l’idea che la massimizzazione del profitto non possa (e non debba) più costituire l’unico obiettivo da perseguire nella gestione.

Quella che fino a pochi anni fa rappresentava una scelta imprenditoriale volontaria e non imposta da regole giuridiche, funzionale tutto sommato ad intercettare una nuova sensibilità dei consumatori – facente leva su aspetti per così dire “reputazionali” –, vale a dire la responsabilità sociale d’impresa [123], recentemente si è evoluta nell’idea della necessaria “sostenibilità” ambientale e sociale dell’attività di ogni impresa.

Anzitutto si è dato rilievo ai c.d. fattori ESG [124] che devono essere presi in considerazione dagli investitori (istituzionali) nell’orientare le loro scelte di investimento In sostanza nel 2018, l’UE ha adottato il “Piano d’Azione per il finanziamento di una crescita sostenibile” che prevede tre obiettivi principali: orientare i capitali privati verso investimenti sostenibili; integrare la sostenibilità nella gestione dei rischi; promuovere la trasparenza sui temi ESG in una prospettiva di lungo periodo.

Per conseguire gli obiettivi del Piano, sono stati identificate dieci azioni che si vogliono tradurre nella revisione progressiva delle principali normative che disciplinano i servizi finanziari, includendo – tra gli altri – la creazione di un sistema unificato di classificazione delle attività finanziarie sostenibili sotto il profilo ESG (ambientale, sociale e di governance), la creazione di indici di riferimento per la misurazione delle performance di portafogli o di altri asset finanziari, soprattutto in merito alla capacità di ridurre le emissioni di CO2, l’inclusione dei fattori ESG nei processi di investimento, consulenza e distribuzione, con la definizione di obblighi di comunicazione più stringenti verso il mercato e verso i clienti finali.

Con riferimento a tale ultimo obiettivo è stato emanato il Regolamento UE n. 2020/852 del 18 giugno 2020, che ha introdotto la c.d. “Tassonomia delle attività finanziarie sostenibili”, con l’obiettivo di ridurre il rischio di pratiche scorrette (es. greenwashing) [125] ma soprattutto Regolamento UE 2019/2088 del 27 novembre 2019, entrato in vigore nel marzo dello scorso anno e che impone agli investitori istituzionali e ai consulenti finanziari di divulgare il loro approccio all’integrazione dei criteri ESG, secondo schemi prestabiliti, e di migliorare il livello di informazione sui prodotti finanziari.

Ancora più rilevante appare la recentissima risoluzione “Dovere di diligenza e responsabilità delle imprese. Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2021 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti la dovuta diligenza e la responsabilità delle imprese (2020/2129(INL))” con cui si propone, tra le altre cose, di adottare una direttiva specifica in tema di responsabilità sociale delle imprese.

Ciò in considerazione del fatto che “le norme volontarie in materia di dovere di diligenza” hanno “limitazioni e non [hanno] compiuto progressi significativi nella prevenzione dei danni ambientali e dei diritti umani e nell’accesso alla giustizia”; pertanto “l’Unione dovrebbe adottare con urgenza requisiti vincolanti affinché le imprese individuino, valutino, prevengano, facciano cessare, attenuino, monitorino, comunichino, contabilizzino, affrontino e correggano gli impatti negativi potenziali e/o effettivi sui diritti umani, sull’ambiente e sulla buona governance nella loro catena del valore”. Ciò “sarebbe vantaggioso per i portatori di interessi e per le imprese in termini di armonizzazione, certezza del diritto, parità di condizioni e attenuazione degli iniqui vantaggi competitivi dei paesi terzi derivanti da norme di protezione meno rigorose, nonché dal dumping sociale e ambientale nel commercio internazionale” [126].

Tale risoluzione ha trovato seguito in una proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio «relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937», del 23 febbraio 2022, n. COM(2022) 71 Def. Pur con significativi cambiamenti rispetto alla sopra richiamata raccomandazione, la proposta mira a rendere obbligatoria (quanto meno per le grandi imprese) l’adozione di meccanismi interni di risk management ambientale e sociale funzionali a prevenire (nell’intera catena di valore, ricomprendendosi in essa i fornitori, le imprese collegate, i produttori locali, e così via) il prodursi di esternalità ed impatti negativi per l’ambiente, le comunità locali e – più in generale – i diritti umani. In altre parole, le imprese di maggiori dimensioni dovranno dotarsi (sempre se questo sarà il testo finale della proposta di direttiva) di assetti adeguati a prevenire il rischio ambientale e a porvi rimedio laddove, malgrado tutto, esso si sia prodotto [127].

In questo contesto di forte cambiamento si inseriscono la disciplina italiana delle società benefit e dell’impresa sociale, rispettivamente del 2015 e del 2017, mentre recentissima è la modifica degli artt. 9 e 41 della nostra Costituzione con l’introduzione dei temi ambientali quali valori costituzionalmente garantiti e tutelati [128].

L’art. 1, commi 376 e ss. della legge 28 dicembre 2015, n. 208, introduce un modello di società che coniuga la finalità lucrativa [129] (propria dei tipi societari codicistici) con il perseguimento di uno o più «finalità di beneficio comune e [che] operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse» [130].

Pertanto, se una società “tradizionale” adotta politiche di responsabilità sociale d’impresa sulla base di una scelta strategica e volontaria dei propri amministratori, in una società benefit vi è una precisa scelta operata dai soci (quindi vincolante per gli amministratori) attraverso l’ibridazione del proprio oggetto sociale il quale dovrà indicare “specificatamente” le finalità di beneficio comune scelte, da perseguire «mediante una gestione volta al bilanciamento con l’interesse dei soci e con l’interesse di coloro sui quali l’attività sociale possa avere un impatto» [131].

Gli amministratori di una società benefit assumono precisi obblighi di gestione che si sostanziano nel dovere di amministrare «in modo da bilanciare l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi delle categorie indicate nel comma 376, conformemente a quanto previsto dallo statuto». Inoltre, «fermo quanto disposto dalla disciplina di ciascun tipo di società prevista dal codice civile», va individuato «il soggetto o i soggetti responsabili a cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle suddette finalità» [132]. Significa, in altri termini, che la società si debba dotare di assetti adeguati – tra le altre cose – alle particolari finalità perseguite attraverso l’attività d’impresa.

L’inosservanza degli obblighi «di cui al comma 380 può costituire inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge e dallo statuto. In caso di inadempimento degli obblighi di cui al comma 380, si applica quanto disposto dal codice civile in relazione a ciascun tipo di società in tema di responsabilità degli amministratori» [133].

Nella disciplina della società benefit riecheggiano parte dei principi ritenuti fondanti la responsabilità sociale d’impresa (si pensi, ad es., alla gestione responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse; al perseguimento, nell’esercizio dell’attività economica, di uno o più effetti positivi, o la riduzione degli effetti negativi, su una o più delle categorie individuate dalla legge; alla valutazione dell’impatto generato dall’attività della società benefit in termini di beneficio comune; e così via). Con la differenza che gli am­ministratori delle imprese che si qualificano “benefit” sono tenuti ad adeguare la loro gestione ad una precisa scelta dei soci che – vincolandosi statutariamente – intendono perseguire, oltre al lucro, un beneficio comune [134].

Nella disciplina dell’impresa sociale invece il perseguimento del lucro soggettivo è (non escluso ma) limitato ex lege e la prevalenza viene data alla realizzazione di attività di “interesse generale” (come ampiamente visto in precedenza).

L’imprenditore sociale dovrebbe operare non nel proprio interesse ma in quello di utenti e beneficiari di servizi ed attività con una forte connotazione di socialità. La legge non individua un “tipo” di impresa specifica ma consente l’acquisizione della qualifica “sociale” agli enti privati – non necessariamente società – che esercitano «in via stabile e principale attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro, per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, realizzate attraverso modalità di gestione responsabili e trasparenti, con il più ampio coinvolgimento di lavoratori, utenti e altri soggetti interessati alle loro attività».

Rispetto alla società benefit l’impresa sociale si caratterizza indubbiamente per le tipologie di attività (di interesse generale) [135] e per l’auspicata “ampia” partecipazione alle scelte gestionali da parte di utenti, lavoratori e terzi interessati, mentre ritorna l’idea – già presente nella disciplina della società benefit – della necessaria gestione responsabile e trasparente.

L’impresa sociale pare quindi collocarsi vicino alle attività di interesse generale svolte dallo Stato, pur permanendo nell’ambito del settore privato. D’altra parte, in ambito pubblico, l’attività d’impresa non è bandita ma risulta fortemente limitata. Se si pensa alle previsioni del Testo Unico Società Partecipate [136], guidate dai principi di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica, è chiara la volontà del legislatore di limitare il ricorso alle società pubbliche (controllate o partecipate) ai soli casi di «produzione di un servizio di interesse generale [137], ivi inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi», «progettazione e realizzazione di un’opera pubblica sulla base di un accordo di programma fra amministrazioni pubbliche», «realizzazione e gestione di un’opera pubblica ovvero organizzazione e gestione di un servizio d’interesse generale attraverso un contratto di partenariato», «autoproduzione di beni o servizi strumentali all’ente o agli enti pubblici partecipanti o allo svolgimento delle loro funzioni», nonché «servizi di committenza, ivi incluse le attività di committenza ausiliarie, apprestati a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici» [138].

Non solo, tali finalità sono perseguibili dalle pubbliche amministrazioni attraverso la forma societaria laddove l’oggetto dell’attività di produzione di beni e servizi sia «strettamente necessaria» per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali [139].

La ritirata dello Stato imprenditore viene (o dovrebbe) venir compensata dall’intervento di imprese che – seppur private – siano motivate da intenti “civici”, “solidaristici” e “di utilità sociale”: non dal lucro, o non solo dal lucro, ma attraverso un modo di operare “economico” ed imprenditoriale.

Tratteggiato – per rapidi cenni – tale quadro generale, il tema centrale della discussione resta quello del­l’effettiva realizzabilità di un modello di impresa “sociale”, a lucro limitato e con ampia partecipazione di utenti, lavoratori e terzi interessati all’attività dell’impresa stessa. Malgrado le teorie economiche ritengono che una impresa impostata su una governance c.d. “multi-stakeholder” possa funzionare ed operare, dal punto di vista dell’approfondimento giuridico molteplici sono i dubbi.

Limitandoci alla disciplina dell’impresa sociale [140] i punti maggiormente critici sono rinvenibili indubbiamente nella regolamentazione delle possibili modalità di governance. Come in precedenza evidenziato, si lascia agli statuti [141] o a regolamenti interni il compito di individuare le più idonee modalità per ottenere il coinvolgimento di utenti e terzi interessati (che, di per sé, può anche essere scelta condivisibile) ma – facendosi poi applicazione delle norme codicistiche proprie del tipo prescelto – manca la previsione di particolari meccanismi sanzionatori nei confronti dei gestori per scelte che tradiscano le finalità proprie dell’impresa sociale o – peggio – ne compromettano la stessa esistenza [142].

Forse la particolare caratterizzazione dell’impresa sociale (pur sempre impresa ma volta ad esercitare attività di interesse generale, non per fini lucrativi – perseguendo invece finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale – e operando attraverso una gestione responsabile e trasparente) avrebbe potuto portare ad individuare modalità di governance più innovative e, in qualche modo, alternative rispetto a quelle tradizionali.

