La sentenza in commento sancisce che il bene assegnato per effetto di una divisione ereditaria non entra nel regime di comunione legale del condividente perché, anche nel caso in cui sorge l'obbligo del pagamento di un conguaglio, integra un acquisto per “successione” da ricondurre all'art. 179, 1° comma, lett. b), c.c. L’analisi della sentenza conferma la correttezza della sua principale proposta ermeneutica, ma presenta al contempo varie criticità da cui è affetta, in particolare sul piano delle motivazioni addotte a suo sostegno. Anzi, proprio su questo piano, la sentenza reintroduce in seno alla giurisprudenza di legittimità una spaccatura di cui non si avverte la necessità.
Parole chiave: Divisione ereditaria, conguaglio, comunione legale.
The judgement states that an asset received by an inheritance division is not included in the legal communion of the family because, even if the obligation arises to pay an adjustment, the purchase is an "inheritance" by the art. 179, b), Italian Civil Code. This study confirms the main hermeneutic propose of the sentence but, at the same time, it shows multiple critical issues, especially for the reasons given. Actually, exactly on this above mentioned level, the judgment reintroduces, in the judicial praxis, a non necessary separation.
Keywords: Inheritance division, monetary adjustment, legal communion of family.
La valenza funzionale e dell’assegnazione e del conguaglio, ancorché e l’una e l’altro occasionati dalla potestas del giudice di costituire, nei casi di legge, rapporti giuridici, è tale senza dubbio da giustificare la sottrazione e dell’una e dell’altro e dunque della loro relazione all’area delle contrattazioni sinallagmatiche commutative, evidentemente inter vivos, ed è tale senza dubbio da giustificare la riconduzione del loro “titolo”, del loro momento genetico comunque all’ambito delle vicende successorie mortis causa che hanno dato origine alla comunione ereditaria.
Cass., sez. II, 24 maggio 2021, n. 14105
1. Lo spaesamento provocato dalla sentenza in esame - 2. La riesumazione dell’effetto “dichiarativo-retroattivo” della divisione ereditaria - 3. Il conguaglio divisionale e la ratio della lett. b) dell’art. 179, comma 1, cod. civ. - 4. Considerazioni conclusive - NOTE
L’indicazione che proviene dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14105 del 24 maggio 2021 è chiara: il bene assegnato in virtù di una divisione ereditaria, perfezionata in costanza del regime di comunione legale, costituisce, anche nel caso in cui l’assegnatario si obblighi al pagamento di un conguaglio, un acquisto per successione da ricondurre alla lett. b) del comma 1 dell’art. 179 cod. civ. [1]. Altrettanto nitido è l’argomento posto alla base della decisione: l’implicita – ma evidente – recezione del tradizionale dibattito sulla causa della divisione impedisce di riconoscere uno scambio inter vivos tra assegnazione e conguaglio [2] – quest’ultimo, infatti, non è un corrispettivo, ma uno strumento di perequazione della differenza tra il valore della quota e il valore dei beni assegnati – per cui si giustifica «...la riconduzione del loro “titolo”, del loro momento genetico comunque all’ambito delle vicende successorie mortis causa che hanno dato origine alla comunione ereditaria» [3].
Sul piano della regola sancita, si direbbe che la decisione sia senz’altro da accogliere, anche nella parte in cui riconosce la provenienza successoria del bene assegnato. Si direbbe, anzi, che sotto quest’ultimo profilo essa rappresenta un passo avanti rispetto all’ultima decisione adottata in materia dalle Sezioni Unite [4], le quali avevano, invece, escluso questa possibilità sulla base di una articolata ricostruzione, peraltro in buona parte condivisibile (sul punto si tornerà più avanti). Resta, nondimeno, il fatto – che costituisce il primo dato degno di nota – di due decisioni diametralmente opposte su un aspetto di rilievo non secondario soprattutto per i suoi risvolti applicativi [5]: la natura successoria o inter vivos dell’acquisto per divisione ereditaria. Certo, la giurisprudenza non è nuova ad andirivieni, in particolare in materia di divisione ereditaria; ma non può sottacersi il peculiare effetto spiazzante provocato dalla sentenza in esame, che è dato, nello specifico, dal fatto che la riconduzione dell’acquisto divisionale alla successione avviene al prezzo di tutta una serie di affermazioni la cui equivocità era stata analiticamente svelata proprio dalla citata sentenza a Sezioni Unite. Non è escluso, per altro verso, che proprio tali equivoci abbiano offuscato la possibilità di cogliere la posta che viene effettivamente in gioco quando si tratta di coordinare la natura successoria dell’assegno divisionale con la disciplina della comunione legale dei beni. Per comprendere le ragioni di quanto detto, focalizziamo l’attenzione sui principali passaggi della sentenza.
Il primo snodo argomentativo di rilievo della motivazione della sentenza riguarda un passaggio che, per la verità, nell’economia del discorso giudiziale sembra assumere il ruolo dell’argumentum ad adiuvandum; vale la pena, però, occuparsene autonomamente perché segnala un tratto decisivo del ragionamento svolto dalla Corte. Ci si riferisce, in particolare, alla parte in cui, per sostenere la decisione, viene richiamato l’orientamento giurisprudenziale che, nel sancire la distanza tra la divisione e gli schemi commutativi, osserva che: «… da un lato, l’adempimento dell’obbligo del conguaglio non costituisce condizione di efficacia della sentenza di divisione, i cui effetti “dichiarativi – retroattivi” permangono impregiudicati nonostante l’inadempimento dell’obbligo (cfr. Cass. 23.1.2017, n. 1656; Cass. 24.10.2006, n. 22833); dall’altro, […] lo scioglimento della comunione ereditaria con assegnazione di un bene ad un condividente non è qualificabile come atto di alienazione (cfr. Cass. 7.11.2017, n. 26351)». Così ragionando, la giustificazione della saldatura tra l’acquisto del bene assegnato e l’apertura della successione passa dalla riesumazione della natura “dichiarativa” dell’effetto divisorio, che era stata abbandonata dalle Sezioni Unite poco più di un paio d’anni prima.
Compiendo questo passo, la sentenza ora in esame replica un copione diffuso nelle trattazioni in materia: la chiamata in causa della “dichiaratività” degli effetti della divisione è il modo tradizionale di giustificare la riconduzione dell’acquisto del bene assegnato al momento dell’apertura della successione, anche nel caso in cui occorre ricorrere a conguagli [6]; e ciò, evidentemente, è dovuto anche alla difficoltà di riconoscere che un acquisto “successorio” possa essere collegato ad un effetto che, secondo la definizione delle Sez. Unite, dovrebbe essere “costitutivo-traslativo”.
