Jus CivileISSN 2421-2563
G. Giappichelli Editore

Considerazioni sul “diritto del minore ad una famiglia”, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale (di Chiara Savazzi, Dottoranda – Università degli Studi di Catanzaro)


Il presente contributo si incentra sull'iter evolutivo del diritto del minore ad una famiglia, anche alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale, che dichiara illegittima la normativa che non permette al minore adottato in casi particolari, di entrare a far parte della rete familiare dei genitori adottanti.

Parole chiave: adozione – minori – responsabilità genitoriale – legami parentali.

Considerations on the “right of the child to a family”, in the light of the ruling of the Constitutional Court

This contribution focuses on the evolutionary process of the minor's right to a family, also in the light of the ruling of the Constitutional Court, which declares illegitimate the legislation that does not allow the minor adopted in particular cases to become part of the family network of adoptive parents.

Keywords:  best interest – stepchild adoption. 

SOMMARIO:

1. Un diritto di famiglia in costante divenire - 2. Verso un diritto puerocentrico - 2.1. Il “diritto ad una famiglia” - 3. La L. 219 del 2012: da “figli diversi” ad un unico status - 4. L’adozione “in casi particolari” - 5. Riflessioni conclusive - NOTE


1. Un diritto di famiglia in costante divenire

Il 28 febbraio 2022, la Corte costituzionale ha emesso un comunicato, con il quale ha informato di aver dichiarato incostituzionale le disposizioni relative all’adozione “in casi particolari”, laddove escludono che tra l’adottato e la famiglia dell’adottante si crei un rapporto di parentela [1]. Con la pubblicazione delle motivazioni, in data 28 marzo 2022, la Corte ha precisato che il mancato riconoscimento dei rapporti civili con la rete parentale dell’adottante, discrimina il minore adottato, rispetto ai soggetti che godono di un’”adozione piena”, violando gli artt. 3, 31 comma 2, 117 comma 1 della Costituzione e l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nel quale si sancisce il rispetto, nel senso più ampio del termine, della vita privata e familiare di qualsiasi individuo. L’adozione piena risponde all’esigenza di garantire la presenza di un nucleo familiare, quando il diritto del minore a crescere all’interno della propria famiglia non può trovare attuazione. Presupposti per avviare l’iter di adottabilità sono: lo stato di abbandono in cui il minore versa [2] e la mancanza o l’inidoneità dei genitori biologici [3]. Relativamente a quest’ultimo, è necessario verificare altresì che non vi siano parenti entro il quarto grado, che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore e che siano in grado di provvedervi [4]. L’adozione piena è disciplinata dalla legge n. 184/1983 (v. infra) e comporta il venir meno dei rapporti con la famiglia d’origine; al contrario, mediante l’adozione in casi particolari, l’adottato mantiene i diritti e i doveri verso la famiglia d’origine [5]. Tra i due tipi di adozione intercorrono delle sostanziali differenze. La prima può essere disposta a favore di coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni o che raggiungano tale periodo sommando, al periodo di coniugio, quello della convivenza; tra essi e il minore deve esserci una differenza di età di almeno diciotto anni e non superiore a quarantacinque; da essa derivano tutti i diritti successori, sia in capo al minore verso l’adottante, sia viceversa. Per quanto concerne la seconda, essa può essere disposta a favore di coniugi [6], persone single, coppie conviventi così come specificato più volte dalla [continua ..]


2. Verso un diritto puerocentrico

Come noto, l’assetto del diritto di famiglia, ha conosciuto, soprattutto negli anni più recenti, una importante evoluzione. Da un diritto totalmente “patricentrico” che ha contrassegnato l’ordinamento italiano, così come gli altri Paesi [10], fino alla seconda metà del XX secolo, ci si è diretti sempre più verso un diritto puerocentrico, mediante una considerazione maggiore del bambino, quale soggetto detentore di diritti ed interessi fin dalla nascita, nonostante la sua limitata capacità di organizzare da sé ogni aspetto della sua vita in tenera età. La spinta europea ha dato il suo contributo nella creazione di una società che possieda normative di tutela sempre più forte ed incentrata sui diritti del puer. A titolo di esempio, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) [11]sottolinea, all’art. 24, il diritto del minore di esprimere le proprie idee e convinzioni, in un processo di “autodeterminazione dinamica” [12] Inoltre, sul piano sovranazionale, la Convenzione sui diritti del fanciullo [13] (c.d. di New York), ratificata dall’Italia nel 1991, indica l’inte­resse del bambino come “superiore”, presupposto di cure e protezione da parte di coloro che ne esercitano la responsabilità. Egli ha diritto di sviluppare la propria personalità, di essere ascoltato, di poter esprimere la propria opinione. Questa Convenzione costituisce, proprio come l’art. 315 bis cod. civ., uno “statuto” dei diritti del fanciullo e del figlio, «un vero e proprio programma anche pedagogico, di formazione del minore, che impegna gli Stati che l’hanno ratificata ad adottare una serie di “misure appropriate” per realizzarlo efficacemente» [14]. La serie di diritti e le trasformazioni – in melius – degli stessi, cui la riforma ha dato vita, danno atto di come il best interest del minore rappresenta e continuerà a rappresentare [15] il focus principe delle decisioni degli adulti, siano essi genitori, parenti o organi giudicanti. Il diritto alla bigenitorialità e a far parte di una rete familiare viene statuito, di concerto, negli artt. 315 bis comma 2 [16] e 337 ter comma 1 [17] cod. civ., oltre che da norme collaterali al codice civile, ma altrettanto importanti [18]. Tutto [continua ..]