Tale effetto potrebbe forse ottenersi – oltre che attraverso l’autonomia statutaria – anche con la valorizzazione del requisito di assetti adeguati (alle specificità dell’impresa sociale). Ciò potrebbe forse anche consentire ai soci di imputare responsabilità aggravate agli amministratori che tradiscano la mission loro affidata. Ma resta il problema di quali strumenti possano essere attivati da chi, esterno alla società ma beneficiario della sua attività, venga eventualmente leso nei propri diritti o aspettative [143].

Inoltre l’idea che nelle imprese sociali organizzate in forma collettiva o societaria non vi siano soci di comando e che la proprietà risulti frazionata per coinvolgere il maggior numero di interessati (secondo il modello della public company) può portare, quale conseguenza non voluta, all’attribuzione del controllo societario in capo agli stessi amministratori [144]. Ancora una volta, senza adeguati meccanismi di correzione, il risultato potrebbe rivelarsi opposto a quello voluto. Anche in questo caso si dovrebbe pertanto operare attraverso l’introduzione di particolari meccanismi statutari (o l’applicazione di istituti giuridici presenti nel codice civile [145]) che consentano di operare un controllo attento e stringente sugli indirizzi della gestione e sulle ricadute operative di essi attraverso la verifica (anche in itinere) della gestione organizzativa ed operativa degli amministratori.

D’altra parte un tema ancora più generale è quello relativo a forme di “incentivo” – in senso lato – che possano spingere un imprenditore privato a svolgere attività di interesse generale laddove la remunerazione del capitale investito risulti limitata [146]. Il filantropismo e una particolare sensibilità sociale non paiono stimolo sufficiente per un più ampio sviluppo del settore.

La leva fiscale è stata introdotta nel d.lgs. n. 112/2017 e costituisce indubbiamente un mezzo per rendere appetibile l’attività d’impresa nel sociale. Ma essa non sempre risulta un meccanismo efficiente (soprattutto nel momento in cui agevolazioni e benefici vengano meno).

Potrebbero assumere rilievo allora anche altri meccanismi quali la possibilità di partecipare ad appalti pubblici [147] nonché la possibilità di accedere a sistemi di raccolta di fondi per finanziare le attività dell’impre­sa [148].

Con riferimento al primo aspetto, si potrebbe anche ipotizzare un intervento più diretto degli enti pubblici – territoriali locali in particolare – attraverso forme di compartecipazione nella stessa impresa. Si consideri ad esempio la possibilità di dare vita ad una società (impresa sociale) “partecipata” dall’ente pubblico, in cui i soci privati detengano la maggioranza del capitale sociale [149]. Nel rispetto delle finalità di cui al Testo Unico Società Partecipate (quindi laddove l’attività di interesse generale – prevalente – che si intende porre in essere coincida con quei servizi di interesse generale che legge ammette siano realizzati nelle forme delle partecipate/controllate) la società potrebbe assumere la qualifica di impresa sociale, con una gestione manageriale (garantita dai soci privati) ed un controllo interno sulla universalità e qualità del servizio posto in essere dal socio pubblico (attraverso gli opportuni meccanismi statutari). In tal modo l’ente pubblico socio si potrebbe fare garante delle istanze e interessi dei beneficiari ed utenti del servizio, investendo risorse e controllandone l’uso, lasciando ai soci privati la remunerazione del loro capitale investito (ricordiamo come non più della metà dell’utile prodotto possa essere distribuito, quota che potrebbe essere destinata beneficio dei soli soci privati – ancora una volta attraverso appositi accorgimenti statutari) [150].

Per quanto riguarda l’altro aspetto (le forme di finanziamento), esso pare significativo soprattutto laddove si possa ricostruire l’impresa sociale come proposto nel precedente capitolo: con le piattaforme di crowfunding si richiede il finanziamento di un “progetto” e la sua realizzazione nei termini resi pubblici vincola l’im­presa (e per essa, gli amministratori della società). In altre parole, come la finanza etica e la considerazione dei fattori ESG sono in grado di orientare le scelte gestorie delle imprese che a tali forme di finanziamento accedono, lo stesso potrebbe avvenire nel caso delle imprese sociali. Essere “virtuosi” e rispettosi della mission aziendale intrapresa consente di ottenere finanziamenti per il sostegno dell’iniziativa imprenditoriale.

In ogni caso, al di là della possibile occasione persa da parte del legislatore di dar vita ad una nuova “forma” d’impresa, solo gli anni a venire ci diranno se le imprese sociali potranno costituire la spina dorsale di una nuova economia, più sociale e sostenibile (per vocazione o per necessità). Per ora, tuttavia, la stragrande maggioranza delle imprese sociali attualmente censite è costituita da (preesistenti) cooperative sociali mentre la forma della società lucrativa è ancora lontana dal divenire tipo rilevante all’interno del terzo settore: questa potrebbe essere la vera sfida per il futuro.


NOTE

[1] Si veda l’art. 19, titolato «Abrogazioni». Oggi tutti i riferimenti al d.lgs. n. 155/2006 devono intendersi riferiti al nuovo d.lgs. n. 112/2017.

[2] Seppur nel titolo del provvedimento si parla di “revisione”, il legislatore del 2017 riscrive quasi del tutto la disciplina dell’impresa sociale. Pertanto, più che di revisione, sarebbe corretto parlare di integrale “riformulazione”.

[3] Nella sostanza si deroga – nei modi che si avrà occasione di descrivere brevemente in seguito – al divieto assoluto di remunerazione del capitale investito (nel caso in cui l’impresa sociale abbia la forma organizzativa propria delle società lucrative); si introducono alcune agevolazioni fiscali; si interviene sulla governance interna al fine di realizzare il coinvolgimento di lavoratori, beneficiari, utenti ed altri soggetti interessati all’attività dell’impresa (in forme diversificate da individuare negli statuti o nei regolamenti aziendali).

[4] Come chiaramente detto nel comma 5 dell’art. 1, del d.lgs. n. 112/2017, “alle imprese sociali si applicano, in quanto compatibili con le disposizioni del presente decreto, le norme del codice del Terzo settore di cui all’art. 1, comma 2, lett. b), della l. 6 giugno 2016, n. 106”.

[5] Si noti come, nello stesso codice del Terzo settore vi sono disposizioni espressamente dichiarate non applicabili alle imprese sociali (si veda, ad es., l’art. 71). Mentre l’art. 40 (rubricato «Rinvio»), facente parte del Titolo V («Di particolari categorie di enti del terzo settore»), Capo IV («Delle imprese sociali»), richiama la disciplina del d.lgs. n. 112/2017).

[6] Esplicito in tal senso, ancora una volta, l’art. 1, comma 5, d.lgs. n. 112 («in mancanza e per gli aspetti non disciplinati [si applicano alle imprese sociali], le norme del codice civile e le relative disposizioni di attuazione concernenti la forma giuridica in cui l’im­presa sociale è costituita»).

[7] COM(2011) 682 def., del 25 ottobre 2011.

[8] D’altra parte nel 2011 la Commissione, con la Comunicazione «Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese», COM(2011) 681 def., del 25 ottobre 2011 ha impresso un’accelerazione anche alle politiche di responsabilità sociale d’impresa, con un sincronismo non certo casuale.

[9] Pare significativo che la Comunicazione del 2011 riconosca come «un’impresa sociale è un attore dell’economia sociale il cui principale obiettivo non è generare utili per i suoi proprietari o azionisti, ma esercitare un impatto sociale. Essa opera sul mercato producendo beni e servizi in modo imprenditoriale e innovativo e destinando i propri utili principalmente alla realizzazione di obiettivi sociali. È gestita in modo responsabile e trasparente, in particolare coinvolgendo dipendenti, clienti e altri soggetti interessati dalle sue attività commerciali» (p.to 1, p. 2).

[10] Titolato «Disciplina dell’impresa sociale, a norma della l. 13 giugno 2005, n. 118», oggi abrogato.

[11] In nessun caso potevano assumere la qualifica di impresa sociale le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (vale a dire «tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni ... e le Agenzie di cui al d.lgs.30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI»), nonché le organizzazioni i cui atti costitutivi avessero limitato, anche indirettamente, l’erogazione di beni e servizi in favore dei soli soci (cooperative?), associati o «partecipi».

Gli «enti ecclesiastici» e gli «enti delle confessioni religiose» aventi patti, accordi o intese con lo Stato erano soggetti alla disciplina dell’impresa sociale solamente se avessero esercitato una delle attività di “utilità sociale” elencate nell’art. 2 e, in ogni caso, qualora adottassero (nello svolgimento di tali attività) un regolamento che recepisse le norme del decreto legislativo.

[12] Come noto, ex art. 2082, è imprenditore «chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi». Quando l’imprenditore è “collettivo”, i soci conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili (art. 2247 cod. civ.).

Secondo le previsioni dell’art 1, comma 1, d.lgs. n. 155/2006 era “impresa” sociale l’organizzazione privata che, in via stabile e principale, esercitava un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale.

Il requisito della professionalità (intesa come attività stabile e non occasionale, quindi nella sostanza attività principale), elemento caratterizzante ogni imprenditore, è tradotto con i termini (“in via stabile e principale”) che sono normalmente utilizzati per esplicitare il concetto stesso secondo l’insegnamento, ad es., di Galgano (in tal senso si veda, ad es., R. Costi, La nozione di impresa sociale nella legge delega, in Impr. soc., 2005, 74). Tradizionalmente l’opinione maggioritaria faceva rientrare sempre nella professionalità anche il requisito (ritenuto essenziale per ogni imprenditore, per essere tale) dello scopo di lucro. L’attività esercitata a fini liberali non era considerata “professionale”, e quindi non era impresa (salvo poi specificarsi che è professionale – quindi impresa – quella attività che, a prescindere dagli scopi soggettivi di chi la esercita, sia astrattamente in grado di produrre un lucro). A questo punto, per l’impresa sociale, omettere ogni riferimento alla professionalità e richiamare solamente i requisiti della “stabilità” e “principalità” è funzionale all’individuazione delle finalità altruistica e non lucrativa (egoistica) dell’attività dell’impresa sociale (che è, pertanto, una forma speciale di impresa).

L’organizzazione è elemento essenziale (ed il richiamo espresso ad essa è forse superfluo) in quanto l’impresa sociale poteva essere solamente una “organizzazione” (oggi, un ente che, in quanto tale, necessariamente deve avere una organizzazione alla propria base, a differenza dell’imprenditore individuale).

Vi era infine il richiamo anche al requisito dell’economicità, tradizionalmente inteso come copertura dei costi con le entrate derivanti dalla cessione dei beni o servizi prodotti.

[13] Quale sia un’attività di impresa di interesse generale viene descritto nel successivo art. 2 del d.lgs. n. 112/2017, su cui torneremo subito.

[14] Dal che si dovrebbe poter dedurre, argomentando a contrario, che ci sono anche attività di interesse generale esercitate dai privati per uno scopo di lucro e non per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.

[15] Come si vedrà subito appresso, di questo cambiamento di prospettiva vi è logica conseguenza nell’elencazione di cui all’art. 2, in cui non si fa più riferimento a tipi di beni o servizi di utilità sociale (come nel previgente art. 2, d.lgs. n. 155/2006) ma a tipi di “oggetto” dell’attività d’impresa (che, proprio per ciò, si possono considerare di interesse generale).

[16] L’art. 12 del d.lgs. n. 155/2006 trattava del coinvolgimento dei lavoratori e “dei destinatari delle attività” spiegando, nel comma 2, che cosa si intendesse per “coinvolgimento”.

[17] Una parte di tali informazioni troveranno spazio nel bilancio sociale. È immaginabile poi che il bilancio “ordinario” ed i documenti che lo accompagnano (relazione degli amministratori, valutazioni dell’organo di controllo o, laddove presente, del revisore esterno) dovranno essere redatti con la massima chiarezza ed esaustività.