Beninteso, della sentenza in esame persuade la ricostruzione in termini successori della vicenda che origina l’acquisto [7]. Ma se l’intenzione alla base della stessa era superare il (presunto) ostacolo frapposto dalla “costitutività” dell’effetto a questa possibilità, allora è incappata in un equivoco. Contrariamente a quanto sovente si ripete, infatti, la ‘‘retroattività’’ è latrice di un effetto ‘‘costituivo’’ (non dichiarativo): nella parte in cui la metafora impone all’interprete di assumere una realtà giuridica diversa da quella che ci sarebbe stata in sua assenza, è evidente che l’innovazione della realtà giuridica ad essa collegata è molto più incisiva di quello che si suole ritenere comunemente; in particolare, la costitutività della divisione non discende solo dalla (indubitabile) innovazione delle situazioni giuridiche soggettive relative ai beni [8], ma soprattutto dall’obbligo di orientare le condotte come se la stessa divisione non esistesse [9].
Dunque, non solo la divisione ha affetti costitutivi, ma è proprio la retroattività a confermare questa natura [10]. Ci si avvede, allora, che la riedizione della natura “dichiarativa” dell’effetto divisorio costituisce un passo indietro, tanto più dannoso perché (ri-)veicola nel discorso giuridico formule ormai superate, senza che ce ne fosse alcun bisogno [11].
L’operazione compiuta dalla Corte ha forse una sua spiegazione, che trova verosimilmente la sua origine proprio nel suo autorevole precedente giudiziale: anche in quella sentenza, in sostanza, non si sono oltrepassati i limiti dell’impostazione tradizionale del problema, secondo cui la negazione della “dichiaratività” dell’effetto divisorio implica la negazione della “retroattività”: non è un caso, infatti, se larga parte della motivazione di quella decisione sia stata dedicata proprio alla demolizione della retroattività [12], che ha comportato, di riflesso, l’introduzione dell’ambigua idea di un effetto divisorio «assimilabile» all’effetto traslativo, disconoscendo così l’autentico precipitato normativo che il sistema legale assegna alla metafora [13]. Ciò non poteva che creare dei moti di rigetto, come quello della sentenza in esame, nella quale le Sezioni Unite sono – forse non a caso – del tutto ignorate. E ciò avviene per una ragione precisa: la retroattività sancita dall’art. 757 cod. civ. – che costituisce il frutto di una lunga tradizione, risalente almeno dal periodo intermedio [14], giunta poi al Codice napoleonico e da lì al Codice del ’42 – istituzionalizza, per il medio di una metafora temporale, il principio per cui occorre garantire – per quanto più è possibile – al coerede lo stesso trattamento che l’ordinamento riconosce all’erede “solitario” fin dall’apertura della successione, azzerando – o ridimensionando – eventuali “ostacoli” o “limiti” giustificati dal titolo divisorio: ecco, allora, che per raggiungere questo obiettivo la legge impone di fingere che la comunione non ci sia mai stata, ponendo quella saldatura tra l’esito divisionale e la vicenda successoria che viene tradizionalmente resa con l’immagine della “continuità” tra la posizione del de cuius e quella dell’erede.
La riesumazione giudiziale – purtroppo prevedibile – dell’effetto dichiarativo trova, quindi, la sua spiegazione (non giustificazione): non perché si tratti di una descrizione dogmaticamente corretta (non lo è), ma perché si ritiene (erroneamente) che il suo rifiuto incrinerebbe l’irrinunciabile assetto assiologico positivizzato dall’art. 757 cod. civ. Decisamente più lineare sarebbe, invece, una descrizione in cui la retroattività viene intesa quale effetto costitutivo e, proprio per questo, capace di realizzare l’intento normativo di azzerare (o ridimensionare) le differenze che si possono porre tra “coerede” ed “erede solitario”.
Il secondo (e principale) passaggio argomentativo della sentenza in commento investe il peculiare modo con cui la disciplina della divisione ereditaria civile viene combinata con la disciplina sulla comunione legale dei beni [15]. Come accennato all’inizio, sul punto la motivazione giudiziale fa leva, unicamente, sull’idea che il legame tra assegnazione e conguaglio sia irriducibile allo schema dello scambio [16]. Il convincimento alla base di questa scelta è che, esclusa la possibilità di configurare tra conguaglio e assegnazione un nesso in termini corrispettivi – che veniva, al contrario, in qualche modo prospettato da una datata giurisprudenza [17] e nello stesso ricorso in Cassazione [18] – occorra altresì escludere la possibilità di riconoscere un “acquisto” da ricondurre, almeno per la parte di valore corrispondente al conguaglio, alla lett. a) dell’art. 179 cod. civ.
Il fatto è che la – di per sé corretta – ricostruzione causale della fattispecie non esaurisce le questioni che vengono in gioco nella fattispecie. Ce lo segnala un passaggio apparentemente marginale della motivazione in cui, con un cenno privo di particolari approfondimenti, viene affrontata la questione relativa alla “provenienza” del denaro utilizzato per il pagamento del conguaglio: la Corte afferma, infatti, che l’esclusione del bene dal regime della comunione vale «…pur ad ammettere che il conguaglio sia “stato corrisposto interamente dal sig. C.G. [coniuge dell’assegnataria, nda], all’epoca unica fonte di reddito della famiglia”». Eppure, che la “provenienza” del conguaglio costituisca (sempre) un fatto irrilevante per il coniuge del condividente assegnatario è un dato quantomeno dubbio. L’origine delle risorse che compongono il conguaglio è, forse, indifferente nell’ipotesi in cui si tratti, ad esempio, di denaro “personale”. Ma se non è così – se, cioè, gli sforzi economici necessari per il pagamento del conguaglio sono sopportati, direttamente o indirettamente, anche dall’altro coniuge – è impossibile, fermandosi di fronte alla fattispecie, non sentire risuonare le discussioni che hanno tradizionalmente connotato la ricerca della ratio della disciplina della comunione legale dei beni, ormai da tempo rintracciata nell’esigenza di non svalutare il contributo – sovente materiale (mediante, ad esempio, l’incentivo al risparmio comune) oltre che morale (mediante, ad esempio, il sostegno psicologico dell’attività del coniuge) – che il coniuge normalmente presta nella formazione del patrimonio dell’altro [19].