2.1. Il “diritto ad una famiglia”

Non sempre accade che il diritto del minore a crescere in un nucleo familiare, possa essere riconosciuto e attuato fin dai suoi primi giorni di vita. Sono moltissimi i bambini, fin da quando è nato il mondo, che si ritrovano a non avere al loro fianco qualcuno che li accudisca, li cresca, li educhi, per le ragioni più disparate; per la morte dei genitori biologici, per l’abbandono da parte di uno o di entrambi, e così via.L’istituto dell’adozione nasce, già in epoca romana, per sopperire alla mancanza di un padre e/o di una madre, nella vita di un infante. La prima vera forma di adozione, in Italia, è stata introdotta nel 1967 [22], a protezione dei bambini minori di otto anni [23]. Essa era definita “speciale” – eccezionale, appunto – e aveva la finalità di ovviare al problema dell’abbandono. Permaneva, infatti, l’adozione “ordinaria”, inserita nel 1942 nel Codice Civile, volta soprattutto a soddisfare il desiderio di genitorialità di soggetti che, per svariate ragioni, erano impossibilitati a generare dei discendenti [24]. Con la legge del 1983 (v. supra), per fortuna si è concretizzato un cambiamento, dando centralità a quella che era definita “adozione speciale”, divenendo la stessa “ordinaria” ed eliminando il limite di otto anni d’età del minore adottabile. L’adozione “in casi particolari” permane, ad oggi, ma in casi specifici. Nel tempo, anche la terminologia è cambiata. Se l’intitolazione della legge sull’adozione era, nel 1983, “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, dal 2001 [25], reca “Diritto del minore ad una famiglia”, a dimostrazione della ratio che guida l’intera disciplina. Mediante l’adozione piena, l’adottato diviene parte integrante della famiglia adottiva, recidendo qualsiasi rapporto giuridico con la famiglia biologica, a garanzia dell’unitarietà del contesto di appartenenza e per facilitare lo sviluppo di una propria identità [26].


3. La L. 219 del 2012: da “figli diversi” ad un unico status

La famiglia non è sempre stata, quindi, uguale a quella che i nostri occhi possono oggi osservare – oltre che vivere – nelle sue svariate sfaccettature. Per quasi l’intero corso del ‘900 [27] essa appariva piuttosto come un monolite, con a capo il pater familias, unico detentore di decisioni e verità. Ciò si è mantenuto invariato anche con la nascita della Carta Costituzionale, la quale, infatti, è stata definita «una rivoluzione mancata per più di cinquant’anni [28]». Il nostro codice civile, nella sua formulazione originaria del 1942, considerava un’unica tipologia di famiglia, ovverosia quella legittima, nata dal matrimonio. Questa concezione si è riversata, seppur in modo più equilibrato, anche nella Costituzione, la quale assicura, all’art. 30, tutela giuridica e sociale ai figli nati al di fuori del vincolo coniugale, compatibilmente con la tutela dei membri della famiglia legittima; si è, dunque, delineato un favor matrimonii che non è stato facile allentare [29]. Il “nato illegittimo” poteva essere riconosciuto se, al momento del concepimento, il “genitore naturale” non fosse unito in matrimonio o se, pur essendolo, il matrimonio fosse venuto meno per la morte dell’altro coniuge; il vincolo parentale nasceva esclusivamente tra il genitore ed il figlio riconosciuto. Diversamente, l’istituto della legittimazione, ex art. 280 cod. civ., attuabile nei confronti dei figli riconoscibili, parificava questi ultimi ai figli nati in costanza di matrimonio [30]. Con la legge 151 del 1975 [31], prima importante “rivoluzione” della struttura familiare del nostro Paese, la possibilità del riconoscimento è stata estesa a tutti i soggetti, anche se uniti in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento. Permaneva in ogni caso il dualismo dello status filiationis, tra legittimi e naturali, tanto che gli effetti del riconoscimento non creavano alcun vincolo tra il soggetto riconosciuto e i parenti del genitore; ciò comportava disuguaglianze tra i vari, eventuali, figli, sul piano successorio e rendeva inoltre i figli naturali dei perenni figli unici [32]. Sul piano sovranazionale tale differenza di trattamento risultava una vera e propria discriminazione; basti citare la sentenza del 13 giugno 1979 della Corte EDU, con la quale [continua ..]