[18] Può essere interessante un richiamo alla disciplina delle società benefit, introdotte nel nostro ordinamento dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi 376 ss. Si tratta di società ordinarie (secondo i tipi codicistici, di persone, capitali ed anche cooperative) che, statutariamente, affiancano allo scopo di lucro tipico anche il perseguimento di un “beneficio comune”. Tali società sono chiamate ad operare «in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse» (così l’art. 1, comma 376, l. n. 208/2015).

Non può peraltro essere omesso un riferimento al nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza (introdotto con il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e poi modificato inizialmente dal d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 – c.d. «decreto correttivo», e poi ulteriormente più volte modificato, da ultimo dal decreto insolvency approvato dal Consiglio dei ministri del 15 giugno 2022). L’idea di una gestione “responsabile” e “prudente” pervade la nuova disciplina concorsuale al punto che, con norma entrata immediatamente in vigore (a differenza della maggior parte delle altre disposizioni la cui efficacia è stata più volte posticipata ed è – ad oggi almeno – prevista per la metà di luglio 2022), si è proceduto a modificare l’art. 2086 cod. civ. con l’introduzione di un nuovo secondo comma.

Esso prevede che «l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

La rilevanza di assetti adeguati diviene quindi centrale nella gestione (almeno organizzativa) di ogni società (o ente collettivo che esercita un’attività d’impresa). Tali assetti sono funzionali a consentire, tra le altre cose, di verificare la permanenza della “continuità aziendale” e l’insorgere di eventuali sintomi di crisi. La rilevazione precoce di questi ultimi (possibile, nell’intento del legislatore, anche grazie ai c.d. meccanismi di allerta previsti negli artt. 25-octies, 25-novies e 25-decies del Codice della Crisi e dell’Insolvenza) dovrebbe consentire di porre rimedio tempestivo alle situazioni – fisiologiche – di possibile crisi. In definitiva, assetti e meccanismi di allerta dovrebbero consentire di realizzare una gestione, se non prudente, quanto meno responsabile, in grado di non disperdere risorse e – in definitiva – di riverberare effetti positivi sull’intero mercato (prevenendo, nel limite del possibile, crisi irreversibili che, oltre a danneggiare i creditori e i soci della singola società, possono avere ripercussioni sull’intero sistema economico).

A mio avviso la gestione responsabile prefigurata nella disciplina dell’impresa sociale può considerarsi un antecedente logico delle forme di gestione (organizzativa ed operativa) che oggi suggerisce la disciplina codicistica e del Codice della Crisi.

La domanda che ci si deve porre è se, data la natura dell’attività e gli interessi (dei potenziali beneficiari) che gravitano attorno alle imprese sociali non richiedano una gestione “maggiormente” responsabile rispetto a quella oggi imposta alle imprese lucrative.

[19] Di assetti adeguati si parla con riferimento all’organo di controllo, nell’art. 10 (richiamando le note regole di procedimentalizzazione introdotte nelle società per azioni dalla riforma del 2003 e perfezionate con le novità introdotte dal Codice della Crisi e del­l’Insolvenza richiamate nella nota precedente).

[20] La legge del 2006 parlava di “organizzazioni”, oggi di “enti” (a mio avviso più correttamente).

[21] Accanto all’impossibilità per una società unipersonale con socio unico persona fisica di acquisire la qualifica di impresa sociale (scelta su cui potrebbe comunque sollevarsi qualche dubbio), la stessa, le amministrazioni pubbliche e «gli enti con scopo di lucro» (la terminologia lascia forse un po’ a desiderare ma il senso pare chiaro: un soggetto giuridico, che svolge attività d’impresa lucrativa) non possono esercitare «attività di direzione e coordinamento o detenere, in qualsiasi forma, anche analoga, congiunta o indiretta, il controllo di un’impresa sociale ai sensi dell’art. 2359 del codice civile» (così l’art. 4, comma 4, d.lgs. n. 112/2017). Su quest’ultimo aspetto, sorgono un paio di questioni: a cosa sia riferito il termine “analogo”? Si vuol fare riferimento al “controllo analogo” (tipico delle società in-house) oppure lo si utilizza in senso atecnico di “similare”? Il tema meriterebbe maggiore approfondimento ma una società a partecipazione pubblica (anche a controllo pubblico, quindi pure una società in-house) senza controllarla, potrà indubbiamente partecipare ad una impresa (societaria) sociale (in tal senso A. Fici., L’impresa sociale: fattispecie normativa ed ipotesi applicative, in https://biblioteca.fondazionenotariato.it/art/impresa-sociale-fattispecie-normativa-ed-ipotesi-applicative.html: «l’impresa sociale potrebbe innanzitutto essere utilizzata dalle pubbliche amministrazioni per realizzare forme innovative di welfare in partnership con enti privati del Terzo settore. Una di queste potrebbe essere la creazione di società miste pubblico-privato con la qualifica di “impresa sociale”, cui affidare la gestione di servizi sociali. Simile scelta potrebbe interessare tanto le amministrazioni comunali quanto le aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP) sorte per effetto di trasformazione delle IPAB. La legge, infatti, impedisce sì alle amministrazioni pubbliche di assumere la qualifica di impresa sociale (art. 1, comma 2) e di controllare un’impresa sociale (art. 4, comma 3), ma non impedisce loro di partecipare ad un’impresa sociale. Nella misura in cui, pertanto, si rispetti la disciplina sulle società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175 del 2016), l’ente pubblico interessato potrebbe immaginare di affidare la gestione dei servizi sociali a società imprese sociali che abbia contribuito esso stesso a costituire assieme ad uno o più soci privati selezionati secondo la normativa vigente. Questa società mista, per poter assumere la qualifica di impresa sociale, dovrebbe ovviamente non essere controllata dal socio pubblico, bensì dal socio privato, che a sua volta potrebbe essere un ente senza scopo di lucro, un ente con scopo mutualistico oppure un ente del Terzo settore (inclusa una impresa sociale o una cooperativa sociale), ma non già un ente con scopo di lucro, perché a quest’ultimo il controllo di un’impresa sociale è impedito dall’art. 4, comma 3».

In secondo luogo, dalla lettura complessiva dell’art. 4 (nonché delle norme codicistiche in materia) pare che una persona fisica (a questo punto anche un imprenditore) possa svolgere attività di direzione e coordinamento di un’impresa sociale. Sfugge allora il divieto per la società a socio unico quando quest’ultimo sia persona fisica.

[22] Quest’ultima previsione, che fa riferimento a forme di associazionismo “egoistico” o alla cooperazione, va letta congiuntamente alla previsione di cui al comma 4 del medesimo articolo 1, che prevede che cooperative sociali e loro consorzi «acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali», nonché con quanto previsto nell’art. 11, comma 5, che dichiara non applicabile l’art 11 alle «imprese sociali costituite nella forma di società cooperativa a mutualità prevalente» (di fatto in qualche modo rendendo esplicito come la restante normativa valga anche per queste ultime, se assumono la qualifica di impresa sociale).

[23] Art. 1, comma 7, d.lgs. n. 112/2017.

Per quanto riguarda gli “enti religiosi civilmente riconosciuti” si ribadisce – nella sostanza – la previsione di cui al vecchio art. 1, d.lgs. n. 155/2006.

[24] Premesso quanto detto poco sopra, in nota 21, che una società mista, pubblico-privata, possa assumere la qualifica di impresa sociale lo si può ricavare dall’art. 1, comma 6, d.lgs. n. 112/2017, a mente del quale «le disposizioni del presente decreto si applicano in quanto compatibili con il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175» (Testo Unico delle società a partecipazione pubblica). Data l’ampiezza delle attività di interesse generale che possono essere esercitate da un’impresa sociale non è da escludere che quest’ultima possa essere anche società mista, a patto che: a) l’attività da svolgere sia compatibile con le finalità di interesse pubblico che devono presiedere alla costituzione di una società “pubblica” (ex art. 4, d.lgs. n. 175/2016); b) che l’impresa sociale non risulti controllata da uno degli enti pubblici di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 o da enti con scopo di lucro (il dubbio è se, tra questi ultimi, si possano annoverare gli enti pubblici economici: in caso di risposta positiva un ente pubblico economico non potrà essere socio di controllo di una impresa sociale; in ogni caso, non potrà esso stesso qualificarsi impresa sociale laddove sia – come normalmente avviene – controllato da un ente pubblico non economico). Le società a controllo pubblico (e, probabilmente le società in-house) potranno partecipare ad un’impresa sociale (con soci privati) senza poterne esercitare però il controllo (poiché lo stesso sarebbe, indirettamente, un controllo esercitato dall’ente pubblico “proprietario” della società pubblica).

[25] Si tenga presente che l’impresa sociale è comunque inserita tra gli enti del terzo settore e soggiace, quando compatibili e quando non sia espressamente escluso dalle norme stesse, alle previsioni del Codice del Terzo settore. L’art. 4 del Codice elenca le tipologie “enti” del terzo settore. Non possono essere tali (al di là degli enti espressamente esclusi dal comma 2) tutte quelle organizzazioni che perseguano uno scopo di lucro. Solo acquisendo la qualifica di impresa sociale l’ente privato che, perseguendo finalità “civiche, solidaristiche e di utilità sociale”, svolga un’attività di produzione o scambio di beni e servizi potrà perseguire un “lucro limitato” (nei termini che illustreremo tra breve). In tal modo, le società lucrative “sociali” diventano enti del terzo settore; le cooperative sociali sono enti del terzo settore (acquisendo di diritto la qualifica di impresa sociale); le associazioni e fondazioni possono essere enti del terzo settore (se non perseguono obiettivi egoistici) oppure imprese sociali (in tal modo possono svolgere un’attività d’impresa). Il fatto che un ente a finalità ideali possa anche svolgere un’attività d’impresa per il raggiungimento dei suddetti fini, anche al di fuori del terzo settore, è ormai un dato acquisito (in tal senso la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza di legittimità) che trova conferma proprio nella nuova disciplina contenuta nel Codice del terzo settore. Numerosi sono infatti i riferimenti ad enti (del terzo settore) che «esercitano la propria attività (...) in forma di impresa commerciale» (ad es. artt. 11 e 13 del Codice; oppure, a contrario, gli artt. 77 e 79 del Codice dove si disciplinano aspetti relativi ad enti «non commerciali» o che svolgono «attività non commerciale») e che non sono “imprese sociali”.

Infine, possiamo domandarci se un ente non societario (quindi, fondamentalmente, una associazione – riconosciuta e non – e una fondazione) possa dar vita ad un’impresa sociale pur non essendo esso un “ente del terzo settore”. Se la risposta fosse positiva (e, in base ad una prima superficiale analisi, potrebbe esserlo) ci troveremo ad avere imprese sociali che sono regolamentate dalla disciplina organizzativa di associazioni e fondazioni di cui al Codice del Terzo settore ed altre che invece vengono regolamentate dalla disciplina codicistica di riferimento. Ciò può comportare delle notevoli differenze (pur non potendo approfondire le novità introdotte dal Codice del Terzo settore in tema di associazioni e fondazioni “del terzo settore”, queste si avvicinano molto ad una regolamentazione della governance che è propria delle società).