Il che induce a formulare almeno due considerazioni. La prima è che, nello svolgimento dell’argomentazione, la Corte avrebbe forse dovuto prestare una più prudente considerazione degli interessi coinvolti nel caso, senza liquidare la questione nei termini sbrigativi di cui s’è detto. La seconda – e più rilevante – è che, a ben vedere, il fatto che la causa del contratto sia sinallagmatica o distributiva rileva poco sotto il profilo dell’esistenza, o meno, di un contributo solidale del coniuge nel reperimento delle risorse necessarie per il pagamento del conguaglio: quest’ultimo, infatti, è evidentemente un profilo esterno (antecedente) al contratto (e alla sua causa). Detto altrimenti, l’esigenza di tutela del coniuge dell’assegnatario sottesa alla disciplina della comunione legale non è in alcun modo toccata dall’impronta distributiva che connota il rapporto tra assegnazione e conguaglio. Al contrario essa è ben riconoscibile nella peculiare “origine” delle risorse cui l’assegnatario fa ricorso per pagare il conguaglio; origine che è evidentemente estranea al ruolo che la causa del contratto proietta sul conguaglio. Diversamente da quanto la Corte lascia intendere, si tratta di aspetti che si muovono su piani diversi. Se si vuole, la questione non è tanto se il conguaglio sia idoneo a ricondurre l’operazione nello schema dello scambio, quanto piuttosto comprendere qual è la ragione per cui il contributo del coniuge dell’assegnatario nella formazione del conguaglio non venga preso in alcun modo in considerazione (a prescindere da qual è la causa per la quale viene trasferito alla controparte contrattuale).
Per altro verso, giova sottolineare – riprendendo le considerazioni svolte nel precedente paragrafo – che contro l’ingresso pro quota del bene nel regime della comunione legale non si può invocare – come sembra pensare la Cassazione – la retroattività sancita dall’art. 757 cod. civ.: perché se è vero, come s’è detto, che lo scopo della retroattività della divisione ereditaria è parificare, quanto più è possibile, la situazione del condividente a quella dell’erede solitario fin dall’apertura della successione, è evidente che la sua invocazione per risolvere un conflitto (suscitato dal modo di formazione del conguaglio) che si è creato in virtù di fatti successivi al momento in cui si fa risalire l’effetto (l’apertura della successione) appare del tutto fuori luogo. Detto altrimenti, l’uso, per la formazione del conguaglio, di risorse che non sono ereditarie determina una situazione oggettivamente diversa da quella in cui si trova chi succede “solitariamente”, ragion per cui l’impiego della regola della retroattività per la soluzione di questo aspetto si rivelerebbe, a ben vedere, estraneo rispetto alla ragione per la quale è stata prevista dalla legge.
D’altro canto, a favore dell’ingresso pro parte del bene in comunione legale si osserva che l’art. 34, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986 è sì una disposizione destinata ad operare esclusivamente in ambito tributario, ma è altresì lì a testimoniare, con la specifica equiparazione tributaria alla “vendita” del rapporto che interessa l’eccedenza tra il valore beni assegnati rispetto al valore spettante sulla massa comune, l’origine “non ereditaria” del conguaglio e, dunque, la traccia di possibili sacrifici coniugali per la sua formazione.
È appena il caso di sottolineare, poi, che per la fattispecie in esame non è possibile replicare il ragionamento, di stampo funzionale, che talvolta si fa per giustificare l’esclusione dalla comunione legale del conguaglio nella sfera del condividente che lo riceve: in questa fattispecie, infatti, l’attribuzione del conguaglio è effettivamente strumentale al disegno distributivo tipico della divisione, onde è evidente che viene a porsi come una sorta di surrogato dell’attribuzione dei beni ereditari da assegnare [20], che giustifica l’esclusione dello stesso dalla comunione legale. Nessuna “mera surrogazione” è, però, possibile riconoscere nell’acquisto dell’assegnatario che, essendo obbligato a pagare il conguaglio, ricorre ai risparmi “familiari”; al contrario, se il contributo del coniuge non venisse considerato, si verrebbe a realizzare, in capo all’assegnatario, un vero e proprio incremento patrimoniale: egli, infatti, riceve un bene che ha un valore maggiore rispetto a quello che gli spetterebbe secondo la misura indicata dalla quota, e tale differenza viene compensata con risorse che non sono “solo” sue. Da qui proviene il dubbio che si possa determinare un “acquisto”, che spiega d’altronde perché una parte della prassi notarile trovi che i rapporti siano più stabili e certi se il coniuge interviene nell’atto e rende, ove ne ricorrano i presupposti, la dichiarazione di cui all’art. 179, comma 1, lett. f), cod. civ.
La verità è che se si assume – come fin qui si è fatto – che la ratio dell’esclusione dal regime della comunione legale dei beni di cui alla lett. b) dell’art. 179 cod. civ. riposa nel fatto che il coniuge dell’assegnatario non dà alcun contributo alla creazione dell’acquisto per successione [21], è necessario pensare, per semplice simmetria, che quando il coniuge dell’assegnatario sopporta il sacrificio del conguaglio – e, dunque, presta quel contributo – il bene entri, per la parte corrispondente, nel regime di comunione legale dei beni [22].