4. L’adozione “in casi particolari”

L’adozione “in casi particolari” è stata introdotta nel 1983, per ovviare a quella che era l’adozione ordinaria, basata su un semplice accordo delle parti, incentrata maggiormente sul desiderio delle stesse di avere una discendenza, piuttosto che sull’intenzione del Legislatore di assicurare la presenza di un nucleo familiare a protezione di un minore (v. supra). Ad oggi, è predisposta per assicurare un’adeguata assistenza morale e materiale nel rapporto con i genitori, laddove vi siano soggetti che possano prendersi cura di lui parallelamente alla sua famiglia, evitando la ricerca di un affidatario. Non vengono infatti recisi i legami di sangue con la famiglia naturale, ma essi si sovrappongono a quelli intercorrenti con il nucleo adottivo. Gli adottanti assumono il ruolo di responsabili della crescita e dell’assistenza del minore, divenendo titolari della responsabilità genitoriale ad ampio raggio, secondo l’art. 316 cod. civ. Con il nucleo familiare acquisito, non si crea alcun rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante (c.d. parenti) né tra l’adottante e la famiglia dell’adottato. Può accadere, ad esempio, che entrambi i genitori biologici vengano a mancare e il bambino si trovi già ad essere inserito in un contesto familiare, di relazioni stabili, che non sarebbe ottimale sconvolgere, quando vi siano parenti disponibili a prendersene cura. In questo caso sarebbe del tutto inutile tentare un affido in attesa di una futura eventuale adozione legittimante [38], creando destabilizzazione nella vita di un minore in crescita. I casi posti dalla legge sono quattro e possono aver luogo anche quando non vi sia una situazione di abbandono, facendone richiesta coppie coniugate o persone single. La prima ipotesi si verifica quando il minore sia orfano sia di padre sia di madre e vi siano persone unite al minore da vincolo di parentela entro il sesto grado o da preesistente rapporto stabile, disposte ad occuparsene; la seconda può avvenire a favore del coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; la terza è quella riguardante un minore orfano in condizioni di disabilità; la quarta è quella relativa ad una constatata impossibilità di affidamento preadottivo. L’adozione “in casi particolari” ha aperto alla possibilità, [continua ..]


5. Riflessioni conclusive

Si può formulare una conclusione alla stregua sia dell’excursus storico – giuridico svolto con riferimento al passaggio dalla considerazione del minore quale soggetto sottoposto, a quella dello stesso come soggetto titolare di diritti e interessi, sia dello sviluppo del diritto di famiglia, avvenuto finora, sempre volto verso una maggiore considerazione dei soggetti più vulnerabili, all’interno di un qualsiasi nucleo familiare. Come si è potuto osservare, anche attraverso le sentenze menzionate che si sono susseguite nel corso degli anni, la Corte costituzionale ha sempre operato in un senso ampliativo di diritti e di garanzie nei confronti sia della famiglia in generale, sia dei suoi singoli componenti, comprendendone le esigenze nelle varie ipotesi che si possono verificare, all’interno della società (famiglie omo-genitoriali, genitori single, anonimato della partoriente, ecc.). Uno sguardo più pregnante è stato, ed è tuttora rivolto, ai minori, che godono o patiscono delle scelte messe in atto dagli adulti, e che pertanto è preferibile siano inseriti in una struttura familiare quanto più possibile ampia ed eterogenea, per ricevere quel confronto e quel sostegno affettivo di cui necessitano, nella fase dello sviluppo ma anche, in prospettiva futura, da adulti, conoscendo bene i loro legami di sangue o giuridici e potendo far affidamento sugli stessi. Ciò che acquisisce sempre più centrale importanza è il mantenimento della continuità affettiva nei legami sia biologici sia di fatto. Invero, anche questi ultimi devono necessariamente ricevere tutela dal Legislatore, il quale non può ignorarne l’esistenza laddove essi possano incrementare la cura verso un minore. Riconoscendo la presenza di un soggetto ulteriore rispetto alla famiglia d’origine – rectius biologica – del bambino, non si mina alla stabilità delle radici ma, piuttosto, si ampliano l’amore e la protezione di cui ogni individuo, specie se in età di sviluppo, necessita [49].


NOTE