Un’ultima annotazione riferita alle ONLUS: possono assumere la qualifica di “impresa sociale”? Dalla lettura congiunta delle previsioni di cui all’art. 89, comma 7, e 82, comma 1, del Codice del Terso settore, parrebbe evincersi che la disciplina normativa delle ONLUS (avente ad oggetto fondamentalmente agevolazioni di natura fiscale) sia applicabile agli enti del terzo settore, “comprese le cooperative sociali ed escluse le imprese sociali costituite in forma di società”. Quindi, detto altrimenti, una impresa sociale non avente la forma societaria potrà vedersi applicata la disciplina propria delle ONLUS (in quanto compatibile).

[26] Non casualmente il termine è rinvenibile anche nell’art. 118 Cost. («Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà»).

[27] Precisa la norma, «se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l’esercizio». A significare che, in ogni caso, l’impresa sociale che operi in uno dei settori elencati e svolga una delle particolari attività indicate dovrà comunque rispettare le specifiche discipline di settore.

[28] «Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate».

[29] «Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare».

[30] Aggiunto, nella lett. a), alla voce servizi sociali.

[31] Aggiunto, nella lett. d), delle attività educative.

[32] Si tratta della ri-definizione (ed ampliamento) della lett. e), relativa alla tutela dell’ambiente. Si può ritenere che l’impresa sociale possa pertanto avere un ruolo importante nella c.d. “circular economy” e nella sua implementazione, che costituisce uno dei più importanti obiettivi che si pone di raggiungere nei prossimi anni l’Unione Europea.

[33] In esse la norma ricomprende attività editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato.

[34] Di cui all’art. 16, comma 5, l. 6 agosto 1990, n. 223 (riferito alla radiodiffusione sonora caratterizzata dall’assenza dello scopo di lucro ed esercitata da fondazioni, associazioni riconosciute e non riconosciute che siano espressione di particolari istanze culturali, etniche, politiche e religiose, nonché società cooperative costituite ai sensi dell’articolo 2511 del Codice civile, che abbiano per oggetto sociale la realizzazione di un servizio di radiodiffusione sonora a carattere culturale, etnico, politico e religioso, e che prevedano nello statuto le clausole di cui alle lettere a), b), e c), dell’articolo 26 del d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, ratificato, con modificazioni, della l. 2 aprile 1951, n. 302).

[35] Viene meno il previgente richiamo al “turismo sociale” di cui all’art. 7, comma 10, l. n. 135/2001, realizzandosi di fatto un ampliamento della categoria di attività ammesse.

[36] Si amplia in tal senso la previsione della precedente lettera omologa, relativa alla formazione extrascolastica.

[37] Il legislatore si preoccupa di definire che cosa si intenda per commercio equo e solidale.

[38] Potrebbe essere interessante approfondire come si coordini questa previsione con quella, relativa alle agevolazioni di natura fiscale, di cui all’art 82, commi 4 e 6, del Codice del Terzo settore (che, in parte, non paiono applicabili alle imprese sociali).

[39] Per tale intendendosi quella definita nell’art. 2 della l. 18 agosto 2015, n. 141. Si noti, senza poter approfondire altre questioni, come l’imprenditore agricolo sociale (di cui alla legge appena citata) non si sovrappone e confonde con l’impresa sociale in campo agricolo, se non altro per il fatto che il primo è imprenditore vero e proprio (ex art. 2135 cod. civ.) che, in via di connessione (art. 1, comma 3, della legge) svolge “anche” una attività di natura sociale (quelle indicate nel comma 1). Proprio per tale ragione l’imprenditore agricolo sociale può anche essere persona fisica. In tema si rinvia a G. Riolfo, L’impresa agricola “sociale” e l’impresa sociale “in agricoltura”: analogie e punti di contatto tra due fattispecie sostanzialmente diverse, in Dir. agr., 1/2019, 39 ss.

[40] Si vedano anche le previsioni di cui al comma 3, dell’art. 71, Codice del Terzo settore.

[41] Anche il Codice del Terzo settore contiene una elencazione delle “attività di interesse generale” che possono essere esercitate dagli enti del terzo settore, «diversi dalle imprese sociali incluse le cooperative sociali». La maggior parte delle attività sono esattamente le stesse (manca il microcredito mentre vi sono ulteriori attività non presenti nella disciplina dell’impresa sociale: si veda l’art. 5, comma 1, lett. da u) a y)).

[42] La dottrina economica da anni sostiene come il terzo settore, e l’impresa sociale in particolare, in un futuro non troppo lontano dovrebbe essere destinata a sostituirsi allo Stato nella produzione o scambio di beni di natura sociale. Di qui l’importanza fondamentale del compiuto sviluppo di questa tipologia di impresa.

[43] Da intendersi come non occasionalità dell’attività esercitata (che, nella definizione di imprenditore, rientra nel requisito della professionalità).

[44] Si tratta, appunto, del d.m. 22 giugno 2021, «Computo dei ricavi dell’impresa sociale in attuazione dell’articolo 2, comma 3, del d.lgs.3 luglio 2017, n. 112. (21A05117)», pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 203 del 25 agosto 2021.

In particolare, l’art. 2 stabilisce: «Ai fini del computo della percentuale di cui all’art. 2, comma 3, del d.lgs.3 luglio 2017, n. 112, sono considerati al numeratore del rapporto, per ciascun anno di esercizio, esclusivamente i ricavi direttamente generati dal complesso delle attività d’impresa di interesse generale, come definite dall’art. 2, comma 1, del medesimo d.lgs.3 luglio 2017, n. 112. Ai fini del computo della percentuale di cui al comma 1, non sono considerati né al numeratore né al denominatore del rapporto i ricavi relativi a: a) proventi da rendite finanziarie o immobiliari; b) plusvalenze di tipo finanziario o patrimoniale; c) sopravvenienze attive; d) contratti o convenzioni con società’ o enti controllati dall’impresa sociale o controllanti la medesima. Nell’ipotesi in cui i ricavi non risultino chiaramente attribuibili alle attività d’impresa di interesse generale ovvero alle attività da queste diverse, l’attribuzione degli importi è effettuata in base alla media annua del numero di lavoratori impiegati in ciascuna delle due categorie di attività, calcolati per teste».

[45] Si vedano alcuni riferimenti, per es., in R. Mendola, Commento all’art. 2, in Commentario al decreto sull’impresa sociale, a cura di A. Fici, D. Galletti, Giappichelli, Torino, 2007, 36; nonché D. Galletti, Commento all’art. 1, ivi, 5 ss.

[46] Secondo la formulazione dell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 112/2017.

[47] Questa disposizione dimostra come i concetti di “attività d’impresa di interesse generale” e di “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” siano diversi e non necessariamente sovrapponibili. Nel caso di specie abbiamo un’attività che non è di interesse generale (perché non rientra nell’elencazione della legge) ma che viene però esercitata per una delle finalità dette. La vera questione è: al di là di espresse previsioni normative, possiamo avere un’impresa sociale in cui manchi uno dei due caratteri (cioè l’interesse generale o le finalità “sociali”)? Nell’ambito di una delle attività di interesse generale potrebbe operare anche un’impresa che sociale non è (non perseguendo una delle finalità sociali indicate ma il lucro), che lo dovrà poter fare in regime di concorrenza con le imprese sociali vere e proprie. D’altra parte, nessuno impedisce ad una impresa che abbia finalità “sociali” di operare in un settore non qualificato (dalla legge) come di interesse generale e di farlo non per perseguire un lucro. Ma se tale argomentare fosse corretto dovremmo concludere che impresa sociale (in senso proprio) è solo quella in cui entrambi i requisiti sono presenti.

Un’altra eccezione, prevista però dal legislatore, potrebbe essere costituita dalle attività di cui alla lett. m), dell’art. 2: riprendendo la previsione già vigente si considerano di interesse generale i «servizi strumentali alle imprese sociali o ad altri enti del terzo settore». Tali servizi, a mio avviso, non necessariamente devono essere svolti per finalità “sociali”, potendo essere posti in essere per meri fini di lucro. Probabilmente per evitare ciò il legislatore richiede allora che tali servizi siano «resi da enti composti in misura non inferiore al settanta per cento da imprese sociali o da altri enti del terzo settore».

[48] Così il comma 4 dell’art. 1. Il comma 5 specifica poi come al fine del computo dei lavoratori di cui al comma 4 il numero delle persone assunte, rientranti nelle dette categorie, non possa essere «inferiore al trenta per cento dei lavoratori» complessivamente impiegati. Nella specie poi si specifica ancora come i lavoratori «molto svantaggiati» (come descritti nell’art. 2, n. 99), Reg. UE n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014) non possano “contare” per più di un terzo e «per più di ventiquattro mesi dal­l’assunzione» (quest’ultimo inciso è stato aggiunto dall’art. 2 del d.lgs. 20 luglio 2018, n. 95, Disposizioni integrative e correttive del d.lgs.3 luglio 2017, n. 112, recante revisione della disciplina in materia di impresa sociale, ai sensi dell’articolo 1, comma 7, della l. 6 giugno 2016, n. 106).

La situazione di questi lavoratori “deve essere attestata” secondo quanto previsto dalla normativa vigente.

[49] Oltre a quanto già osservato in una precedente nota, si deve considerare come il Codice degli Appalti (d.lgs. n. 50/2016) preveda una sezione speciale per l’affidamento di appalti nei settori c.d. “speciali” (si tratta del Titolo VI, Capo I, Sezione IV, Capo II – servizi sociali – e Capo III – settore dei beni culturali). Ciò evidenzia come si tratti di settori in cui l’evidenza pubblica è necessaria, a tutela della concorrenza. Inoltre, pur non essendo questa la sede per poter approfondire la tematica, è possibile che la PA possa riservare il diritto di partecipare a procedure di aggiudicazione di particolari servizi sanitari, sociali e culturali (ivi compresi i servizi sportivi) a organizzazioni che abbiano «come obiettivo statutario il perseguimento di una missione di servizio pubblico legata alla prestazione» di detti servizi; i cui profitti siano «reinvestiti al fine di conseguire l’obiettivo dell’organizzazione. Se i profitti sono distribuiti o redistribuiti, ciò dovrebbe basarsi su considerazioni partecipative»; «le strutture di gestione o proprietà dell’organizzazione» devono basarsi «su principi di azionariato dei dipendenti o partecipativi, ovvero richiedono la partecipazione attiva di dipendenti, utenti o soggetti interessati» (art. 143, commi 1 e 2, Codice Appalti). Pare abbastanza esplicito il riferimento all’impresa sociale (o quanto meno ad enti del terzo settore).

[50] Categoria non presente nel previgente art. 3, comma 2, d.lgs. n. 155/2006, ma ricavabile comunque dalla categoria dei “soci”. Certo oggi la previsione chiarisce meglio l’ambito soggettivo del divieto.

[51] Tali previsioni trovano corrispondenza nel disposto dell’art. 8, comma 2, Codice del Terzo settore.

Si noti che l’art. 3 del d.lgs. n. 95/2018 (il Correttivo richiamato nelle note precedenti) ha aggiunto un comma 2-bis all’art. del d.lgs. n. 112/2017 a mente del quale «Ai fini di cui ai commi 1 e 2, non si considera distribuzione, neanche indiretta, di utili ed avanzi di gestione la ripartizione ai soci di ristorni correlati ad attività di interesse generale di cui all’articolo 2, effettuata ai sensi dell’art. 2545-sexies del codice civile e nel rispetto di condizioni e limiti stabiliti dalla legge o dallo statuto, da imprese sociali costituite in forma di società cooperativa, a condizione che lo statuto o l’atto costitutivo indichi i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e alla qualità degli scambi mutualistici e che si registri un avanzo della gestione mutualistica».