Specularmente, qualora si volesse scorgere una razionalità nella soluzione adottata dalla sentenza in commento, occorrerebbe quantomeno accedere ad una ricostruzione normativa diversa da quella esposta nella medesima, a cominciare innanzitutto dalla lettura della lett. b) dell’art. 179 cod. civ. [23]. In questo senso, in effetti, si sono mosse alcune recenti indagini le quali, prendendo atto della pluralità delle ragioni che giustificano la norma, valorizzano, in particolare, quella segnalata dalle sue radici storiche [24]: secondo questo orientamento alla base dell’esclusione dal regime della comunione legale ai sensi della citata lett. b) ci sarebbe l’intento – perseguito almeno dall’età premoderna [25] – di impedire la formazione di comunioni su beni che appartengono al patrimonio familiare “di origine” del coniuge assegnatario [26]. L’obiettivo della norma sarebbe, dunque, quello di evitare che il coniuge dell’assegnatario, divenendo contitolare dei beni facenti parte del patrimonio della famiglia di origine, sottragga definitivamente gli stessi agli eredi dello stesso beneficiario, interferendo, così, nella perpetuazione intergenerazionale del patrimonio familiare in linea retta. Ciò sarebbe confermato dal fatto che nell’originario disegno codicistico l’esclusione dal regime della comunione legale si coordinava con un insieme di altre norme via via venute meno [27], come quella che vietava le donazioni tra coniugi (art. 781 cod. civ.); quella che limitava i diritti successori del coniuge superstite (riconoscendo il solo usufrutto su una quota dell’eredità – art. 581 cod. civ. – o quella che, nella successione testamentaria, prevedeva che il lascito al coniuge non poteva essere di porzione maggiore di quello al quale aveva diritto il meno favorito dei figli del de cuius di un eventuale precedente matrimonio – art. 595 cod. civ.) [28]. La conservazione in linea retta del patrimonio – forse venata anche dall’obiettivo di evitare la formazione di comunioni con “estranei” alla famiglia intesa in senso “verticale” [29] – sarebbe la vera ragione per cui il bene assegnato al condividente non entra a far parte della comunione legale, anche nel caso in cui alla formazione del conguaglio abbia contribuito il coniuge dell’assegnatario. Si tratta, questo, di un assetto che è parso un “reliquato storico” [30]; ma, quale che sia il giudizio extragiuridico su tale opzione legislativa, la sentenza in esame si rivelerebbe come una sorta di conferma “di fatto” di questa ricostruzione. Tutto ciò induce a formulare le seguenti valutazioni conclusive.
Le considerazioni fin qui sviluppate disegnano un campo connotato da un’alternativa netta (in cui la sentenza in commento appare, in entrambe le opzioni, affetta da criticità): o la soluzione offerta dalla Corte viene rifiutata, riconoscendo l’ingresso del bene nella comunione legale per la quota corrispondente al sacrificio sopportato anche dal coniuge dell’assegnatario nel pagamento del conguaglio, coerentemente con una ricostruzione della ratio della lett. b) del comma 1 dell’art. 179 cod. civ. centrata sulla valutazione di quel contributo; oppure, nel tentativo di riconoscere in qualche modo una razionalità alla decisione, occorre quantomeno presupporre un contrasto tra il fondamento “declamato” e quello effettivamente “applicato”: assumendo questa prospettiva, la ratio decidendi avrebbe poco a che vedere con l’inquadramento del rapporto assegnazione-conguaglio nell’alveo della funzione distributiva (la marginalizzazione del ruolo del coniuge dell’assegnatario nella formazione del conguaglio – e la contestuale riduzione del peso assiologico riconosciuto dalla disciplina della comunione legale al contributo, diretto o indiretto, prestato dal coniuge dell’assegnatario – non ha alcun legame con la necessità, tipica della causa distributiva, di rispettare la proporzionalità alla quota preesistente, né è coerente con lo scopo della “retroattività distributiva”), mentre avrebbe molto di più a che vedere con l’obiettivo di garantire l’unità del patrimonio familiare “di origine” dell’assegnatario. In questo senso, la giurisprudenza si sarebbe fatta vettore tacito di un assetto assiologico chiaro nel porre come valore preminente l’interesse degli eredi del beneficiario della successione in nome di una continuità patrimoniale della famiglia intesa in senso verticale. Insomma, ci troveremmo di fronte ad una decisione rivelatrice di un volto sottaciuto del nostro ordinamento: i legami atavici che si esprimono in occasione del passaggio intergenerazionale dei beni continuano ad essere perpetuati nel tessuto sociale in modo più incisivo di quanto si è solitamente disposti a dire, e forse non sarebbe un caso se i canali di tale affermazione siano tanto sommersi da non essere nemmeno riconosciuti e verbalizzati adeguatamente dalle prassi che, di fatto, li vivificano. Anche assumendo questa visione, peraltro, la mancata evidenza di quanto detto nella motivazione della sentenza segnalerebbe l’opacità dell’argomentazione giudiziale, di cui andrebbe comunque criticata la scarsa trasparenza.
In ogni caso, quale che sia la ricostruzione preferita, la motivazione mostra che nell’applicazione delle norme che richiamano un particolare tipo di effetto, la giurisprudenza – nonostante i frequenti riferimenti ad argomentazioni funzionali possano illudere del contrario – tende ancora a concentrarsi eccessivamente (quasi parossisticamente) sulla natura dell’effetto in sé (spesso peraltro equivocando, come nel caso in esame), e parallelamente a sottovalutare la complessità dei piani giuridici coinvolti, quali vengono in rilievo alla luce delle rationes delle norme con le quali è necessario trovare un coordinamento. In questo senso sembra si possa concludere affermando che, nonostante il passo avanti compiuto (sulla riconduzione dell’acquisto divisionale alla successione), occorre purtroppo registrarne almeno altri due in direzione opposta: sia sul piano delle ragioni addotte per sostenere la natura successoria della vicenda all’origine dell’assegnazione; sia sul piano della consapevolezza delle ragioni che entrano in gioco nel coordinamento tra il negozio divisorio e la disciplina della comunione legale.
<[1] L’interrogativo posto dall’esistenza di conguagli circa l’inclusione, o meno, del bene assegnato nel regime di comunione legale dei beni del condividente costituisce un tema classico del diritto civile, come ben osserva A. Fusaro, Divisione e regime della comunione legale dei beni, in Contratto di divisione e autonomia privata, in Quaderni della Fondazione Italiana del Notariato, Milano, 2008, 113.
[2] Com’è noto, l’emancipazione della divisione dallo schema dello scambio (in particolare da quello della permuta) si deve soprattutto a G. Deiana, Concetto e natura del contratto di divisione, in Riv. dir. civ., 1939, 15 ss.
[3] Il testo è citato dalla sentenza in commento.