[52] Ad essere sinceri sfugge, salvo più approfondite riflessioni, a cosa possa riferirsi il legislatore quando parla di «capitale rivalutato». Come si dirà appresso nel testo, la quota di utile o di avanzo di gestione per così dire “disponibile”, se non viene distribuita, può essere utilizzata per un aumento gratuito di capitale. Il che non pare costituire una “rivalutazione”, che tecnicamente costituisce cosa ben diversa (in materia di società di capitali si ammette la rivalutazione di alcuni asset aziendali ed il maggior valore dichiarato a bilancio consente di costituire una “riserva di rivalutazione”, disponibile, a cui eventualmente poter ricorrere per copertura di perdite o per aumentare il capitale gratuitamente).

[53] Rispetto a quanto avviene, ad esempio, nelle cooperative (art. 2535 cod. civ.) il socio non pare aver diritto alla restituzione di eventuali altre somme versate (come il sovraprezzo).

[54] A prima vista la precisazione secondo cui si devono detrarre, dalla quota di utili o avanzi di gestione, le perdite pregresse pare avere poco senso. La disciplina codicistica delle società (almeno per quelle di capitali) pare chiara nell’imporre ai redattori del bilancio di indicare (nello stato patrimoniale, alla voce “passivo”, lett. A), art. 2424, comma 2, cod. civ.) utili o perdite “portati a nuovo”. Vale a dire che l’utile ci sarà nel momento in cui l’attivo è positivo, quindi il passivo (in cui, tra le altre poste, figurano appunto le perdite degli esercizi precedenti non coperte) è inferiore. Se poi si volesse affermare che le perdite (degli esercizi precedenti) sono quelle che hanno ridotto il capitale, non si potrebbe nemmeno procedere ad una distribuzione di utili (art. 2433, comma 3, cod. civ.).

Vero è che l’impresa sociale potrebbe essere una società di persone: in questo caso la disciplina appare meno stringente, anche se permane il divieto di distribuzione per utili che non siano stati effettivamente conseguiti o se vi siano perdite che intaccano il capitale sociale (art. 2303, cod. civ.; a contrario, rispetto a quanto previsto nell’art. 2321 cod. civ., si può ritenere che il socio che ha percepito utili non effettivamente prodotti debba restituirli).

Qualunque sia la forma organizzativa dell’impresa sociale (quindi anche ente non societario), l’art. 9 del d.lgs. n. 112/2017 impone la redazione del bilancio secondo le previsioni di cui all’art. 2423 ss. cod. civ.

[55] Si dovrebbe dedurre che, qualora il capitale sociale non sia ancora stato interamente versato, non possa procedersi ad aumento. Regola per altro già vigente per le società per azioni (art. 2438 cod. civ.) e che, nell’impresa sociale che adotti la forma societaria, pare diventare regola generale.

[56] Ad una prima analisi il meccanismo pare abbastanza macchinoso.

[57] Oppure alla partecipazione ad utili e perdite come stabilita nell’atto costitutivo (per le società di persone). Senza contare che nelle società per azioni sarà possibile creare particolari categorie di azioni (a cui possano essere legati, in maniera diversa rispetto alle azioni ordinarie, i diritti patrimoniali: art. 2348 ss., cod. civ.) oppure, nella società a responsabilità limitata, diritti particolari per alcuni soci riguardanti la distribuzione degli utili (ex art. 2468, comma 3, cod. civ.).

[58] Risulta poco chiaro perché si ripeta la prima parte del comma 3, lett. a): salvo che per il valore di riferimento (interesse massimo dei buoni fruttiferi postali, aumentato di due punti e mezzo), l’operazione è esattamente la stessa (utilizzo di utili o avanzi di gestione per emettere nuove azioni o quote da assegnare proporzionalmente ai già soci).

[59] Considerata tale dalla legge anche se concretamente si aumenta gratuitamente il capitale o si attribuiscono strumenti finanziari.

[60] Non solo sarà possibile perseguire una o più delle finalità di interesse generale, espressamente indicate nell’oggetto sociale della società, ma altresì altri progetti “di utilità sociale”, di volta in volta individuati e ritenuti meritevoli, sulla base di una scelta discrezionale (anche se la legge non indica chi possa operare tale scelta: i soci? Gli amministratori? La prima opzione potrebbe avere più senso, trattandosi comunque di impiego di una quota di utili).

[61] Si dovrebbe approfondire il senso che il termine “individuali” può avere nel contesto della disposizione (tendenzialmente le voci di compenso per amministratori, sindaci, dirigenti e simili, sono sempre individuali). Vuole forse dirci il legislatore che non rientrano in tale previsione altre possibili forme di remunerazione, magari variabili e legate all’andamento della società? Ma la domanda che dovremmo porci è se tali altre forme di compenso (normalmente presenti nelle società di grandi dimensioni) siano da ritenere ammissibili in questa sede.

[62] Il “vecchio” articolo 3 prevedeva che fosse distribuzione indiretta di utili corrispondere agli amministratori (nessun riferimento vi era ad «altre» cariche sociali o alla partecipazione ad altri organi) compensi maggiori rispetto a quelli percepiti da amministratori di aziende operanti negli stessi settori e alle stesse condizioni, o in settori o condizioni analoghe. L’unica deroga era costituita dalla necessità (comprovata, quindi giustificata e motivata) di avere persone aventi specifiche competenze. Anche in tal caso, l’incremento non poteva essere superiore al 20%.

Oggi, a parte la vaghezza del parametro di riferimento (la proporzionalità del compenso rispetto all’attività, alle responsabilità e alle specifiche competenze), pare che in ogni caso non si possa comunque mai superare la soglia compensi di aziende simili. Ritengo che si tratti di previsione foriera di notevoli problemi: quali imprese potranno costituire un riferimento? Solo altre imprese sociali oppure anche imprese tradizionali che (non è da escludere) operino nel Terzo settore? In ogni caso si riproporrà il dubbio, già avanzato da alcuni con riferimento alle imprese pubbliche, che il “salary cap” possa tenere lontano i soggetti più qualificati ed esperti (soprattutto laddove vi siano situazioni particolarmente complesse, dal punto di vista gestionale, da affrontare e risolvere).

[63] Si tratta delle previsioni di cui all’art. 51, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.

[64] Salvo il problema degli autonomi (si pensi a consulenti o professionisti che possano essere ingaggiati dall’impresa sociale), che normalmente non hanno un contratto collettivo che li raggruppi, nel caso dei lavoratori subordinati il legislatore fissa una percentuale massima di scostamento (il che, pur costituendo una rigidità, potrebbe essere funzionale ad evitare favoritismi ed abusi), aprendo poi però la possibilità di derogarvi (seppur in alcuni limitati settori) attraverso un parametro vago.

[65] Per la remunerazione dei quali vale la previsione del comma 3, lett. a), seconda parte dell’articolo in commento.

[66] Per banche intermediari finanziari che sottoscrivano strumenti finanziari “diversi”, la remunerazione pare libera e non condizionata da limiti, non realizzandosi quindi distribuzione indiretta di utili quando il sottoscrittore sia, appunto, una banca o un intermediario finanziario. Tale lettura parrebbe confermata anche dalla successiva lett. f), come diremo subito appresso.

[67] Previsti dall’art. 2346, ultimo comma, cod. civ. Si tratta di una categoria più ampia rispetto agli strumenti finanziari emettibili da società quotate (e di cui all’art. 1, comma 2, TUF) e si può ritenere che principalmente ad essi faccia riferimento il legislatore delle imprese sociali.

[68] Anche se la questione merita maggior approfondimento, pare potersi sostenere che qualunque impresa sociale (quindi anche avente forma non societaria) possa emettere particolari strumenti finanziari. Infatti, l’art. 15, comma 8, del d.lgs. 112/2017, prevede alcune modifiche al TUF (d.lgs. n. 58/1998, in particolare agli artt. 1, comma 5-novies, 50-quinquies e 100-ter) in modo da consentire anche alle suddette imprese sociali di ricorrere a «portali per la raccolta di capitali» (già ammessi per le start-up innovative e per PMI).

[69] Ancora una volta il criterio appare vago: quale sia un prezzo/valore “normale” di un servizio è difficile da definire. Si dovrà fare riferimento agli usi o alle pratiche commerciali del settore di riferimento. Peggio ancora per quanto riguarda l’acquisto di “beni” (senza distinzione tra mobili o immobili, quanto meno): i beni potranno avere un valore di mercato, oppure un valore di acquisto storico, o altro. Quale sarà il «valore normale»?

[70] Possiamo porci una domanda: dati i particolari settori di operatività dell’impresa sociale, gli interessi e le particolari finalità perseguite, potrebbe darsi che non via sia un “mercato” in senso tecnico per i servizi resi o i beni scambiati dall’impresa? Se la risposta fosse si, diventerebbe difficile applicare la previsione in commento.

[71] La norma fa riferimento a: soci; associati o partecipanti; fondatori; componenti degli organi amministrativi e di controllo; coloro che a qualsiasi titolo operino per l’organizzazione o ne facciano parte; coloro che effettuano erogazioni liberali a favore dell’ente o ai loro parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo; società direttamente o indirettamente controllate da (o collegate con) i soggetti sopra elencati.

[72] Il riferimento potrebbe essere alle cooperative sociali, che sono di diritto impresa sociale (ma ciò è previsto dall’art. 1). Si tratta di prefigurarsi attività di interesse generale (di cui all’art. 2) che abbiano ad oggetto la prestazione di beni o servizi anche a favore dei propri soci, associati o partecipanti.

[73] Limite aggiornabile con decreto del Ministro del lavoro adottato di concerto con il Ministro dell’economia.

[74] Ma, presumibilmente, non rappresentato da strumenti finanziari in quanto regolato dalla lett. c), del comma 2, dell’articolo in commento.

[75] Non è chiaro a quale tasso annuo di riferimento pensi il legislatore. Conosciamo nel nostro ordinamento diversi parametri a cui si legano gli interessi (quanto meno bancari). Potrebbe essere che il legislatore intenda il c.d. Tasso Ufficiale di Riferimento, che è oggi determinato dalla BCE. Resta comunque il dubbio.

Si noti che laddove i prestiti siano stati concessi da banche o intermediari finanziari, come pare avvenire per la sottoscrizione di strumenti finanziari diversi da azioni o quote (lett. c)), non dovrebbero esserci limiti, non incorrendosi (mai?) in distribuzione indiretta di utili.

[76] In tal senso l’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 112/2017.

[77] In caso di società a responsabilità limitata si potrà ricorrere ai titoli di debito di cui all’art. 2483 cod. civ. ma anche all’attribuzione ai soci di particolari diritti, sia di natura amministrativa che patrimoniale, in modo da invogliare determinati soggetti a prendere parte al progetto sociale prefigurato.

[78] Si rammenti come, ex art. 11, comma 2, Codice del Terzo settore, «gli enti (...) che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese». In più, «per le imprese sociali, l’iscrizione nell’apposita sezione del registro delle imprese soddisfa il requisito dell’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore» (comma 3).

[79] Si noti come l’art. 2447-bis cod. civ., rubricato «Patrimoni destinati ad uno specifico affare», parli anche del «finanziamento destinato ad uno specifico affare» (concretamente disciplinato dall’art. 2447-decies, cod. civ.). Quest’ultimo, nelle imprese sociali in forma di società azionaria, qualora compatibile con la disciplina specifica dettata dal d.lgs. n. 112/2017, potrà essere utilizzato anche per il perseguimento delle finalità sociali proprie di una delle attività di interesse generale tipizzate per l’impresa sociale.

La previsione di cui all’art. 10, Codice del Terzo settore, pare invece precludere il ricorso al finanziamento destinato per le imprese sociali che abbiano forma diversa dalla spa. La questione però meriterebbe miglior approfondimento.

[80] Con riferimento a questi temi si veda, ad es., L. Fazzi, La governance, in Governo e organizzazione per l’impresa sociale, a cura di C. Borzaga, L. Fazzi, Carocci, Roma 2008, 75 ss. Pare significativa la considerazione secondo cui, nelle imprese sociali, «con il concetto di governance si intende (…) il modo attraverso il quale i diversi attori che hanno un potere di influenza contribuiscono alla formazione e alla realizzazione delle decisioni che perseguono finalità più ampie di quelle economiche e inglobano i temi della qualità e del valore sociale dei beni e dei servizi prodotti».

Si veda anche (seppur con riferimento alle tematiche della responsabilità sociale d’impresa) L. Sacconi, Csr: verso un modello allargato di corporate governance, in Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, a cura di L. Sacconi, Bancaria, Roma, 2005, 113 ss. («la struttura di governance dovrebbe consentire di mettere in atto meccanismi di miglioramento della performance in grado di sostenere la partecipazione degli stakeholder. Qualora partecipino al processo di corporate governance, gli stakeholder dovrebbero avere accesso a tutta l’informazione rilevante»).

[81] Che, per quanto di difficile realizzazione, poteva rappresentare un modello di riferimento (quanto meno in termini di democraticità e limitazione del principio plutocratico) utile ad accompagnare la limitazione del fine di lucro di cui abbiamo trattato nel paragrafo precedente.

Giova ricordare come forse l’unico tentativo di realizzare in Italia una forma di public company (considerando a parte la disciplina delle società cooperative) si ebbe nei primi anni ‘90 del secolo scorso con le privatizzazioni delle società pubbliche. Azionariato diffuso, limiti al possesso azionario ed altri meccanismi furono introdotti dal legislatore ma non sortirono gli effetti sperati (per una serie di aspetti che non possono essere trattati in questa sede).

[82] Per le cooperative di maggiori dimensioni i limiti al possesso azionario, secondo parte della dottrina, si sono rivelati in realtà un ostacolo alla realizzazione di obiettivi di democraticità interna, consentendo agli amministratori di auto perpetuarsi e di divenire i veri controllori della società (aspetto da più parti evidenziato per giustificare la necessità ed indifferibilità della riforma, ad es., delle banche popolari).

[83] Tale potere di nomina può esserci per «previsioni statutarie o per qualsiasi altra ragione».

[84] Secondo le già viste previsioni di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. n. 112/2017.

[85] Molteplici strumenti sono messi a disposizione dal diritto societario: dalle limitazioni al diritto di voto, alle particolari categorie di azioni; da meccanismi di voto di lista per la scelta dei gestori all’impugnazione delle delibere assembleari, fino all’azione di responsabilità a beneficio della minoranza. Si tratta tuttavia di meccanismi che avrebbero potuto essere resi più efficaci in quanto calati in una realtà decisamente diversa rispetto a quella dell’impresa lucrativa. Non si dimentichi che il diritto societario ha operato una scelta di campo: massima efficienza nella gestione e conduzione dell’azienda e minimo rilievo per esigenze di democraticità interna. Nell’ambito dell’impresa sociale, probabilmente, la prospettiva se non proprio rovesciata avrebbe dovuto essere quanto meno in parte rivista.

[86] Quest’ultimo aspetto è in effetti disciplinato dall’art. 11, come tra poco avremo modo di vedere.

[87] Come detto il Codice è applicabile a tutti gli enti del terzo settore (tra cui le imprese sociali, salvo il caso in vi sia espressa esclusione o incompatibilità con quanto previsto nello specifico dal d.lgs. n. 112/2017). Tra essi vi sono le associazioni (che possono anche acquisire la qualifica di “impresa sociale”), le quali vengono quindi regolate ora non più dal codice civile ma, appunto, dal Codice del Terzo settore.

[88] Stesso discorso può farsi con riferimento all’organo di controllo (artt. 29 e 30, Codice del Terso settore).

[89] Conforme l’art. 26, comma 5, Codice del Terzo settore.

[90] I commi 4 e 5 dell’art. 26, Codice del Terzo settore, pur sempre solamente come facoltà, prevedono tale possibilità.

[91] Individuate, dal legislatore della riforma del terzo settore, con il richiamo alle soglie di cui all’art. 2435-bis, comma 1, cod. civ. (così l’art. 11, comma 4, lett. b), d.lgs. n. 112/2017). Come noto tale disposizione riguarda le società azionarie che possono redigere il bilancio in forma abbreviata. Qualora non abbiano emesso titoli negoziati su un mercato regolamentato, sono autorizzate a redigere il bilancio in forma abbreviata (quindi, in altri termini, sono considerate di minori dimensioni) le società che non abbiano superato i 4.400.000 € di attivo totale (da stato patrimoniale), 8.800.000 € di ricavi da vendite o prestazioni e 50 dipendenti occupati in media durante l’esercizio.

[92] Si tratta di una delle forme di coinvolgimento di lavoratori, utenti, beneficiari e altri interessati che dovrebbe costituire tratto caratterizzante dell’impresa sociale. Ma all’evidenza, e salva la “buona volontà” dei soci al momento di formazione dell’atto costitutivo, non pare sia così.

[93] Ovviamente il problema non si pone per le fondazioni.

[94] Andrebbe approfondito il riferimento al d.lgs. n. 39/2013 («Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art. 1, commi 49 e 50, della l. 6 novembre 2012, n. 190») contenuto nell’ultimo comma dell’art 7 in commento, ciò soprattutto per meglio comprendere (in via generale) i legami che possono instaurarsi tra il settore pubblico ed il terzo settore.

Il richiamo alla disciplina delle inconferibilità e incompatibilità di cui al sopra ricordato d.lgs. è foriero di dubbi interpretativi sol che si consideri come la disciplina riguarda la nomina degli organi di vertice in pubbliche amministrazioni, enti pubblici non territoriali, enti di diritto privato in controllo pubblico e enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione.

Abbiamo visto come le previsioni degli articoli 1, secondo comma («Non possono acquisire la qualifica di impresa sociale le società costituite da un unico socio persona fisica, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs.30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, e gli enti i cui atti costitutivi limitino, anche indirettamente, l’erogazione dei beni e dei servizi in favore dei soli soci o associati») e 4, terzo comma («Le società costituite da un unico socio persona fisica, gli enti con scopo di lucro e le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs.30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, non possono esercitare attività di direzione e coordinamento o detenere, in qualsiasi forma, anche analoga, congiunta o indiretta, il controllo di un’impresa sociale ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile») del d.lgs. n. 112/2017 impediscono ad “amministrazioni pubbliche” di acquisire la qualifica di impresa sociale o di controllare imprese sociali. Quindi buona parte delle disposizioni del d.lgs. n. 39/2013 non risulterebbero applicabili nel nostro caso. Probabilmente residuerebbero le fattispecie riferite agli «enti di diritto privato regolati o finanziati» dalla pa (vale a dire «le società e gli altri enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, nei confronti dei quali l’amministrazione che conferisce l’incarico: 1) svolga funzioni di regolazione dell’attività principale che comportino, anche attraverso il rilascio di autorizzazioni o concessioni, l’esercizio continuativo di poteri di vigilanza, di controllo o di certificazione; 2) abbia una partecipazione minoritaria nel capitale; 3) finanzi le attività attraverso rapporti convenzionali, quali contratti pubblici, contratti di servizio pubblico e di concessione di beni pubblici»).

Pare invece fuori discussione che, con tali previsioni, il legislatore tenda in qualche modo ad avvicinare gli amministratori di enti e società pubbliche a quelli delle imprese sociali, suggerendo che le attività (di interesse generale) svolte dalle imprese sociali abbiano comunque una valenza quasi pubblicistica anche se esercitate da imprese private.

[95] Assetti adeguati la cui rilevanza e centralità nell’organizzazione di tutti gli enti collettivi è oggi rimarcata nel nuovo art. 2086 cod. civ., come risultante dalle modifiche apportate dal Codice della Crisi e dell’Insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e successive modifiche ed integrazioni). Si prevede infatti che «l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’ado­zione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Disposizione che, per quanto diremo in conclusione, assume ancor maggior rilievo per le imprese sociali che esercitano attività di interesse generale ed il dissesto o la crisi delle quali potrebbe avere profonde ripercussioni per una platea molto vasta di “beneficiari” ed “utenti”.

[96] Ancora una volta, negli spazi di autonomia privata lasciati dalla legge, un ruolo importante e fondamentale potrà essere assunto dagli statuti sociali o associativi.

[97] Presente in realtà anche nella disciplina delle società benefit.

[98] Adottate con il D.M. 4 luglio 2019. Nel decreto si prevede come il «bilancio sociale, attraverso i connessi obblighi di redazione e successivo deposito presso il registro unico del Terzo settore o presso il registro delle imprese, nonché di diffusione attraverso la pubblicazione sul sito istituzionale da parte degli enti del Terzo settore», costituisca «lo strumento attraverso il quale gli enti stessi possono dare attuazione ai numerosi richiami alla trasparenza, all’informazione, alla rendicontazione nei confronti degli associati, dei lavoratori e dei terzi». La finalità di rendicontazione attribuita al bilancio sociale è più volte richiamata nel provvedimento ministeriale (ad es., si ribadisce che esso «può essere definito come uno “strumento di rendicontazione delle responsabilità, dei comportamenti e dei risultati sociali, ambientali ed economici delle attività svolte da un’organizzazione. Ciò al fine di offrire un’informativa strutturata e puntuale a tutti i soggetti interessati non ottenibile a mezzo della sola informazione economica contenuta nel bilancio di esercizio”. La locuzione “rendicontazione delle responsabilità dei comportamenti e dei risultati sociali ambientali ed economici” può essere sintetizzata utilizzando il termine anglosassone di “Accountability”. Tale termine comprende e presuppone oltre ai concetti di responsabilità quelli di “trasparenza” e “compliance”, “la prima... intesa come accesso alle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, fra cui gli indicatori gestionali e la predisposizione del bilancio e di strumenti di comunicazione volti a rendere visibili decisioni, attività e risultati... la seconda si riferisce al rispetto delle norme... sia come garanzia della legittimità dell’azione sia come adeguamento dell’azione agli standard stabiliti da leggi, regolamenti, linee guida etiche o codici di condotta”»).

[99] Si vedano le previsioni di cui all’art. 11, comma 3, d.lgs. n. 112/2017.

[100] Si vedano l’art. 9, comma 2, d.lgs. n. 112/2017, l’art. 14, Codice del Terzo settore, nonché il D.M. 23 luglio 2019, con cui lo stesso Ministero delle Lavoro e delle Politiche sociali ha emanato le «Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore».

[101] Indubbiamente più completa è la disciplina che regolamenta il collegio sindacale nelle società azionarie, nonché l’organo di controllo (ed i poteri di controllo dei soci) nella s.r.l.; a seguito delle previsioni di cui all’art. 30, Codice del Terzo settore, anche per le fondazioni e le associazioni “del terzo settore” (almeno per quelle di maggiori dimensioni) viene si fa rinvio a parte della regolamentazione propria del collegio sindacale di società di capitali. Paiono più carenti, da questo punto di vista, quelle imprese sociali che dovessero adottare la forma di uno dei tipi di società di persone.

[102] La normativa che introduce la responsabilità penale delle persone giuridiche e che disciplina la predisposizione di modelli di prevenzione dei reati, procedimentalizzando l’attività di controllo ed il monitoraggio dei rischi relativi.