[4] Il riferimento è a Cass., sez. un., 07 ottobre 2019, n. 25021 annotata da C. Romano, Natura giuridica della divisione ereditaria: la posizione delle Sezioni Unite, in Notariato, 6, 2019, 665 ss.; F.M. Bava, La divisione ereditaria quale atto inter vivos avente natura costitutiva, in Contratti, 6, 2019, 615 ss.; C. Cicero, A. Leuzzi, Quando la divisione ereditaria di immobili equivale a una vendita. Osservazioni a margine di una sentenza-trattato, in Riv. not., 2019, 1262 ss.; G. Amadio, L’efficacia costitutiva della divisione ereditaria, in Riv. dir. civ., 1, 2020, 13 ss.; Id., Divisione ereditaria ed efficacia costitutiva: la fine del dogma della dichiaratività, in Nuova giur.civ.comm., 3, 2020, 702 ss.; L. Baccaglini, Comunione ereditaria, immobile abusivo e domanda di divisione proposta dal curatore: via libera dalle Sezioni Unite, in Fallimento, 4, 2020, 493 ss.; C. Bona, 1538-2019: si chiude la parentesi sulla «dichiaratività» della divisione?, in Foro it., 3, I, 2020, 995 ss.; M. Carpinelli, Lo scioglimento della comunione avente ad oggetto beni immobili abusivi: estensione della nullità alle divisioni ereditarie, in Nuova giur. civ. comm., 3, I, 2020, 507 ss.; S. Bosa, Divisione ereditaria e nullità urbanistiche: questioni qualificatorie e processuali, in Giur.it., 5, 2020, 1070 ss.; G. Orlando, Nullità urbanistiche e divisione ereditaria: l’equivoco delle Sezioni Unite, in Giur. it., 12, 2020, 2648 ss.; V. Celli, Efficacia e struttura della divisione. Precisazioni teoriche e conseguenze applicative, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4, 1 dicembre 2020, 1279 ss.; Cons. Naz. Notariato, Studio n. 28-2021/C (est. R. Quadri), Spunti di riflessione sulla natura della divisione ereditaria (anche alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite n. 25021/2019), approvato dalla Commissione Studi Civilistici il 30 marzo 2021, reperibile on line al seguente indirizzo (verificato il 14 ottobre 2021): www.notariato.it/sites/default/files/28-2021-C.pdf; R. D’Alessio, «Un dogma privo di solide fondamenta». L’efficacia retroattiva della divisione tra ritorno all’antico e prospettive attuali, in Teoria e Storia del Diritto Privato, XIII, 2020, reperibile on line al seguente indirizzo (verificato il 14 ottobre 2021): www.teoriaestoriadeldirittoprivato.
com/media/rivista/2020/contributi/2020_Contributi_D’Alessio.pdf.
[5] Molti dei commenti alla citata sentenza delle Sez. Un. non hanno mancato di rilevare i riflessi applicativi che la stessa avrebbe avuto sulla disciplina degli acquisiti in regime di comunione legale: v. G. Amadio, L’efficacia costitutiva della divisione ereditaria, cit., 42 secondo cui l’esclusione del bene assegnato è collegato alla mancanza di un “acquisto” inteso come incremento economico-patrimoniale; C. Romano, op. cit., 674, secondo cui l’esclusione del bene assegnato dal regime di comunione legale (a prescindere dall’intervento in atto del coniuge) è collegato al fatto che il trasferimento è finalizzato a “comporre” la quota, ragion per cui il bene assegnato al condividente non può che condividere la natura personale della quota stessa, con un effetto lato sensu surrogatorio; F. Bava, op. cit., 623, osserva che l’adesione alla tesi secondo cui la divisione ereditaria produce effetti “costitutivi” evita la caduta dei beni assegnati in comunione legale come autonomo acquisto in virtù dell’efficacia retroattiva di cui all’art. 757 cod. civ. e per l’assenza di un incremento patrimoniale; v. S. Bosa, op. cit., 1077.
[6] Non si dubita più, oggi, sul fatto che la presenza di conguagli non sia idonea a contaminare la natura divisoria dell’operazione: G. Mirabelli, voce Divisione (Diritto civile), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1957, 34; A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria2, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1961, 386; G. Gazzara, voce Divisione della cosa comune, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 420; G. Bonilini, voce Divisione, in Dig. disc. priv., sez. civ., VI, Torino 1990, 484; con specifico riferimento alla retroattività reale e assoluta dell’art. 757 cod. civ. v. E. Minervini, Divisione contrattuale ed atti equiparati, Napoli, 1990, 142 ss., 147; con specifico riferimento al nostro tema, v. A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia. Commento sistematico della legge 19 maggio 1975, n. 151. Legislazione – Dottrina – Giurisprudenza, I, Artt. 1-89, Milano, 1984, 877, secondo cui i conguagli non fanno venire meno il carattere dichiarativo della divisione (il conguaglio non determina il trasferimento del bene da un coerede all’altro) onde è da ritenere che il bene non cada in comunione; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, IV, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1989, 268 s.; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2° ed. curato da S. De Paola, Milano, 2002, 440 s. ove afferma che: «la natura divisoria dell’operazione non muta con l’ingresso di somme di denaro estranee della comunione e non si esce dal campo della divisione anche nell’ipotesi in cui uno dei condividenti riceva tutti i beni in natura e gli altri solo conguagli in denaro dal primo» (negli stessi termini v. Cass. 31 maggio 2006, n. 13009, in Giust. civ. Mass., 2006, 5).
[7] L’argomento è speso anche al punto 12 della motivazione, ove si afferma che: «...il principio della natura dichiarativa della sentenza di divisione opera esclusivamente in riferimento all’effetto distributivo (sicché ciascun condividente è considerato titolare, sin dal momento dell’apertura della successione, dei soli beni concretamente assegnatigli, a condizione, appunto, che si abbia una distribuzione dei beni comuni tra i condividenti e le porzioni a ciascuno attribuite siano proporzionali alle rispettive quote) e viceversa non opera, sicché la sentenza produce effetti costitutivi, quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, in quanto rientranti nella quota altrui (cfr. Cass. 24 luglio 2000, n. 9659; Cass. 29 aprile 2003, n. 6653)».
[8] Osservando le trasformazioni delle situazioni giuridiche dal punto di vista analitico – se fosse possibile non considerare la retroattività (v. infra nt. 12) – la divisione dovrebbe comportare sia una modifica soggettiva (con il passaggio da una pluralità di titolari ad un solo titolare), sia una modifica oggettiva (con il passaggio da una situazione di titolarità in quota su uno o più beni ad una titolarità piena sul bene o i beni assegnati).
[9] In questo senso non si tratta (nemmeno) di un effetto dichiarativo, ma di un effetto che occorre considerare inesistente: v. infra nt. 12.
[10] Per ulteriori ragguagli e riferimenti bibliografici v. G. Orlando, op. cit., 2650 s.