[103] Quindi, oltre alla classica relazione da allegare al bilancio, i sindaci saranno tenuti a redigere e rendere disponibile una apposta relazione (che può costituire anche una sezione a sé stante del bilancio sociale) con riferimento alle finalità di utilità sociale perseguite o in corso di perseguimento. Contenuti molto simili si ritrovano nell’art. 30, Codice del Terzo settore.

[104] Tali regole, parallelamente, valgono per gli enti del terzo settore ex art. 30, Codice del Terzo settore.

[105] Si segnala solamente, senza approfondire i vari aspetti, come l’art. 10, comma 5, si occupi della revisione contabile.

[106] Se noi potessimo considerare tali forme di coinvolgimento come parte degli assetti organizzativi ed amministrativi, l’organo di gestione diverrebbe garante della loro adeguatezza (parametrata sulla natura dell’attività, sulle dimensioni, sull’oggetto specifico del­l’impresa, e così via) e l’organo di controllo sarebbe chiamato a vigilare sul loro concreto funzionamento. Ed i membri di entrambi gli organi risponderebbero per non aver diligentemente dato vita a tali assetti, nonché per mancanza di monitoraggio e vigilanza su di essi.

[107] Proprio a tal fine, il comma 3 dell’art. 11 specifica come “le modalità di coinvolgimento devono essere individuate dall’im­presa sociale tenendo conto, tra gli altri elementi, dei contratti collettivi (...), della natura dell’attività esercitata, delle categorie di soggetti da coinvolgere e delle dimensioni dell’impresa sociale”.

[108] Dove il parere non venisse seguito, l’organo di gestione dovrebbe essere chiamato a motivare le ragioni, in una sorta di meccanismo di comply or explain.

[109] L’articolo 11 in commento non si applica, per espressa previsione del comma 5, alle imprese sociali che adottino la forma della cooperativa a mutualità prevalente (e agli enti religiosi).

[110] Pubblicato in GU Serie Generale n.237 del 4 ottobre 2021.

[111] Come si evince dal § 1, pt. 2, Allegato 1 al decreto, «la disciplina contenuta nelle presenti linee guida individua esclusivamente il contenuto minimo della regolazione delle forme di coinvolgimento».

[112] Che possono diventare “obblighi” laddove via sia tale espressa menzione nella normativa di riferimento.

[113] Secondo quanto previsto nel § 2, pt. 2, Allegato 1 al decreto, si ritiene mezzo idoneo di coinvolgimento la «messa a disposizione, con cadenza almeno annuale, ovvero ogni qualvolta si verifichino eventi tali da determinare variazioni qualitative e/o quantitative rilevanti, di informazioni sull’andamento effettivo e prevedibile dell’attività dell’impresa, sulla natura e qualità dei beni o servizi erogati, sulla situazione economica ed occupazionale dell’impresa stessa, sulle eventuali criticità segnalate dall’organo di controllo interno, su ogni altra decisione aziendale suscettibile di comportare rilevanti cambiamenti in relazione all’organizzazione del lavoro, alle condizioni di lavoro, ai contratti di lavoro e ai profili relativi alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nonché su decisioni destinate a comportare rilevanti cambiamenti per gli utenti e gli altri soggetti interessati». Peraltro, nella lettura complessiva delle linee guida per la redazione del bilancio sociale (D.M. 4 luglio 2019) le informazioni sopra enunciate parrebbero essere già comprese proprio nel bilancio sociale (anche se è pur vero che la portata di quest’ultimo è indubbiamente maggiore).

[114] Si noti come il decreto pare ritenere che la partecipazione – soprattutto – di utenti e terzi interessati possa avvenire attraverso soggetti rappresentativi delle due “categorie”, non individualmente.

[115] Inoltre il decreto precisa che tra «le informazioni da rendere disponibili devono essere ricomprese le risultanze dell’attività di monitoraggio dell’organismo di controllo di cui all’art. 10, comma 3, del d.lgs.n. 112/2017, nonché gli esiti dell’attività di vigilanza di cui all’art. 15 del medesimo decreto legislativo». In ogni caso il «contenuto minimo» delle informazioni potrà anche «essere opportunamente differenziato sulla base delle caratteristiche e degli interessi dei gruppi di riferimento delle rappresentanze destinatarie» (così, ad es., ai lavoratori sarà destinata l’informativa su condizioni di lavoro, welfare aziendale e simili, mentre agli utenti e ai titolari di interessi diffusi quella sulla qualità e sull’innovazione «migliorativa» dei beni e servizi dell’azienda).

[116] In tal caso «i risultati sono condivisi con le rappresentanze delle categorie consultate anche al fine di acquisire proposte da sottoporre alla valutazione dell’impresa».

[117] Le modalità suggerite sono solo alcune delle possibili declinazioni organizzative statutarie potenzialmente utilizzabili dalle imprese sociali.

[118] Per altro, in presenza di fatti di notevole importanza ed eccezionali (individuati dal decreto in «delocalizzazione, trasferimento, chiusura di sedi o di unità produttive, licenziamenti collettivi, nonché in caso di rilevanti modifiche statutarie riguardanti variazioni delle attività di interesse generale previste statutariamente, modifiche sulla facoltà di distribuzione degli utili (…), la rinuncia alla qualifica di impresa sociale o modifiche delle modalità di coinvolgimento di lavoratori o utenti precedentemente previste») gli amministratori, a prescindere dalla periodicità della consultazione fissata nello statuto o nei regolamenti, è tenuto a richiedere un «parere obbligatorio, ma non vincolante dei rappresentanti» della varie categorie di soggetti indicati nel decreto (§ 2, c)).

[119] Il che potrebbe creare qualche problema (da risolvere statutariamente o con apposito regolamento interno) in quei casi in cui una vera e propria assemblea non ci sia (si pensi al caso delle società di persone oppure, nelle s.r.l., dove è possibile prevedere la forma della consultazione scritta al posto dell’assemblea vera e propria – con alcune limitate eccezioni ex art. 2479, terzo comma, cod. civ.).

[120] Con una previsione forse superflua il decreto specifica come, per le società richiamate nell’art. 11, comma 4, lettera b) del d.lgs. n. 112/2017, oltre ai meccanismi di informazione, consultazione e partecipazione visti, sia «necessario prevedere altresì la nomina, da parte dei lavoratori, di almeno un componente sia dell’organo direttivo che dell’organo di controllo. Nei medesimi casi, gli statuti possono prevedere che un componente dell’organo di amministrazione e/o di quello di controllo sia nominato da parte degli utenti; in questo caso possono individuare altresì eventuali specifici requisiti o attribuire allo stesso specifiche funzioni» (§ 2, pt. 3, Allegato 1 al decreto).

[121] E salvo il dubbio, già evidenziato, di cosa accada laddove la forma organizzativa (il tipo societario adottato) non prevedano un organo di controllo oppure lo stesso non sia obbligatorio.

[122] È da ritenersi ammissibile che statutariamente il modello (oppure meccanismi che ne possano replicare il funzionamento pur senza che sia qualificabile con “sistema dualistico”) possa essere adottato.

[123] Che l’adesione a pratiche di responsabilità sociale d’impresa, almeno sino ad alcuni anni fa, fosse volontaria e motivata principalmente dall’intento di migliorare i profitti dell’impresa, magari nel lungo periodo, mi pare non sia in dubbio. Tra i tanti contributi in tema si veda M. Libertini, Impresa e finalità sociali. Riflessioni sulla teoria della responsabilità sociale dell’impresa, in Riv. soc., 2009, 19 (l’a. richiama la definizione che fu data nei primi anni 2000 dalla stessa Commissione europea).

Il primo tentativo di vincolare le imprese (di grandi dimensioni) al rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e, più in generale, ad adottare comportamenti eticamente responsabili, può considerarsi la Direttiva sulle comunicazioni di carattere non finanziario 2014/95/UE del 22 ottobre 2014 (recepita nell’ordinamento italiano attraverso il d.lgs. 30 dicembre 2016, n. 254). Attraverso il meccanismo c.d. di complay or explain le società ed i gruppi di grandi dimensioni devono rende conto delle modalità in cui vengono affrontati (e risolti gli eventuali problemi riscontrati) i temi ambientali, sociali e attinenti il personale, il rispetto dei diritti umani ed il contrasto della corruzione attiva e passiva. Le imprese tenute alla dichiarazione devono dunque descrivere il modello aziendale di gestione e organizzazione delle attività in merito agli ambiti di cui sopra. Devono inoltre indicare le politiche praticate (comprese quelle di dovuta diligenza) e i risultati conseguiti nei vari ambiti tramite indicatori fondamenti di performance di carattere non finanziario. Devono esporre i rischi generati e subiti nei vari ambiti di riferimento per le attività dirette, per i prodotti, per le politiche commerciali e, se rilevanti, per i rapporti di fornitura e subappalto.

Sono inoltre richiesti specifici riferimenti all’impiego delle risorse energetiche, l’impatto sull’ambiente, sulla salute e la sicurezza, o altri fattori di rischio sia ambientale che sanitario. È prevista anche una rendicontazione sugli aspetti sociali e la gestione del personale, le modalità di attuazione del dialogo tra le parti sociali e del rispetto dei diritti umani. Infine devono essere resi noti gli strumenti adottati per la lotta alla corruzione sia attiva che passiva.

Non vi sono però obblighi circa l’adozione di particolari politiche imprenditoriali nei settori indicati: la direttiva (e la legge italiana) si limitano a prescrivere l’obbligo di motivare le ragioni della mancata adozione.

[124] Acronimo anglosassone che esprime i concetti di Environmental, Social and Governance.

[125] Non è questa la sede per poter approfondire una tematica di tale complessità. Basta ricordare come tale Regolamento definisca i criteri in base ai quali un’attività economica contribuisce ai sei obiettivi di sostenibilità adottati dall’UE, che includono: la mitigazione del cambiamento climatico; l’adattamento al cambiamento climatico; l’uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; la transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti; la prevenzione e controllo dell’in­quinamento; la protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi.

Le attività economiche saranno considerate sostenibili se: contribuiscono positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi; non producono impatti negativi su nessun altro obiettivo (c.d. “do not significant harm principle”); sono svolte nel rispetto di garanzie sociali minime (es. Linee Guida OCSE per le Imprese Multinazionali e Principi guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani).

[126] In tal senso il punto 1 della Risoluzione sopra richiamata.

[127] Anche se l’argomento meriterebbe ben altro approfondimento, va notato come – rispetto alla raccomandazione del 2021 – spariscano quasi del tutto quei meccanismi di coinvolgimento degli stakeholders (come ad es. la possibilità di presentare reclami alle imprese stesse in caso di accertate violazioni dei diritti umani o di danni all’ambiente) che parevano una delle novità più interessanti. Restano quindi da comprendere quali potrebbero essere i rimedi esperibili dai terzi interessati in caso di violazioni del suddetto dovere di dovuta diligenza ai fini della sostenibilità.

[128] Si riportano i testi modificati dei due articoli, senza poterne commentare la portata. L’art. 9, prevede ora che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».

L’art. 41, secondo e terzo comma, stabiliscono inoltre che l’iniziativa economica privata, che resta «libera», non possa «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali» (in corsivo le modifiche introdotte).

[129] Oppure anche mutualistica, considerato il fatto che anche le società cooperative possono assumere la qualifica di società benefit.

[130] Secondo le previsioni del comma 376, l. n. 208/2015.

[131] Così la previsione contenuta nel comma 377 della suddetta legge.

[132] Comma 380, l. n. 208/2015.

[133] Comma 381, l. n. 208/2015.