[11] Ci sarebbe, per la verità, anche un altro aspetto da sottolineare: a differenza di quanto affermato dalla Corte nella sentenza in esame, la retroattività (sancita dall’art. 757 cod. civ.) è testualmente riservata ai soli beni “ereditari”, tra i quali non è possibile ricomprendere i conguagli, rispetto ai quali occorre, dunque, senz’altro riconoscere una vicenda traslativa in senso tecnico: su questo aspetto si tornerà più avanti.
[12] È vero che nella stessa sentenza si osserva (punto 5.3.1) che la retroattività «…si accompagna, per sua natura, all’efficacia costitutiva» e che «…l’efficacia retroattiva di un negozio si coniuga, per sua natura, col carattere costitutivo, traslativo». Ma anche tali affermazioni mostrano la mancata comprensione della “profondità costitutiva” – se così si può dire – dell’effetto retroattivo, posto che esso non si “accompagna” (è un effetto costitutivo) né “si coniuga” necessariamente ad uno specifico “sottotipo” di effetto (sia esso costitutivo, modificativo o estintivo), ma semmai determina o si declina in peculiari sottotipi di effetti, anche combinati in vario modo a seconda della situazione presupposta (il quadro teorico generale di riferimento, in particolare per la distinzione tra tipi e sottotipi di effetti, è quello delineato da A. Falzea, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, che si cita da Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, Dogmatica giuridica, Milano, 1997, 146 ss.). Detto altrimenti, la retroattività non si esprime in uno unico e invariabile sottotipo di effetto “costitutivo” (o, come sarebbe meglio dire per evitare confusioni, “innovativo”): la risoluzione retroattiva di un effetto traslativo, ad esempio, determina effetti estintivi-costitutivi (v. A. Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, rist. Napoli, 1999, 237); diversamente, la retroattività della divisione ereditaria costituisce una “continuità” tra de cuius ed erede, la quale impone di reputare che la divisione non esiste come autonomo titolo di acquisto (da ritrovare, invece, unicamente nella successione), e ciò per la precisa prescrizione sancita dall’art. 757 cod. civ., in assenza della quale occorrerebbe riconoscere ben più complesse modifiche soggettive e oggettive (v. retro nt. 8). In questo senso la retroattività produce senz’altro un effetto di “tipo” innovativo e, sul piano più analitico, diversi “sottotipi” di effetti innovativi, anche variamente combinati tra loro (cfr. A. Falzea, op. ul. cit., 235 s.).
[13] Mostra comprensibili perplessità su questi passaggi della sentenza a Sez. Unite, V. Celli, Efficacia e struttura della divisione, cit., § 3, la quale osserva, inoltre, che: «… laddove si riconoscesse un’efficacia traslativa della divisione, questa al pari della vendita ricadrebbe nell’àmbito applicativo dell’art. 179, lett. f) cod. civ. ai sensi del quale sono personali “i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o con il loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto” e, qualora si tratti di beni immobili o mobili registrati, purché la dichiarazione del coniuge acquirente sia “confermata” da un’autonoma dichiarazione del coniuge non acquirente. Ne deriva che, ove tale disposizione non fosse correttamente applicata, i beni assegnati al coniuge condividente ricadrebbero in comunione legale immediata».
[14] Per l’idea che la retrodatazione dell’effetto della divisione costituisce espressione di una risalente «regola tipicamente latina» v. i riferimenti in R. D’Alessio, op. cit., 11.
[15] In generale, sull’art. 179, comma 1, lett. b), cod. civ. v. (senza pretese di esaustività) P. Schlesinger, in AA.VV., Commentario alla riforma del diritto di famiglia, I, 1, Artt. 1-89, curato da L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, Padova, 1977, 396 ss.; F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo e cont. L. Mengoni, VI, I, 1, Milano, 1979, 98 ss.; G. Cian e A. Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, I, 354 s.; A. e M. Finocchiaro, op. cit., 991 ss.; G. Santarcangelo, op. cit., 171 ss.; L. Barbiera, La comunione legale, Bari, 1997, 87 ss.; G. Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, 341 s.; E. Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali. Artt. 177-179, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1999, 157, 181 ss.; C. Granelli, Donazione e rapporto coniugale, in Giur. it., 2002, 1323 s.; A. Galasso, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Art. 159-230, in Comm. Cod. Civile Scialoja-Branca, curato da F. Galgano, Bologna-Roma, 2003, 276 ss.; C. Radice, I beni personali, in Il diritto di famiglia, II, Il Regime patrimoniale della famiglia, in Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, cont. G. Bonilini, Milano-Torino, 20072, 145 s.; G. a Beccara, I beni personali, in AA.VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia2, curato da F. Anelli, M. Sesta, Milano, 2012, 221 ss.; F. Bocchini, Diritto di famiglia. Le grandi questioni, Torino, 2013, 89; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, cit., 548 ss.; M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2003, 100; U.A. Salanitro, Comunione legale tra i coniugi e acquisti per donazione o successione, in Familia, 2003, I, 369 ss.; G. Oberto, La comunione legale dei coniugi, I, Storia, natura, ratio e oggetto. Comunione de residuo e beni personali, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato P. Schlesinger, Milano, 2010, 949 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia8, Torino, 2018, 148; T. Auletta, Diritto di famiglia5, Torino, 2020, 112 ss.
[16] L’esclusione è ben mostrata dal punto 12 della motivazione, ove si afferma che: «...la sentenza che, nel disporre la divisione della comunione, pone a carico di uno dei condividenti l’obbligo di pagamento di un somma di denaro a titolo di conguaglio, persegue il mero effetto di perequazione del valore delle rispettive quote, nell’ambito dell’attuazione del diritto potestativo delle parti allo scioglimento della comunione»; cfr. Cass. 23 gennaio 2017, n. 1656; Cass. 24 ottobre 2006, n. 22833.
[17] Secondo, ad esempio, Cass. 11 ottobre 1956, n. 3532, in Foro it., Rep. 1956, voce Divisione, 31, il conguaglio ha carattere dichiarativo solo nella divisione giudiziale, mentre ha carattere traslativo nella divisione amichevole e nella permuta; cfr. Cass. 24 luglio 2000, n. 9659 in Mass. giur. it., 2000.
[18] Nel caso di specie, infatti, i ricorrenti si richiamavano all’orientamento giurisprudenziale (v. nt. precedente) secondo cui la sentenza di divisione ha natura costitutiva quando ad un condividente sono assegnati beni in eccedenza rispetto alla sua quota, siccome rientranti nella quota altrui. Deducevano, quindi, che, qualora il condividente riceva una quota eccedente il suo diritto ereditario, l’attribuzione è riflesso di un atto traslativo inter vivos.