[134] Le questioni problematiche poste dalla disciplina delle società benefit sono numerose e di complessa soluzione e non possono essere trattate esaustivamente in questa sede. Tra esse vi è indubbiamente quella relativa alla responsabilità degli amministratori, sia nei confronti dei soci che dei destinatari del beneficio comune. La discrezionalità di chi gestisce una società benefit pare infatti ampliarsi laddove, come previsto dalla legge, si demanda ad esso il compito di “bilanciare” i diversi interessi in conflitto (quello lucrativo con quello di beneficio comune, il quale ultimo può assumere mutevoli forme). Senza contare la difficoltà di individuare nell’ordinamento meccanismi sanzionatori efficaci di cui possano disporre i beneficiari (terzi rispetto alla compagine sociale) “traditi”.

[135] Di cui il legislatore fornisce ampia elencazione sia nel Codice del Terzo settore che nella disciplina specifica dell’impresa sociale.

[136] D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (c.d. TUSP).

[137] Potrebbe risultare interessante operare un confronto tra la definizione data dal TUSP di servizi di interesse generale («le attività di produzione e fornitura di beni o servizi che non sarebbero svolte dal mercato senza un intervento pubblico o sarebbero svolte a condizioni differenti in termini di accessibilità fisica ed economica, continuità, non discriminazione, qualità e sicurezza, che le amministrazioni pubbliche, nell’ambito delle rispettive competenze, assumono come necessarie per assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento, così da garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale, ivi inclusi i servizi di interesse economico generale») e di servizi di interesse economico generale («servizi di interesse generale erogati o suscettibili di essere erogati dietro corrispettivo economico su un mercato») e l’elencazione delle “attività di interesse generale” di cui al Codice del Terzo settore e – più nello specifico – della legge sull’impresa sociale.

[138] Si tratta delle disposizioni di cui all’art. 4, secondo comma, lett. da a) a e), TUSP.

[139] Per una particolare lettura del rapporto tra società pubbliche e società benefit, nell’ottica di una miglior definizione del concetto di “scopo di lucro”, si veda E. Codazzi, F. Goisis, Ancora sullo scopo di lucro nelle società a partecipazione pubblica: spunti alla luce della disciplina sulle società benefit, in Dir. econ., 2020, 1, 477 ss.

[140] Forse, laddove il legislatore avesse avuto – come detto in precedenza – maggior coraggio nell’immaginare meccanismi di coinvolgimento diretto di utenti e beneficiari e forme specifiche di responsabilità dei gestori, l’impresa sociale avrebbe potuto costituire un modello innovativo di impresa.

[141] Il discorso è riferito in particolare alle imprese sociali che si strutturino secondo uno dei tipi societari disciplinati nel codice civile.

[142] Per le imprese sociali l’applicazione della liquidazione giudiziale, (nel nuovo linguaggio del legislatore del Codice della Crisi e dell’Insolvenza si tratta della versione “moderna” del fallimento) in caso di crisi, non pare essere la soluzione ottimale. Tanto che nel d.lgs. n. 112/2017 (art. 14) si prevedeva l’attivazione della procedura di liquidazione coatta amministrativa. Quest’ultima procedura tuttavia, alla luce delle nuove previsioni del sopra richiamato Codice della Crisi e dell’Insolvenza (d.lgs. n. 14/2019), non pare però più applicabile. Il rischio concreto è che l’eventuale dissesto coinvolga i beneficiari e gli utenti del servizio che, seppur creditori in senso lato, non paiono assimilabili ad altre categorie di creditori dell’impresa “tradizionale”.

[143] Applicando gli istituti codicistici si potrebbe immaginarsi che nelle imprese sociali (ma anche nelle società benefit e forse nelle società pubbliche, seppure con gli opportuni adattamenti in riferimento alla natura pubblica delle risorse utilizzate) la responsabilità degli amministratori risulti aggravata dalla natura dell’attività esercitata (di interesse generale) nonché dalle particolari finalità perseguite e quindi dalla rilevanza degli interessi degli stakeholder coinvolti.

[144] La tematica è stata discussa con riferimento alle società cooperative e, tra esse, alle banche popolari e alle banche di credito cooperativo. Una delle ragioni – tra le varie – che ha portato il legislatore alla riforma del settore bancario fu proprio la scarsa contendibilità di quelle banche, favorita anche da una sorta di auto-perpetuazione degli amministratori quale risultato della difficoltà di individuare effettivamente un socio di controllo (conseguenza della regola tipica delle società cooperative una testa un voto, pur parzialmente mitigata nelle società cooperative a mutualità non prevalente).

[145] Ad es. le azioni a voto plurimo, da attribuirsi ad associazioni o organizzazioni (pur sempre socie ma) rappresentative degli interessi di utenti o beneficiari, nella veste di una sorta quindi di socio “istituzionale”.

Oppure con la previsione della figura di amministratore indipendente da inserire in consiglio di amministratore. O ancora utilizzando i modelli alternativi (quello dualistico in particolare) adattato alle esigenze particolari delle imprese sociali.

[146] Vigente la precedente regolamentazione dell’impresa sociale da più parti si rilevò come il divieto assoluto del lucro soggettivo impedì un reale sviluppo di questa tipologia di imprese. Evidentemente l’altruismo e la buona reputazione non costituivano incentivi adeguati. Oggi forse, con le nuove sensibilità in tema di responsabilità sociale d’impresa, potrebbe essere cambiato qualche cosa. Ma per le imprese sociali, ad avviso di chi scrive, la particolarità delle attività loro assegnate forse non consentono alle stesse di essere ricondotte al più generale filone della CSR.

[147] Il riferimento è da un lato alle previsioni di cui agli artt. 55 (co-programmazione e co-progettazione) e 56 (convenzioni, per altro stipulabili solo con organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale) del Codice del Terzo settore, dall’altro agli artt. 140 ss. del Codice appalti (d.lgs. n. 50/2016). Con particolare riferimento a quest’ultima normativa vanno segnalate le modifiche introdotte dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. decreto semplificazioni), convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120: negli articoli 30, comma ottavo, 59 primo comma e 140 primo comma del Codice appalti si precisa che l’applicazione delle varie disposizioni debbano far salvo (o tener in adeguato conto) quanto previsto per gli enti di terzo settore nel d.lgs. n. 117/2017.

Alcune riflessioni sull’applicazione del Codice appalti in riferimento alle imprese sociali sono state fatte nelle pagine che precedono.

[148] Con riferimento a tali meccanismi si possono richiamare il c.d. crowfunding (per l’impresa sociale l’art. 18, comma ottavo, del d.lgs. n. 112, dispone la modifica di alcune disposizioni del Testo Unico della Finanza per consentire appunto anche alle imprese sociali di accedere a portali per la raccolta di capitali) nonché la possibilità concessa ad istituti di credito di emettere una particolare categoria di titoli di debito chiamati “titoli di solidarietà” (ex art. 77 Codice del Terzo settore).

[149] Ricordiamo come il d.lgs. n. 112/2017 vieti agli enti pubblici di assumere la qualificazione di impresa sociale o di controllare un’impresa sociale, non di parteciparvi.

[150] A seconda poi del tipo di attività (se di produzione di beni o di servizi) si potrebbe anche immaginare l’utilizzo delle forme di partenariato pubblico-privato istituzionalizzato (quindi con la necessità di individuare il socio privato attraverso una gara).

In qualche modo la situazione descritta nel testo potrebbe avere concreta realizzazione nella Provincia Autonoma Trento, nel settore del turismo e della promozione del territorio, con la nuova legge provinciale n. 8/2020. La disciplina (finalizzata – art. 1, primo comma – a sostenere, «attraverso la promozione territoriale, i valori, le competenze, le tradizioni e le culture del Trentino in maniera sinergica e integrata in tutti i settori e riconosce il ruolo fondamentale del turismo come risorsa per lo sviluppo integrato, sostenibile ed equilibrato del territorio e della filiera produttiva locale nonché la centralità del turista, in tutte le fasi del ciclo della vacanza»), tra le altre cose, riforma le aziende di promozione turistica (APT) imponendo ad esse di assumere la personalità giuridica e obbligandole ad avere un organo amministrativo rappresentativo (per più dei 2/3) dei soci privati (art. 12).

Le suddette “nuove” APT sono finanziate in buona parte dalla stessa Provincia e la ragione è – probabilmente – che buona parte delle attività svolte sono di «interesse generale» (vale a dire, ex art. 2, lett. h), «attività rivolta alla generalità degli utenti e operatori di un ambito territoriale finalizzata a promuovere il territorio nel suo insieme»). L’art. 7, secondo comma ne fornisce dettagliata elencazione («Ai fini del comma 1 le APT realizzano le seguenti attività d’interesse generale, nel rispetto della disciplina europea in materia di aiuti di Stato: a) attività primarie: 1) istituire e svolgere servizi di informazione, di assistenza e accoglienza turistica, nonché porre in essere le attività per la fruizione dei prodotti turistici, nell’ottica della costruzione dell’esperienza turistica; 2) organizzare e promuovere manifestazioni ed eventi nonché coordinare e promuovere quelli realizzati da altri soggetti nell’ambito territoriale; 3) attuare, in ambito locale, i progetti di livello provinciale e gli strumenti di sistema nonché i prodotti sviluppati dalle agenzie territoriali d’area; 4) sviluppare i prodotti turistici di interesse del relativo ambito; 5) valorizzare l’utilizzo delle produzioni locali e le esperienze locali; 6) promuovere i valori del Trentino, con riferimento a quanto previsto dall’articolo 3; 7) affiancare e sostenere gli operatori turistici dell’ambito con riferimento ai seguenti temi: 7.1) coinvolgimento per la definizione e costruzione del prodotto turistico; 7.2) definizione di proposte tematiche e stagionali; 7.3) utilizzo delle piattaforme digitali di sistema; 7.4) coerenza tra il posizionamento della struttura e quello della località; 8) partecipare ai progetti di sviluppo di prodotto turistico attraverso la nomina del proprio rappresentante presso le agenzie territoriali d’area; 9) sviluppare sinergie con i comuni e con le istituzioni presenti nell’ambito per quanto concerne gli interventi correlati e necessari alla valorizzazione turistica del territorio; b) altre attività: 1) realizzare attività di marketing del proprio ambito con riferimento ai mercati di prossimità o prevalenti; 2) promuovere i marchi delle località; 3) concorrere alla valorizzazione e promozione del patrimonio paesaggistico, artistico, storico e ambientale, anche con riguardo alle iniziative relative all’economia circolare, coerentemente con le finalità della promozione territoriale; 4) promuovere e gestire impianti, servizi e infrastrutture a carattere locale e non di rilevanza economica e di prevalente interesse turistico o sportivo; 5) sostenere iniziative per favorire attività a basso impatto ambientale; 6) promuovere lo svolgimento di servizi di mobilità di utilità collettiva, integrativi dell’offerta turistica, che assicurino migliori condizioni di fruizione del territorio (…) Le attività diverse da quelle previste dal comma 2 svolte dalle APT non possono essere oggetto del finanziamento provinciale ai sensi dell’articolo 16»).

D’altra parte, tra le attività di interesse generale di cui all’art. 2, secondo comma, d.lgs. n. 112/2017 sono ricomprese gli «interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del d.lgs.22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni» (lett. f)) nonché la «organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso» (lett. k)). La disposizione è la medesima (almeno per queste due lettere) di quella contenuta nell’art. 5, primo comma, d.lgs. n. 117/2017.

Potrebbe quindi essere interessante un parallelo tra la normativa nazionale e quella provinciale.