[19] A. e M. Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia. Commento teorico pratico alla legge 19 maggio 1975, n. 151, I, Art. 1-89, Milano, 1975, 526; P. Schlesinger, sub art. 179 cod. civ., in AA.VV., Commentario alla riforma del diritto di famiglia, cit., 397; F. Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fond. W. Bigiavi, Torino, 20022, 163; M.R. Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, 104; M. Dogliotti, L’oggetto della comunione legale tra coniugi: beni in comunione de residuo e beni personali, in Fam. e dir., 4, 1996, 387; M. Fortino, Diritto di famiglia. I valori, i princìpi, le regole, Milano, 1997, 230.
[20] V. C. Romano, op. cit., 674. È forse utile segnalare che se la tesi “funzionale”, esposta nel testo, non venisse accolta e, al contempo, si condividesse – con la sentenza in commento – l’esclusione totale dalla comunione legale del bene assegnato in divisione anche in presenza di conguagli, il quadro complessivo della disciplina che ne verrebbe fuori alquanto sarebbe disarmonico (per non dire paradossale e ingiusto). Si consideri, innanzitutto, che i conguagli (se intesi in senso tecnico) non possono essere annoverati tra le cose comuni pervenute dalla successione: com’è noto, infatti, il denaro ereditario non può essere utilizzato come conguaglio (contra A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., 386), ma entra a far parte delle singole porzioni al pari degli altri beni comuni (per cui se l’uguaglianza delle porzioni viene raggiunta mediante la distribuzione di denaro presente nella massa ereditaria, non si si tratta di perequazioni realizzate mediante conguaglio, ma di semplici apporzionamenti). Orbene, la conseguenza logica di ciò è che se il conguaglio, per essere tale, deve essere formato con risorse reperite al di fuori della massa da dividere (deve essere cioè composto da risorse “non ereditarie”) esso, in quanto per definizione estraneo alla successione richiesta dalla lett. b) dell’art. 179 cod. civ., dovrebbe entrare a far parte nel regime di comunione legale dell’assegnatario che lo riceve. Di qui la paradossalità della situazione: infatti, l’assegnatario che riceve il conguaglio vedrebbe lo stesso incluso nel regime di comunione legale nonostante si tratti di una mera traduzione monetaria di un “bene ereditario” rispetto al quale, quindi, non si vede quale sia la ragione di un trattamento differenziato (visto tra l’altro che, dal punto di vista economico, l’assegnazione divisionale non comporta, per definizione, un vero incremento patrimoniale); all’opposto, l’assegnatario che è tenuto al pagamento del conguaglio vedrebbe il bene assegnato in ogni caso escluso dalla comunione legale nonostante l’assegnazione comporti il ricorso a risorse “non ereditarie” alla cui formazione, in ipotesi, il coniuge ha contribuito (probabilmente è anche per superare questa paradossalità che una parte della dottrina sostiene la caduta in comunione della quota del bene corrispondente al valore del conguaglio: v., per un’ipotesi analoga, P. De Marchi, La posizione dell’acquirente nelle operazioni immobiliari alla luce del nuovo regime tra coniugi, in Diritto di famiglia – Società – Contrattazione immobiliare, Milano, 1978, 68).
Si segnala, inoltre, che secondo una linea interpretativa, il denaro ricevuto a titolo di conguaglio non entrerebbe a far parte della comunione legale in quanto «…essendo “frutto” di un bene personale, manterrà tale qualifica: naturalmente, a condizione che sia resa la dichiarazione di cui all’art. 179 lett. f).»: A. Di Sapio, Atti di assegnazione di beni di s.r.l. e socio, in comunione legale, titolare di una quota personale: ...istruzioni autentiche per un illecito, in Il diritto di famiglia e delle persone, Milano, 1996, 813; analogamente (in riferimento al conguaglio derivante da permuta di un bene personale da ricondurre all’art. 179, lett. f, cod. civ.) v. anche P. De Marchi, op. cit., 68; G. Santarcangelo, op. cit., 190 s.
[21] La questione si poneva già in riferimento al codice previgente: v. L. Borsari, Commentario del codice civile italiano, IV, Torino, 1878, 231 s.; in seguito alla riforma del ’75 v. E. Protettì, sub art. 179, in Comm. teorico-pratico al cod. civ., diretto da V. De Martino, Novara, 1979, 283; P. Schlesinger, op. cit., 397; M. Detti, Oggetto, natura, amministrazione della comunione legale dei coniugi, in Riv. not., 1976, I, 1158; L. Barbiera, La comunione legale, cit., 87; C. Rimini, Acquisto immediato e differito nella comunione legale tra coniugi, Padova, 2001, 227 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, cit., 148; U. Majello, voce Comunione dei beni tra coniugi: I) Profili sostanziali, in Enc. giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, 6; G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione, cit., 171; cfr. anche E. Russo, L’oggetto della comunione, cit., 184 ss.; G. Danise, sub art. 179, in AA.VV., Codice della famiglia, diretto da F. di Marzio, Milano, 2018, 502. In giur. Cass. 15 novembre 1997, n. 11327; C. Rimini, sub art. 179, in Commentario breve al diritto della famiglia4, diretto da A. Zaccaria, Milano, 2020, 473; Cass. 08 maggio 1998, n. 4680; Cass. 14 dicembre 2000, n. 15778; Trib. Milano 6 novembre 1996, cit.
Secondo un altro orientamento, la norma troverebbe la sua ratio nel carattere strettamente personale (intuitus personae) delle attribuzioni liberali e successorie (reputa che tale spiegazione non sia inconciliabile con quella riportata nel testo G. Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o successione, in AA.VV., La comunione legale, curato da C.M. Bianca, I, Milano, 1989, 449 s.); secondo altri la norma tutelerebbe la volontà del disponente (cfr. F. Corsi, Il regime patrimoniale, cit., 99, cui si rinvia per ulteriori riferimenti; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia, cit., 548 s.), ovvero avrebbe il fine di evitare che detta volontà venga dissuasa dal compimento dell’atto per la sussistenza della comunione legale del beneficiario. Tuttavia, questa ricostruzione si potrebbe attagliare alle attribuzioni realizzate per via testamentaria; non spiega, invece, le attribuzioni successorie per legge, salvo intendere la “stretta personalità” in senso generico (come chi, senza considerare che erede può essere pure lo Stato, lo vede consustanziale al rapporto di parentela o di coniugio che lega i successibili al de cuius: V. De Paola, op. cit., 549, nt. 23) o a ricostruire l’intero sistema delle successioni intestate come espressione della “presumibile” volontà del de cuius (idea che è, tuttavia, una evidente fictio iuris, peraltro palesemente controfattuale nelle ipotesi in caso di disposizioni intenzionalmente lesive della legittima: v. G. Gabrielli, M. G. Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 35).
[22] Reputano che nella divisione con conguaglio il bene cada in comunione legale per la quota corrispondente: F. Corsi, op. cit., 115; G. Baratta, La divisione e il nuovo diritto di famiglia, in Vita not., 1-2, 1976, 264 s. (il quale esemplifica: «Se dunque Tizio riceve in attribuzione un bene del valore di 1000 pagando però un conguaglio di 100 – cioè 1/10 di detto valore – ciò significa che la quota di 1/10 del bene attribuitogli è stata da lui acquistata a titolo oneroso: quindi sarà comune tra lui ed il coniuge», onde sarebbe opportuno che al momento della divisione le parti dichiarino i valori millesimali delle quote e del loro rapporto con i conguagli); B. Mura, op. cit., 75; analogamente, in riferimento all’ipotesi in cui il coniuge riceve in permuta un bene di valore superiore a quello trasferito obbligandosi al conguaglio, v. P. De Marchi, op. cit., 68.
Occorre segnalare che l’adesione a questa tesi può determinare una serie di inconvenienti pratici non banali: «i conguagli possono essere di varia entità: ingenti e cospicui, modesti e persino ridicoli; eppure se la premessa è esatta, il coniuge del condividente o del permutante che ha pagato il conguaglio verrà catastalmente intestato per una quota pari alla metà del conguaglio pagato (…)»: B. Mura, Alcune considerazioni in materia di conguaglio e di quota di riserva in favore del coniuge superstite, in Il notaro, 1976, 75.
[23] Anche aderendo alla tesi della Cassazione, il coniuge dell’assegnatario non resta, ovviamente, sguarnito di tutele: l’assegnatario avrà, infatti, l’obbligo di procedere a rimborsare la comunione delle somme prelevate dal patrimonio comune ai sensi dell’art. 192 cod. civ.
[24] Per la varietà delle ragioni che giustificano la norma v. U. Salanitro, op. cit., 386 (il quale, oltre a individuare la ratio della norma, in primo luogo, nella tutela degli interessi degli eredi del coniuge a ricevere una quota del patrimonio familiare di origine, reputa presente nella norma, con specifico riferimento alle liberalità e ai lasciti testamentari, anche l’obiettivo di tutela dell’interesse a non scoraggiare l’intento del disponente che voglia favorire esclusivamente il beneficiario); v. anche G. a Beccara, op. cit., 222; T. Auletta, Diritto di famiglia5, cit., 112; C.M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 20176, 96.
[25] Le regole del diritto consuetudinario francese poste a tutela del patrimonio familiare di origine furono recepite dal Code Napoleon e da lì passarono al codice civile italiano: per riferimenti v. U. A. Salanitro, op. cit., 381, nt. 29.
[26] Per cenni in tal senso v. T. Auletta, Gli acquisti a titolo originario, in AA.VV., La comunione legale, curato da C.M. Bianca, cit., 78 s.; F. Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 19952, 115 s.; A. Lepri, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1999, 106; il punto è particolarmente approfondito da U. Salanitro, op. cit., 376 ss., 380 ss.; G. Oberto, La comunione legale dei coniugi, cit., 950 ss.; v. anche M. Paladini, La comunione legale, in AA.VV., Diritto della famiglia, curato da S. Patti, M.G. Cubeddu, Milano, 2011, 243; rimandano alle origini storiche della norma anche G. Gabrielli, M. G. Cubeddu, op. cit., 35 ma nel senso che si tratta di un retaggio del periodo in cui la successione legale era ritenuta espressione della volontà presunta del defunto.
[27] In questa prospettiva, il mantenimento della lett. b) dell’art. 179 cod. civ. realizzerebbe una sorta di “contrappeso” al crescente peso della tutela del coniuge cui si assiste almeno dalla seconda metà del secolo scorso. A partire dagli anni settanta, infatti, il ruolo del coniuge ha assunto un sempre maggior peso: «... è stata dichiarata l’incostituzionalità della norma che vietava liberalità tra i coniugi, è stato introdotto quale regime legale la comunione dei beni acquistati dai coniugi dopo il matrimonio, si è ammessa la partecipazione del coniuge a quote di proprietà nel regime successorio anche in presenza di figli. La regola posta dall’art. 179, 1o comma, lett. b), cod. civ. è stata ribadita, quindi, in modo più o meno consapevole, come contrappeso, volto ad evitare che, in virtù della quota destinata al coniuge alla morte del beneficiario, restasse un ruolo del tutto residuale agli altri eredi legittimi (figli, ascendenti, fratelli e sorelle) anche su beni che, attraverso successioni e donazioni, generalmente provengono dal patrimonio della famiglia di origine del de cuius, ma ha perso il carattere inderogabile delle origini (...)»: U. Salanitro, op. cit., 385.
[28] Osserva G. Oberto, op. cit., 950 s.: «Il principio si inquadrava, dunque, in quella regola di trasmissione “in linea verticale” dei patrimoni cui facevano anticamente da contorno anche gli istituti del fedecommesso e del maggiorascato, del divieto di donazioni tra coniugi, dell’immodificabilità delle convenzioni matrimoniali, nonché dell’esclusione del coniuge dal novero degli eredi (…)».
[29] Si tratterebbe, in ogni caso, di un obiettivo non perseguito con coerenza visto che il coniuge dell’assegnatario è suo erede legittimo (e, dunque, anche del bene assegnato in divisione se presente all’apertura della successione).
[30] Secondo G. Oberto, op. cit., 951 s., la norma «… può pertanto considerarsi come un vero e proprio reliquato storico, la cui ragione d’esistere al giorno d’oggi non può essere riscontrata se non nell’intento legislativo di consentire agli eredi del coniuge acquirente – di fronte all’indubbia posizione di vantaggio attribuita al coniuge superstite dalla Riforma del 1975 – di ricevere una quota significativa del patrimonio familiare di origine.